Anche quest’anno, con monotona regolarità di calendario e triste preparazione d’inverno, la data del venticinque dicembre è qui come un avvenimento calcolato, conosciuto ed inevitabile, a riscuotere la considerazione insipida dell’ipocrisia convenzionale. La neve ugualmente e desolatamente bianca nelle campagne, e calpestata e sporca nelle vie delle città, stende il suo mantello sulla superficie del mondo, coprendolo d’un gelo immobile che sembra l’espressione tangibile d’una metafora d’inerzia; di nulla e di morte.
Sopra la terra le case si elevano scolorite e silenziose, impiastricciate qua e là di bianco sui mattoni rossi e di bianco ricoperte; mentre gli alberi ergono i propri rami stecchiti e rigidi verso l’alto, quali fantasmi rivestiti e incorniciati di frange bianchicce, quali giganti attoniti ed inutili che un destino ironico obbliga a rimanere in quella posizione eretta, senza perché e senza significato. Infine sopra gli alberi, sopra le case, sopra tutto, il cielo apre il proprio lenzuolo di nubi grigiastre e scialbe, raccorciando il raggio dell’orizzonte, quasi a limitare e contenere lo sguardo di chi cerca qualche cosa di vivente, tra lo specchiarsi e il confondersi dei fantasmi più o meno sudici e più o meno candidi; tra il delinearsi mesto dell’invernale cimitero.
La scena è così completa, preparata, uniforme; e Cristo è giunto su di essa. Oggi, secondo la tradizione che tutti rispettano senza credervi più, il Nazareno è nato per l’ennesima volta; è nato tra la neve che circonda la leggendaria capanna e la paglia che le serve da pavimento; tra la pace profonda dell’universo, il respiro degli animali che riscaldano la culla e il pelligrinaggio lento dei fedeli rispettosi e confusi. A dire il vero, la capanna potrà anche essere una chiesa sontuosa illuminata a luce elettrica e riscaldata a termosifone; il pavimento di paglia potrà anche mutarsi in una distesa elegante di mattonelle smaltate e dipinte; le preghiere umili potranno anche avere l’accompagnamento di un coro esperto o di una orchestra ben istruita; la culla potrà anche esser rappresentata da un altare massiccio rivestito di ninnoli e d’oro. Persino i fedeli saranno probabilmente diversi da quelli di un giorno; e se tra essi i re magi e i pastori mancheranno, non mancherà la gente a modo che frequenta la cattedrale, almeno in questo giorno, sia per abitudine irragionata ed irragionabile, sia per scrupolo di scandalo tra il mondo che impone collettivamente ciò che individualmente si potrebbe e si vorrebbe anche trascurare.
Ma che importa tutto ciò? Il simbolo muta i suoi fedeli, trasforma i suoi riti, arricchisce i suoi splendori, complica le sue cerimonie; si evolve insomma e si nega, ma, come simbolo, rimane. Rimane il mito della povertà umiliante, dell’elemosina accettata, del dio caritatevole, dell’abbassamento volontario; il mito del nulla umano che insegna agli individui a scendere, a supplicare e ad inchinarsi per ottenere da Dio la dovuta pietà. Gli uomini, confinati in questa valle di lacrime da una divina volontà insindacabile; obbligati a soffrirvi da una fatalità di peccato originale, devono cercare di lenire vicendevolmente le proprie pene; devono scambiarsi a vicenda l’aiuto ed il conforto; devono procurare di trarre dal purgatorio passeggero che attraversano in attesa del gran giorno, tutta la gioia possibile, rassegnandosi al male per dimenticarlo; debbono soprattutto amarsi l’un l’altro e rimanere in pace, per non aggiungere i mali della lotta a quelli scatenati dalla collera dell’Onnipotente. E soprattutto, rassegnandosi, amandosi, aiutandosi, accordandosi, debbono rimanere immobili cogli occhi fissi nel cielo infinito e misterioso, invocando, nello slancio della preghiera dolorante, l’abbraccio misericordioso della divinità scendente sino ad essi; debbono votarsi in eterna e servile obbedienza per placarne il corruccio; e, onde rendersi accetti al bacio paradisiaco o fuggire dal pericolo orribile dell’inferno, debbono escogitare ogni mezzo, naturale o artificiale, sincero o ipocrita, per ridursi, per diminuirsi, per negarsi, per diventare infinitamente umili e infinitamente piccoli, in modo da non suscitare le gelosie e da destare la pietà di quell’infinitamente grande che si chiama Dio. Così gli umani, sciogliendosi in una melma informe inzuppata di lacrime e tramutandosi ognuno in una stilla di pianto, potranno ad uno ad uno essere assorbiti da quell’occhio immobile ed incommensurabile che tutto guarda, tutto scruta, tutto conosce, tutto dirige prevedendo, senza commuoversi o turbarsi mai.
[1910]
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