Albert Caraco
BREVIARIO DEL CAOS
(parte prima)
Breviario del CAOS (parte prima)
Questo libro racconta il nostro mondo quale appare se osservato da uno sguardo di rapinosa, disperata lucidità, e lo fissa in brevi blocchi di prosa dal nitore classico, dove le frasi si allineano con naturalezza, simili alle pietre dei muri antichi. C’è in Caraco una violenza compressa, una furia che fa pensare a Céline e Cioran – e insieme la capacità di dare una forma perentoria, martellante, ultimativa alle visioni più azzardate, come già sa la tribù dei lettori di quel cupo gioiello che è Post mortem. Rare volte la peculiare convergenza di orrori e parodia che contraddistingue quanto ci sta intorno ha trovato un cronista altrettanto percettivo e tagliente.
Noi tendiamo alla morte, come la freccia al bersaglio, e mai falliamo la mira, la morte è la nostra unica certezza e sempre sappiamo di dover morire, quale che sia il luogo, il momento, o il modo. La vita eterna è un nonsenso, l’eternità non è vita, la morte è la quiete a cui aspiriamo, vita e morte sono legate, chi reclama altro pretende l’impossibile e otterrà in ricompensa solo fumo. Noi, che non ci contentiamo di parole, acconsentiamo a scomparire e siamo lieti di acconsentire, non abbiamo scelto di nascere e ci riteniamo fortunati a non sopravvivere in nessun luogo a questa vita, che ci fu imposta più che donata, vita piena di affanni e dolori, dalle gioie discutibili o mediocri. Che cosa prova mai che un uomo sia felice? La felicità è un’eccezione, mentre noi guardiamo soltanto alle leggi generali, in base a queste ragioniamo, queste meditiamo e investighiamo, disprezziamo chiunque insegua il miracolo e non siamo avidi di beatitudini, la nostra evidenza ci basta e la nostra sovrana eccellenza non è riposta in nient’altro.
Ognuno di noi muore solo e muore interamente: sono due verità che i più rifiutano, giacché i più durante tutta la loro vita sonnecchiano e quando stanno per morire temono di svegliarsi. La solitudine è una scuola di morte e l’uomo comune non la frequenterà mai, l’integrità non si ottiene altrove, essa è dunque la ricompensa della solitudine, e se si dovessero suddividere gli uomini, essi formerebbero tre razze: i sonnambuli, che sono un esercito; i ragionevoli e sensibili, che vivono su due piani e, sapendo ciò che a loro manca, si sforzano di cercare ciò che non trovano; gli spirituali nati due volte, che vanno alla morte con passo uniforme per morire soli e morire interamente, quando non si dia il caso che scelgano loro il momento, il luogo e il modo, a dimostrazione del loro disprezzo per le contingenze. I sonnambuli sono gli idolatri; i ragionevoli e sensibili i credenti; gli spirituali nati due volte adorano in cuoi loro ciò che i primi non immaginano e i secondi non concepiscono, perché sono uomini compiuti e in quanto tali non vanno a cercare, e tanto meno ad adorare, qualcosa che hanno già trovato, poiché sono essi stessi questo qualcosa.
Le città che abitiamo sono scuole di morte, perché sono disumane. Ognuna di esse è diventata il ricettacolo del frastuono e del tanfo, poiché ognuna è diventata un caos di edifici, dove ci ammassiamo a milioni, smarrendo le nostre ragioni di vita. Sventurati senza scampo, sentiamo di esserci cacciati, volenti o nolenti, nel labirinto dell’assurdo, da cui non usciremo che morti, giacché il nostro destino è di continuare a moltiplicarci, unicamente per morire innumerevoli. A ogni giro di ruota le città che abitiamo avanzano impercettibilmente una incontro all’altra, aspirando a confondersi: è una corsa al caos assoluto, nel frastuono e nel tanfo. A ogni giro di ruota il prezzo dei terreni sale, e nel labirinto che divora lo spazio libero la rendita degli investimenti erige, giorno per giorno, centinaia di muri. È necessario che il denaro frutti e le città che noi abitiamo avanzino, quindi è giusto che a ogni generazione le case raddoppino di altezza, dovesse pure venire a mancare l’acqua un giorno su due. I costruttori aspirano solo a sottrarsi al destino che ci preparano andando a vivere in campagna.
Il mondo si è chiuso, come lo era prima delle Grandi Scoperte, il 1914 segna l’avvento del secondo Medioevo, e noi ci ritroviamo in quella che gli gnostici chiamavano prigione della specie, nell’universo finito, da cui non usciremo più. E ormai sparito l’ottimismo che per quattro secoli fu il retaggio di tanti europei, la Fatalità ritorna nella Storia, e ad un tratto noi ci chiediamo dove siamo diretti, ci interroghiamo sul perché di quello che ci accade, la bella fiducia dei nostri padri in un progresso illimitato, congiuntamente a una vita sempre più umana, è dunque svanita: noi giriamo in tondo e non riusciamo più nemmeno a capire le nostre opere. Il che significa che le nostre opere ci superano e che il mondo, trasformato dall’uomo, sfugge un’altra volta alla sua intelligenza, più che mai noi edifichiamo nell’ombra della morte, la morte sarà la legataria dei nostri fasti, e si avvicina l’ora del denudamento, in cui le nostre tradizioni cadranno, una dopo l’altra, come indumenti, lasciandoci nudi, esposti al giudizio, nudi fuori e vuoti dentro, con l’abisso sotto i piedi, il caos sopra la testa.
Gli uomini sono al tempo stesso liberi e legati, più liberi di quanto non desiderino, più legati di quanto non avvertano, giacché la massa dei mortali è fatta di sonnambuli, e all’ordine non conviene mai che escano dal sonno, perché diventerebbero ingovernabili. L’ordine non è amico degli uomini, esso si limita a tiranneggiarli, di rado a incivilirli, ancor più di rado a umanizzarli. Poiché l’ordine non è infallibile, spetta alla guerra riparare un giorno ai suoi errori, e poiché l’ordine continua a moltiplicarli, noi andiamo verso la guerra, la guerra e il futuro sembrano inscindibili. Questa è l’unica certezza: la morte è, in definitiva, il senso di ogni cosa, e l’uomo é una cosa di fronte alla morte, i popoli lo saranno anch’essi, la Storia è una passione e le sue vittime una moltitudine, il mondo che abitiamo è l’Inferno temperato dal nulla, dove l’uomo, che rifiuta di conoscere se stesso, preferisce immolarsi, immolarsi come le specie animali troppo numerose, immolarsi come gli sciami di cavallette e gli eserciti di ratti, pensando che sia più sublime perire, perire innumerevoli, piuttosto che ripensare finalmente il mondo che egli abita.
La nostra gioventù si sente condannata e perciò le università sono in fermento, essa ha ragione, noi abbiamo torto e stiamo preparandole un’altra guerra. L’ordine e la guerra sono legati, la nostra morale non lo ignora affatto, basta riandare all’insegnamento dei grandi moralisti: questa è l’unica certezza, e noi non possiamo immaginare lo stato di pace perpetua, l’ordine non vi resisterebbe. La nostra gioventù ha colto questa convenienza, ha compreso il nesso fra i nostri valori e le sue sventure, è una scoperta ormai irreversibile. Il paradosso è che, avendo ragione, la nostra gioventù ha torto, perché in quest’universo minaccialo dall’uniformità i popoli non sono contemporanei gli uni degli altri, vi sono ancora non poche nazioni in cui la gioventù è pronta a immolarsi. I nostri giovani credono forse che quaggiù basti dichiarare pace al mondo perché il mondo dia retta? Noi siamo all’Infèrno, e la sola scelta che abbiamo è tra essere i dannati che vengono tormentati o i diavoli addetti al loro supplizio.
Il secolo è in punto di morte e la morte incombe su di noi, abbiamo mezzi sufficienti perché ogni uomo sia ucciso quaranta volte, già non sappiamo che cosa fare delle nostre armi, gli edifici non ci bastano più, già scaviamo le montagne ed è nelle viscere della terra che si accumulano gli strumenti di morte. La nostra ecumene sembra un arsenale e sono decine di milioni gli esseri umani che sgobbano per la guerra, noi non pensiamo più di rompere raccomodamento in cui la morale e l’interesse hanno stretto alleanza, la nostra gioventù pagherà domani il prezzo del paradosso, se ne rende conto, insorge e noi non possiamo prometterle il miracolo, non osiamo più nemmeno farle la paternale, sentiamo che è già condannata e che le rivoluzioni non muteranno la sua sorte. E’ troppo tardi, la Storia non si arresta più, ne siamo travolti e l’inclinazione dei suoi piani ci vieta di sperare in un qualsiasi rallentamento, stiamo andando verso la catastrofe planetaria, e l’universo è pieno di gente che la desidera e la desidererà sempre di più, per sfuggire all’ordine, un ordine sempre più assurdo, che si mantiene soltanto a scapito della coerenza e, quindi, dell’umanità dell’uomo.
E per la morte che noi viviamo, è per la morte che amiamo ed è per lei che procreiamo e sgobbiamo, le nostre fatiche e i nostri giorni si susseguono ormai all’ombra della morte, la disciplina che osserviamo, i valori che salvaguardiamo e i progetti che facciamo portano tutti a un solo esito: la morte. La morte ci mieterà maturi, noi maturiamo per lei, e i nostri discendenti, che saranno ridotti a non più di un pugno di uomini sulla superficie dell’ecumene in cenere, non smetteranno di maledirci, finendo di bruciare tutto ciò che adoriamo. Noi adoriamo la morte sotto mentite spoglie e non sappiamo che è lei, le nostre guerre sono sacrifìci in lode alla morte, per la quale ci immoliamo, la nostra morale è una scuola di morte, e le virtù che pregiamo sono sempre soltanto virtù di morte. Di qui non si esce, non possiamo mutare l’ordine del mondo, siamo condannati a portare ciò che ci schiaccia, sostenendo ciò che ci disgrega, non ci resta che perire o uccidere, prima di morire noi stessi – fosse pure per ultimi -, una terza via, Io dico apertamente, è impossibile.
L’Inferno che portiamo in noi corrisponde all’Inferno delle nostre città, le nostre città sono commisurate ai nostri contenuti mentali, la volontà di morte informa la smania di vivere e noi non riusciamo a discernere quale ci ispiri, ci gettiamo in lavori sempre nuovi e ci illudiamo di attingere le vette, siamo posseduti dalla dismisura e, incapaci di capire noi stessi, continuiamo a edificare. Presto il mondo non sarà che un cantiere dove, alla stregua di termiti, miliardi di ciechi sgobberanno a perdifiato nel frastuono e nel tanfo, come automi, finché un giorno si sveglieranno in preda alla demenza e cominceranno a scannarsi indefessamente l’un l’altro. Nell’universo in cui stiamo affondando la demenza è la forma che assumerà la spontaneità dell’uomo alienato, dell’uomo posseduto, dell’uomo superato dai suoi stessi mezzi e divenuto schiavo delle sue opere. La follia sta ormai covando sotto i nostri stabili di cinquanta piani e, malgrado i nostri sforzi per estirparla, non riusciremo a contenerla, essa è il dio nuovo, che non placheremo più neanche tributandogli una sorta di culto: è la nostra morte totale che essa esige al più presto.
Quando si vorrà sapere quali furono i nostri veri dèi, bisognerà giudicarci in base alle nostre opere e mai in base ai nostri principi. Allora non si avrà difficoltà a rispondere, e si dirà ciò che noi ci vietiamo di dire e finanche di pensare: «Adoravano la follia e la morte». In verità, noi non adoriamo più nient’altro, ma non possiamo ancora ammetterlo, perché la follia e la morte sono l’ultimo compimento delle religioni rivelate, e queste religioni le contenevano in potenza, la fede cristiana in primo luogo. Abbiamo messo la follia e la morte sugli altari, professiamo tanto la demenza quanto l’agonia della Divinità suprema, che cosa rimane dopo questo, domando io? Rimane da pagare lo scotto del paradosso e prevedo che sarà pagato, è adesso che le idee con le quali si era giocato si mettono a giocare con gli uomini e gli uomini ne esauriranno la dismisura. Non sfuggiremo più a nulla e nulla ci risparmierà più, l’ordine che perpetuiamo non sarà mai riformato, la follia e la morte restano i suoi fondamenti, esso è solidale con loro, e non potendo cambiare basi morirà di ciò che lo sostiene nostro malgrado.
Le idee sono più vive degli uomini, è grazie alle idee che gli uomini vivono ed è per esse che moriranno senza fiatare. Ora, tutte le nostre idee sono micidiali, non ce n’è una che obbedisca alle leggi dell’obiettività, della misura e della coerenza, e noi, che perpetuiamo tali idee, marciamo verso la morte come automi. I nostri giovani saranno i primi a perire, sanno di essere vittime rituali, giudicano l’universo destituito di senso e noi non possiamo biasimarli, la nostra malafede aumenta di continuo e ci fa vacillare nelle risposte. Che cosa diremo loro ormai? Il dialogo è impossibile, perché hanno ragione e saranno coinvolti insieme ai pazzi, agli stupidi e ai bugiardi in uno stesso destino. Per quanto una Rivelazione nuova ci sembri più che necessaria, bisogna che prima scoppi lo scandalo e le nostre idee micidiali esauriscano la loro demenza dando sfogo alla loro perniciosità, non eluderemo la catastrofe, é insita nell’ordine delle cose e noi siamo suoi complici, preferiamo la catastrofe alla riforma, preferiamo immolarci piuttosto che ripensare il mondo, e lo ripenseremo soltanto in mezzo alle macerie.
Elevo un canto di morte su ciò che sta morendo, e di fronte ai nostri reggenti da strapazzo, di fronte ai nostri impostori mitrati e di fronte ai nostri scienziati, i più dei quali non hanno raggiunto l’età della ragione, io, solitario e misconosciuto, profeta della mia generazione, murato vivo nel silenzio anziché essere arso sul rogo, pronuncio le ineffabili parole che domani i giovani ripeteranno in coro. La mia unica consolazione è che la prossima volta moriranno con noi, i reggenti e gli impostori e gli scienziati, non rimarrà sotterraneo in cui questi maledetti possano sottrarsi alla catastrofe, non rimarrà isola dell’oceano in grado di accoglierli né deserto capace di inghiottire loro, i loro tesori e la loro famiglia. Rotoleremo tutti insieme nelle tenebre da cui non si ritorna, e il pozzo buio ci accoglierà, noi e i nostri dèi assurdi, noi e i nostri valori criminali, noi e le nostre speranze ridicole. Allora e soltanto allora giustizia sarà fatta, e verremo ricordati come un modello da non imitare più per nessun motivo, saremo il monito delle generazioni future e si verranno a contemplare gli orridi resti delle nostre metropoli, queste figlie del caos partorite da quale ordine!
I nostri padroni sono sempre stati nostri nemici e ora più che mai, più che mai i nostri padroni sono fallibili, perché è colpa loro se siamo cosi numerosi, da secoli, da millenni vogliono che i subalterni si moltiplichino, per farli sgobbare e portarli alla morte. Anche oggi che il mondo scoppia e agli uomini manca la terra, il loro sogno è costruire case di cinquanta piani e industrializzare l’ecumene, con il pretesto di provvedere alle necessità degli altri miliardi che stanno nascendo, poiché a loro occorrono sempre più esseri viventi, sempre, nonostante ciò che affermano. Essi organizzano metodicamente l’Inferno in cui ardiamo, e per impedirci di riflettere ci propinano spettacoli insulsi, che ottundono la nostra sensibilità e finiranno con il guastarci il cervello, i nostri padroni consacreranno quei trastulli sovrintendendo alla loro mania con tutta la pompa che si conviene. Stiamo tornando al circo di Bisanzio e così ci dimentichiamo dei nostri veri problemi, senza pero che questi problemi si dimentichino di noi, domani li ritroveremo, e sappiamo già che quando saranno insolubili andremo alla guerra.
Quando ci prende la paura, nonostante lo stupore in cui viviamo, i gazzettieri si adoperano per dissipare i nostri timori, e con le loro promesse si potrebbe fare l’Antologia dell’Impostura. Un giorno berremo l’acqua dei poli, dove le banchise provvederanno alle nostre necessità; un giorno trasformeremo qualsiasi cosa in cibo succulento; un giorno i cumuli di rifiuti sprofonderanno nelle viscere della terra dopo essere stati ammassati lungo le faglie, in fondo agli oceani; un giorno non dovremo più lavorare per vivere, e passeremo il tempo a distrarci; un giorno colonizzeremo, uno dopo l’altro, tutti i pianeti. Queste scempiaggini vengono pubblicate nel momento in cui tre quarti dell’umanità vivono peggio dei nostri cani o dei nostri gatti, senz’alcuna speranza di uscire dall’abiezione, nel momento in cui l’ultimo quarto, al quale si promette l’abbondanza illimitata, ha non poche ragioni di dubitare dell’autenticità di queste meraviglie. Giacché basterebbe una guerra per diffondere la fine con la velocità del lampo, a ondate successive, sulla superficie del globo, e far languire i superstiti dell’orrore assoluto sotto il giogo dell’antica indigenza.
