Tra virus di rivolta e disinfestazione sociale – sull’operazione Ixodidade

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Introduzione
Il 27 agosto 2012 due anarchici di Rovereto (Trento) – Daniela e Massimo – vengono arrestati con l’accusa di “associazione sovversiva” (art. 270), diverse case e due spazi anarchici perquisiti. La Procura di Trento (nelle persone di Giuseppe Amato e di Davide Ognibene), nell’ambito di un’inchiesta contro 43 compagni, aveva chiesto otto mandati di cattura per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” (art. 270 bis), ma il giudice Carlo Ancona ne accoglie due e con un’imputazione leggermente diversa.

La Procura manterrà l’accusa di 270 bis nella richiesta di rinvio a giudizio per gli otto imputati. Daniela viene sottoposta subito agli arresti domiciliari, mentre Massimo passa una settimana in isolamento nel carcere di Tolmezzo per poi essere trasferito nella sezione di Alta Sorveglianza di Alessandria (una sezione aperta qualche anno fa sostanzialmente per gli anarchici). Dopo un mese e mezzo Daniela torna in libertà, mentre Massimo viene sottoposto agli arresti domiciliari.

Queste accuse e questi arresti non sono ciò che si può chiamare una novità.

Dagli anni Novanta ad oggi, in Italia, sono state numerose le operazioni repressive contro gli anarchici basate sull’accusa di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo”, “associazione sovversiva” o “associazione a delinquere”. Lo schema è più o meno sempre lo stesso. Si prendono – e si stravolgono – alcuni concetti dai testi dell’anarchico Alfredo Bonanno (in particolare quelli di “gruppo di affinità” e di “organizzazione informale”) per sostenere l’esistenza di strutture gerarchiche fondate sul “doppio livello”, uno pubblico e uno clandestino. Non potendo attribuire certe azioni o certi sabotaggi ai singoli compagni indagati (o non volendo accontentarsi di questo), lo Stato s’inventa delle “associazioni” per poter distribuire anni di carcere in base a una sorta di responsabilità collettiva derivante dalle relazioni di lotta, di solidarietà o anche di semplice conoscenza. I rapporti tra i compagni vengono completamente mistificati, per cui qualcuno viene definito “capo”, qualcun altro “ispiratore”, “cassiere” o “manovale”. Queste “associazioni” hanno per lo più delle sigle inventate dagli inquirenti, oppure, là dove esistono realmente dei gruppi che hanno rivendicato con le loro sigle delle azioni contro uomini o cose del potere, poliziotti e giudici attribuiscono ruoli e partecipazione a loro uso e consumo. Quando attacca gli anarchici, lo Stato si guarda allo specchio e tenta di ricondurre tutto alla propria logica. La violenza rivoluzionaria o il semplice danneggiamento di una banca diventano “terrorismo” (là dove la definizione storica di terrorismo – “uso indiscriminato della violenza al fine di conquistare o consolidare il potere politico” – si applica perfettamente ai governi e ai padroni).

I rapporti di affinità e di solidarietà vengono trasformati in “strutture gerarchiche e piramidali”, cioè nella negazione stessa dell’etica e della pratica anarchiche. Ma, come disse un compagno a un giudice negli anni Settanta, “io non faccio parte della vostra famiglia”. Solo nell’estate scorsa, in Italia, le inchieste per reati associativi sono state ben quattro. Otto compagni sono stati arrestati (e sette sono tutt’ora in carcere: Paola, Giulia, Elisa, Sergio, Stefano, Alessandro e Peppe) per l’operazione “Ardire” condotta dalla Procura di Perugia (21 indagati per 270 bis, con due custodie cautelari applicate anche a compagni già dentro da tanti anni, Marco e Gabriel). Diversi compagni sono stati perquisiti su ordine della Procura di Bologna per l’operazione “Mangiafuoco” (“associazione a delinquere con finalità di terrorismo”). Tredici indagati per l’operazione “Thor” (270 bis, ancora la Procura di Bologna). Sempre con l’accusa di “terrorismo”, altri due, Nicola e Alfredo, sono stati arrestati il 14 settembre quali presunti autori del ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Benché a firmare le carte siano singole Procure, è evidente che la regia è del ministero dell’Interno.

