Questa conferenza fu tenuta a Genova, nel Politeama Alfieri, il 18 ottobre 1903, fu pubblicata nel supplemento letterario del giornale «La Pace» di quella città.
Cittadini!
Mentre sotto il bacio mite e paterno del sole galoppano i cavalieri scintillanti di armi e l’infanteria sfila sotto il cielo di Parigi che vide il 18 brumaio (1) ; mentre in Genova operaia da ogni città d’Italia i cooperatori si sono riuniti in un convegno, dove sorride la poesia possente d’un avvenire più giusto e più fulgido, – si è voluto invitare questo stanco milite perduto, questa umile sentinella la cui bandiera è di continuo oltraggiata, a parlare di pace, mentre ancora nell’aria si sente l’odore della polvere e la eco della mitraglia dell’ultima lotta degli operai liguri in questa guerra, che è palingenesi e rivoluzione, in questa che è la guerra giusta d’ogni giorno in pro’ degli umili e degli sfruttati contro le forze strapotenti dell’opprimenti capitalismo.
Certo, bisgno che noi dichiariamo d’essere contrari a tutte le guerre ingiuste; per distinguerle dalle guerre giuste; poiché ci sono anche guerre giuste, e sono quelle che esercitano una legittima difesa delle vittime contro lo sfruttamento e la violenza, quelle, in una parola, combattute contro la guerra. Ma il nostro, di cui siamo militi, è un ben altro esercito, non quello delle armi e dei galloni, e nessuno di noi si vanta di ricordi aviti di violenza guerresca, per quanto io che vi parlo e tento di sferzare col knut del sentimento gli animi vostri per il grido di protesta e la maledizione feconda, sia stato allevato in una culla da cui udivo le marce e gli inni militari rievocari dalla voce dell’avo ricordante i personali ricordi della grande epopea napoleonica, e m’abbia accarezzato l’orecchio traverso altri racconti l’eco del rimbombo dei cannoni in mezzo al quale mio padre artigliere aveva combattuto per il sogno della libertà patria.
* * *
Vediamo di accennare di volo alla genesi della guerra.
Questa non è, in fondo, che lo spirito, o megli l’esplicarsi delle tendenze belluine delle genti primitive, che sentono più prepotente il bisogno di menar le mani. Chi non ricorda, nel Lavoro di Zola, la scena dei bambini che si prendono a sassate, di simili alla quale noi pure nei primi anni infantili ne abbiamo presenziate, spesso prendendovi parte attiva, le quali riproducono in miniatura e rappresentano le lotte dell’umanità infantile, – gli instinti del fanciullo si assomigliano molto, come si sa, a quelli del selvaggio primitivo, e mostrano fedelmente il processo di ontogenesi della psicologia militarista?
La guerra, questa rissa in grande, non dovrebbe destare meno orrore, in noi, d’una zuffa sanguinosa a coltellate, cui per caso coi trovassimo ad assistere in qualche angolo buio delle nostre città, combattuta fra i peggiori elementi che questa società cannibalesca sappia allevare alla triste odissea del delitto, della degenerazione, degli ergastoli e dei patiboli.
Un consorzio civile che abbia già valicato il termine della preistoria, e d’altra parte non sia degenerato sotto il peso dell’ingiustizia e della prepotenza, dovrebbe aborrire la guerra come l’uomo adulto si guarderebbe bene dall’organizzare le sassaiuole che lo appassionavano da fanciullo.
La tendenza infantile dell’umanità dovrebbe a quest’ora, perciò, aver compiuta la sua evoluzione, essersi esaurita traverso l’esperienza storica; e, come i fanciulli dopo la lotta si rconciliano, per prendere tutti insieme a sassate i lampioni della strada e gli alberi del frutteto, così la tendenza istintiva dell’uomo alla guerra per la guerra dovrà un giorno assumere in seno alla società moderna una forma più civile. Non sarà più guerra sanguinosa fra uomini ed uomini, ma guerra, sia pur difficile ed aspra, eppur meno dolorosa, di tutti gli uomini riconciliati contro le difficoltà della vita, per strappare alla natura in maggior copia i segreti del benessere e del godimento comune. Intanto per giungere a questo stadio di evoluzione, sia oggi almeno la guerra una guerra utile, e serva a sgretolare, rovesciare, sovvertire quanto v’è di triste fra noi, per ricostruire domani la società fraterna dei liberi ed uguali.
