L’ORIGINALITÀ

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PARTE SECONDA — IO

 

All’alba de’ nuovi tempi s’affaccia ” l’uomo-dio “. Al loro tramonto dileguerà il dio? E l’uomodio può veramente morire se in lui scompare soltanto il dio? Non si è pensato a tale questione e si credette d’aver tutto compiuto quando si riuscì a superare vittoriosamente il dio; non si avvertì che l’uomo ha ucciso Dio per diventale egli stesso “unico Dio nei cieli”.

Il di là esteriore è certamente spazzato via e la grande impresa della filosofia è compiuta; ma il di là in noi è diventato un nuovo regno celeste e ci chiama nuovamente a dar la scalata ai cieli: Dio ha dovuto cedere il suo posto, ma non già a noi — bensì all’uomo. Come potete voi supporre che l’uomodio sia morto se prima in lui, oltre che il dio, non si sia spento anche l’uomo?

 

L’ORIGINALITÀ.

 

“Non anela forse lo spirito alla libertà?” — Ah, non soltanto il mio spirito; tutta la mia carne anche vi anela ardentemente, in ogni ora ! Quando il mio naso, eccitato dai grati odori che gli giungono dalla cucina del castello, parla al mio palato dei gustosi manicaretti che vi si prepararono, quest’ ultimo, condannato al pane asciutto, proverà un orribile languore; quando i miei occhi fanno intendere al mio dorso calloso che mille volte più dolce è il riposo in un letto di piume che non sovra un sacco di paglia, esso si sente morso da un’ira repressa; quando… ma non proseguiamo più oltre nell’annunciare le privazioni e le sofferenze e i dolori. — E a ciò tu dai il nome di brama di libertà? Ma di che cosa mai ti vuol tu render libero? Del pane asciutto che sei costretto a mangiare o del tuo duro giaciglio? Ebbene gettali via. — Ma pare che ciò non ti basti ancora: tu vorresti possedere la libertà di assaporare i cibi deliziosi e di godere i letti ben sprimacciati. Devono forse gli uomini procurarti questa “libertà” — possono essi permetterla a te? Tu non speri tanto dal loro amore pel prossimo, poi che tu ben sai ch’essi pensano come te: ciascuno è il prossimo di sé stesso! E in qual modo vorresti allora procurarti il godimento di quei cibi o di quei letti? Non altrimenti, certo, che col rendertene padrone Se pensi bene, tu non vuoi la libertà di poter avere tutte quelle belle cose, perchè la sola libertà non te le può concedere; tu vuol possederle in effetto, vuoi poterle chiamare tue, averle quale tua proprietà. A che cosa ti servirebbe una libertà da cui tu non potessi trarre alcun vantaggio? E se tu divenissi libero da ogni cosa, tu finiresti col non aver più nulla: poiché la libertà non ha una contenenza propria. Per colui che non se ne sa servire la libertà non ha alcun valore, è una cosa inutile; ma il modo di servirmene dipende dall’originalità del mio essere.

Io non ho nulla da obiettare contro la libertà, ma io auguro a te qualcosa di più che non la sola libertà; tu dovresti non solo esser libero, vale a dire privo, ma anche dovresti possedere quello che tu vuoi: — in una parola — tu dovresti essere non solamente, un “libero”, ma anche un “padrone”.

Libero — ma da che cosa? Oh, di quante cose è facile liberarsi! Dal giogo della schiavitù, dalla sovranità, dall’aristocrazia dei principi, e dal dominio della concupiscenza e delle passioni: sì, persino l’impero della propria volontà, l’ostentazione, il capriccio, lo spirito di sacrificio, null’altro sono che “libertà” cioè liberazioni dal diritto di disporre di sé stessi, del proprio essere:

l’impulso verso la libertà, come qualcosa di assoluto, degno del più alto prezzo, ci tolse la nostra, individualità. Quanto più io divento libero, tanto maggiori costrizioni mi premono da ogni lato e tanto più impotente mi sento.

Il non libero figlio delle selve non ha alcuna notizia ancora degli ostacoli che si attraversano da tutti i lati all’uomo civile; egli ritiene sé stesso più libero di questo! Nella misura in cui io conquisto la libertà, io creo a me stesso nuovi limiti e nuovi compiti. Se bene io abbia inventato le ferrovie, io sento tuttavia di esser debole, perchè non posso trascorrer gli spazi aerei al pari dell’ uccello; e quando ho sciolto un problema, la cui difficoltà angustiava il mio spirito, ecco affacciarsene mille altri, l’enigma dei quali m’impedisce di progredire, vela il mio sguardo, e mi fa sentir con dolore i confini della mia libertà. “Poi ché vi siete redenti dal peccato, diveniste i servi della giustizia”.

I repubblicani, con tutta la lor vasta libertà, non diventano essi forse i servi della legge?