Se c’è un Dio, il caos e la morte figureranno nel novero dei Suoi attributi, se non c’è, non cambia nulla, poiché il caos e la morte basteranno a se stessi fino alla consumazione dei secoli. Non ha importanza quello che si incensa, si è vittime della caducità e della dissoluzione, qualsiasi cosa si adori non si eviterà nulla, i buoni e i cattivi hanno un solo destino, un unico abisso accoglie i santi e i mostri, l’idea di giusto e di ingiusto non è mai stata altro che un delirio, al quale ci appigliamo per ragioni di convenienza. In verità, l’origine delle idee religiose e morali è nell’uomo, cercarla fuori dell’uomo è un nonsenso, l’uomo è un animale metafisico, il quale vorrebbe che l’universo esistesse solo per lui, ma l’universo lo ignora, e l’uomo si consola di questa indifferenza popolando lo spazio di dèi, dèi fatti a sua immagine. Sicché riusciamo a vivere accontentandoci di princìpi vuoti, ma questi princìpi così belli e così consolanti cadono nel nulla quando ci si aprono gli occhi sulla morte e sul caos da cui viviamo avvolti, in costante pericolo. La fede non è che una vanità tra le altre e l’arte di ingannare l’uomo sulla natura del mondo.
Albert Caraco
BREVIARIO DEL CAOS
(parte seconda)
La natura del mondo è l’assoluta indifferenza, e dovere del filosofo è quanto meno essere simile alla natura del mondo, continuando a essere l’uomo che non potrà smettere di essere: la coerenza, la misura e l’obiettività hanno questo prezzo. Tutti i problemi sarebbero risolti con l’obiettività, la misura e la coerenza, ma poiché la maggior parte degli uomini ne è incapace, lutti i problemi restano insolubili, la catastrofe sarà sempre l’unica scuola in cui gli indegni riceveranno l’insegnamento che la stupidità e la follia meritano loro. Non possiamo tramutare i sonnambuli in veggenti né far assaporare la luce a questi ciechi dalla nascita, la legge dell’ordine vuole che la massa di perdizione non sia salvata e che si consoli della propria rovina procreando a perdifiato, per poter essere smisurata e fornire instancabilmente un esercito di vittime. Noi intravediamo quello che ci attende e regoliamo la nostra condotta in base a quello che gli occhi ci insegnano, avvertendo altresì che i mortali, per la maggior parte, non capiscono nulla ed escono dal loro sogno solo per piombare nella disperazione, poiché non hanno altra legge se non quella di subire ciò che non comprendono.
L’ora degli esorcismi e delle congiure è trascorsa; qualunque cosa accada, è trascorso il tempo della preghiera. Le nostre religioni non ci servono più a nulla e i credenti non hanno più motivo di esistere, giacché le prime ci ingannano sulla nostra evidenza e secondi non ripenseranno il mondo:! ma se il mondo che abitiamo non viene ripensato, noi non vi dureremo tre generazioni di più, non possiamo ingannarci per tre generazioni di seguito sulla nostra evidenza. Ormai possediamo mezzi che ci giudicano, e i nostri sistemi ispirati non sono in grado di dominarli, il tempo del pensiero si annuncia e l’ora della meditazione ha inizio. In verità, la massa di perdizione è formata proprio dai credenti, i credenti sono di troppo tra noi e il nostro futuro, cosi la loro ricompensa sarà la morte, e mai ricompensa parve più meritata. Non è bene che ci governino dei ciechi e che essi siano onorati in quanto tali: non è lecito che dei Capi di Stato menino vanto della loro superstizione, né che si siano messi a onorare della loro presenza le cerimonie dei culti. L’uomo degno di questo nome, al giorno d’oggi, non crede in niente, e se ne gloria.
Abbiamo bisogno di una Rivelazione nuova, e intanto quelle trascorse sono sorpassate o, peggio, fonti dì disordine. Stiamo andando alla morte con il sostegno di tutte le autorità morali. Con la sanzione di tutte le autorità religiose stiamo andando verso la morte universale e non vi è nulla che lo impedisca, le nostre tradizioni approvano apertamente che vi si tenda e nella stessa direzione ci spingono i nostri valori così come i nostri interessi, mai si è visto accordo più unanime. La Terra è divenuta l’altare degli olocausti e l’umanità, presa da vertigine, vi sale a immolarsi, calpestando quei pochi che denunciano l’impostura. Adesso sappiamo,adesso che è troppo tardi, sappiamo che ogni sacrificio quaggiù è solo un’impostura, e l’impostura più grande, ma lo abbiamo appreso in punto di morte. Domani la Rivelazione nuova illuminerà i resti dell’umanità su quanto vi è di assurdo nell’immolazione, la generazione attuale è già condannata, non c’è più ritorno, l’altare degli olocausti sta fumando e la nostra specie si accinge ad alimentarlo, alimentarlo con grida d’amore, nella speranza di sfuggire alla propria condizione, una condizione divenuta inumana.
La fede non salva più gli nomini, anzi, li scaglia incontro alla morte, la fede è solo ingordigia e fornicazione, ma ingordigia e fornicazione non ci insegnano a riflettere. Giacché non si tratta più di dare se stessi, sarebbe troppo facile; non si tratta più di portare la propria croce, sarebbe troppo comodo; non si tratta più di imitare qualcuno e tanto meno di seguirlo, sarebbe solo una scappatoia: bisogna ormai ripensare il mondo e valutare la nostra evidenza, misurare e pesare e gettare nuove basi, questi doveri hanno la precedenza sugli altri. Ma essi non sembrano alla portata della maggioranza degli nomini, cosi la gran parte di questi, non potendo adempierli, saia colpevole, colpevole e punita, senza nemmeno capire che cosa le stia accadendo. La massa di perdizione è opera del caos, essa è caos e ritorna al caos, non dobbiamo piangerne la morte, perché è un esercito di ombre, e le ombre abortite non hanno che una parvenza di vita in seno all’equivoco: proprio per queste ombre erano fatte le religioni, esse le consolavano della loro abiezione, ma ne perpetuavano l’abiezione.
Non sappiamo quali dèi adoreranno i secoli futuri, noi crediamo nell’avvento di un ordine in cui il principio femminile prenderà il posto che riserviamo in Cielo al Padre, divenuto per noi Padre del caos e della morte. Noi caldeggiamo la promozione di Maria: Maria, che nei Quattro Vangeli non era nulla, sale definitivamente in Cielo, del quale prende possesso dopo duemila anni, è Magna Mater risuscitai,! e Gesù non è più che la sua appendice, ma le manca sempre una metà di se stessa. I secoli a venire ripristineranno l’integrità della Dea, giacché non basta che ella sia Vergine e Madre, bisogna anche che sia Prostituta e che assorba la figura della Maddalena, con la quale si ha il compimento dell’integrità. Allora e soltanto allora potremo celebrare il matrimonio del Cielo con la Terra, allora e soltanto allora rinunceremo all’idea di sacrificio, allora e soltanto allora la pace sarà perpetua e il principio femminile padrone assoluto del mondo, come prima della Storia, allora e soltanto allora il movimento si arresterà affinché l’immobilità regni, allora e soltanto allora il centro sarà riconquistato e lo spazio verrà organizzato a partire da quel centro.
Ma prima niente sarà risolto, perché non possiamo mutare principio senza far regnare la dismisura e senza far scoppiare lo scandalo, la buona volontà non basta a preservare un ordine che il futuro respinge e che si perpetua estinguendo la nostra evidenza, ordine – di morte del quale il caos sarà legatario. Non possiamo evitare la sventura né la sua logica infallibile, siamo condannati a subire lo svolgimento delle fasi, alcune prevedibili, altre impreviste, non arresteremo il movimento che ci travolge: gli uomini continueranno a procreare, le donne a partorire, e per alimentare la massa di perdizione si farà qualsiasi cosa e si ipotecherà il futuro. I nostri discendenti, ridotti a una qualche infima porzione dell’umanità attuale, erediteranno un mondo devastato, la cui bellezza sarà solo un ricordo, impiegheranno secoli a restaurarlo, limiteranno le nascite per dar respiro al suolo e lasciar purificare le acque, non ci sarà pericolo che violentino l’ecumene né che deducano i loro dèi dalle sue leggi, non immoleranno più l’evidenza all’illusione della trascendenza, rimarranno fedeli alla Terra obbligando il Cielo a santificarla.
Perciò andiamo verso la morte, senza speranza di salvezza, alienali e posseduti, poiché la Storia non ci risparmia e ci consegna alla Fatalità, sempre più potente a causa delle nostre opere. E troppo lardi, questa è l’unica certezza, siamo in brandelli e non riusciamo più neanche a supporre una sintesi, già non possiamo più capire noi stessi né rispondere di noi, ci cerchiamo sfuggendoci, e in questa fuga troviamo un modo per sottrarci alla coerenza. Il movimento, che più non si arresta, ci disgrega, e noi vi consentiamo con piacere, approviamo in cuor nostro ciò che fingiamo di deplorare, gioiamo del caos che si è insinuato nell’ordine più dispotico e ci prendiamo delle libertà letali a scapito dei nostri lini. L’umanità vuole pienamente ciò che deve subire, rinuncia a ciò che aveva e noi non la obbligheremo a smentirsi, essa si rifiuta di capire quel poco che intuisce, detesta chi la mette in guardia, e di comune accordo il potere civile e il potere religioso ridurranno al silenzio quei pochissimi che disingannano i ciechi turbando i sordi.
La libertà di incoerenza ha sostituito le altre e non vi rinunceremo più, le arti la illustrano e la letteratura la riflette, anzi, le scienze se ne avvalgono e i maggiori scienziati rinunciano all’idea stessa di sintesi. Ora, eliminata l’idea di sintesi, la coerenza è impossibile e l’Umanesimo è soltanto una parola vana; da molto tempo la misura non è più di moda e nessuno si preoccupa di conservarla, ma con essa viene a cadere un secondo elemento dell’Umanesimo; quanto al terzo, l’oggettività, non abbiamo più il distacco necessario, ed è un altro paradosso il trionfo della soggettività tra gli uomini d’oggi nonostante la lezione delle scienze, più oggettive che mai. Ecco perché il labirinto è la raffigurazione della nostra evidenza, la sua immagine ci dà il compendio del nostro tempo, il labirinto è molteplice e noi non riusciamo già più a stringere rapporti, non abbiamo più un denominatore comune, siamo irreali e lieti di esserlo. Sarebbe forse di moda la parola comunicazione se la comunione non fosse problematica? In verità, siamo una miriade di solitudini, eppure vaghiamo confusi, in preda a ciò che, mescolandoci, non cessa di isolarci.
Dal falso usciamo solo attraverso la collera, ma appena torniamo in noi, rientriamo nel falso e, non potendo accostarci al vero senza piombare nella disperazione e nella furia, parliamo di autenticità, per non dover ammettere che stiamo mentendo ancora. Siamo arrivati al punto di mentire su due piani, che contrapponiamo al fine di persuaderci che l’obiettività conserva i suoi diritti, parliamo persino di dialettica quando stiamo per cambiare piano, l’essenziale della faccenda è agitarci anziché muoverci e sottrarci al confronto anziché cercarlo. Così fermentiamo in una sfera chiusa, nella quale ci esibiamo, e la logomachia è sempre trionfante, ma questa sfera è travolta da una Storia ormai fatale e che determineremo sempre meno, un vortice al quale le nostre opere hanno impresso nostro malgrado una scossa decisiva senza che le nostre idee riescano a tenergli dietro. Abbiamo cessato di capire noi stessi, rinunciato a farci carico di noi e sprofondiamo in uno stato in cui ci crogioliamo e dal quale soltanto la catastrofe ci farà uscire; manchiamo di virilità di fronte alla nostra evidenza, davanti al destino siamo donne.
I nostri intellettuali sanno soltanto recitare e i nostri spirituali soltanto mentire, nessuno si preoccupa di ripensare il mondo, nessuno ci suggerisce come valutare l’evidenza, vogliono tutti far carriera e si è ammirati della loro arte di trattarsi con riguardo senza mai venir meno alle convenienze. Diventiamo sempre più conservatori, al punto di mantenere in vita le anticaglie più sorpassate e più vergognose, le nostre rivoluzioni sono puramente verbali e cambiamo le parole per aver l’illusione di riformare le cose, abbiamo paura di tutto e di noi stessi, troviamo il modo di eliminare l’audacia esasperandola e di tenere occupata la follia portandola all’estremo, non ci opponiamo a nulla e facciamo abortire tutto, è il trionfo della dismisura infeudata nell’impotenza. E cosi procediamo verso la morte, intendo dire la morte universale (salvo qualche avanzo), incaricata di chiudere la Storia. Le nostre tradizioni ce l’hanno profetizzata, quelle tradizioni sono coerenti e quando ce ne facciamo beffe siamo in malafede, nessuna certezza prevale sui loro vaticini e nessuna probabilità li esclude.
Le nostre tradizioni non avevano mentito, perché erano umane e conoscevano l’uomo, nonostante la loro ignoranza del mondo, e noi, che conosciamo bene il mondo, e al punto che lo violenteremo sempre di più, cominciamo a ignorare l’uomo, non per mancanza di mezzi, ma a causa di una mentalità che ci rende ciechi nei nostri confronti. Poiché l’uomo è superato, non può non essere miserabile e noi ci rifiutiamo di ammetterlo, questa miseria ci disturba, ostacola i nostri disegni e noi la esorcizziamo, la sfuggiamo e la respingiamo in quanto rivela il fallimento delle nostre opere. Ora, il superamento è il nostro idolo e ormai gli sacrifichiamo la coerenza, pei amor suo rinunciamo all’idea di sintesi, bruceremo uno dopo l’altro i nostri valori e le nostre ragioni di vita, ma l’idolo è insaziabile e saremo costretti a offrirci in olocausto. Ciò che i nostri giovani disperati hanno imparato a fare, saremo in milioni a farlo domani, la concretizzazione sarà l’atto per eccellenza nel quale la follia e la saggezza, in un estremo superamento, opereranno la loro sintesi, affinché la morte sia l’unica a vivere e il caos l’unico a rivestire gii attributi dell’ordine.
Il ritorno all’origine è il primo dovere, altrimenti l’uomo è finito. Perciò i rari pensatori degni di questo nome si occupano di ontologia e di etimologia per ristabilire una metafisica, mentre le menti piccine, preoccupate di stare al passo con la moda, si immergono nella contemplazione del sociale, questo dettaglio subalterno. Giacché la società non è nulla, essa è una forma che ha per contenuto la massa di perdizione, è la mischia dei sonnambuli spermatici, qualcosa di infinitamente spregevole che il filosofo non prenderà affatto in considerazione. La Storia è opera dei grandi uomini, è il campo chiuso in cui si misurano le élites, la folla è ammessa allo spettacolo, e quando è coinvolta nella rovina i suoi morti non contano più delle mosche. Una delle aberrazioni del nostro tempo è di aver moltiplicato la tomba del Milite Ignoto: così facendo, abbiamo offerto garanzie ai peggiori sovversivi, poiché l’anonimato fa da scudo a chi è generato dal caos, insomma il caos ha in mezzo a noi altari sui quali già lo riveriamo. Gli idoli anonimi sono le porte attraverso le quali il caos entra in campo, le porte rimarranno aperte affinché il caos possa invadere tutto.
La catastrofe è necessaria, la catastrofe è desiderabile, la catastrofe è legittima, la catastrofe è provvidenziale, il mondo non si rinnova a minor prezzo, e se non si rinnova dovrà scomparire con gii uomini che lo infettano. Gli uomini si sono diffusi nell’universo come una lebbra, e più si moltiplicano più lo snaturano, essi credono di servire i propri dèi divenendo sempre più numerosi, i bottegai e i preti approvano la loro fecondità, gli uni perché essa li arricchisce, gii altri, invece, perché li accredita. Gli scienziati possono pur darti l’allarme, la loro voce è quasi sempre soffocata, gli interessi della morale e del commercio hanno stretto un’alleanza indefettibile, il denaro e la spiritualità non tollerano che il movimento si arresti, i bottegai vogliono consumatori, i preti vogliono famiglie, la guerra li spaventa meno dello spopolamento: è nei bottegai e nei preti che l’ordine per la morte trova i suoi sostegni più solidi. L’umanità dovrà ricordarsi di questa cospirazione, e quando la sventura sarà divenuta pane quotidiano dovrà punire coloro che, per il solo fatto di esistere, la consegnano al caos.
L’unico rimedio alla miseria consiste nella sterilità dei miserabili, ma l’ordine per la morte, l’ordine dei bottegai e dei preti, ci vieta persino di parlarne. I bottegai e i preti vogliono arricchirsi e dominare, vogliono il profitto materiale e il credito morale, li ottengono dalla nostra idiozia, giacché il nostro disinganno sarebbe la loro fine, così come sarebbe la fine della miseria. Le nostre tradizioni sono sorpassate e i loro sostenitori sono canaglie, coloro che ci predicano l’osservanza hanno per scopo la perpetuazione del proprio dominio, fosse pure a prezzo della nostra morte. Il nostro dovere è profanare ciò che essi venerano, giacché senza la profanazione il mutamento non mette radici, e più tardiamo a cambiare, più incorreremo in sofferenze e martirii. Ora mi rivolgo a tutti e dico alla massa di perdizione che potrebbe sfuggire alla rovina cessando di costituite una moltitudine senza volto, le converrà ormai prosciugare le sorgenti di vita e capire che non c’è altro vizio al mondo se non quello di essere poveri, poiché ogni povero diventa un criminale non appena, facendo nascere un altro povero, offre alla miseria una nuova garanzia.