Sia essa insomma la grande forza rivoluzionaria che farà leva al mondo, quella che Victor Hugo chiamò guerra giusta per l’uguaglianza e per la libertà – la guerra al regno della guerra.
Vinsero nella storia due tipi di eroi; il cavaliere Baiardo senza macchia senza paura, che compiva le sue gesta in un tempo in cui i cavalieri sapevano andare, per lo meno, a cavallo; ed il Lohengrin, la grande nordica del rivoluzionario dell’arte Wagner. Ambedue rappresentano una forma simpatica, apprezzabile di coraggio.
Però il loro coraggio era apprezzabile in rapporto ai tempi in cui quei due eroi vivevano, i quali, allora, per il periodo di evoluzione e l’ambiente in cui vivevano potevano essere considerati un indice di progresso. Così la cavalleria come istituzione, che oggi sarebbe un non senso e i cui rimasugli ci appaiano quali rimasugli di barbarie, nel medio-evo rappresentava uno stadio di civiltà superiore al precedente, poiché nelle contese guerresche collettive ed individuali e nei rapporti con la donna essa mise una nota di mitezza e di gentilezza, una attenuazione per quanro leggera della violenza.
Così si afferma la definizione delle varie forme di coraggio. La storia ed il coraggio devono essere messi a raffronto con l’utilità sociale, e quanto più il confronto riesce a vantaggio di questa, tanto più il militarismo professionale, che nel coraggio per il coraggio fa risiedere ogni gloria ed ogni nobile manifestazione dell’attività umana, resta nesorabilmente condannato.
La natura, osserva appunta il Liell, ha dato gli uncini e le zanne a quella specie di animali per i quali la violenza e la rapina è una necessità vitale; ma l’uomo moderno, che ha la ragione, formidabile forza prometeiana (come cantò Shelley), che aggioga il fulmine e conquista a suo beneficio l’elettricità, che vince il tempo e lo spazio, l’uomo deve insomma sostituire questa sublime forza della ragione – sia pure ancora relativamente embrionale – alla zanna, all’artiglio della belva.
Quest’ordine di idee in modo assai nitido illustrò Guglielmo Ferrero nel suo libro sul Militarismo, e ultimamente nei due volumi di critica ricostruttiva della storia di Roma antica, i quali sono lo svolgimento e l’applicazione al caso specifico delle teorie svolte nel primo libro.
Il popolo romano che esercitò le zanne e l’artiglio della belva assai più del cervello umano, doveva fatalmente correre verso la sua dissoluzione. La sua forza a lungo andare si esaurì, e prima le mollezze e la voluttà più materiali e quindi l’invasione delle giovani energie dei popolo vergini del settentrione lo ferirono a morte. Doveva il cristianesimo infine salvare appena le apparenze, accumunando in una setta mistica, e curvandoli dinanzi al prete di Roma, vinti e vincitori – un’latra vittoria ancora dello spirito sulla materia, dell’intelligenza per quanto pervertita, sulla violenza bruta.
E non è male rammentare tutto ciò che ebbe Roma di più fulgido nell’arte, nella letteratura e nel pensiero fu importazione della Grecia, la prima vincitrice morale del colosso dai piedi d’argilla, che non aveva altro sostegno che la punta delle daghe delle legioni romane. Così il poeta latino senza scrupoli poteva cantare: Graecia capta ferum victorem coepit, et artes intulit agresti Latio.
Nonostante tutto ciò, bisogna confessare che in noi è ancora ben radicato il sentimento militarista; non ne è forse una prova il bisogno di ammirazione espansiva, che quasi tutti noi sentiamo, ogni qual volta un battaglione di soldati sfila dinanzi ai nostri occhi, con tutte le pose marziali delle comparse nella sfilata dei soldati di Radamès, nell’Aida, quando le schiere si rinnovano dietro le scene e per più volte gli stessi visi passano e ripassano dinanzi agli occhi ammirati dell’ingenuo spettatore?