Anche se molto spesso queste operazioni non portano a condanne, gli arresti preventivi permettono comunque allo Stato di spezzare il filo dei rapporti e dei progetti rivoluzionari, di allontanare per un po’ di tempo compagne e compagni dalle lotte, nonché di “testare” la capacità di reagire e il grado di solidarietà o di isolamento che li circonda. Tutto ciò è ancora più evidente oggi, visto il riemergere dello scontro sociale. Ciò che il potere teme, oltre al diffondersi delle pratiche di attacco, è il ruolo potenziale degli anarchici nei conflitti in corso e in quelli a venire. Possiamo dire, cioè, che siamo di fronte non tanto ad operazioni repressive, quanto a forme di “contro-insurrezione preventiva” elaborate ormai a livello internazionale (e infatti le varie legislazioni “anti-terrorismo” sono sostanzialmente simili e non di rado ricalcate sull’esempio italiano degli anni Settanta e Ottanta).

Il potere, per continuare a garantire l’accumulazione di profitti, deve picchiare duro. Il valore stesso del denaro – basato sull’intervento sempre più diretto dello Stato – viene imposto con la violenza della polizia. Da Equitalia agli sfratti, dalle cariche in piazza all’attacco a salari e pensioni, il monopolio statale della violenza è l’ultimo ricorso per un capitalismo in profonda ristrutturazione. Questa violenza, contrariamente a ciò che raccontano le favole democratiche, non presenta alcun limite interno (le leggi, la Costituzione, il cosiddetto patto sociale ecc.). L’unico limite è la ribellione (reale o temuta) degli sfruttati. Se il potere si dà progetti più a lungo termine – abbassare ancora il “costo del lavoro”, privatizzare la sanità, smantellare il sistema pensionistico, estorcere i risparmi di milioni di persone, militarizzare ulteriormente la società ecc. – le singole misure non vanno viste solo come passaggi intermedi, ma anche come verifiche sul campo della sopportazione sociale. In tal senso non aveva torto Monti mesi addietro nel dichiarare, ritirando un premio all’estero, che quel premio avrebbe dovuto essere conferito al «popolo italiano» per «lo spirito di sacrificio dimostrato». «Quello del capitale è un popolo di stoici» scrivevano, con intenzioni opposte, Collu e Cesarano in Apocalisse e rivoluzione (1974). Ma qualcosa sta cambiando, come emerge, ad esempio, dall’ultimo, preoccupato Rapporto del Censis sulle proteste in Italia. E come si è visto in mezza Europa il 14 novembre 2011.

Anche gli sfruttati cominciano a fare le loro verifiche sul campo, per cui ogni lotta ne prepara un’altra, ogni barricata può rendere più solida quella successiva. La verifica più importante consiste nel vedere, nel capire, nello sperimentare in prima persona che opporsi alla violenza statale – che è anche, ma non solo, brutalità poliziesca – è possibile. Ecco allora la necessità di operazioni poliziesche e giudiziarie coordinate direttamente dal ministero dell’Interno. Se queste operazioni mantengono delle costanti, esse hanno però anche delle specificità. Vediamo ora quelle dell’operazione contro i compagni e le compagne del Trentino.

Il primo elemento da sottolineare è il nome stesso dell’inchiesta, “Ixodidae”, che in latino significa “zecche”. “Zecche” è il modo in cui i fascisti hanno sempre chiamato anarchici, comunisti, sovversivi. Più in generale, l’equiparazione del “nemico interno” all’animale, all’insetto, al parassita è tipica del colonialismo imperialista; una metafora nata di pari passo con la guerra chimica e con il fiorire dell’industria della disinfestazione. I “pidocchi” furono prima i parassiti da debellare con prodotti chimici in trincea e poi i popoli coloniali da bombardare con i gas, per arrivare agli ebrei, grazie al cui sterminio gli industriali della disinfestazione fecero lauti affari. Facendo i debiti distinguo, non è certo un caso che l’operazione “Ixodidae” sia arrivata nell’anno in cui maggiore è stato l’uso – per lo meno in epoca recente – di gas CS da parte delle forze dell’ordine. Il linguaggio del potere non è mai neutro né accidentale. Chi ostacola il dominio sui territori e sulle vite è una zecca da schiacciare. Va da sé che tutto ciò è ben altra cosa di una “operazione repressiva contro gli anarchici”. È ormai l’intera popolazione ad essere considerata un minuscolo e spregevole insetto di fronte all’Apparato e alla sua Grande Opera di disinfestazione sociale.