Le nostre rivoluzioni sono abortite una dopo l’altra, ed è giusto, nessuna osò toccare l’essenziale, ognuna volle essere legataria universale di un passato che, rifluendo su di essa, la .stroncò sul nascere. In verità, noi dobbiamo cambiare asse e lo faremo sicuramente dopo la catastrofe, prima continueremo a errare e non avanzeremo di un passo nel cammino in cui ci ostineremo a inoltrarci. È lo statuto familiare quello che un giorno dovremo modificale dà cima a fondo, giacché le famiglie tradizionali sono popolatrici, e tutti i moralisti si sono profusi nel lodarle. Noi vogliamo prendete in parola questi moralisti, e poiché la fecondità è divenuta criminale, un giorno infieriremo contro il crimine, sconvolgendo lo statuto familiare. Inoltre è qui che ha sede la scuola della schiavitù, ed è per questo che i tiranni amano le famiglie tradizionali, in cui la donna è serva e i figli sottomessi, mentre il padre – fosse pure osceno, ridicolo e miserabile – è padrone in casa sua e archetipo dei nostri principi, proprio cosi, modello vivente dei nostri dèi e dei nostri re! Questo assetto è durato troppo, la massa di perdizione ne è la conseguenza.
Un mondo popolato da Onanisti e da Sodomiti sarebbe meno miserabile del nostro, questa è la verità. Siamo sventurati perché adempiamo un dovere immaginario e ci uniformiamo a precetti superati, ma il dovere non ci sottrae alla nostra abiezione e i precetti ci fanno perseverare in essa. L’ordine morale, che domina su di noi da venti secoli, ha fatto il suo tempo e ora ne constatiamo la barbarie, quest’ordine sopravvive a se stesso e noi ne moriremo, innumerevoli, oggi esso invoca la tolleranza che ha sempre rifiutato alle sue vittime, predica la fratellanza di cui non si è mai curato, parla di trasformarsi, proprio lui che si era vantato di essere immutabile, vorrebbe accaparrarsi il l’innovamento per riempirne i suoi vecchi otri, esecra ciò che si prepara e, non potendo impedire nulla, dà spettacolo promettendoci mari e monti. Dopo la catastrofe, di cui è la prima causa efficiente, l’ordine morale sarà vittima a sua volta, e si conserveranno i suoi resti perché la riprovazione possa colpire qualcuno di noi rimasto in vita e gli uomini possano accanirsi contro altri uomini nei quali si concentri e si incarni il male del mondo.
Stiamo entrando nella notte e ne usciremo soltanto ridotti a miseri resti, siamo troppo numerosi, saremo ancora più numerosi e saremo sempre più numerosi, affinché il caos trionfi e la morte possa saziarsi. I padroni sono i nostri nemici e gli spirituali i nostri seduttori e i loro complici, siamo orfani e non vogliamo farcene una ragione, cerchiamo dovunque padri e madri, ce ne promettono persino in Cielo e noi li invochiamo dal fondo degli abissi in cui l’ordine morale ci fa permanere. Nell’universo futuro non ci sarà massa di perdizione, non già perché gii uomini saranno tutti felici, ma perché non ci sarà più massa. Con cento milioni di esseri umani la Terra diventerebbe il Paradiso; con i miliardi che la divorano e la insozzano sarà l’Inferno da un polo all’altro, la prigione della specie, la stanza della tortura universale e la cloaca gremita di folli mistici che campano nel loro lerciume. La massa è il peccato dell’ordine, è il sottoprodotto della morale e della fede, basta questo per condannare l’ordine, la morale e la fede, giacché non servono che a moltiplicare gli uomini e a tramutarli in insetti.
Io sono uno dei profeti del mio tempo, e non avendo diritto alla parola scrivo ciò che ho da dire. Intorno a me la follia, la stupidità e l’ignoranza si alternano con la menzogna e il calcolo, sostenuti, le une come gli altri, dalle virtù, perché il tragico della faccenda, che i moralisti non vogliono ammettere, è che il mondo scoppia di virtù, penso che mai se ne siano viste tante. Nonostante tutte queste virtù, stiamo andando al caos, le virtù non ci preservano dalla morte universale, e anzi mi chiedo se le virtù non siano di troppo fra noi e la coerenza, che è misura dell’oggettività. Le virtù non ci salvano dall’ordine’ e l’ordine si serve di esse per rovinarci, oggi siamo vittime di un sistema che ci inganna sui nostri interessi e ci sacrifica ai suoi, persuadendoci altresì che sono i nostri. Sicché tutti noi crediamo di agire bene e facciamo a chi si inganna di più, con la follia come ricompensa e la stupidità come clima abituale, nel quale l’ignoranza appare il primo dovere, per dare campo libero alla menzogna e al calcolo. Siamo rimasti fanciulli e tali rimarremo, finché esisterà la famiglia.
La famiglia è un’istituzione che un giorno bisognerà superare, essa non ha più ragione di esistere: nella maggioranza dei casi è popolatrice, e l’universo è sovrappopolato, inoltre è fonte delle nostre idee più contestabili, e noi non possiamo permetterci il lusso di perpetuare le idee sbagliate in mezzo a opere la cui esattezza fa spavento. Si devono tollerare soltanto le famiglie eugenetiche, e sappiamo che sono rare, le altre finiranno col sembrarci indesiderabili, e in un mondo minacciato dalla povertà ogni famiglia povera aumenta la miseria, ogni famiglia povera è già criminale per il solo fatto di esistere. Persuadiamoci che la carità è puro delirio e che il suo abbraccio contamina, è meglio uccidersi che esserne vittime, servendo da trapezio alle anime caritatevoli. La promiscuità, destino degli indigenti di qualsiasi paese o epoca, è, nonostante il silenzio delle autorità religiose e morali, il colmo dell’abiezione: ma nessuno se ne è preoccupato da cinquanta secoli a questa parte, perché l’ordine preferiva l’abiezione al suo rimedio, ossia la sterilità. L’ordine è sempre stato disumano, e l’ordine morale il più disumano di tutti.
Sarà l’immoralità a salvare il mondo, saranno il rilassamento e la mollezza, sarà il rifiuto dei sacrifici di qualsiasi genere e l’abbandono delle virtù militatiti, saranno il disprezzo per tutto ciò che giudichiamo rispettabile e il consenso alla frivolezza, sarà l’effeminamento a liberarci dall’incubo verso cui la virilità ci indirizza e da cui essa non uscirà mai, perché l’uomo è sposo della morte e la morte informa le sue azioni. La guerra è l’elemento dell’uomo e l’uomo vi si prepara, la guerra è la sua ragione d’essere, e se la pace perpetua ci fosse restituita, come prima della Storia, ai tempi in cui la donna era padrona e insieme sacerdotessa, il potete temporale e il potere spirituale gli sfuggirebbero di mano, e come cinquanta secoli or sono egli rientrerebbe nel nulla, quel nulla da cui la morte lo fa uscire, la morte, l’ordine morale, la guerra e la necessità delle virtù militanti, l’apparato della barbarie legale e l’instaurazione della disumanità sistematica. L’uomo ha bisogno di legittimare la sua preminenza organizzando la sventura, solo a questo prezzo si tende indispensabile, ma questo prezzo, per quanto tempo ancora potremo pagarlo?
In verità l’uomo non ha cuore, da sempre la sua carità non è che un esercizio, per non essere violento egli deve farsi violenza, e l’ordine che instaura si fonda sul delitto. I popoli antichi, quelli di prima della Storia, erano più semplici e più miti di quelli a cui dobbiamo i nostri imperativi e le nostre tradizioni, essi erano governati da donne e noi li giudichiamo immorali, ma questa fama l’avevano creata i loro vincitori, ai quali continuiamo a ispirarci. L’uomo oggi sembra giunto alla fine, e poiché i suoi imperativi atroci si uniscono ai suoi mezzi smisurati, non gli resta che prepararsi all’olocausto ecumenico, nel quale domani si vedrà il coronamento delle sue opere. Giacché noi usciremo dalla nostra Storia soltanto dopo averla esaurita e non la esauriremo se non mediante la nostra immolazione, tutto il mondo dovrà diventare un cimitero perché prevalga il cambiamento di sensibilità, non abdicheremo per meno, preferiamo la nostra sventura alla riforma e lo dimostreremo, con le armi in pugno continueremo a seguire coloro che ci indicheranno la via della morte, e saremo fieri di seguirli.
Il mondo che abitiamo è duro, freddo, cupo, ingiusto e metodico, i suoi governanti sono o imbecilli patetici o veri scellerati, nessuno è più all’altezza dei tempi, siamo tutti quanti superati, piccoli e grandi, la legittimità appare inconcepibile e il potere non è tale che di fatto, è un ripiego a cui ci si rassegna. Se si sterminassero da un polo all’altro tutte le classi dominanti, nulla cambierebbe, l’ordine instaurato cinquanta secoli or sono non ne sarebbe minimamente scosso, il cammino verso la morte non si arresterebbe più un solo giorno e i ribelli trionfanti non avrebbero altra scelta che essere i legatari delle tradizioni sorpassate e degli imperativi assurdi. La farsa è finita, comincia la tragedia, il mondo diventerà sempre più duro, più freddo, più cupo e più ingiusto, e, nonostante – il caos dilagante, sempre più metodico: anzi, è proprio l’unione della mentalità sistematica con il disordine a sembrarmi il suo carattere meno eccepibile, mai si vedranno più disciplina e più assurdità, più calcolo e più paradossi, insomma più problemi risolti, ma risolti inutilmente.
Albert Caraco
BREVIARIO DEL CAOS
(parte terza)
Poiché la morte è il senso di ogni cosa, è lecito supporre che la Storia, essendo incominciata, dovrà finire. Ci fu un mondo prima della Storia e si presume che la Storia, essendo viva, non abbia il privilegio dell’eternità, mentre la Salvezza ha inizio dove cessa la nostra Storia. Giacché la Metafisica esisteva da ben prima della Storia e l’uomo è anzitutto un animale metafisico, lo era da almeno centomila anni quando si è aperta la parentesi della Storia, e quando si sarà richiusa, l’uomo vivrà senza di essa, con il proprio fine ultimo. Allora e soltanto allora la Storia acquisterà senso acquistando forma e, divenuta un tutto, sarà oggetto delle meditazioni senza tempo della specie, ma oggi possiamo solo interrogarci su di essa e subirla al pari delle nostre opere, pur sapendo che ci porta alla rovina. In verità noi corriamo verso la morte lungo un piano sempre più inclinato, le rotoliamo incontro, ci precipitiamo verso di lei, ebbri e consenzienti, perché quanto più gli uomini sono virili, tanto meno temono di perire e tanto più la morte sembra loro una festa in cui sono riposte le loro ragioni di vita. Giacché lo scotto delle nostre virtù sarà sempre soltanto l’olocausto.
Non potremo cambiare le nostre città se non distruggendole, fosse pure insieme agii uomini che le popolano, e verrà il giorno in cui plaudiremo a quest’olocausto. Allora non indietreggeremo più davanti a nulla e faremo a chi si mostrerà più barbaro, diventeremo i sacerdoti del caos e della morte, la nostra vittima sarà l’ordine e lo immoleremo perché cessi l’assurdo, supereremo i flagelli naturali raddoppiandone la perniciosità. In questo modo puniremo coloro che sono nati indesiderabili e che si illudevano di continuare a moltiplicarsi, insegneremo loro che vivere è un abuso, mai un diritto, e che meritano di morire, perché occupano troppo posto aumentando la “bruttezza del mondo, oberato di uomini in soprannumero. Noi vogliamo restaurare e perciò progettiamo di distruggere, vogliamo ritrovare un’armonia e perciò armiamo il caos del nostro amore, vogliamo rinnovare tutto e perciò non risparmieremo più nulla. Giacché se i viventi scelgono di essere insetti e di pullulare nelle tenebre, nel frastuono e nel tanfo, noi siamo qui per impedirglielo e salvare l’Uomo sterminandoli.
Quando gli uomini sapranno che non vi è più rimedio se non nella morte, benediranno coloro che li ammazzano, perché così non dovranno uccidersi da sé. Poiché tutti i nostri problemi sono insolubili e altri se ne aggiungono in continuazione a quelli che non riusciamo già più a risolvere, bisognerà pure che la smania di vivere in cui ci consumiamo si esaurisca e la prostrazione faccia seguito all’ottimismo criminale, che mi pare l’ignominia di questi tempi. La prosperità dei paesi ricchi non durerà eternamente in un mondo che affonda nella miseria assoluta, e poiché è troppi) tardi per far sì che ne esca, essi non avranno altra scelta che sterminare i poveri o essere poveri a loro volta, e nel caso in cui decidano per la soluzione più barbara, neanche loro eviteranno più il caos e la morte. Quindi, qualunque cosa si intraprenda, si arriverà solo all’orrore, e poiché l’ingegno dei mezzi non si comunica a noi, ineluttabilmente seguiremo Icaro nella sua caduta o Fetonte nel suo abisso, non credo più nel futuro della scienza, e poiché il mutamento dell’uomo non è che un’ingannevole chimera, i nostri discendenti dovranno riprendere il sopravvento sul caos e sulla morte in cui noi ci perderemo.
Il mondo è brutto, lo sarà sempre di più, le foreste cadono sotto la scure, le città dilagano inghiottendo ogni cosa e dappertutto i deserti si espandono, anche i deserti sono opera dell’uomo, la morte della terra è l’ombra che gettano a distanza le città, e ora vi si aggiunge la morte dell’acqua, poi sarà la morte dell’aria, ma il quarto elemento, il fuoco, rimarrà perché gli altri siano vendicati, è per opera del fuoco che noi moriremo a nostra volta. Stiamo andando verso la morte universale e i più accorti lo sanno, sanno che non vi è rimedio a queste calamità scatenate dalle opere, essi sono tragici tra i frivoli, osservano il silenzio in mezzo ai ciarloni, lasciano sperare agli uni ciò che gli altri promettono loro, non si danno più pensiero di avvertire i primi né di, confondere i secondi, ritengono che il mondo meriti di perire e che la catastrofe sia preferibile a questo rigoglio nell’orrore assoluto e nella laidezza totale, che ci saranno risparmiati solo a prezzo della rovina. Ben venga allora la rovina, e la dissoluzione si compia! Preferiamo l’irreparabile alla sopravvivenza in un aborto perpetuo.
Tutto si sgretola e tutto si disgrega, le nozioni – che ritenevamo acquisite – si disfanno, il grande rivolgimento ha inizio e tutti distruggono gli strumenti di cui si servivano i nostri padri. Nei paesi in cui regna la censura ci si affanna a negar e l’evidenza; nei paesi in cui è stata abolita si dice qualsiasi cosa: la differenza appare impercettibile, giacché mentire o perdersi è lo stesso, e si suppone che chi mente andrà a raggiungere un giorno o l’altro chi si è perduto. Le Muse hanno abbandonato la Terra e ormai da parecchie generazioni le belle arti sono morte, gli impostoli hanno campo libero e mai se ne videro di più incredibili, ma la cosa più triste è che coloro che si oppongono alla loro impostura non hanno niente da proporci, nient’altro che banalità. Le nostre città sono incubi, i loro abitanti diventano simili alle termiti, tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più costruir e templi, palazzi o tombe, piazze trionfali o anfiteatri. A ogni passo la vista è offesa, l’orecchio assordato e l’olfatto messo a dura prova, presto ci chiederemo: «A che serve l’ordine?».
Diecimila leghe non ci faranno avanzare di un passo, visto che il mondo è sempre di più lo stesso, a parte la miseria, che crea un po’ di differenza tra le nazioni. A che prò viaggiare? A che prò evadere? Altrove noi ritroviamo tutto”quello che lasciamo qui, la prigione torna a chiudersi e ne usciremo solo morti, la Luna e i Pianeti sono inabitabili. E mai possibile credere ancora nella bontà del Cielo, quando gli Infèrni sono una miriade, Inferni di fiamme come Infèrni di ghiaccio? Che razza di Creazione è mai questa in cui la vita non è che un epifenomeno e l’uomo un accidente? Che razza di ordine naturale è mai questo in cui per una sola riuscita mille aborti preludono a mille agonie? Il Bello, il Buono, il Giusto e tutto quello che giudichiamo mirabile non sono il riflesso di una Provvidenza – ahimè – immaginaria, ma qualcosa che si genera in noi, ha le sue radici solo in noi, e non dobbiamo pili cercarne altrove il modello e il fine, esso è frutto della nostra stessa sovrana eccellenza, esso prova altresì che gli uomini non possono essere eguali e che c’è un abisso tra la massa di perdizione, fatta a immagine del caos e sempre degna di perire, e gli eletti, nei quali albergano la luce e l’ordine.
I nostri scienziati riempiranno il mondo di giocattoli costosi, sono bambinoni che giocano a violentare la natura, e che noi ammiriamo talvolta a torto, visto che i servigi che ci rendono sono sempre più discutibili. Nessuno ormai può prevedere dove ci portino questa o quella scoperta, sono altrettante strade aperte alla Fatalità e non più al genere umano, per quanto la sorgente sgorghi fra le nostre mani, il corso del fiume ci sfugge, il mondo ridiventa inconoscibile e noi non possiamo prenderne atto, a meno di accasciare i semplici, che si attendono il miracolo, non la catastrofe. Un riassetto è ormai impossibile, il mondo è in brandelli, né è più immaginabile una sintesi nel pieno di un cambiamento perpetuo, bisognerebbe arrestare il movimento per poter considerare metodicamente tutto con distacco: ma non è in nostro potere frenare il flusso che ci travolge, i più accorti sentono da anni che è troppo tardi, stiamo andando verso il caos, stiamo andando verso la morte, stiamo preparando la più colossale catastrofe di tutta la Storia, quella che chiuderà la Storia e da cui i sopravvissuti saranno segnati sino alla fine dei tempi.
