Aveva proprio ragione Simone Weil: quando i professionisti della parola decidono di occuparsi della triste sorte altrui, scelgono di parlare di questioni tecniche. Se sono sindacalisti a difesa del lavoro, parleranno di aumenti salariali, cambio dei turni, misure di sicurezza. Se sono ambientalisti paladini della democrazia, parleranno di camion di detriti, decibel di rumore, misure di sicurezza. È risaputo che chi ascolta accoglie con sollievo la facile chiarezza delle cifre, dati oggettivi che non richiedono alcun pensiero singolare.
Pensiamo alla propaganda che viene fatta attorno all’Alta Velocità. Per riuscire a farsi capire da tutti, condizione indispensabile per ampliare il sostegno a quella lotta, cosa c’è di meglio che illustrare tutti i dettagli tecnici di quell’infame progetto? Sapete quanto sarà lungo quel tunnel? E quanto ci verrà a costare? E che dire della composizione geologica delle rocce che vorrebbero forare? Per non parlare della polvere sollevata, del traffico paralizzato, delle coltivazioni perse, dei ruscelli prosciugati… Una mole impressionante di dati — che per essere presi per buoni necessitano della preziosa conferma di periti possibilmente di fama (quegli specialisti del sapere separato oggi tanto adulati) — viene sciorinata per sollecitare la mobilitazione. Se si vuole fare numero bisogna parlare di numeri. Uomini e donne, se non vi ribellate per la vita miserabile che vi costringono a fare, per i vostri corpi esausti, per i vostri sogni infranti, per i vostri desideri repressi, per le vostre speranze deluse, fatelo almeno perché 2+2 è uguale a 4. Talmente facile da capire che il consenso è assicurato.
Già la matematica non è un’opinione — figurarsi un’idea! Non è qualcosa di singolare, di individuale, che si possiede dopo averla scoperta e fatta maturare. È qualcosa di comune che abbiamo imparato a scuola. 2+2 fa 4 per il reazionario come per il sovversivo, per il credente come per l’ateo. Non divide le sensibilità, unisce i ricordi. Ecco perchè questo genere di propaganda impazza fra i vari politicanti, che non mancano di prescriverla ai militanti che fanno loro corteo. Perché non fa pensare ad altro, non mette in discussione nulla in maniera radicale, rimanda a quanto è già in memoria. Al massimo esigerà una nuova verifica al fine di far quadrare i conti.
Simone Weil faceva giustamente notare che, se l’individuo sentisse di non essere solo vittima ma anche complice dell’orrore quotidiano, la sua resistenza conoscerebbe ben altro slancio. Non sarebbe più lo slogan di una rivendicazione, sarebbe il grido di rivolta di tutto l’essere contro la condizione umana. Un grido che diffiderebbe della chiarezza delle cifre, perché non avrebbe nulla da spartire né col sindacalista che si batte per alleggerire il ricatto del lavoro, né con l’ambientalista che si batte per legittimare la menzogna della democrazia. Invece le cifre, se non accompagnano quel grido da umili ancelle tenute in disparte, ma lo sostituiscono, non fanno che prolungare il ricatto e la menzogna.
Ecco perché No Tav No Stato. Non per iniziare a «fare ideologia», ma per non finire col fare politica. Del resto, è quasi imbarazzante osservare come questa recalcitranza davanti alle idee anarchiche provenga da chi non si fa alcuno scrupolo a spacciare (o ad avallare, nella speranza che dal letame nascano i fior) ben altro genere di «ideologia». Come se gli appelli a difendere la Democrazia del Bene Comune salendo sulle barricate Stalingrado e Saigon fossero la spontanea e naturale espressione dell’essere umano in lotta per la propria dignità, e non il frutto di una precisa interpretazione di parte. Legittima, sì. Della nostra parte, no.
Ecco perché No Tav No Stato. Perché, piuttosto che accomunarci alle vittime di questo ordine sociale, pensiamo sia necessario riconoscere e far riconoscere che ne siamo tutti complici — chiunque di noi, nessuno escluso. Perché non vogliamo unirci alla rivendicazione a favore di un’autorità più equa, vogliamo lanciare il grido contro ogni forma di autorità.
L’Alta Velocità ce ne offre l’occasione. Non è la follia di qualche squilibrato imposta da poche mele marce ad un Parlamento sovrano, ma distratto. È un progetto perfettamente coerente con il mondo che abitiamo, un mondo in cui ogni singolo aspetto dell’esistenza umana è sottomesso alle esigenze del profitto (ed anche il tempo, si sa, è denaro). Non è affatto un caso che sia sostenuto da tutti i partiti, siano essi di destra o di sinistra, in base al momento e all’opportunità. E non è anomalo che lo Stato lo voglia imporre con il manganello e con i lacrimogeni; chi per i propri interessi non esita a bombardare intere popolazioni, perché mai non dovrebbe bucare la Val Susa o il sottosuolo di Firenze, quando altri esperti giurano che si può fare? Si dice che il Tav valsusino, qualora riuscissero a finirlo, servirà solo per trasportare merci; perchè, ognuno di noi non serve solo per produrle e acquistarle? E lo facciamo, giorno dopo giorno, in silenzio.
Con buona pace di tutti i cittadinisti, l’Alta Velocità non è affatto un grossolano errore dell’attuale organizzazione sociale. Ne è la verità scomoda e brutale. Ecco perché, anziché contarne e lamentarne gli effetti, dovremmo riprendere a indicarne e criticarne la causa. Non ha senso tacerla. Altrimenti si rischia di contribuire sì alla lotta contro questo Stato, ma non alla lotta contro lo Stato.
[21/7/11]
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