Il secondo elemento è lo scarto tra il numero degli indagati (43) e il numero degli arrestati (2). Di una pretesa “organizzazione piramidale e gerarchizzata” si arrestano solo il “capo” e la “cassiera” (non sfugga l’ideologia patriarcale degli inquirenti: il maschio dirige, la femmina amministra i fondi…). E per finire le accuse. Ai presunti membri del “Gruppo Anarchico Insurrezionalista Trentino” (“G.A.I.T.”, una sigla inventata dalla polizia politica) si contestano 28 reati. A parte manifestazioni di piazza, occupazioni o iniziative antimilitariste, si tratta di azioni dirette e sabotaggi anonimi (contro mezzi dell’esercito, ripetitori, tecnologie del controllo, agenzie interinali, banche ecc.). Nello stesso elenco figurano però anche degli scontri avvenuti in Grecia e soprattutto quelli del 3 luglio 2011 in Valsusa tra NO TAV e polizia.

Rispetto a quella giornata di guerriglia nei boschi, gli otto compagni imputati non sono accusati di aver commesso reati specifici (e infatti non risultano tra i 52 NO TAV a processo proprio in questo periodo), bensì di aver orchestrato e diretto gli scontri, nell’intento evidente di colpire sia gli anarchici sia l’autonomia del movimento NO TAV, che poliziotti, giudici e giornalisti descrivono come “ostaggio di una minoranza di violenti”. E infatti non è un caso che gli arresti, benché fossero stati disposti il 2 agosto, siano stati eseguiti soltanto il 27 agosto, quasi un mese dopo, cioè qualche giorno prima del campeggio NO TAV organizzato vicino a Rovereto (anche il Trentino è coinvolto da un progetto di Alta Velocità), per dividere il movimento in “buoni” e “cattivi”. Nelle pagine seguenti torneremo su questi aspetti.

Se al potere dànno fastidio le pratiche di attacco alle sue strutture, gli dà fastidio anche che i compagni siano da anni parte attiva nella lotta NO TAV, che il ministro dell’Interno ha definito “madre di tutte le battaglie”. Più in generale, bisogna spegnere certe scintille prima che arrivino al barile; bisogna cancellare dalla mente di tanti sfruttati la tentazione stessa della ribellione. Possiamo dire che il tentativo di isolare gli anarchici finora non abbia funzionato granché. Dalla Valsusa al Trentino, non sono mancate le manifestazioni di solidarietà nei confronti degli arrestati e degli indagati. E i sabotaggi, che gli inquirenti attribuivano alle direttive di presunti capi “finalmente in carcere”, sono continuati anche dopo gli arresti.

Perché la criminalizzazione ha attecchito meno che in passato? Forse sta emergendo una maggiore consapevolezza – vista anche la sempre più frequente brutalità poliziesca nelle piazze – sul rapporto tra repressione e “crisi”. Il potere ha bisogno dell’isolamento sociale, mentre gli sfruttati hanno sempre più bisogno di autorganizzarsi per lottare o semplicemente per vivere. Diventa più facile capire che i reati associativi – ereditati dal fascismo e aggravati dalla democrazia – vogliono imporre con la polizia e con il carcere quel formicaio di uomini soli che è la società capitalista. Il crimine è ormai il fatto stesso di unirsi e condividere sogni, esigenze, pratiche, vita. Va da sé che far fallire un simile progetto non è interesse solo degli anarchici. Un ricordo di buon augurio. Nel 1871 i poliziotti di mezza Europa davano la caccia come ossessi agli internazionalisti, che i giudici arrestavano con i più allegri pretesti, tra gli applausi dei ricchi e gli incoraggiamenti della stampa. Dopo averne scorto e rincorso il fantasma dappertutto, i borghesi e i loro servitori dovettero infine affrontare un’associazione sovversiva in carne ed ossa: la Comune di Parigi.
gennaio 2013