Noi odiamo un mondo pieno di insetti, e chi ci assicura che sono uomini mente: la massa di perdizione non è mai stata costituita da uomini, ma da reprobi, e perché mai un automa spermatico dovrebbe essere il mio prossimo? Se il mio prossimo deve essere questo, allora dico che non esiste e che è mio dovere non assomigliargli in nulla. La carità è solo un raggiro e coloro che me la vogliono insegnare sono miei avversari, la carità non salva un mondo pieno di insetti, che sanno soltanto divorarlo imbrattandolo con il loro lerciume: non si deve né prestar loro assistenza né ostacolare le malattie che li decimano, più ne muoiono e meglio sarà per noi, giacché non avremo bisogno di sterminarli. Stiamo entrando in un futuro barbaro e dobbiamo armarci della sua barbarie, per adeguarci alla sua dismisura e resistere alla sua incoerenza, non abbiamo altra scelta che mantenere o abdicare, non abbiamo altra scelta che contenere o cedere, dobbiamo colpire oggi chi colpirebbe domani, questa è la Tegola del gioco, e coloro che ci implorano ci punirebbero subito per averla dimenticata.
A che prò illuderci? Diventeremo atroci, verranno a mancarci terra e acqua, forse verrà a mancarci l’aria e ci stermineremo per campare, finiremo per divorarci l’un l’altro e i nostri spirituali ci faranno compagnia in questa barbarie, siamo stati teofagi e saremo antropofago, non sarà che un ulteriore compimento. Allora si vedrà, e in modo lampante, quanto avevano di barbaro le nostre religioni: e sarà l’incarnazione dei nostri imperativi categorici, la presenza fattasi reale dei nostri dogmi, la rivelazione dei nostri misteri spaventosi e l’applicazione delle nostre leggende sette volte più disumane delle nostre leggi penali. Le arti ci nascondevano questi orrori funebri e sanguinosi, domani assaporeremo questi orrori nella loro crudezza, ne moriremo, i rari superstiti li proscriveranno insieme con i mostri che li accreditano e li perpetuano. Che cosa sono mai i nostri mezzi più micidiali paragonati alle nostre tradizioni? E queste tradizioni, alle quali teniamo più che a noi stessi, troveranno mezzi ormai alla loro altezza e ci costringeranno, per la prima volta, a porgere la gola, affinché tutto sia consumato.
Siamo alla fine dei tempi e perciò tutto si dissolve, il nostro futuro si annuncia moltiplicando i disordini, la lezione della Storia è che il cambiamento si paga e il prezzo della metamorfosi è il più alto che ci sia: ora, noi ci trasformiamo, fosse pure nostro malgrado, non sappiamo che cosa diveniamo e le parole che servono a definirci ci abbandonano strada facendo. Le forme si aprono e i contenuti sfuggono, i pesi e le misure sono falsati, il giudizio degli uomini più accorti si smarrisce e la bassa lega trionfa impunemente insieme agli impostori che la accreditano. Le nostre lingue degenerano e le più belle si fanno brutte, le più conosciute si fanno oscure, la poesia è morta, la prosa può solo scegliere tra il caos e la banalità. Le arti sono svanite già da molte generazioni e i nostri artisti più rinomati assomigliano solo a grandi saltimbanchi, che il futuro disprezzerà. Non sappiamo né costruire né scolpire né dipingere, la nostra musica è un abominio, e perciò restauriamo i monumenti antichi anziché distruggerli, perciò diveniamo conservatori di tutti gli stili, duplice ammissione di impotenza.
La simultaneità degli stili accresce la confusione delle forme, il secolo ha voluto scegliere tutto e perciò non abbiamo trovato niente, siamo come i moribondi, la Storia ci sì rivela interamente facendoci toccare il fondo della nostra impotenza. In verità, siamo in piena agonia nel momento in cui sopravvalutiamo la nostra forza, perché una forza che non conosce se stessa ha come fine il caos. Il nostro futuro è una passione, e malgrado la smania che ci anima, la mancanza di coesione ci impedirà di giungere ad alcunché, insomma giriamo in tondo, diventando preda di contenuti mentali più liberi di noi. Siamo ormai perduti, abbiamo rinunciato all’idea di sintesi e arriviamo al punto di supporre un accomodamento tra l’ordine e l’incoerenza, crediamo di poter sopravvivere impunemente a ciò che ci distrugge, siamo in brandelli e lo vedremo alla prima prova, non ci ristabiliremo più e l’orrore ci attende, un orrore indicibile, che lascerà intatto solo l’elemento intemporale, di cui non abbiamo cognizione. Giacché stiamo per morire insieme con le nostre opere e per causa loro.
Elevo un canto di morte sull’universo, e prevedo l’annientamento da un polo all’altro del mondo che abitiamo e di quelli che ci hanno preceduto e che stiamo finendo di portare alla luce affinché siano distrutti insieme con il nostro. Le cento e più città morte che abbiamo risuscitato da un capo all’altro dell’universo moriranno una seconda volta, senza resurrezione possibile, e se ne perderà anche il ricordo, i nostri musei saranno distrutti insieme con i tesori che contengono. Tutte le nazioni perderanno il loro passato, poiché la specie umana non può sopravvivere se non si osserva questa condizione preliminare, ognuna di esse deve immolare le sue profusioni, le sue leggende, le sue speranze. Questo è il senso del Giudizio Universale, in cui compariremo nudi, per ritornare sia nel nulla sia nella vita nuova, allora vedremo se i fedeli delle religioni rivelate, che da tanti secoli le loro tradizioni preparano alla prova, vorranno spropriarsi di buon grado e rispettare i loro impegni, ammireremo il loro spirito di sacrificio. Elevo un canto di morte e saluto il caos che sale dall’abisso e il terrore antico riemerso dal profondo dei tempi!
Canto il caos con la morte, la morte e il caos stanno per celebrare il loro matrimonio, l’incendio dell’ecumene illuminerà le nozze, le nostre città andranno in rovina e le loro case saranno la tomba degli insetti che le popolano e le insozzano. Giacché la soluzione dei nostri problemi sarà il fuoco, solo il fuoco ci libererà di mille paradossi insolubili e farà crollare le mura del labirinto in cui vaghiamo in preda all’equivoco, è nel fuoco che si concentra ormai la nostra speranza. Noi aspiriamo alla semplicità, la semplicità verrà a noi quando il caos sarà passalo, quando la morte avrà trionfato, quando non resterà che un uomo dove se ne vedevano brulicare a centinaia, quando la “ferra, quasi vuota, sarà restituita alla verginità, nel tempo beato in cui le foreste inghiottiranno i resti carbonizzati delle città, in cui le acque rinasceranno e i fiumi scorreranno di nuovo trasparenti, nel futuro in cui non vi sarà più massa, perché ogni massa è una massa di perdizione. Il caos e la morte ce ne separano, ma noi non temiamo né la morte né il caos, è l’universo attuale quello che aborriamo e che non vogliamo più, per nessuna ragione.
Noi invochiamo il caos e la morte sull’universo attuale e plaudiamo alla loro venuta, la perpetuità dell’ordine sarebbe peggiore, e se esso non si disgregasse, tramuterebbe gli uomini in insetti. La massa di perdizione: ecco il peccato dell’ordine, e se la massa ha invaso tutto, contaminato tutto, deterioralo tutto, ammorbato tutto, offuscato tutto, se ha reso tutto peggiore del caos stesso al punto da rendere il caos più desiderabile è perché l’ordine aveva bisogno di lei. L’ordine, che noi serviamo e che ci manda al supplizio, l’ordine ha bisogno di produttori e di consumatori, non già di uomini integri, gli uomini integri lo intralciano, a loro esso preferirà sempre gli aborti, i sonnambuli e gli automi, questa è la sua colpa, l’ordine è insieme peccatore e criminale, noi gli dobbiamo soltanto le fiamme, è grazie al fuoco che l’ordine morirà. Santo, santo, santo è il fuoco, che ci libererà dal mostro e dalle sue opere mostruose! Com’è amabile il caos vendicatore! E com’è bella la morte seconda! E come siamo lieti di attenderli e di sapere che l’uno e l’altra sono inevitabili! In verità, noi siamo già ora i conformisti del nostro domani.
L’ordine è fragile e anzi lo è sempre di più, perché riflette la sua dismisura e non supera la sua incoerenza, l’ordine è gravido della sua morte, perché riflette la sua soggettività sempre più caotica e sempre più destituita di qualsiasi ragione d’essere. I superstiti della prossima catastrofe chiameranno mondo alla rovescia quello che abitiamo, un mondo sempre più assurdo a forza di conformarsi a un ordine inaccettabile e che manteniamo a scapito del nostro fine ultimo. Giacché ritorno non è quaggiù per produrre e per consumare, produrre e consumale sono sempre stati soltanto un fatto accessorio, ciò che conta è essere e sentire che si esiste, il resto ci abbassa al rango di formiche, di termiti e di api. Noi rifiutiamo la sorte di insetti socievoli alla quale le ideologie di moda ci votano, preferiamo il caos e la morte, e sappiamo che sono in cammino, sappiamo che le nostre ideologie, dal canto loro, si precipitano immancabilmente incontro alla morte e al caos, quando si illudono di instaurare il Paradiso in Terra, il Paradiso perduto che ritroveremo sulla tomba delle masse, delle masse di perdizione.
Siamo già troppo numerosi per vivere, per vivere non da insetti ma da uomini; noi moltiplichiamo i deserti a forza di esaurire il suolo, i nostri fiumi sono ridotti a sentine e l’oceano entra a sua volta in agonia, ma la lède, la morale, l’ordine e l’interesse materiale si uniscono per condannarci alla tribù: alle religioni occorrono fedeli, alle nazioni difensori, agli industriali consumatori, il che significa che a tutti occorrono bambini, non importa quello che ne sarà una volta diventati adulti. Ci spingono incontro alla catastrofe e non possiamo mantenere i nostri fondamenti se non andando alla morte, mai si è visto paradosso più tragico, mai si è vista assurdità più palese, mai ha ricevuto più universale conferma la prova che l’universo è una creazione del caos, la vita un epifenomeno e l’uomo un accidente. Non abbiamo mai avuto nessun Padre in Cielo, siamo orfani, sta a noi comprenderlo, a noi uscire dall’infanzia, a noi rifiutarci di obbedire a chi ci fuorvia e immolare chi ci vota all’abisso, giacché nessuno ci redimerà se non ci salveremo da soli.
Ma a che serve predicare a quei miliardi di sonnambuli che vanno verso il caos con passo uniforme, sotto il pastorale dei loro seduttori spirituali e sotto il bastone dei loro padroni? Sono colpevoli perché innumerevoli, le masse di perdizione devono morire affinché una restaurazione dell’uomo sia possibile. Il mio prossimo non è un insetto cieco e sordo, il mio prossimo non è neanche un automa spermatico, il mio prossimo non sarà mai un anonimo in preda a idee oscure e confuse, questi sono i vari aborti dell’uomo e noi lasceremo che confondano nella notte la loro gioia e il loro dolore egualmente assurdi. Che ci importa del nulla di questi schiavi? Nessuno li salva né da se stessi né dall’evidenza, tutto si appresta a farli precipitare nelle tenebre, furono concepiti dai capricci degli accoppiamenti, poi nacquero alla stregua di mattoni che escono dallo stampo, ed eccoli formare file parallele in cumuli che arrivano alle stelle. Sono uomini? No. La massa di perdizione non si compone mai di uomini, giacché l’uomo ha inizio soltanto a partire dal momento in cui la folla, tomba dell’umano, si estingue.
Potremo ricostruire l’universo quando sarà distrutto e gli uomini saranno divenuti più rari delle cose. Allora e soltanto allora il nostro Umanesimo non sarà più una vana parola in mezzo ai sordi e ai ciechi, giacché non moriremo più pei’ il solo l’atto di udire e di vedere, come avviene ai nostri giorni, in cui non ci è concesso di concepire noi stessi nel timore di occupare troppo posto. Dove l’uomo è in eccesso, l’alienazione è il primo dovere, e le moltitudini lo adempiono, esse sono alienate e consenzienti ad un tempo, sono impotenti e possedute. Potremo ricostruire l’universo sulla tomba delle masse di perdizione, quelle masse generate dal caos e votate alla morte, che tutti i salvatori messi insieme, moltiplicati per mille, non riusciranno più a tirar fuori dall’abisso, giacché la salvezza non ha più senso quando si è in molti miliardi a pretenderla. Non si raddrizzano i mattoni in un muro, e l’ordine è un caos di muri che formano ormai un labirinto. Che cos’è l’uomo lì dentro? Un elemento sostituibile senza difficoltà, un elemento intercambiabile, sfornato in massa da un medesimo stampo.
I nostri peggiori nemici sono coloro che ci parlano di speranza e ci prospettano un futuro di gioia e di luce, di lavoro e di pace, in cui i nostri problemi saranno risolti e i nostri desideri appagati. A loro non costa niente rinnovare le promesse, ma a noi costa enormemente ascoltarli, e quel che abbiamo da guadagnarci sono solo idee sbagliate, più andiamo avanti e più queste idee diventano dominanti e più il giogo dell’equivoco ci piega, noi vacilliamo sotto un cumulo di nozioni o- scure e confuse, che vorrebbero essere scientifiche e ci fanno smarrire il ricordo di tutto quello che da ormai tre secoli ci aveva disincantati. La logomachia, chiamata dialettica, permette di dimostrare qualsiasi cosa, secondo le necessità del momento e l’interesse dei suoi dimostratori, perché abolisce i punti di riferimento insieme con le possibilità di resistenza: è la macchina per produrre il caos, fosse pure in nome dell’ordine, è davvero l’ultimo sforzo del nostro intelletto messo al servizio dell’assurdo e grazie al quale, la dissoluzione ha campo libero, con i suoi promotori che saranno gli ultimi a perire, dopo aver immolato tutto, continuando a sentirsi importanti nel nulla.
L’ordine prepara metodicamente la propria liquidazione osservando la disciplina che ci predica; gli scienziati moltiplicano le scoperte e l’ordine se le appropria, in preda alla follia; insomma, tutto si mette al peggio e noi perseveriamo, in nome della morale e della fede, nelle strade che a esso conducono; le tradizioni rivaleggiano in impostura e le invenzioni in malvagità, non sfuggiremo più a tale concorso di cose e l’ordine presiede all’accomodamento, in fondo al quale si spalanca il precipizio. L’assurdo ha la sua logica e noi ne sposiamo le fasi, magari crediamo di improvvisare, mentre non facciamo nulla che non rimandi a quel piano generale, che – senza volere – mettiamo in atto: è un meccanismo le cui migliaia e migliaia di ingranaggi discettano a lungo su una libertà che ritengono attributo dell’uomo, con l’ordine che si accontenta di farsene assurdamente portavoce. Siamo ciechi per dovere e ci affidiamo all’ordine, più cieco di noi e persuaso di essere chiaroveggente: è un raggiro a partita doppia e ormai nessuno sfugge al fallimento che tale operazione prepara in egual misura a tutti i popoli.
Le lezioni della Storia sono piene di eloquenza, ma noi non vogliamo più farci illuminare da esse, noi ricusiamo la Storia, al solo scopo di poter negare l’evidenza e di perseverare nelle nostre illusioni, noi crediamo nel miracolo, fosse pure abbandonandoci alla fatalità, ci lasciamo andare a ciò che ci trascina, sperando in un cambiamento che nulla giustifica, tranne la fede che abbiamo nell’utopia. È una sorta di delirio, che si è impadronito delle menti più fredde, più matematiche e più ciniche, è questo Io scotto che pagano all’idealismo, e il futuro si farà beffe di questi grandi calcolatori e di questi cosiddetti dialettici, in balia di idee oscure e confuse. Tra noi non vi è nessun responsabile che abbia il colaggio di prevedere la catastrofe e meno ancora di prenderne atto, l’imperativo categorico del nostro tempo è l’ottimismo, fosse pure sull’orlo del baratro, siamo ritornati alla magia verbale, scongiuriamo ed esorcizziamo, la cosa più strana è che la ridicolaggine dei nostri atteggiamenti sembra ormai nell’ordine delle cose, i nostri Capi dì Stato non sono più nient’altro che taumaturghi e noi, sotto di loro, non saremo nient’altro che vittime consenzienti.
Albert Caraco
BREVIARIO DEL CAOS
(parte quarta)
Ci cacciano dentro un labirinto, parlandoci della comunicazione, e ci costringono a regredire per amore del superamento futuro e dell’espansione finale. I nostri maestri non escono più dalla logomachia, e dopo aver sostituito tre dozzine di parole, che capiamo, con tre dozzine di parole sconosciute, mediante le quali creeranno un codice a loro uso e consumo, ci informano di aver gettato nuove basi e ci invitano a tributar loro ammirazione. Mai spiegazioni del mondo furono cosi miserevoli, poiché i pesi e le misure sono falsi, i punti di riferimento tutti discutibili, per non parlare poi dell’adozione di certi termini, stiamo entrando nel caos delle idee e vi siamo condotti dalla prostituzione delle parole. Nessuno è più quel che è e ognuno vuol essere diverso, rifiutando però di diventare quel che si studia di apparire, di qui i mille imbrogli inconcepibili, gli autori dei quali perdono la bussola in mezzo ai loro stessi illusionismi. Conseguenza, di ciò è uno stupore universale, e se si ascoltasse la lezione della Storia, si saprebbe che dallo stupore alla stupidità il passo è quanto mai breve.
Stiamo facendo a chi diventa più stupido, in qualsiasi campo, e le nostre invenzioni non rimediano al paradosso. Sempre più stupidi tra i nostri mezzi sempre più intelligenti, subiremo la legge di tali mezzi ed essi disporranno di noi, con nostra grande delusione, i nostri capi di Stato saranno i loro primi servitori e ci faranno cadere in una schiavitù senza fine. I nostri mezzi ci superano, ed ecco che razza di superamento ci promettono i nostri àuguri; già constatiamo che i nostri mezzi crescono, ed ecco che tazza di crescita ci dipingono gli àuguri; tra i nostri mezzi e noi non c’è più comunanza di linguaggio, e appunto per questo la parola comunicazione è di moda; i nostri mezzi ci trascinano, non sappiamo dove, in quanto il caos acquista grazie a loro una dimensione nuova, così come la necessità, entrambi a scapito della libertà, la quale stinge in libertà di incertezza… e alla fine, eccoci più sprovveduti dei nostri antenati e sul punto di allogare in un mare di controsensi. Sono bastate poche generazioni per colare a picco le navi più solide, e siamo stati noi a incaricarcene, soltanto noi, non già le tempeste della Storia.