Quanto ardentemente desiderarono in ogni tempo i cuori cristiani “d’esser liberi”, con quanto struggimento languirono nella brama d’esser redenti dai “ceppi di questa vita terrestre”; con quanta ansia essi spinsero i loro sguardi verso il paese della libertà! (“La Gerusalemme che sta in alto sopra di noi, è la libera, la madre di noi tutti”. Gal. 4, 26).

Esser liberi da qualche cosa, altro non significa se non esserne sbarazzati o privi. “Egli è libero dal mal di capo” significa: egli se n’è liberato. “Egli è libero da questo o quel pregiudizio” importa: egli non l’ha mai avuto, oppure egli se n’è sbarazzato. Nel distacco da una cosa, noi adempiamo al precetto della libertà raccomandata dal Cristianesimo, ci facciamo puri dal peccato, (senza peccato): così l’empio è il senza Dio, l’immorale e il senza morale, ecc. Libertà è la dottrina del Cristianesimo. “Voi, miei cari fratelli, siete chiamati alla libertà” (Perti, 1, 2, 16). “Dunque, parlate ed operate come debbono parlare e operare quelli che devono esser giudicati dalla legge della libertà” (Jacobi, 2, 12).

Dovremmo noi forse rinunciare alla libertà perchè essa si manifesta per un ideale cristiano?

No, nulla deve andar perduto, né pur la libertà; ma essa deve diventar cosa nostra.

Quale differenza tra libertà e proprietà! Di molte cose è possibile liberarsi, ma non già di tutte: da molte cose si diviene libero, ma non da tutte. Nel suo interno, anche lo schiavo può esser libero: esteriormente egli lo può essere da molte cose, ma non da tutte. Dalla sferza, per esempio, o dal capriccio imperioso del padrone lo schiavo non può liberarsi. “La libertà non esiste che nel regno dei sogni!”

Per contro l’originalità, vale a dire l’essenza e la sostanza di me stesso, costituisce la individualità unica. Io sono libero dalla cosa di cui mi sono sbarazzato, sono invece proprietario delle cose che io ho in mio potere, o di ciò che posso. Mia proprietà io lo sono sempre in ogni incontro se io so possedere me stesso, e non mi do in balia degli altri. L’esser libero io non posso volerlo veramente, dacché io non posso né ottenerlo né crearlo. Io non posso che desiderarlo: posso aver la tendenza d’esser libero, non altro, ma infine ciò è un ideale, un fantasma.

Le catene della realtà si serrano intorno ai miei polsi facendone sgorgar il sangue ad ogni momento. Ma io rimango il signore di me stesso. Se sono schiavo d’un padrone io non penso che a me ed a ciò che mi può tornar utile; le sue percosse mi colpiscono; sì: io non sono libero da esse; ma io le sopporto per mio vantaggio, sia per ingannare il mio signore con la mia apparente pazienza, sia per non attirarmi con la mia ribellione un castigo peggiore. Ma siccome io non considero che me stesso ed il mio tornaconto, così io approfitterò della prima o della più favorevole occasione che mi si presenti per schiacciare il possessore di schiavi. Se io con ciò mi libero da lui e dalla sua sferza, ciò è un effetto del mio egoismo. Mi si obietterà forse che anche allo stato di schiavitù io era “libero”, vale a dire ero tale “per me stesso internamente”. Ma esser “liberi per sé stessi” non vale esser “liberi” in effetti, e “internamente” non corrisponde ad “esternamente”. Invece “padrone di me stesso” io era del tutto, internamente ed esternamente.

Dai martirî, dai colpi di sferza il mio corpo non è “libero” sotto il dominio d’un padrone crudele; ma pur sono le mie ossa che scricchiolano durante la tortura, le mie fibre che vibrano sotto i colpi, ed io gemo, perché il mio corpo geme. Se io gemo e tremo ciò significa che io sono ancora in possesso di me medesimo. La mia gamba non è libera dalle percosse del padrone, ma la gamba è mia, e da me inseparabile. Me la strappi e vedrà se egli possiede la mia gamba! Egli non stringerà in sua mano che il cadavere della mia gamba la quale sarà allora tanto poco mia quanto la carogna di un cane è ancora un cane; un cane ha un cuore che palpita, la carogna non ne ha più e per ciò cessa di esser un cane.

Coll’affermare che lo schiavo possa essere, non ostante tutto, internamente libero si pone soltanto un’affermazione inutile e volgare. Perchè chi vorrà mai asserire che un uomo sia sprovvisto di ogni libertà? Se io sono schiavo dei miei occhi, non posso perciò non esser libero da innumerevoli cose, p. e. dalla credenza in Giove, dal desiderio della gloria, ecc. Perché adunque uno schiavo non potrebbe essere internamente libero da un modo di pensare, un cristiano dall’odio dei nemici? ecc. In tal caso egli è libero cristianamente, perchè egli s’è liberato di ciò ch’è anticristiano; ma è egli libero in modo assoluto, per esempio, dalla superstizione cristiana, dal dolore corporale, e via dicendo? Del resto sembra che tutto ciò sia diretto più contro il nome che contro la sostanza della cosa. Ma è forse indifferente il nome, e non ha forse la parola reso scemi gli uomini? Se non che tra la libertà e la proprietà più lungo è il tratto che non quello rappresentato da una pura distinzione di parole.