Lo spirito di dissoluzione pervade ogni cosa, noi soccombiamo con voluttà all’orrore e, colti da provvidenziale follia, riformiamo in continuazione i programmi di studio, sopprimendo, uno dopo l’altro, gli elementi che furono i gradini della chiaroveggenza. In cambio offriamo un caos di frantumi alla generazione nascente e, rifiutando le lezioni della Storia, ci affanniamo a innovale, per essere alla moda. Sicché rinunciamo alla dialettica del mutevole e del persistente, immoliamo il secondo al primo e poi ci stupiamo di non aver più alcun punto di riferimento e di ritrovarci in mezzo ai barbari. Giacché sappiamo solo imbarbarire coloro che pretendiamo di istruire, e li rendiamo inermi di fronte alla vita fingendo di prepararveli. Nel pieno del cambiamento perpetuo, bisognava più che mai attaccarsi al persistente, bisognava più che mai coltivare il nostro Umanesimo e più che mai meditare la Filologia e la Storia, bisognava più che mai fornirci di punti di riferimento e più che mai di campioni di pesi e misure. Abbiamo capitolato in anticipo di fronte a ciò che domani ci inghiottirà, colpevoli.
Volendo incivilire la massa di perdizione, abbiamo fatto vacillare i nostri stessi fondamenti, volendo comunicare tutto a tutti, abbiamo rimesso in discussione centinaia di soluzioni ormai acquisite, e c’è bisogno di chiedersi quale sarà la nostra ricompensa? La partita è persa, la massa di perdizione riduce al suo livello ciò che potrebbe elevarla, gravita trascinando con sé gli strumenti che la nostra presunzione ha offerto alla sua indegnità, trascinando a volte anche noi al loro seguito. Diventa difficile mantenere ciò che resta dei nostri privilegi né possiamo più riconquistarli, ormai, nel baratro in cui a torto cerchiamo la legittimità futura. Dall’abisso non può salire alcuna legittimità, abbiamo fatta nostra l’illusione degli utopisti, ma la sentina sociale non redimerà l’universo, e quanto ai santi che hanno intenzione di gettarvisi, vi rimarranno senza speranza di uscirne. La salvezza della specie sì compirà a scapito della massa, la massa è il caos che ha assunto un volto umano e che noi ricacceremo nell’abisso delle sue opere future; ci saranno soltanto uomini, le folle saranno sparite portandosi via il male.
Pochi uomini sopravviveranno alla catastrofe definitiva, in cui perirà la massa di perdizione, generata dal male e dedita al male, cui è consustanziale. Domani l’umanità sarà il resto prezioso che vorrà sempre rimanere resto, allora la superstizione del numero scomparirà fino alla consumazione dei secoli, e la lezione della Storia che fra tutte si preferirà ricordare sarà questa: «Non crescete e non moltiplicatevi mai, la fonte della sventura è la fecondità, abbiate il timore di esaurire le risorse della feria e di lordare la sua candida veste, rifiutate la sorte di insetti e ricordatevi di quegli esseri abortiti, arsi dal fuoco a miliardi, che campavano in mezzo ai rifiuti e bevevano le loro deiezioni, in cinque o sei dentro a una stanza, in una caterva di città mostruose invasi dal frastuono e dal tanfo, nelle quali non spuntava albero. Questi furono i vostri padri, rammentatevi la loro abiezione e non ispiratevi al loro esempio, disprezzate la loro morale e ripudiate la loro fede, egualmente immonde, essi furono puniti per essere rimasti fanciulli e per aver cercato un Padre in Cielo. Il Cielo è vuoto, e voi sarete orfani, per vivere e per morire da uomini liberi».
E ora stiamo entrando nella Grande Notte, con le armi in pugno, vittime e vittimari ad un tempo, alienati e posseduti, figli del caos, accoliti della morte. Giacché moriremo prima a milioni e poi a miliardi, e continueremo a morire fino a che la massa di perdizione non sia estinta e l’universo guarito da questa lebbra, la lebbra degli esseri umani che Io divorano in soprannumero. Solo a questo prezzo l’universo cambierà, solo a questo prezzo la Salvezza, di cui ci parlano da duemila anni, cesserà di essere un’ipotesi, e solo sulla tomba delle nazioni, annientate insieme con i loro monumenti, potremo rigenerare ciò che merita di sopravvivere: il resto degli esseri umani, disillusi delle nostre idee oscure e confuse. In verità, niente si risolverà per meno, e qui le nostre tradizioni e le nostre opere ormai convergono, poiché sia le une sia le altre vanno a finire sempre nel medesimo precipizio, le nostre tradizioni legittimando l’effetto delle nostre opere, le nostre opere confermando la dismisura propria delle nostre tradizioni. Abbiamo torto a lamentare che ci manchino le sintesi, e noi serviremo a dimostrare la loro evidenza.
Siamo colti da follia e da stupidità in mezzo alle nostre opere, non sempre abbiamo l’ingegno dei mezzi che impieghiamo, viviamo su piani che non combaciano Ira loro e non siamo nemmeno contemporanei gli uni degli altri. La dismisura è il nostro denominatore comune e non usciamo mai dall’incoerenza, rifiutiamo l’obiettività dietro i pretesti più fantastici e ci sottraiamo alla verità ricorrendo alla dialettica, possediamo l’arte di moltiplicate a piacere i punti di riferimento e di cambiarli secondo le nostre necessità, finiamo col girare in un labirinto e giustifichiamo il nostro impaccio dichiarando impossibile la sintesi, per via del movimento che ci travolge. Dopodiché tutto diventa lecito e nessuno è responsabile, ora noi siamo automi liberamente complici della fatalità, che divinizziamo perché eviti di farci sentire uomini, godiamo nell’abbandonarci, ci crogioliamo nel nostro accasciamento, corriamo incontro alla nostra rovina rifiutandoci di troncare con quello che ci trascina, siamo affascinati, siamo consenzienti…
Sicché l’abisso invocherà l’abisso, e noi portiamo dentro di noi la volontà di morte, che non possiamo padroneggiare, crediamo che la smania di vivere ci animi, ma questa smania è l’opposto della vita, e la nostra frenesia ci vota al precipizio. L’ordine è più folle di quanto non creda, l’ordine è pili stupirlo di quanto non immagini, e noi che lo sosteniamo sentiamo che ci assomiglia, esso non conosce se stesso così come non ci conosciamo noi, è il cieco che conduce quei ciechi che siamo. Nulla è più spaventoso di questo quadro, ma solo il futuro lo contemplerà, noi ne resteremo sempre all’osculo, noi adempiamo al nostro dovere e ne godiamo, noi militiamo e dormiamo, i nostri anarchici sono i soli a stupirsi di questo accordo e a rifiutarsi di approvare raccomodamento che noi accetteremo senza fiatare, hanno ragione gii anarchici, non gii uomini d’ordine. Eppure gli uomini d’ordine non possono cambiare sistema, e quand’anche il sistema dovesse portarli al caos, preferiscono rimanerne vittime piuttosto che ammettere il loro torto. D’altronde, a che gioverebbe ammetterlo, visto che i loro avversari non hanno niente da proporre?
Nel momento in cui ognuno ha ragione, tutto è perduto, poiché tutto diventa sia lecito sia possibile, è il momento tragico per eccellenza ed è quello in cui ci troviamo. Siamo in mezzo a uomini in buona fede che moriranno per la loro causa fieri di immolarsi, noi sappiamo che nella maggioranza dei casi la loro causa è un malinteso, ma non serve a nulla informarli, si rifiuteranno di darci ascolto, e tanto più in quanto essa racchiude le loro ragioni di vita. L’ideale è quasi sempre un tessuto di equivoci, e se sopprimiamo il controsenso votiamo la maggior parte degli uomini al nonsenso, visto che la verità non è mai alla loro portata. Ora, a ogni giro di ruota i nostri mezzi fortificano la verità, e noi ci sentiamo sempre più spaesati nell’universo, quest’universo che ci ostiniamo a umanizzare sempre di più: tale paradosso non è meno tragico del precedente e non si vede come risolverlo. Quanto tempo dureremo in preda al disordine? Il disordine non può andare avanti in eterno, perché lo spirito umano non lo sopporta senza esplodete. Allora la catastrofe appare preferibile, e l’uomo non esita a correrle incontro, nella speranza di forzare la mano all’avvenire.
Io sono uno dei profeti del nostro tempo e il silenzio mi avvolge, hanno intuito che avevo qualcosa da dire, qualcosa che non volevano sapere, si sono difesi secondo i procedimenti oggi in voga, cercano di seppellirmi vivo e non riusciranno che a rendere più fanatici, un giorno, i miei sostenitori. Persevero nella strada che mi traccio, essa è ormai aperta, non vi starò per molto da solo a camminare solitario, le mie idee mancavano al mondo, e coloro che le adotteranno daranno vita a un nuovo popolo, fra gli uomini d’ordine e gli anarchici. Io non sono anarchico più di quanto non sia uomo d’ordine, le due categorie mi fanno egualmente orrore e mi pongo al di sopra della loro disputa, metto fine all’alternativa assegnando un nuovo asse alla legalità, voglio che il principio femminile presieda alla fondazione della Città futura e sposto tutti i segni, ciò che fu negativo non deve esserlo più e ciò che non lo è ancora lo diventerà di certo, la mia rivoluzione è tutta qui, si mette in moto sotto i nostri occhi e le mie idee la riflettono. Quello che affermo non è un’utopia, è una verità che intravedo.
Mi si dirà che non sono costruttivo, mi si rimprovererà di edificare sulla catastrofe e di considerarla preliminare al riordinamento dell’universo; mi si dirà che sono asociale, mi si rimprovererà di prevedere l’immolazione delle folle e di considerarla necessaria perchè abbia finalmente luogo la restaurazione dell’uomo; mi si dirà che sono disumano, visto che non mi imporla della vita di molti miliardi di insetti e che predico lo spopolamento dell’ecumene; mi si dirà che sono immorale, visto che scuoto l’ asse dei valori e inverto i segni. Riconosco i miei torti, voglio dichiararmi colpevole e sono fiero di perseverare nei miei passi: il fatto è che credo nell’ordine del domani, quell’ordine di cui io sono uno dei profeti e in cui i nostri discendenti ritroveranno ciò che avevano professato gii uomini arcaici. Sono uno dei restauratori di ciò che fu agli inizi del mondo, l’ordine secondo le donne è più antico di quello che osserviamo noi, e io mi riavvicino a quell’ordine, sovverto i nostri fondamenti al solo scopo di portare alla luce ciò che li regge, e lì sopra costruisco una Città domani intemporale.
La Storia è l’avventura da superare, la Storia ha avuto il suo preludio cinquanta secoli or sono e noi non vogliamo morire con lei. L’ordine a venire sarà la tomba della Storia e solo a questo prezzo la nostra specie sopravviverà, dobbiamo uscire dalla Storia e ne usciremo solo per mezzo delle donne, la dominazione delle donne ci affrancherà dalla sua tutela e toglierà la sua ipoteca. Allora e soltanto allora il tempo non sarà più e – come prima che il tempo fosse – l’intemporale diventerà elemento quotidiano, allora e soltanto allora la Terra sposerà il Cielo e la Ierogamia sostituirà il Sacrificio, allora e soltanto allora la fine del mondo che abitiamo assumerà la sua ragione d’essere e non dovremo più temerla. Non possiamo sottrarci alla catastrofe, però possiamo gettare il seme a cui la rovina dell’universo non impedirà di germogliare, possiamo riporre la speranza nella rinuncia a qualsiasi progetto formulato come a qualsiasi disegno apparentemente ragionevole, giacché sappiamo che nulla prevarrà sulla logica di una situazione che ha preceduto gli elementi della sua genesi e che i tempi della nostra morte non riusciranno a risolvere.
Perché il peggio è l’unica certezza che ci limane? Per due ragioni, la prima delle quali è l’impossibilità di frenare il movimento che ci travolge, mentre la seconda sta nella natura stessa di questo movimento. Giacché, per la verità, il movimento che ci travolge ci sfugge, e noi noti siamo più nient’altro che suoi oggetti ridotti all’impotenza, questo movimento è un abisso in cui, solo a misurarlo, ci smarriamo, e che per giunta è la propria ragione d’essere, non obbedisce ad alcun disegno che l’uomo sia in grado dì comprendere e – con ogni probabilità – questo movimento è ormai assurdo. Sicché l’assurdità diventa fatale e la fatalità diventa logica, è una catena in cut tutto cospira a disgregarci e nella quale ci sentiamo non responsabili. Il peggio è assicurato e noi ne siamo complici, la nostra è una voluttà di morte che diventa ragione di vita. Così ci precipiteremo incontro all’inevitabile, come quegli animali divenuti troppo numerosi che non mirano più ad altro che a morire in massa, e non per un eccesso di spirito di sacrificio o di spiritualità, come non si mancherà di darci a intendere domani.
La massa di perdizione non ha coscienza e mai ne avrà, è proprio della coscienza isolare gli esseri, ed è per sfuggire alla loro coscienza che gli uomini si assembrano, la massa di perdizione è la loro via di fuga, è il ricettacolo delle solitudini abortite, essa è sempre colpevole e la sua dannazione sarà sempre nell’ordine delle cose, essa coinvolge nella propria rovina l’accozzaglia di aborti che la compongono. Il numero è strumento del male, il male vuole che gli uomini si moltiplichino, perché più gli uomini sovrabbondano e meno vale l’uomo, per essere umano l’uomo non sarà mai abbastanza raro. In verità, noi moriremo a causa delle masse, le masse ci trascineranno negli abissi della dismisura e dell’incoerenza, la salvezza e le masse sono agli antipodi, non possiamo essere salvali, qualunque cosa accada, siamo troppo numerosi, e quelli di noi che si isolano non muteranno più il destino dell’universo, vedranno soltanto dove sono diretti gli altri, saranno più disperati dei ciechi e dei sordi, contempleranno faccia a faccia una spirale senza volto verso la quale la marea dei sonnambuli rotola con movimento implacabile.
L’universo è un meccanismo in cui il desiderio aggrega e la morte disgrega, la massa di perdizione riflette lo stato di tale universo in quanto esso ha di più orrendo, è la sua incarnazione, e perciò non possiamo né amarla né compiangerla, essa obbedisce alle stesse leggi degli sciami di cavallette e degli eserciti di roditori, è un mostro dai milioni e milioni di teste. Basta che la massa di perdizione voglia adorare un dio perché quel dio assuma le sue fattezze e divenga, per il suo tramite, riflesso dell’universo, giacché la massa scaccia lo spirito, .ovunque esso si manifesti. In verità, mai lo spirito smuove la massa e mai le idee prenderanno consistenza in essa, la massa non può accogliere lo spirito né sopportare che le idee la travaglino, le sue profondità sono morte e pietrificate, le sue tenebre prevalgono sulla luce, la Storia scivolerà lungo la distesa di quel mate intemporale dove l’uomo è una vana parola. Chi parla di salvezza tra le ombre senza volto? Chi parla di progresso? Chi di superamento? La redenzione non ha più senso, il progresso non trova più pane per i suoi denti e il superamento morirà sul nascere.
Possiamo salvare qualcuno, ma non salveremo la massa in quanto massa, possiamo far ragionare e rendere consapevole un esiguo numero di uomini che dobbiamo prima isolare, ma l’uso stesso dei mezzi, che la nostra scienza avrà moltiplicato inutilmente, non cambierà la sorte delle folle, le folle impareranno a mentirei credendosi in buona fede, la confusione non ne sai a che più mortale, e noi ci disinganneremo troppo tardi per porvi rimedio. Impareremo a nostre spese che la salvezza, il progresso e il superamento sono idee inaccettabili quando non si mantiene la misura, e come si può parlare di misura nell’universo che molti miliardi di uomini rodono e insozzano? Il mondo perirà perché gli uomini in soprannumero muoiano, ormai sappiamo che i bambini che nascono sono colpevoli, colpevoli di esistere, il delitto non è più votarli al nulla, il delitto è metterli al mondo. La vita non è più sacra quando gli esseri viventi pullulano, quella degli uomini in soprannumero non ha più valore di quella degli insetti, né i soldati morti in guerra contano di più per coloro che ve li conducono.