Tutti chiedono la libertà, tutti ne invocano il Regno. O incantevole visione d’un “regno fiorente della libertà”, d’un “libero genere umano” — chi non l’avrebbe sognata? Ebbene siano pur liberi gli uomini, in tutto liberi, esenti da ogni costrizione. Da ogni costrizione, è proprio vero? Ma non s’imporranno poi essi stessi una costrizione? “Oh sì, ma questa non è già una costrizione!” Siamo liberi dalle credenze religiose, dai rigorosi doveri della moralità, dall’inesorabilità della legge, da “quell’orribile equivoco!” Se non che, ditemi, da quali cose devono liberarsi, e da quali no?

Il bel sogno è svanito, e noi ci ridestiamo fregandoci gli occhi, guardando il volgare interruttore. “Da che cosa deve liberarsi l’uomo?” — Dalla cieca credulità, esclama taluno. Ma che! esclama un altro, ogni credenza è credulità cieca; gli uomini devono emanciparsi da ogni credenza. No, no, per l’amor di Dio — replica il primo —, non gettate da voi ogni credenza altrimenti scatenerete la tempesta della brutalità. Noi dobbiamo, dice un terzo, costituirci in repubblica, ed esser liberi da ogni padrone. Con ciò nulla si acquista, afferma un quarto; ché allora il nostro padrone sarà la “maggioranza dominante”, fate piuttosto che ci liberiamo dalla trista disuguaglianza, — O disgraziata uguaglianza eccoti ritornare in campo! Era così bello il mio sogno d’un paradiso della libertà, ed ora l’impudenza e la sfrenatezza levano un’altra volta la loro voce selvaggia! Così si lamenta il primo e balza in piedi per sguainare la sua spada contro la libertà sconfinata. E in breve non sentiamo più altro che il cozzare delle armi dei nostri discorsi propugnatori di libertà.

L’istinto di libertà s’espresse un tempo nel desiderio d’una libertà determinata: l’uomo credente voleva esser libero ed indipendente. Da che cosa? Forse dalla fede? No, bensì dagli inquisitori della fede. La stessa cosa avviene oggi della libertà politica e civile. I borghesi vogliono esser liberi, non già dalla dominazione borghese, bensì dalla dominazione burocratica, dall’arbitrio dei principi, ecc. Il principe di Metternich asserì un giorno ch’egli aveva trovata una via atta a condurre, una volta per sempre, sulla traccia della vera libertà. Il conte di Provenza lasciò la Francia, allora appunto che questa s’accingeva a fondare il “regno della libertà”, e disse: “la mia prigionia mi era divenuta insopportabile, io non avevo che una passione — quella della libertà —, io non pensavo che ad essa”.

Il bisogno d’una determinata libertà presuppone sempre il concetto e il desiderio d’una nuova dominazione: allo stesso modo la rivoluzione poteva bensì ispirare ai “suoi difensori la inebriante convinzione di combattere per la libertà”, ma in realtà creava una dominazione nuova: quella della legge.

Libertà cercate voi tutti : voi volete la libertà. Ma perchè poi lesinate per un po’ di più o di meno? La libertà non può essere che la libertà intera, illimitata: una briciola di libertà non può essere la libertà. Voi disperate che si possa ottenere tutta la libertà, la libertà sovra ogni altra cosa, anzi, voi ritenete per pazzia il solo desiderarla? Ebbene, in tal caso, cessate di dar la caccia a un fantasma, e rimanetevi dal perseguire l’ inarrivabile.

“Si, ma non c’è cosa migliore della libertà!”

Ma che avete dunque quando possedete la libertà, o meglio — perchè non intendo parlare delle vostre briciole — quando possedete la illimitata libertà? Allora voi vi sarete sbarazzati di tutto. Ma di tutto ciò che vi dà fastidio: e credo ci saranno poche cose nella vita che non vi diano molestia. E per amore di chi voi volete sbarazzarvene? Io credo bene per amor vostro, per la ragione che quelle cose vi sono d’ostacolo! Ma se qualche cosa non vi desse fastidio, anzi, all’opposto, vi fosse gradita come, per es., lo sguardo, dolce si, ma irresistibilmente imperioso della vostra amata, in tal caso voi non desiderereste di liberarvene. E perchè? Per amor di voi stessi! Dunque voi prendete quale misura d’ogni cosa voi stessi. Voi non fate nessun conto della libertà quando la schiavitù, il “dolce servizio d’amore”, vi torna gradita; e voi vi ripigliate all’occasione la vostra libertà, quando essa incomincia a piacervi nuovamente.

E perchè mai non sapete avere il coraggio di fare di voi stessi il centro e il punto essenziale d’ogni cosa? Perchè sfiatarvi ad invocare la libertà il vostro sogno? Siete voi il vostro sogno?

Non domandate consiglio ai vostri sogni, alle vostre idee, ai vostri pensieri, perchè tutto ciò è teorica vana. Chiedete consiglio a voi stessi — ciò è più pratico: né l’essere uomini “pratici” vi dispiaccia.

Ma ecco che l’uno tende l’orecchio per sentire che cosa dirà il suo dio (perchè naturalmente ciò che egli si raffigura sotto il nome di Dio, è il suo dio): l’altro vuol sapere che cosa richiedono in proposito il suo senso morale, la sua coscienza, il suo sentimento del dovere; un terzo pensa a ciò che dirà la gente, e cosi, quando ognuno ha interrogato il suo nume (poi che in complesso la gente forma una divinità non inferiore per nulla a quella soprannaturale, bensì più complessa: vox populi, vox Dei) egli si rimette alla volontà del suo padrone e non vuol saperne più di ciò ch’egli stesso amerebbe dire o fare.

Dunque rivolgetevi a voi stessi, anziché ai vostri Dei o ai vostri idoli. Traete fuori di voi ciò che sta in voi celato, traetelo fuori alla luce del sole, costringetelo a rivelarsi.

In qual modo uno pensi soltanto per impulso proprio senza curarsi di nessuna altra cosa, ci appare nella rappresentazione che il cristiano si fa del suo Dio. Egli agisce come gli piace. E l’uomo stolto, che potrebbe fare altrettanto, è costretto invece ad agire come “piace a Dio!”

Se si obbietta che Dio si regola secondo le leggi eterne, è lecito affermare ciò anche per l’uomo, poiché, io pure devo seguire le leggi della mia natura: la mia individualità mi è legge.

Ma basta eccitarvi a pensare a voi stessi per vedervi ridotti alla disperazione.

“Che cosa sono io?” si chiede ciascuno di voi. Un abisso di istinti senza norma e senza legge,  di concupiscenze, di desideri, di passioni, un caos privo di luce.

Come potrei io, interrogando me stesso senza tener conto dei comandamenti divini o dei doveri che impone la morale, o della voce della ragione (la quale nel corso della storia, fondandosi sulle più amare esperienze, ha fatto assorgere a legge tutto ciò che v’ha di migliore e di più ragionevole) come potrei io, ripeto, ottenere da me stesso una giusta risposta? La mia passione mi suggerirebbe le cose più insensate. E così ognuno tiene sé stesso in conto d’un demonio; poiché se egli — parlando di chi non si cura di religione, ecc. — tenesse sé stesso soltanto in conto d’una bestia, egli troverebbe facilmente che la bestia, quantunque non segua che il suo proprio istinto, non suggerisce a sé stessa le cose più insensate, bensì sa trovare egregiamente ciò che le abbisogna. Ma l’abito del pensare religiosamente ha per tal modo imprigionato il nostro spirito, che noi abbiamo paura di vedere noi stessi in tutta la nostra nudità e naturalezza; essa ci ha talmente avviliti, che noi ci riteniamo macchiati dal peccato originale, e abbiamo noi stessi in conto di demoni nati. Naturalmente voi pensate sempre che la vostra vocazione richieda di operare ciò che è “bene”, ciò che è morale, ciò che è giusto. Come potrebbe mai, quando interrogate voi stessi sul da farsi, uscirvi dai precordi la vostra vera voce, la voce, che segna la via del buono, del giusto, del vero ecc.? Come s’accorda Dio con Belial?

Ma che pensereste voi, se alcuno vi dicesse che queste affermazioni con cui vi si vuol far credere che voi dovete prestar ascolto alla voce di Dio, della coscienza, dei doveri, delle leggi ecc., sono chiacchiere delle quali vi hanno riempito il capo e il cuore, rendendovi folli? E se vi domandasse poi, in qual modo voi sapete con tanta sicurezza che la voce della natura è seduttrice? E se invece pretendesse da voi che invertiste le parti col ritenere per l’appunto la cosiddetta voce di Dio e della coscienza per opere diaboliche? Vi sono degli uomini così empi; in qual modo ve ne libererete? Non potrete richiamarvi ai vostri preti, ai vostri genitori, alla cosiddetta gente per bene, perchè essi appunto da quei vostri contradditori vi saranno dipinti quali seduttori, traviatori e corruttori della gioventù, i quali seminano senza posa la mala erba del disprezzo di se stessi e dell’adorazione divina, per far insugherire i giovani cuori e render folli le giovani menti. Ma coloro soggiungeranno: Per amore di chi voi prendete cura dei comandamenti divini e degli altri? Voi credete di farlo solo per compiacere a Dio? Ma voi fate in realtà anche questo per amor vostro. Anche in questo dunque la vostra persona è innanzi a tutto, sì che ciascuno di voi può ben dire: per me io sono tutto e tutto opero per amor mio. Se poteste arrivare a tanto da comprendere chiaramente che le idee di Dio, dei comandamenti, ecc. non vi arrecano che danno, ch’essi vi scemano valore e vi conducono alla perdizione, oh per certo voi ve le caccereste di dosso e le respingereste lontano, così come i cristiani in altri tempi fecero d’Apollo e di Minerva, condannando la morale pagana. Essi posero, è vero, Cristo e Maria in luogo degli dei gentili, una morale cristiana al posto della pagana; ma lo fecero anch’essi per la salute delle loro anime, dunque per egoismo.