Se gli uomini non sperassero in nulla, la loro sorte non sarebbe più la stessa, se gli uomini non credessero in nulla, la loro condizione forse muterebbe: così invece, la speranza e la fede non solo accrescono i loro mali, ma fanno anche la fortuna dei loro padroni, e gli spirituali, malgrado la loro santità, non possono essere altro che i loro cani da guardia. Il Giorno del Giudizio, né la speranza né la fede saranno perdonate, visti i morti che avranno fatto nascere e gii agonizzanti che esse inducono a moltiplicare il loro seme fino all’ultimo respiro. Se gli uomini non sperassero in nulla, le donne invecchierebbero sterili, se gli uomini non credessero in nulla, preferirebbero alla fecondazione i vizi, i vizi li renderebbero meno infelici del dovere, il dovere è molto peggiore dei vizi, il dovere è un radicamento nella calamità. Eccola messa a nudo, la verità, da sempre il metterla a nudo è un reato e si capisce perché, l’ordine ha bisogno della speranza ed è per l’ordine che essa si strugge, l’ordine ha bisogno, e ancor di più, della fede, solo per lui vive la fede e vivono gli uomini moltiplicando la vita…
Sicché la speranza e la fede ingannano le generazioni che passano così come inganneranno le generazioni venture, e la miseria si trasmette insieme con il peso delle idee sbagliate, poiché l’ordine vigila sul deposito dei tempi e vive della morte degli uomini, che vengono abbindolati. Ogni tanto compare nel mondo un redentore, ma il messaggio di quel redentore è sempre incompreso e l’ordine non esita ad aggiustarlo a modo suo. I pochi che capiscono ciò che leggono ritrovano l’ordine in mezzo ai discorsi ineffabili, giacché l’ordine lascia parlare i profeti, e quando essi hanno finito, l’ultima parola la pronuncia lui, metterà il suo sigillo tanto sulla speranza quanto sulla fede: è a queste condizioni che i testi sono accolti e la loro ispirazione è ritenuta infallibile, il procedimento risale a molti millenni or sono e mai muterà fino alla consumazione dei secoli. I salvatori passano al pari delle generazioni e l’ordine resta, esso sembra assecondarli, e ciò al fine dì armarsi delle loro opere, la Storia ci insegna che dopo ogni salvatore l’ordine è più forte, più folte della speranza e della fede che tutti i salvatori servono ad accreditare.
Moriremo di speranza e moriremo di fede, questa è la sorte degli uomini che vengono ingannati e si ingannano, tale sorte non muterà, soltanto la catastrofe ha il potere di liberarcene, e sappiamo che non la eviteremo più. Stiamo andando alla morte, e la speranza e la lede ci allettano, stiamo andando alla morte della speranza e della fede, moriremo con esse e per esse, il resto degli esseri umani sopravviverà loro, il resto degli esseri umani vivrà, ma vivrà dello spirito, lo spirito che si oppone alla fede, lo spirito che non ha bisogno della speranza. In verità, finché la massa di perdizione fa vacillare l’equilibrio dei mondo, lo spirito non avrà alcun potete e noi non accederemo al regno dello spirito se non dopo l’annullamento della massa. Il rimedio è crudele, ma la malattia lo è ancora di più, e non possiamo sottrarci alla scelta di guarire o scomparire, guariremo al prezzo della più sconvolgente catastrofe di cui la Storia abbia memoria, e l’ombra dell’avvenire si allunga già su di noi. Stiamo camminando nell’ombra della morte futura, la morte è la dimensione soprannumeraria della nostra esistenza, il precipizio incombe su di noi e al precipizio ci stiamo recando in fila.
Non possiamo sopravvivere al presente stato del mondo, perché il presente stato del mondo non ha più futuro, moriremo del presente e coloro che sopravviveranno – oh quanto rari! – si ritroveranno in un altro mondo, di cui quello che abitiamo non poteva essere promessa. Il futuro troncherà con la realtà subita, non sarebbe il futuro se la continuasse, tra noi e il nostro domani si allarga il precipizio in cui dobbiamo sprofondare. Sicché entreremo nel caos e nella morte seconda, carichi delle nostre opere consustanziali alla notte, per seppellirci meglio sotto di esse; il passato ci seguirà nelle tenebre, che renderemo più fitte per impedirgli di risalire. Siamo predestinati a chiudere la Storia, la Storia dovrà morire con noi, siamo giunti allo scadere della parentesi, accettiamo, e senza riserve, ciò che non possiamo evitare, e niente ci spaventa più, attendiamo il peggio, non ci attendiamo altro che il peggio, abbiamo sacrificato la speranza, abbiamo rinunciato alla fede, siamo liberi, più liberi che mai, presenti alla nostra morte, e sopravviviamo a quelle ragioni di vita che noi abbiamo ormai sostituito con la morte stessa.
Non arresteremo più la corsa verso il precipizio, il peso degli nomini in soprannumero non ci risparmierà, i secoli accumulati sulle nostre spalle ci obbligheranno a gravitare, e il caos delle idee sbagliate, che manteniamo perché ci rovinino, sconvolgerà la nostra ragione. Tutto possiamo, tranne indietreggiare, non possiamo neanche indugiare lungo il cammino, e sappiamo dove il cammino ci porterà. Una dopo l’altra, le soluzioni via via si allontanano, tagliandoci dalle nostre retrovie, a ogni giro di ruota i paradossi si diversificano e i problemi si complicano, la maggior parte di noi rinuncia a porseli, la maggior parte di noi rinuncia a capite se stessa, e i nostri più alti ingegni professano la legittimità della nostra incoerenza, i nostri scienziati più famosi rinunciano alle pretese di sintesi, insomma l’immagine del mondo è in brandelli e i nostri pensatori affermano che essa rimarrà tale e quale. Per quanto tempo? Giacché nessun disordine può perseverare nel suo disordine senza disgregarsi sempre di più, questa è una legge generale che i nostri àuguri vogliono dimenticare e di cui sperimenteremo tanto la portata quanto l’esattezza.
Albert Caraco
BREVIARIO DEL CAOS (parte quinta)
Per un paese che fa la Storia, ce ne sono più di venti che la subiscono, e in questi venti ogni partito, quale che sia, è il partito dello Straniero, si proclamasse pure nazionalista. Le nazioni che non fanno più la Storia non comprendono ciò che sta accadendo loro, il caos è il loro destino, le loro glorie non glielo evitano, così come le loro virtù non le premuniranno dal piombare in quello stupore che è la loro sorte. Le poche nazioni rimaste indipendenti si accollano il futuro del mondo, potevano molto un tempo, potranno sempre meno. Il ruolo della fatalità si accentua e lo stupore è l’ombra che essa getta: un giorno la loro sorte sarà la stessa della maggioranza dei popoli, la loro forza non servirà a nulla, il loro privilegio sarà soltanto immaginario, la Storia, insomma, diventerà la passione di tutti. Quanti anni ci vorranno, fra quanto tempo saremo ridotti immancabilmente all’impotenza, i primi in testa? Allora il peggio sarà assicurato, e anche se salveremo le apparenze dell’ordine andremo egualmente al caos, accecati dalla buona fede, sempre più dispotica, e confortati da una tradizione sempre più assurda.
Il Nazionalismo è un morbo universale, da cui si guarirà con la morte dei frenetici, non possiamo durare in un mondo sempre più angusto con idee così dannose, quindi dovremo perire. Lo storico di domani dirà che la natura si è vendicata dei popoli comunicando loro un senso di vertigine e che il Nazionalismo è una frenesia simile a quella che si impossessa delle società animali divenute troppo numerose. Siamo troppo numerosi e vogliamo morire, ci serve un pretesto nobile ed eccolo trovato, è l’accordo, il più perfetto che ci sia, tra possesso e alienazione, esso ci permette di stimarci moltiplicando all’occorrenza gli atti più spregevoli, ci inebria di noi votandoci al sacrificio, ci rende candidamente mostruosi, autorizza le nostre virtù a fregiarsi dell’attributo di tutti i vizi e – quel che è meglio – sceglierà per noi ciò che desideriamo e non osiamo scegliere. Siamo perduti senza scampo, il morbo non risparmia più nessuna nazione, e tutti i paesi si assomigliano perfino in quella specie di furore che li contrappone e li aizza a scannarsi l’un l’altro.
Poiché nessuna nazione vuol dimenticare ciò che essa chiama la sua storia, e che il più delle volte non ha nulla da spartire con la Storia, bisognerà che un giorno tutte vi rinuncino. L’ultimo vincitore disarmerà lo spazio e il tempo, confischerà i mezzi e le idee, le pretese e i ricordi, le forme e i contenuti, si dichiarerà unico legatario di cinquanta secoli, dimostrerà che lui è la ragione d’essere della specie umana e che il dovere di cento popoli è quello di abdicare, egli ne sterminerà alcuni, deporterà la maggior parte degli altri e dappertutto si vedrà una miriade di uomini dei quali sarà lui l’unico padrone. Giacché la semplicità è inconcepibile a un prezzo minore, e nonostante il pullulare delle differenze che si scatenano sotto i nostri occhi il futuro è della semplicità, noi andiamo di disordine in disordine all’ordine ultimo e di carneficina in carneficina al disarmo morale, pochi salveranno e pochi saranno salvati, frattanto la massa di perdizione si eclisserà, portandosi nell’abisso i problemi insolubili. Il Nazionalismo è l’arte di consolare la massa del fatto di essere solo massa e di presentarle lo specchio di Narciso: il nostro futuro infrangerà quello specchio.
Il compiacimento ha bisogno di spazio, e lo spazio è quello che più mancherà al mondo, stiamo entrando in un mondo angusto, non lo abbiamo ancora capito, dobbiamo rinunciare ai ricordi, quando ci inorgogliscono, e alle illusioni, quando occupano troppo posto. E’ da supporre che le nazioni non lo faranno spontaneamente, tale rifiuto è presagio di innumerevoli orrori, l’ultimo vincitore non avrà più giudici sopra di lui, e se in un solo giorno sterminasse un miliardo di esseri umani nessuno glielo rimprovererebbe. Giungere a un accordo sui partiti da prendere non serve al futuro, il futuro taglierà corto, i suoi attributi saranno la violenza e la semplicità, noi fingiamo di non accorgercene, i nostri filosofi gareggiano nel computo dei miracoli e mai si sono ritratti così bene davanti alla concatenazione più logica e di fronte ai corollari più rigorosi. La paura delle parole aumenta, e questo prova che attribuiamo loro un potere che smentiamo giorno per giorno nella gestione delle cose, abbiamo in spregio là loro accezione e ne distorciamo il senso, salvo poi tremale dinanzi alle ragioni chiare e distinte.
Siamo diventati frivoli e la frivolezza non è di buon auspicio, i nostri giudizi risentono della paura che ci divora e che neghiamo, forse in mancanza di altre risorse. I nostri padri a volte si permettevano di apparire tragici, ma era perché non vivevano come noi nell’ombra della morte, parlavano della fine del mondo sentendo in cuor loro che molte generazioni li separavano da un finale che noi sappiamo essere vicino. I nostri padri immaginavano ciò che invece a noi è concesso vedere, la loro ipotesi é ormai la nostra tesi, essi potevano scegliere tra morire e vivere, mentre noi stiamo già sopravvivendo. Da un momento all’altro quell’evento, verso il quale la Storia sta andando da oltre cinquemila anni, da un momento all’altro potrebbe iniziare a verificarsi scagliandoci fuori da ogni evidenza, da un momento all’altro sarebbe la fine della nostra identità, il crepuscolo in pieno giorno, il chiudersi della parentesi e la confusione dei tempi che urtano contro l’intemporale e all’improvviso si spaccano. Proprio perché la morte incombe noi ci premuriamo di esorcizzare la nostra evidenza, i nostri padri ne cercavano soltanto la promessa e ne trovavano soltanto i presagi.
La voce profonda che percepiscono tutti coloro che non sono sordi ci mette in guardia su quanto ci attende, sappiamo che il male è senza rimedio e che credere nel miracolo è un’empietà, sappiamo che non risaliremo la china e che saremo lieti di discenderla pei ragioni in apparenza plausibili, sappiamo che stiamo per scoppiare da un polo all’altro e perire nell’incendio che ci preparano le nostre idee al pari dei nostri mezzi. Presto il caos sarà il nostro denominatore comune, lo portiamo in noi e lo troveremo simultaneamente in mille luoghi, dappertutto il caos sarà il futuro dell’ordine, l’ordine già non ha più senso, non è più altro che un meccanismo vuoto e noi ci logoriamo nel perpetuarlo perché ci voti all’irreparabile. Innalziamo un tempio alla Fatalità, lo onoriamo di sacrifici e non è lontano il momento in cui offriremo noi stessi, il mondo è pieno di gente che sogna di morire, trascinando gli altri nella morte. Sembrerebbe quasi che gli uomini in soprannumero distillassero un veleno che si spande sull’universo e rende l’ecumene inabitabile. Perciò l’Inferno, lungi dall’essere il nulla, è la presenza.
Lo scotto della morale e della fede è la presenza umana moltiplicata all’infinito e divenuta l’Inferno dell’uomo. Questo ci dimostra altresì che la morale non vale niente e che la fede non è divina, entrambe sono al servizio dei nostri padroni, e noi non abbiamo peggiori nemici di coloro che ci dominano. Ai padroni occorrono schiavi, più numerosi sono gli schiavi e più i padroni si arricchiscono, ogni mezzo è buono purché le donne siano feconde e nascano bambini, lo spopolamento sarebbe la loro rovina, preferiscono che l’universo scoppi, l’arrestarsi del movimento – che salverebbe il mondo – avrebbe luogo a loro danno. Noi quaggiù siamo vittime dei nostri aguzzini, e quando crediamo di obbedire a Dio, obbediamo a uomini, uomini che ci portano al caos e non ci preservano dalla morte, uomini ignoranti, uomini impotenti, ma che ci incutono rispetto, in nome delle tradizioni che ci impongono. Giacché le nostre autorità non sanno niente, non possono niente, non valgono niente, non ci risparmiano niente, e non sanno far altro che cullarci nelle fandonie, al solo scopo di conservare i privilegi acquisiti e di perpetuare il proprio dominio.
Le nostre sedicenti autorità religiose e morali non servono che a disarmarci di fronte alla nostra evidenza, si oppongono all’ingegno dei nostri mezzi perché esso le renderebbe sorpassate, non vogliono farci uscire di tutela, non pensano che a perpetuale gli errori che le accreditano, ci predicano la sottomissione e la confusione, ormai la loro opera non fa che accrescere le sventure del mondo. Se moriremo nell’ignominia, la colpa sarà loro, giacché ci tradiscono come respirano, sono per noi palle al piede che scambiamo per fondamenti che ci sostengono, immolarle ci avrebbe resi liberi, e non abbiamo osalo troncare con loro al momento propizio. Sicché la fedeltà ci danna e l’obbedienza ci condanna, è troppo tardi e non ripareremo a nulla, non scanseremo più la catastrofe, e la nostra massima consolazione, al momento di morire, sarà di veder morire sotto i nostri piedi coloro che ci trascinano nel precipizio e che calpesteremo soccombendo, per estinguete ad un tempo il loro ricordo e il loro seme. Non vi saranno che vittime, domani, e questa è la giustizia della Storia.
Le nostre religioni sono i cancri della specie e non ne guariremo che da morti, moriremo perché le nostre religioni periscano, la catastrofe inghiottirà i preti insieme con i loro fedeli, i resti dell’umanità sopravvissuti in mezzo alle rovine si accaniranno sulle pietre rimaste. Rido al vedete le nazioni mantenere e restaurare gli edifici da cui ebbe origine la loro morte spirituale, in tempi nei quali si dovrebbe ripensare l’universo; rido al vedere cento popoli divenire conservatori delle loro antichità immaginarie o reali, in balia della prossima catastrofe; rido al veder contendere al nulla i templi da cui il nulla trae la propria sopravvivenza, e dichiaro che tutto morirà, gli uomini al pari delle pietre, le pietre al pari degli uomini. Domani la morte celebrerà le sue nozze con il caos, e noi stiamo già adornando le loro tavole, è per la loro festa che sgobbiamo, i nostri edifici sono le testimonianze che appariranno in mezzo alla carne dei popoli immolati, tagliati a fette, bolliti e arrostiti, il cui cuore palpiterà d’amore dinanzi alle cortesie della Provvidenza, e che contempleranno, nell’ora dell’agonia, il vuoto che credevano divino.
Fino a oggi, di solito il vuoto si trasformava, poiché gli dèi prendevano il suo posto. Ora, per la prima volta gii dèi non nascono più dal vuoto, il vuoto resta cinti che è, gli uomini lo contempleranno nella sua integrità, tutto il mondo assumerà i suoi tratti e ciò che se ne differenzia andrà svanendo perché rimanga solamente il vuoto. E l’ora della purezza, dobbiamo rallegrarcene, non vi perderemo che la nostra Storia e tutto quanto a essa si richiama, le nostre religioni ispirate e i nostri pretesi imperativi eterni, che invece non sono mai stati altro che storici. Da perdere non abbiamo che la Storia e tutto quanto alla Storia si riallaccia, preferiamo il vuoto e plaudiamo alla sua venuta, esso è la letizia che ci illumina nell’ora della nostra morte. Sicché approviamo l’irreparabile, nostro vendicatore supremo, il clamore di agonia delle nazioni è la musica dei nostri funerali, l’ordine e i suoi difensori si disgregano sotto i nostri occhi, e noi li chiuderemo quando essi saranno in cenere, moriremo i più consolati fra gli uomini, perché siamo stati i soli a rinunciare alle opere di menzogna di cui i fedeli si pascono.
Siamo puniti per non aver bruciato ciò che adoravamo, ma i nostri discendenti, dopo la catastrofe, adoreranno tutto ciò che abbiamo bruciato. E noi sembreremo allora pazzi pericolosi, i nostri dèi altrettanti mostri, i nostri dogmi orrori e i nostri imperativi incubi, si domanderanno se non fossimo dei posseduti e avranno ragione, giacché bisogna essere posseduti per strisciare davanti a ciò che noi divinizziamo. La malattia e la menzogna informano i nostri misteri e l’intreccio delle nostre leggende sembra un delirio, ma non usciremo che folgorati da questo letamaio spirituale, fatto a immagine dei nostri fiumi inquinati, siamo divenuti impuri a forza di nitrire dietro la purezza, abbiamo ripristinato il sacrificio umano, e tale è il nostro smarrimento che non comprendiamo le nostre azioni. Che cosa può capitarci di peggio, ormai, che restare quali siamo? E il nulla stesso è poi la giusta pena per le nostre» colpe? O non ci meritiamo doppiamente quella morte che non basta a estinguerle? Il vuoto è buono, il vuoto è santo, e coloro che vorrebbero fosse consustanziale al male desiderano perpetuare il male ed essere perpetuati dal male in feria.