E mercè quell’egoismo, gli uomini poterono liberarsi dell’Olimpo pagano, sciogliersi da esso.

L’individualità creò una nuova libertà; poiché l’individualità è la créatrice di tutto, allo stesso modo che la genialità (una specie determinata dell’ individualità), che è sempre originalità, è riguardata da lungo tempo come la opératrice dei nuovi avvenimenti importanti nella storia mondiale.

Se è vero che tutti i vostri intenti sono diritti alla conquista della libertà, è vostro obbligo l’osservarne i precetti. Chi dev’esser libero? Tu, io, noi. Liberi da che cosa ? Da tutto che non sia io, tu, noi! Io sono adunque il nocciolo che, libero da tutti gli involucri, dalle cortecce che lo opprimono, dev’esser liberato. Che cosa rimane, quando io sia liberato da tutto ciò che non sia “io”? Io e null’altro che io. Ma a questo ” io ” astratto nulla può offrire la libertà. Che cosa abbia poi a succedere quando l’io sarà libero, la libertà non sa dire: allo stesso modo i nostri governi rilasciano i prigionieri, a detenzione finita, e senz’altro li abbandonano a sé stessi.

Perchè adunque, se si aspira alla libertà per amore dell’io, non fare di questo io il principio, il centro, il fine d’ogni cosa? Non valgo io più della libertà? Non son forse io che rendo libero me stesso, non sono forse io il primo? Anche schiavo, anche avvinto da mille catene, io esisto, e non soltanto come una cosa a venire, una speranza — quale è la libertà — ma come una cosa presente.

Considerate bene questo, e decidete se sulla vostra bandiera meglio vi giovi iscrivere il sogno della “libertà” oppure l’affermazione dell’ “egoismo”, della “individualità”. La libertà suscita il vostro rancore contro tutto ciò che non rappresenta voi; l’ “egoismo” vi chiama a gioire di voi stessi, a godere di voi stessi; la libertà è e sarà un “desiderio ardente”, un rimpianto romantico una speranza cristiana in un di là; in un futuro:”individualità “è realtà la quale libera il vostro cammino da tutti gli ostacoli. Da ciò che non v’ impaccia, voi non domanderete d’esser liberi, e quando qualche cosa incomincerà a darvi noia, ebbene sappiate ormai che dovete obbedienza più a voi stessi che non agli altri uomini.

La libertà insegna soltanto: sbarazzatevi, liberatevi da tutto ciò che vi dà molestia; essa non v’insegna a conoscere chi voi siete. Sbarazzatevi, sbarazzatevi, ecco la sua divisa, e voi accorrendo volenterosi a quel grido vi sbarazzate persino di voi stessi, del vostro essere, “rinnegate voi stessi”. Invece l’individualismo vi richiama alla coscienza di voi stessi, esso vi dice: “tornate in voi.” Sotto l’egida della libertà voi riuscite a sbarazzarvi di molte cose, ma molte cose nuove vi angustiano un altra volta: del diavolo vi siete liberati, ma il male è rimasto. Soltanto accettando l’individualismo voi vi liberate compiutamente d’ogni cosa, e non ritenete se non ciò che voi liberamente avete accettato per elezione o per vostro piacere. L’individualista è il libero nato, il libero per eccellenza; ma colui che si contenta a dirsi libero non è che un sognatore, un sentimentale.

Il primo è libero in origine poiché nulla riconosce all’ infuori di sé stesso; egli non ha bisogno di rendersi libero perchè sin dal principio rigetta tutto fuorché sé stesso, perchè nulla egli tiene in maggior conto di sé stesso, in breve perchè egli procede dal proprio “io” e al proprio “io” ritorna.

Ancora fanciullo, già egli comincia a lavorare per svincolarsi da ogni pastoia. L’individualità fermenta nel piccolo egoista e gli procura la desiderata libertà.

Millenni di cultura hanno oscurato ai vostri occhi ciò che veramente siete, vi hanno fatto credere che siate non già egoisti, ma idealisti (uomini dabbene). Scuotete ciò dalle vostre spalle!

Non andate in cerca della libertà, che soffoca miserevolmente quello che forma la vostra essenza nell’abnegazione, nella negazione di voi stessi; bensì ricercate invece il vostro “io”, diventate egoisti. Che ciascuno di voi divenga un “io onnipotente”. Riconoscete nuovamente voi stessi, riconoscete quello che siete realmente, e cacciate le vostre ipocrite aspirazioni, la vostra stolta mania di formarvi una natura diversa dalla vera. Aspirazioni ipocrite perchè con tutto ciò voi siete rimasti altrettanti egoisti nel corso dei millenni; ma egoisti torpidi, assopiti, ingannatori di voi stessi, egoisti folli, eautontimorumeni, torturatori di voi stessi. Mai ancora una religione seppe far di meno delle promesse, si riferiscano queste al di là o al di qua; perché l’uomo è sempre in attesa della ricompensa, e nulla fa disinteressatamente. E allora che ne è della massima “operare il bene per amor del bene”?

Come se anche qui, nella soddisfazione che si prova operando secondo quel precetto, non fosse contenuta la ricompensa! Sicché anche la stessa religione ha per fondamento il nostro egoismo e lo sfrutta; fa calcolo sulle nostre concupiscenze, e ne soffoca molte per amore d’una sola. E ciò è causa del fatto dell’egoismo tradito nel quale io non soddisfo me stesso, bensì uno de’ miei desideri, per esempio la brama d’essere felice. La religione mi promette il “sommo bene” e per guadagnar questo io non fo più alcun caso degli altri miei appetiti e non penso a soddisfarli.

Tutto il vostro modo di pensare e d’operare è un egoismo non confessato, tacito e segreto. Ma siccome l’egoismo vostro è nascosto, non manifesto, non confessato e perciò inconsapevole, così esso cessa d’esser egoismo e diventa servaggio, schiavitù, rinnegazione di sé stessi; sì che voi siete egoisti, e rinnegate l’egoismo: siete e non siete. Perchè dove sembra che siate maggiormente egoisti, voi sapete coprire di obbrobrio e di disprezzo la parola “egoista”.

La mia libertà di fronte agli altri io l’apprezzo nel grado in che essa mi rende padrone del mondo o mi dà modo di conquistarlo, avvenga poi ciò con la persuasione o con la preghiera o colla richiesta imperiosa o anche con l’ipocrisia, con l’inganno e così via. Poiché i mezzi che io adopero stanno in relazione con quello che io sono. Se sono debole non avrò a mia disposizione che mezzi deboli, ma che pure saranno sufficienti per conquistare una buona parte di mondo. Già perciò l’ inganno, l’ipocrisia, la menzogna sembrano peggiori di quello che sono.

Chi mai non avrebbe creduto lecito l’inganno contro la polizia? Chi mai, di fronte allo sbirro, non avrebbe simulato una cieca e profonda devozione per nascondere qualche illegalità commessa? Chi non ha fatto ciò, ha fatto violenza a sé stesso; era un debole per coscienza. Io so che la mia libertà non è intera se non quando posso far valere la mia volontà su d’un altro (sia una cosa senza volontà, per esempio uno scoglio, od un essere volente, come un governo o un singolo): io rinnego la mia individualità se di fronte ad un altro io cedo e desisto, mi arrendo, o in una parola mi rassegno. Poiché altro e che io cangi la mia condotta, perchè mi accorgo che non mi permette di raggiungere il mio fine; altro è che io stesso mi arrenda.

Intorno a un masso che mi si oppone io sono costretto ad aggirarmi sino a tanto che mi sarò procurata la polvere per farlo saltare; le leggi d’un popolo io procurerò d’eluderle sino a tanto che io potrò distruggerle. Se io non posso afferrare la luna, è questo un buon motivo perché essa debba essermi “sacra”, una “Astarte“? Se io potessi afferrarti, t’afferrerei per bene, e se trovo un mezzo di salire sino a te, tu non mi incuterai paura! Oh incomprensibile, non sarai per me tale, se non sino a tanto che mi sarò procurata la forza di comprenderti, di dirti cosa mia. Io non rinunzio a possederti, bensì attendo a ciò il momento opportuno. Se per ora mi rassegno a nulla tentare contro di te cionondimeno io non rinuncio a pensarvi.

Gli uomini forti han fatto sempre cosi. Se i “rassegnati” avevano proclamato ed adorato qual loro signore un qualche potere inespugnabile, pretendendo adorazione da tutti pel loro idolo sopraggiungeva qualche figlio selvaggio della natura che non voleva saper di arrendersi e cacciava dal suo olimpo l’idolo adorato. Egli gridò al sole “arrestati” e fece si che la terra girasse: i “rassegnati” dovettero lasciar fare; egli rivolse la scure contro le querce sacre, e i “rassegnati” stupirono che un sacro foco non lo incenerisse; egli cacciò il papa dal soglio di Pietro, e i “rassegnati” non glie lo poterono impedire: egli atterrò il “malgoverno per grazia di Dio”, e i “rassegnati” strillarono, ma poi finirono per tacere.

La mia libertà sarà perfetta solo quando sarà la mia forza; ma in virtù di questa io cesso d’esser un libero e divento un individualista. Perchè la libertà dei popoli è una “vana parola”?