Un mondo che fosse rimasto pagano non avrebbe violentato la natura, i Paganesimi la consideravano divina, di norma adoravano alberi e sorgenti; anziché sul tempo, posto dalle religioni cosiddette rivelate al centro dei loro dogmi, i Paganesimi ruotavano sullo spazio e, salvo eccezioni, preferivano la misura alla trascendenza e l’armonia a ogni altra cosa. Le religioni sedicenti rivelate hanno instaurato fra noi il fanatismo, e quella cristiana, che lo ha spinto all’estremo, ha divinizzato la Follia, glorificato l’incoerenza e legittimato il disordine, in nome di un maggior bene. Finché queste tesi spaventose non disposero che di mezzi senza portata, gli uomini le accettarono, ma da quando le nostre opere sono in sintonia con esse, avvertiamo l’enormità dei nostri imperativi e, ancor più, la loro demenza. L’idea dell’incarnazione è la più mostruosa, e il futuro vi cercherà la causa efficiente dei nostri paradossi insolubili, uno dei suoi effetti è lo stupro della natura, al quale la trascendenza ci prepara e che l’odio per il mondo legittima: non si deve mai dimenticare che per i Cristiani Mondo, Carne e Diavolo formano un’Antitrinità.
Che cosa importa se i Cristiani alla moda rifiutano di sottoscrivere le tesi che enuncio e se, i teologi per primi, cercano di sottrarsi alle loro conseguenze! Non faranno che accrescere il disordine, e nel labirinto dei loro paradossi si smarriranno ancor a di più, volendo riparare all’irreparabile. I.’irreparabile è cosa fatta, lo spirito dì dismisura, che fu quello della Chiesa, è ora quello del mondo, la verticalità dei dogmi è completamente esplosa in tutti i sensi, e comunicandosi allo spazio altera le sue dimensioni. Qualche tempo fa vi furono pensatori che si compiacquero di tale sconvolgimento, ve ne furono anche tra gli ecclesiastici, che glorificarono lo stupro dell’ecumene nella speranza di una spiritualità nuova. E invece ci stiamo dirigendo verso l’animalità, finiremo per incappare nella disumanità, nonostante le omelie e nonostante le professioni di fede, sbagliamo a ritenerci peccatori, siamo soltanto automi spermatici: l’uomo non è e non è mai stato quello che la Chiesa ci insegna. Bisogna sia ridefinire l’uomo sia riconsiderare il mondo, ma ormai è troppo tardi anche solo per pensarci.
I nostri discendenti, dopo la catastrofe, ridotti a qualche infima porzione dell’umanità attuale, onoreranno le sorgenti e gii alberi, sposeranno la Terra con il Cielo, giudicheranno abominevole l’idea di sacrificio e sacrilega l’idea della trascendenza, ripristineranno tutto ciò che le religioni rivelate hanno abolito: la prostituzione sacra e la promiscuità rituale, il culto della generazione e l’adorazione dei suoi simboli, la ierogamia e i saturnali. Prenderanno l’uomo per quello che non ha cessato di essere e non per quello che dovrebbe essere, non ricadranno nelle illusioni del profetismo, rinunceranno a perfezionare un automa imperfettibile, capiranno che la spiritualità non è appannaggio della quantità e che l’errore sta nel comunicare uno stesso insegnamento a tutti, sulla falsariga delle religioni cosiddette rivelate. E meglio che la maggioranza resti idolatra e carnale, il male ha inizio quando la biasimiamo per questo e la costringiamo a mentirci mentendo a se stessa, è meglio che i semplici associno le divinità al piacere piuttosto che alla penitenza, e che l’orgasmo sia pei loro ciò che è la transustanziazione per i Cristiani.
Sono ormai secoli e millenni che sbagliamo rotta, e adesso dobbiamo pagare, il disincanto non basta a redimerci, e non è in nostro potere ritrovare il Paradiso che abbiamo perduto, prima di esaurire quanto l’Inferno ha di più caotico e di più tenebroso. Oggi siamo rimasti ancora talmente ciechi da nutrire un vero amore per coloro che persistono a fuorviarci, continueremo a perdonarli nonostante i loro crimini e i loro errori, aderiamo immancabilmente al loro insegnamento assurdo e marciamo sotto il loro bastone come se essi fossero pastori e noi spregevoli animali. Eppure ci condurranno al precipizio, questi uomini infallibili che noi reputiamo divini, da generazioni prendono abbagli e noi ci rifiutiamo di capirlo, sacrifichiamo loro i nostri interessi e perfino il nostro onore, presto immoleremo loro il nostro futuro, la Storia conosce poche follie così accese. I sopravvissuti dell’ultima catastrofe mediteranno sul nostro accecamento, vi vedranno l’annuncio della fine a cui siamo destinati, vi ravviseranno una logica di cui noi non sospettiamo la posta.
Dalla logica non usciamo, e in questo universo, a quanto pare sempre più assurdo, non ci domandiamo più se abbiamo meritato la sorte che non possiamo eludere, a questa sorte ci preparano le nostre tradizioni e ci votano le nostre idee, a essa ci riconsegna la nostra obbedienza dopo uno scatto di ribellione, a essa ci destinano le nostre abitudini dopo un’evasione senza domani. Sicché noi vogliamo ciò che vogliamo, nei limiti della nostra capacità di comprendere noi stessi, e vogliamo ciò che i nostri padroni vogliono, fosse pure in nostra vece. Non possiamo improvvisare, mentre il nostro interesse ce lo impone, e ci stringiamo, più risoluti, attorno a ciò che ci disgrega, non osiamo troncare con ciò che ci trascina, e ci illudiamo che il sacrificio faccia miracoli. Stavo per dire che ci sacrifichiamo? Le convenienze erano infallibili e a tempo e luogo non vi verremo meno, ci immoleremo per i nostri dèi morti e i nostri idoli tarlati, è un atto che ci fa sentire importanti, e non appena ci dissanguiamo per una causa le facciamo credito senza badare a ciò che nasconde.
L’ideale prende il posto dell’istinto e l’impulso a morire innumerevoli che afferra pesci e insetti, roditori e ruminanti, s’impadronirà di noi attraverso l’ideale, incaricato di imbrogliarci. Proprio quando ci sentiamo più degni di stima e più disinteressati, proprio quando smaniamo per ciò che ci trascina e facciamo sogni di immortalità, proprio allora ci spogliamo di quanto ci rendeva umani e discendiamo la china. L appunto questo il tragico della faccenda e la suprema abiezione – che ci attende da un giorno all’altro -, non sfuggiamo alle leggi generali, e queste leggi a loro volta rimandano a quelle che reggono le società animali, troveremo la chiave dei nostri comportamenti negli abissi sotto i nostri piedi, mai sopra le nostre teste. L’ideale è il riflesso dell’istinto, dovesse pure sembrare il suo opposto, la sua forza sta nell’ignominia della sua genesi come nel piacere che proviamo ad abbandonarci alle nostre inclinazioni dietro nobili pretesti, noi chiediamo all’ideale di infiorare l’orgasmo e di coprire la prostrazione che gli fa seguito. L’uomo gode per qualsiasi cosa e perfino nel consegnarsi al rogo.
Siamo condannati, e quelli di noi che lo sanno non possono più farsi ascoltare, e anche se potessero, preferirebbero mantenere il silenzio. A che serve ormai predicare ai sordi e disilludere i ciechi? Forse che impediremo loro di perseverare nel movimento che li travolge? Stiamo andando dritti al futuro più orribile, che comincerà dall’oggi al domani, ci ritroveremo in esso senza nemmeno capire quel che ci accade, non ci resterà che morire disperati nell’universo inabitabile. Gli uomini si facevano guerra per il possesso del suolo, domani si ammazzeranno fra loro pei accaparrarsi l’acqua, e quando verrà a mancarci l’aria, ci scanneremo per respirare in mezzo alle rovine. Noi aspettiamo che la scienza faccia miracoli e presto ne esigeremo l’impossibile, ma essa è superata dalle nostre necessità e mai più sarà in grado di soddisfarle, siamo in molti miliardi di troppo a chiedere il Paradiso in Terra, ed è l’Inferno quello che rendiamo inevitabile, con l’aiuto della nostra scienza, sotto il bastone dei nostri pastori imbecilli. II futuro dirà che gli unici chiaroveggenti erano gli Anarchici e i Nichilisti.
Fu quando l’uomo stava per raggiungere la felicità e intravedeva un futuro senza malattie e senza miseria, senza lavoro ingrato né terrore, giusto agli albori di questo secolo, fu allora che avvenne l’irreparabile e ritornarono le forze del passato, più trionfanti che mai, portate dalla fiumana degli uomini in soprannumero. Sono bastate due generazioni perché la popolazione dell’universo raddoppiasse, ne sono bastate tre perché triplicasse, crescerà di sette volte durante la quarta e le nostre autorità religiose e morali, colle alla sprovvista, non hanno saputo che divagare e cercare di guadagnar tempo, ingarbugliando l’enunciato dei nostri problemi: questa colpa non sarà mai loro perdonata, esse saranno colpevoli di fronte all’avvenire, hanno preferito il proprio dominio alla felicità della specie umana, e quando potevano disilludere le nazioni e comunicare loro l’ingegno dei nostri mezzi, non sono servile che a fuorviarle di più e a disarmarle in modo così miserevole che niente eguaglia ormai la nostra impotenza. Perciò gli Anarchici e i Nichilisti hanno ragione, hanno ragione a respingere l’ordine cosiddetto morale, l’ordine per il caos in nome della morale.
Ci occorre una Rivelazione nuova e che proclami il superamento di quelle che osserviamo, ma quelle che osserviamo sono in vigore, il loro peso di morte si unisce alla Fatalità, che ci annienta, ordine e caos formano un tutto che non riusciamo a infrangere. Gli Anarchici e i Nichilisti sono gli ultimi uomini ragionevoli e sensibili fra i sordi, che marciano, e i ciechi, che militano, ma non basta aver ragione nel secolo attuale, né basta essere sensibili per cambiare qualcosa, bisogna sostituire l’ordine con un ordine e non con un disordine, e la morale con una morale, non con l’immoralità, e cosi la fede con una fede, non semplicemente con un vuoto, e gii dèi morti con le divinità nascenti. Non abbiamo bisogno di agitatori, abbiamo bisogno di profeti, abbiamo bisogno di genii religiosi adatti ai nostro tempo, alle nostre opere, perché tutti quelli di cui veneriamo la memoria, nessuno escluso, sono superati, sono tutti superati, e coloro che vi si appellano li tradiscono. Nessuna tradizione ci protegge dal futuro, perché il futuro non ha precedenti e l’universo non ha più ripari.
Poiché gli uomini, per la maggior parte, non sono usciti dall’infanzia, hanno bisogno di una Rivelazione per ogni minimo atto della vita, sono gli dèi, in ultima analisi, che devono esortarli a non essere fecondi, se la fecondità minaccia la sopravvivenza della nostra specie: né i poteri civili né le accademie piene di scienziati famosi avranno mai tutta l’autorità che solo gii dèi concentrano sopra di loro. Ora, i nostri dèi predicano o la continenza o la fecondità, noi non vogliamo saperne né dell’una né dell’altra, vogliamo che la carne abbia diritto al suo piacere in quanto tale e che il piacere diventi grato agli dèi quanto agli uomini, vogliamo che gli dèi siano associati al piacere e che gii uomini credano di onorarli quando godono. Ci occorre una Rivelazione nuova, e per un nuovo Paganesimo, un nuovo Paganesimo salverà gii uomini, che le religioni cosiddette rivelate fallirò smarrire nel labirinto dei loro paradossi ormai insostenibili, paradossi ormai illegittimi, paradossi ormai assurdi. E la fecondità, e non la fornicazione, a distruggere l’universo, è il dovere, e non il piacere.
Invece di aspettare che gli uomini diventino maggiorenni, e non sappiamo se si decideranno mai a esserlo; invece di cercare di illuminarli su problemi insolubili e su paradossi indefinibili, che né gli scienziati né i logorroici risolveranno e definiranno; invece di fare appello alla coscienza, che non hanno; invece di fare appello alla buona volontà, che è solo fanatismo; invece di fare appello alla buona fede, che è solo fanatismo; invece di fare appello alla buona lede, che è solo allucinazione approvata; invece di sperare nel miracolo, che è poi quello a cui in definitiva si riduce tutto quanto precede, bisogna agire come se tutto dovesse morire, bisogna prepararsi a sopravvivere alla catastrofe, bisogna pensare ai resti che sussisteranno nell’universo inabitabile, bisogna considerare la massa di perdizione irrimediabilmente perduta, e non ragionare più se non tenendo conto della sua transitorietà. Quello che affermo sembra disumano, ma disumano il secolo lo sarà sempre di più, e i sermoni non modificheranno questa sua peculiarità, gli uomini potranno pure assieparsi nei templi, ciò non toglie che i templi finiranno per crollate, e sulla testa dei fedeli, nell’ombra della morte comune.
Albert Caraco
BREVIARIO DEL CAOS Albert Caraco
Il secolo vorrebbe scegliere tutto, ed è per questo che non abbiamo stile, il secolo vorrebbe capire tutto, ed è la ragione per cui non esce più dal labirinto, il secolo vorrebbe perfino umanizzare la massa di perdizione in quanto massa, ed è per questo che andiamo verso la carneficina planetaria. Vogliamo l’impossibile e tra poco non avremo neanche l’ombra del possibile, sbarcheremo sulla luna e quaggiù berremo le nostre deiezioni, domani i nostri figli mangeranno cose ritenute immonde, la vita che ci attende è talmente assurda e talmente orribile che i migliori preferiranno la morte e la follia e il caos all’ordine, un ordine per la morte seconda e la follia perpetua e il caos organizzato. L’ordine futuro sarà di gran lunga il più disumano che mai si sia visto, il più bravo a mentirci e il più infallibile nell’ingannarci, un mostro tiepido e metodicamente informe, misterioso e piatto, sfuggente e dispotico, che divora in continuazione senza cessare di essere inafferrabile. Il peggio è che, dopo averci illusi, non ci impedirà di andare in rovina, giacché se può abusale di noi, esso è altresì la debolezza stessa.
Non eviteremo gli abusi di tale ordine e l’ordine non ci eviterà il caos né la morte, questa è la logica della situazione, e noi avvertiamo che da cinquanta secoli vi eravamo destinati. I peggiori degli esseri umani sono ormai i più incuranti, lo stato delle cose permette loro di irridere i giusti e i santi come gli scienziati e i filosofi, i peggiori degli esseri umani trionfano incontrastati e probabilmente non hanno neppure torto, possono farsi beffe impunemente delle forme che si disgregano e dei valori che si deteriorano, in un disordine dilagante essi possono appoggiarsi all’ordine, possono ergersi al di sopra di tutto nell’ora in cui tutto minaccia di andare a fondo, possono andar fieri di aver scelto il volto buio e di morire vincitori dei giochi, avranno avuto la loro ricompensa. Non c’è più modo di difenderci da loro, essi seguono la corrente che porta al precipizio, e noi invece cerchiamo di risalirla, soli a remare contro il filo dell’acqua, soli a opporci all’ordine e soli a perseverare nel rifiuto di essere, di essere quaggiù strumenti dell’arrendevolezza in mezzo alla massa, vittima delle loro imposture.
Nessuno ci ha detto la verità, la verità non ha più difensori sulla Terra, è troppo difficile da capire, e coloro che la penetrano saranno sempre meno numerosi. Il nostro secolo ha visto la morte delle idee chiare e distinte, noi non ci intendiamo su nulla, a parte i sottintesi, le convenienze e gli interessi, in tutto il resto gli equivoci hanno campo libero. Non ci intendiamo su nulla e nemmeno crediamo più in nulla, per credere a qualcosa, ai giorni nostri, bisogna essere allucinati, tutti i nostri più alti ingegni sono divenuti tragici, ciò dimostra che non hanno più fede. La religione non è che un elemento dell’ordine e, quel che è peggio, di un ordine per il caos e per la morte, coloro che si sforzano di viverla saranno gli eretici di domani e domani l’eresia attesterà la fede ridivenuta sincera, da cento parti stiamo andando verso l’esplosione dei sistemi, poi andremo verso il brulicare delle sette, ma non saremo salvati dal fervore di qualcuno o dalla spontaneità di qualcun altro. E già troppo tardi, siamo entrati nel vortice, non sfuggiremo più a ciò che ci trascina, e sappiamo di essere condannati.
Quando ascolto i nostri sedicenti spirituali propinarci le loro banalità e quando vedo una folla, più di ruminanti che di uomini, prestare orecchio a quelle insulsaggini, mi rendo conto che stiamo diventando stupidi e che meritiamo la sorte a noi riservata. So che tutti questi ruminanti fanno il loro dovere di bestie, tirano l’aratro e montano, muggiscono e figliano, danno allo Stato il loro latte e talvolta la loro carne, ma vorrei che finalmente si decidessero a umanizzarsi e a chiedersi se quello che viene loro insegnato o predicato vale qualcosa. Come può essere che prestino fede, fosse pure solo per abitudine, a un tale cumulo di scempiaggini? Non provano vergogna a essere cosi, non si accorgono che si disonorano e che la cortesia in questo genere di cose altro non è che una dichiarazione di fallimento? Il conforto intellettuale che cercano è ormai introvabile e nessuna tradizione lo assicura loro, soltanto la stupidità è in grado di darcelo. E siamo caduti cosi in basso che i Capi di Stato, a corto di legittimità, sono costretti a mescolarsi con il gregge, recitando la commedia ai ruminanti che portano a pascolare?