Perchè i popoli non hanno la forza; con un soffio del vivente “io” io atterro popoli, sia pure il soffio d’un Nerone, d’un imperatore cinese o d’un povero scrittorello. Perchè i Parlamenti invocano la libertà e si lasciano menar pel naso dai ministri? Perchè essi non hanno la forza dalla loro. La forza è una bella cosa ed è utile a molte cose; poiché con una manciata di forza si va più lontano che con un sacco di diritti. Voi anelate alla libertà? stolti! Procuratevi la forza e la libertà verrà da sé! Guardate un po’: quelli che hanno la forza stanno al disopra della legge! Che ne sembra a voi, uomini della “legge”? voi siete senza gusto!

Da tutte le parti tuona il grido di “libertà”. Ma si comprende poi che cosa significhi una libertà donata o imposta? Non si giunge a comprendere, in tutto il pieno senso della parola, che la libertà, in sostanza, é la liberazione di sé stessi, vale a dire, che io non posso godere più libertà di quella che da me stesso mi procuro.

Che vantaggio hanno le pecore da ciò che nessuno loro impedisca di parlare? Esse si accontentano di belare. Concedete a taluno, che è intimamente maomettano giudeo o cristiano, la licenza di parlare a suo modo; egli non saprà dirvi che delle cose molto limitate. Ma se altri vi tolgono la libertà, di parola, essi sanno apprezzare molto bene il vantaggio che da ciò viene a loro, poiché voi sareste forse in condizione di dire qualche cosa che recherebbe lor danno o scemerebbe loro rinomanza.

Se ciò non di meno vi concedono la libertà, fate conto che sono dei mariuoli che danno più di quello di che possono disporre. Essi non vi danno cioè del proprio, bensì della mercé rubata, vi danno la vostra stessa libertà, quella libertà che dovreste procurarvi da voi stessi; ed essi ve la danno, unicamente affinché voi non ve la prendiate, chiamando per giunta i ladri e gli ingannatori a renderne conto.

Nella loro astuzia essi sanno molto bene che la libertà concessa non è libertà, e che sol quella è libertà, che da sé stesso l’uomo ottiene, cioè la libertà dell’ “egoista”. La libertà donata abbassa le vele non appena alla tempesta sottentra la bonaccia: ed ha sempre bisogno d’esser gonfiata dolcemente e mediocremente.

Qui sta la differenza tra liberazione ed emancipazione. Coloro che oggidì “stanno all’opposizione” anelano e gridano alla “emancipazione”. I principi devono proclamare “maturi” i loro popoli cioè emanciparli. Ma se vi conducete da uomini maturi, voi siete tali senza quella dichiarazione; se la vostra condotta non è assennata, non meritate d’essere liberi e non diverreste maturi nonostante mille dichiarazioni. I Greci, giunti alla maturità, espulsero i loro tiranni, e il figlio, giunto alla maggior età, si rende indipendente dal padre. Se coloro avessero pazientato sino a tanto che i loro tiranni gli avessero proclamati maturi essi attenderebbero ancora. Un padre accorto caccerà da casa il figlio che non vuole saper d’esser maggiorenne, e farà bene.

L’emancipato non è nulla di più d’un liberato, d’un “libertinus”: un cane che trascina seco un pezzo della sua catena, uno schiavo in veste di libertà, come l’asino nella pelle del leone. Gli ebrei emancipati non sono per nulla divenuti migliori in sé stessi, soltanto si sentono ora meno a disagio di prima. È ben vero che per alleggerire il loro stato si richiedeva qualche cosa di più che non ciò che il cristianesimo poteva consentire, perchè liberar gli ebrei esso non poteva senza essere illogico. Ma, emancipato o no, l’ebreo resta ebreo; poiché ognuno che non si è affrancato per propria forza, null’altro è che un emancipato.

Lo stato protestante può certamente emancipare i cattolici; ma poi che questi non s’affrancano da sé stessi, rimangono cattolici.

Dell’interesse e del disinteresse abbiamo già parlato più sopra. Gli amici della libertà declamano contro l’interesse perchè nelle proprie aspirazioni religiose verso la libertà non sanno affrancarsi dalla sublime idea della rinnegazione del proprio io. L’egoismo è fatto segno all’ira dei liberali, per ciò che l’egoista si occupa d’una cosa, non per cosa in sé, ma pel solo vantaggio che può arrecargli; la cosa deve servire a lui. Pensare egoisticamente significa non già attribuire a cosa alcuna un valore proprio o “assoluto”, bensì ricercarne il valore nei rapporti della cosa col soggetto. Tra i caratteri più ripugnanti dell’egoismo è uso annoverare anche l’abito dello studio non per amor della scienza ma per il guadagno, il quale importa la più spudorata profanazione della scienza. Se non che per che cosa esiste la scienza se non deve essere sfruttata? Se taluno non sa adoperarla in miglior modo che per guadagnar il pane quotidiano, il suo egoismo sarà certamente molto gretto, e si rivelerà assai circoscritto: ma il gridare per ciò solo alla profanazione della scienza è opera da ossessi.

Essendo il Cristianesimo incapace di far valere il singolo quale singolo, e non considerandolo che nel suo grado di dipendente, esso si rivela per ciò appunto una teoria sociale, una teoria del vivere in comune, tanto dell’uomo in comunione con Dio, quanto degli uomini tra di loro. Ecco perchè tutto ciò che sapeva d’ “individuale” doveva essere coperto d’infamia: interessi, capricci, caratteri individuali, amor proprio, ecc. L’opinione del cristiano ha per così dire macchiato d’infamia molti vocaboli d’onorevole significato; perchè non li dovremmo ripristinare in onore?

Così, per es., molte parole tedesche, che in origine significavano “scherzo, spasso, svago”, per opera del Cristianesimo, che non intendeva scherzi, perdettero la significazione originaria e la tramutarono in quella di “ingiuria, scherno, insolenza”.

Il nostro linguaggio s’è adattato quasi interamente alle necessità del pensiero cristiano, e la coscienza universale è ancora troppo cristiana per non doversi arretrare spaventata dinanzi a tutto ciò che non è cristiano come dinanzi a qualche cosa di mostruoso o malvagio. Per questo anche l’interesse si trova a gran disagio.

In senso cristiano “io ho un interesse” vuol dire a un depresso: Io non guardo ad altro che all’utile che una cosa può arrecare ai miei sensi. Ma la sensualità è forse tutta la mia individualità? Sono io in me stesso quando mi do in braccio alla sensualità? Seguo io forse me stesso, la mia vocazione, col secondare la mia sensualità? Io appartengo tutto a me stesso solo allorquando nessuno, non già la sola sensualità, ma né meno altri (Dio, uomini, autorità, legge, Stato, Chiesa) m’ha in suo potere; ciò che giova a me, che appartiene a me stesso, che mi conviene, ecco quello che ricerca il mio interesse. Del resto ogni momento s’è obbligati a credere nell’interesse, tanto vilipeso, come in una forza che abbatte tutti gli ostacoli.

Nella tornata del 10 febbraio 1844 Welcker propone una mozione sull’indipendenza dei giudici, esponendo in un diffuso discorso che i giudici soggetti ad essere trasferiti, licenziati, sostituiti, che in breve quei membri d’una Corte di giustizia che dalla Amministrazione possono venir menomati e lesi nella loro autorità, perdono tutta la stima e la fiducia del popolo. Tutta la classe dei giudici — esclama Welcker — è umiliata da codesto stato di dipendenza in cui si trova. In buon volgare ciò significa che i giudici trovano maggior tornaconto a giudicare secondo il desiderio dei ministri, che non secondo giustizia. Come toglier di mezzo questo stato di cose?

Forse col rinfacciare ai giudici l’obbrobrio della loro venalità, confidando che per ciò si convertirono e porranno la giustizia al disopra del loro interesse? No, il popolo non è capace d’una fiducia così fantastica, poiché esso sente che l’interesse è più forse d’ogni altro motivo. Si lascino pur dunque i giudici al loro posto, per quanto vi sia modo di smascherarli per egoisti, ma si faccia sì che essi più non vedano il loro egoismo incoraggiato dalla venalità della legge, e li si pongano in condizione di indipendenza dal Governo sì che col promuovere una sentenza conforme a giustizia, essi non abbiano più a temere pei propri interessi e possano cosi unire a un largo compenso la stima dei loro concittadini.

Sicchè Welcker e i cittadini badesi si ritengono sicuri solo quando si possa fare assegnamento sull’egoismo. E sta bene; ma allora che si deve pensare di tutte le belle frasi di disinteresse ecc. che uscirono dalla loro bocca?

Altri sono i rapporti che io ho con una causa per la quale mi adopero nel mio interesse, altri quelli che io ho con una causa cui servo disinteressatamente. Si potrebbero distinguere gli uni dagli altri caratteristicamente così: verso la prima io posso peccare o esser colpevole, mentre l’altra, col mio operare io non posso che perderla: il mio sarebbe dunque non un peccato, ma una imprudenza. Sotto tutti e due gli aspetti può considerarsi la libertà dei commerci, la quale talvolta viene riguardata quale una libertà che a seconda dei casi può essere concessa o tolta; tale altra quale una libertà che deve essere rispettata in ogni contingenza.

Se io non do importanza ad una cosa per sé stessa, e se non la desidero per sé stessa, ciò avviene sia perché essa mi e utile, sia perchè essa mi è di diletto: come per esempio le ostriche pel loro sapore gradito. Non dovranno quindi servire di mezzo all’egoista tutte le cose delle quali egli è il fine ultimo e dovrà egli invece darsi a proteggere una cosa che nulla può servirgli, come ad esempio il proletariato o lo Stato?
L’ individualismo racchiude in se stesso tutto ciò che è proprio dell’ individuo, e richiama in onore ciò che il pensare e il linguaggio cristiano han fatto apparire infame. Ma l’individualismo non ha alcuna misura esteriore; non è un’idea come la libertà, la moralità, l’umanità, ecc. Esso non è che il segno di chi lo possiede.

 

Max Stirner

 

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