Se la gente non sperasse più in nulla e non credesse a nulla, si rifiuterebbe subito di moltiplicare il suo seme, e i nostri problemi sarebbero risolti in una o due generazioni con lo spopolamento universale. Quello che qui affermo non sono il solo a sostenerlo, ma se ve ne sono altri che la pensano come me, quanti oserebbero scriverlo, o meglio: professarlo dall’alto di una cattedra, spingendosi al punto di gridarlo ai quattro venti? E quale governo tollererebbe un insegnamento di tal fatta? E quale religione simili omelie? Insistono a chiederci di sperare e di credere, dobbiamo sperare in qualsiasi cosa, pur di sperare, dobbiamo credere, magari a quel che vogliamo, pur di credere a qualcosa, siamo liberi di fare una scelta tra le fandonie di nostra convenienza, a patto che siano stupide. Ora, tutti i fini che si propone la speranza e lutti gli obiettivi che la fede si dà hanno in comune il fatto di esserlo, di essere immancabilmente stupidi, e oggi, per giunta, imperdonabili, giacché non possiamo restare imbecilli una generazione di più fra mezzi che sono diventati più liberi di noi.
Quando gli uomini si persuaderanno che i loro figli saranno più infelici di chi li ha generati e i figli dei loro figli ancora più infelici, quando si persuaderanno che non vi è più rimedio nell’universo, che la scienza non farà miracoli e che il Cielo è vuoto quanto le loro tasche, che tutti gli spirituali sotto degli impostori e tutti i governanti degli imbecilli, tutte le religioni sorpassate, tutte le politiche impotenti, allora si abbandoneranno alla disperazione e vegeteranno nella miscredenza, ma moriranno sterili. Ora, la sterilizzazione sembra essere una forma di salvezza, ma senza la disperazione e senza la miscredenza gli uomini non acconsentiranno mai a divenire sterili, e le donne ancora meno, è l’ottimismo a ucciderci, e l’ottimismo è il peccato per eccellenza. Il rifiuto di sperare e il rifiuto di credere portano immancabilmente con sé quello di generare, è una correlazione che ci si sforza di negare, e anche coloro che vorrebbero spopolare il mondo, prima che sia troppo tardi, non oseranno professare tale convenienza. Ecco perché nessuno agisce sulle cause, quand’anche deplorasse gii effetti che fatalmente comportano.
I popoli poveri continueranno a rimanere poveri e tutti gli appelli alla carità non li solleveranno più dalla miseria, i popoli sventurati sono abissi in cui si volatilizzano gli aiuti dei popoli ricchi, soltanto lo spopolamento – e poco importa con quali mezzi – li salverebbe dall’indigenza, ma il loro orgoglio nazionale vi si oppone, e bisogna anche aver riguardi per questa gente da nulla che, nel suo delirio, pensa di avere dei diritti, nonostante la sua impotenza. In verità, coloro che li incoraggiano a perseverare in tali illusioni, nel nome di una spiritualità fasulla, accrescono il disordine e preparano loro il futuro più orribile; sarebbe meglio insegnare loro fin d’ora che chi muore di fame sarà inchiodato alla miseria, e più presto di quanto non si pensi, poiché la buona volontà non può supplire alla mancanza di eccedenze, nemmeno nei paesi che consideriamo ancora ricchi, dico ancora perché la loro opulenza è alla mercé di una guerra. Dopo la guerra saremo tutti rovinati, e non possiamo evitare la guerra, perché l’ordine che salvaguardiamo si dissolverebbe completamente in una pace esiziale ai suoi imperativi come alla sua ragione d’essere.
Nessuna spiritualità prevarrà sulla biologia e sull’ecologia, tutti gli spirituali sono sorpassati, non vi è nessuna differenza tra maghi e preti, ci si rende altrettanto spregevoli a consultare gli uni quanto a rispettare gli altri. Le leggi della natura si fanno beffe tanto degli esorcismi quanto delle orazioni, e adesso che si impara a conoscerle meglio ci si macchia di una colpa a trasgredirle, e doppiamente se lo si fa per amore di esorcismi e orazioni. Il rifiuto di sacrificare agli dèi e di onorare i loro sacerdoti in verità non farà più morire nessuno, ma l’ignoranza dell’ecologia e il disprezzo della biologia preparano all’intera specie il futuro più tragico. Le nostre religioni sono pestilenze e i poteri che le appoggiano congiure di avvelenatori, la nostra spiritualità non è che masturbazione delle facoltà mentali, ormai abbiamo bisogno di tutte le nostre risorse se vogliamo ripensare il mondo, un mondo in cui l’uomo è l’unico padrone della vita e della morte, l’unico, si badi bene, perché l’alibi metafisico viene ormai definitivamente a cadere, e non possiamo nasconderci dietro la nostra impotenza.
Per quanto tempo ancora potremo ingannarci? Tutti i termini sono giunti alla scadenza, il numero degli esseri umani si gonfia come un mare in cui stia per scatenarsi la tempesta, il suolo esaurito scoraggia i nostri sforzi, l’acqua mancherà dappertutto e l’aria già scarseggia, i cibi hanno sempre meno consistenza e i rifiuti ingombrano l’ecumene avvelenando ogni cosa. L’ora della verità non sarà anche quella della nostra agonia? Che cosa opporremo alla nostra morte? Le ordinanze dei nostri Capi di Stato oppure le preghiere dei nostri spirituali? A che cosa ci servono questi parassiti e questi l’autori di disordine? Gli uni ci portano alla dissoluzione, gii altri li benedicono esortandoci e li esortano benedicendoci, stiamo andando verso il caos con passo eguale, il cuore pieno di speranza, sognando il Paese della Cuccagna, la cui scienza gratificherà i nostri trenta miliardi di figli e di nipoti, nell’ora in cui le cento nazioni formeranno ormai un unico popolo, e le tre razze ne costituiranno una sola. Per quanto tempo ancora potremo ingannarci, sperando che avvenga l’impossibile, ad onta della nostra evidenza? Giacché l’uomo non sarà superato, qualunque cosa accada.
Siamo già troppo numerosi, e siccome i miracoli non sono nell’ordine delle cose, non si potrà mai dare ai sette miliardi di uomini che forse saremo nel DUEMILA ciò che attualmente non assicuriamo alla metà: l’idea pare chiara e distinta, ma al giorno d’oggi le idee chiare e distinte non usano più, lo spirito europeo ha perduto l’incisività insieme con la coerenza, ha dimostrato di non essere all’altezza delle sue opere comunicandole al resto degli esseri umani. Gli Africani e gli Asiatici non attribuiscono lo stesso significato alle parole che mutuano da noi, e la loro vendetta consiste nel farci dubitare di noi stessi, servendosi dei nostri vocabolari. L’Europa è ricca e debole, la Storia ci insegna che il dovere del ricco è quello di essere più forte del povero o di aspettarsi il peggio. Eppure i nostri spirituali e i nostri intellettuali provano un senso di colpa così forte da farli perseverare nell’errore, che li inebria perché è generoso, essi temono di incorrere nel Razzismo, in caso di disinganno. Sono persuaso che ci disinganneremo troppo tardi, e che il Razzismo ha un avvenire.
Non eviteremo né la Fame né il Razzismo, chi sostiene il contrario nega l’evidenza o cerca di fuorviarci. Non ne voglio all’uomo qualunque, che è sempre più indifferente e si ritiene soddisfatto, dal momento che l’industrializzazione gli procura le apparenze della felicità, foss’anche provvisoria. Non ne voglio all’uomo qualunque, questo sventurato per missione che si sveglierà soltanto nel pieno dell’incubo, il mio libro non si rivolge a lui: parlo ai giovani, che nelle università insorgono contro la morale e l’ordine, questi giovani fanno paura a troppa gente, e sappiamo che se scoppierà una guerra moriranno per primi. Parlo a queste vittime rituali, che l’ordine per la morte finisce con l’immolare, immolare in nome della morale, una morale che il sacrificio informa e il sangue ritempra, li illumino sul perché della loro insurrezione e anche li giustifico, anzi li approvo, e tuttavia, in ultima analisi, consiglio loro di obbedire, giacché non basta aver ragione, ragione per tutti i tempi a venire, bisogna anche sopravvivere al presente e durare fino al momento in cui abbia inizio il futuro.
Non è bene aver ragione troppo presto nell’universo in cui non siamo ancora contemporanei gli uni degli altri, non è bene aver ragione troppo presto e di conseguenza morire nell’ignominia. Gli Africani e gli Asiatici hanno scoperto il Nazionalismo, e non sono estranei al Razzismo, quella gente segue le nostre orme, e se aspettiamo che si disingannino, diventeremo loro servi o loro vittime, le nostre donne saranno le loro prostitute e i nostri beni il loro bottino. Non ci perdoneranno di averli umiliati senza poi sterminarli, non ci perdoneranno di averli costretti ad abdicare nella speranza di vincerci, ci vinceranno, se avremo ragione troppo presto, essi si giovano tanto dei nostri spirituali, all’ombra dell’ecumenismo, quanto dei nostri intellettuali, sotto il manto dell’obiettività: siamo perduti, se cadiamo nella trappola. Parliamo di fraternità e dimentichiamo che di fronte a noi abbiamo dei mendicanti e dei vendicatori, brutti, malsani, viziosi, crudeli e dispotici, più cattivi dei peggiori di noi e più bugiardi dei nostri sofisti più incalliti.
E perciò l’ordine, che aborriamo, e la morale, che disprezziamo, l’ordine sorpassato e la morale inaccettabile, che non abbiamo ancora saputo sostituire – né l’uno né l’altra -, noi li difenderemo, ahimè!, con le armi in pugno, giacché chi ci sta di fronte si prepara ad attaccarci, in nome della morale indifendibile e sotto il vessillo dell’ordine condannato. Domando io: che cosa opporremo a questi Barbari? La tolleranza e il lassismo? Ci schiaccerebbero, irridendoci. E se andremo incontro ai loro eserciti, adorni di bori e a mani nude, predicando loro la pace, faranno come i Mongoli nel Medioevo, quando trentamila pellegrini buddhisti disarmati si offrirono ai loro colpi, nella speranza di intenerire i loro cuori: li sterminarono tutti, dopo un attimo di sorpresa. E qualora mi si dicesse che i Mongoli sono diventati buddhisti, replicherei che i pellegrini sono morti. Poiché dobbiamo morire, evitiamo almeno di porgere la gola e di morire vittime dei nostri sentimenti, dimostriamo invece ai nostri avversari che il nostro valore è pari al loro, e trattiamoli come ci tratterebbero loro una volta vinti.
Non ci intenderemo su niente, perché ci verrà a mancare tutto, non eviteremo né la Fame né il Razzismo e non potremo sottrarci all’una se non abbandonandoci all’altro, un giorno diventeremo Razzisti per poter mangiare, saremo uomini bisognosi nel senso peggiore del termine, saremo Materialisti e Razzisti, i due princìpi si uniranno, come si uniscono oggi il Nazionalismo e il Socialismo. Giacché ora le idee giocano con gli uomini, ormai rincretiniti, gli uomini credono di scegliere, e ciò che hanno scelto li ha prevenuti, ormai i popoli non sono altro che trastulli delle loro idee e oggetti dei loro mezzi, mai sono apparsi più schiavi, mai tanto posseduti e tanto alienati, e i cinici incalliti che li guidano non sono meno idioti di quei ruminanti dei loro sudditi. Nessuno vede chiaro, perché non ci sono più idee chiare e distinte, stiamo andando verso la catastrofe, a cui tutte le strade ci conducono, oggi siamo sempre più stanchi di paradossi, cerchiamo Va semplicità, la troveremo solo nella morte, ed è per questo che domani la morte non farà indietreggiare nessuno.
I nostri padroni sono o burloni o sofisti, sono o esorcisti o ipnotizzatori, cercano di guadagnar tempo sul caos e sulla morte, ma non possono più impedire l’irreparabile, e noi andiamo dritti alla catastrofe. Le idee più micidiali ci attendono al varco e non saremo più in grado di eluderle quando il bisogno ci afferrerà alla gola, per tramutarci in belve; ci avviciniamo al ciglio fatale, e non appena saremo a confronto con esso rinunceremo a tutte le nostre illusioni umanitarie e scaraventeremo i nostri avversari nel precipizio. Denominatore comune dei politici futuri sarà lo sterminio, al quale contribuirà anche la natura, aggiungendo la sua furia alla nostra. La fine del secolo vedrà il Trionfo della morte, il mondo oberato di uomini si scaricherà di dosso il peso dei viventi in soprannumero, non rimarrà isola che possa offrire ricetto ai potenti per sottrarli all’infèrno generale che ci preparano, e lo spettacolo della loro agonia sarà la consolazione dei popoli che essi hanno traviato. L’ordine futuro sarà il legatario universale dei nostri fallimenti e i profeti, in mezzo alle nostre rovine, raduneranno i superstiti.
Tutto quello che ci sta accadendo era previsto da lunga data, e coloro che conoscevano la Tradizione sapevano che il mondo era condannato, ma non trovavano orecchi disposti ad ascoltarli. Il cuore dell’uomo non è cambiato, il cuore dell’uomo è simile al mare profondò e tenebroso, i mutamenti hanno luogo soltanto in superficie, dove la nostra sensibilità riflette la luce, ma quando scendiamo ritroviamo ciò che fu e sarà: la filosofia vi si addentra appena, e soltanto la teologia ha le chiavi dell’abisso. La nostra teologia è stata l’aberrazione per eccellenza, e noi ne espiamo i crimini e gli errori: aveva ricusato la natura e la natura si è vendicata, noi siamo antifisici e le nostre religioni cosiddette rivelate non hanno saputo far altro che costruire la tomba della specie. La follia della croce è ora quella dell’uomo, la voluttà del sacrificio è l’ultima all’altezza delle nostre opere, la passione per la morte sarà la consumazione delle nostre idee. Nel caos in cui sprofondiamo vi è più logica che nell’ordine, l’ordine di morte in cui ci siamo mantenuti per tanti secoli e che si disgrega sotto i nostri passi automatici.
Noi entriamo nella notte, dove tutto si disgrega, e ormai non possiamo più guardare indietro, dove le luci stanno spegnendosi del tutto, siamo soli con le nostre idee e le nostre opere, in balìa della loro comune dismisura. Eppure bisogna andare avanti, non è in nostro potere fermarci, abbiamo smarrito il cammino, e quando indugiamo è il cammino a trascinarci. In verità, siamo giustamente puniti per non aver ripensato il mondo, il mondo ci sfugge nel momento in cui lo umanizziamo, ci sfugge perché non vediamo chiaro in noi stessi, e non vogliamo veder chiaro per paura di dover profanare quello che ancora riveriamo. La profanazione ci avrebbe salvati, il coraggio intellettuale avrebbe contrastato la fatalità, divenuta la nostra quintessenza: gli Anarchici e i Nichilisti volevano lare tabula rasa e il futuro darà loro ragione, ma l’ordine li schiaccia e li schiaccerà, finché permane, quell’ordine che ci protegge e ci proteggerà dalla sovversione, non già dal caos e dalla morte, verso i quali ci ingiunge di marciare serrando i ranghi, gli uni contro gli altri, a passo di carica, nella notte che presto macchieremo di sangue.
I giovani non possono più salvare il mondo, il mondo non può più essere salvato, l’idea di salvezza è semplicemente un’idea sbagliata, e noi dobbiamo pagare i nostri innumerevoli errori, è troppo tardi per riparare ad alcunché, il tempo delle riparazioni è scaduto e quello delle riforme è finito. I più fortunati moriranno combattendo e i più miserabili stipati negli scantinati o accoppiandosi tra le fiamme, per ingannare l’agonia con l’orgasmo. Il mondo sarà un grido di dolore e di estasi, in cui gli uomini più puri non avranno altra risorsa che ammazzarsi l’un l’altro per non dover disprezzare se stessi. La scelta dell’agonia sarà l’ultima a noi rimasta, e ciò sarà prima di quanto non si pensi, dall’oggi al domani saremo scaraventati nel precipizio e lì ci sveglieremo, non fosse che per il tempo di sentire che stiamo spirando. Allora rivedremo ciò che videro i Conquistatori del Nuovo Mondo, dove, al loro avvicinarsi, intere tribù si gettavano dalla cima della loro montagna unicamente per prevenire l’orrore inevitabile, ingannando la morte con la morte stessa.
Beati i morti! E tre volte miseri coloro che, in preda alla follia, generano! Beati i casti! Beati gli sterili! Beati anche coloro che preferiscono la lussuria alla fecondità! Oggi gli Onanisti e i Sodomiti sono meno colpevoli dei padri e delle madri di famiglia, perché i primi distruggeranno se stessi e i secondi distruggeranno il mondo, a forza di moltiplicare le bocche inutili. Vergogna agli spirituali, che ci obbligano a riverirli e ci insegnano a sragionare! Saremmo meno miserabili e meno ridicoli se non ci fossero loro, quei predicatori di fumo e quei consolatori da strapazzo, essi non ci servono più a nulla, dopo essere serviti soltanto a ingannarci su di noi, su di loro e sulla nostra evidenza. Si puniscono i falsari e poi si dovrebbero risparmiare coloro che non vivono se non accreditando idee false? La tolleranza è raggiro e il rispetto soltanto delirio, lo abbiamo capito pagando di persona e faremo pagare altri a nostra volta, prima di sprofondare nella fornace manderemo coloro che ci portano alla morte a spianarci la strada che non ci evitano, poi sarà la dissoluzione.
Albert Caraco
–preso da
http://individualismoanarchico.blogspot.com/