Rivolgiamo ora a noi stessi una domanda semplice, ma pure molto importante, e tentiamo un po’, di grazia, di darle una risposta.
«L’umanità nell’esplicarsi normale della vita quotidiana ha bisogno più del valore militare o del valore civile?»
La risposta non può essere dubbia. Il coraggio moderno è il coraggio civile, il quale è divenuto un bisogno nuovo dell’umanità e batte perfino alle porte gemmate dei principi, che avendo dietro di sé un passato tutto intessuto di glorie militaresche, cercano anche essi la luce nuova, una luce ancor più fluida, qual’è quella del valore in pro’ della scienza e dell’umanità, con cui desiderano verniciare a nuovo gli stemmi che han perduto l’oro primitivo fatto di lutti e di lacrime.
Non discutiamo ora i moventi, né la misura delle singole imprese; ma chi oserebbe in ogni modo oggidì paragonare il Duca degli Abruzzi al Conte Verde o al Conte Rosso, senza concedere al primo la palma della vittoria del confronto?
Del resto la medesima evoluzione storica del concetto di patria – a cui i militaristi pur anco si riferiscono per trovare una ragione d’essere dei loro cannoni e delle loro sciabole – mostra come l’umanità cammini rapidamente verso la fine di tutte le guerre.
Quando ci si chiama senza patria sol perché vogliamo amarle tutte le patrie e in nessuna terra vogliamo che il nostro fratello di fatica e di dolore, la nostra sorella d’amore e di lotta, e nessuno insomma possa chiamarci stranieri; quando si crede vilipenderci con questo nomignolo dispregiativo, che pure significa un’altra sorgente di odio inaridita nel nostro cuore e nel cuore di tutti, e significa all’odio sostituito il fraterno aiuto di tutti contro le necessità e le difficoltà naturali dell’esistenza – ci si rende maggior onore a cui possiamo ardire: onore superbo che ci gloriamo di avere comune con Socrate e con Cristo, con Diderot e Mario Pagano con Garibaldi e con Pisacane, con Zola e con Tolstoj.
Questo concetto è fatto completamente d’un pensiero d’amore e di fratellanza per il genere umano.
Un tempo, nelle epoche primordiali della società, l’uomo isolato lottava contro l’uomo. Erano le forme più brutali della lotta per la vita, il cannibalismo e l’antropofagia formavano uno dei canoni del diritto guerresco. Nessuna solidarietà, nessun vincolo d’amore stringeva l’individuo, allora nomade selvaggio, agli altri suoi simili.
Ma l’individuo isolato dovette accorgersi e comprendere come, unito ad altri individui, egli avrebbe saputo più facilemente vincere le resistenze della natura esteriore. E così sorsero il patriarcato e la tribù. Ma tutta la patria allora si circoscriveva ai confini dell’angusta valle nativa, od ai lembi della foresta.
Ma poi le relazioni si estesero, i sentimenti di socievolezza sotto l’impulso dei bisogni si diffusero maggiormente – sorsero le prime città: ed il concetto di patria si allargò fino alle mura, che la difendevano dai nemici.
Nel medio-evo la patria fu come il comune; e si credeva tanto logica e patriottica una guerra tra comune e comune, come le tragiche guerre tra Pisa e Genova ed altre consimili, che oggi si giudicherebbero fratricidio – come oggi si giudicano ancora da molti le patriottiche guerre combattute fra nazione e nazione. Ma verrà il tempo in cui, come si ride dello spirito di campanile, ed anche il regionalismo – si riderà del sentimento patriottico come ora è inteso dai più; e si comprenderà che la intiera famiglia umana è l’unica nazione logica e grande; tutta la terra trasformata dai portenti dell’ingegno umano, nella immensa e gloriosa patria dell’umanità.
A questo ci conducono, cittadini, le rigide leggi della storia, alla grande idealità di fratellanza internazionale, cui si ispira odiernemente l’intero movimento socialista e libertario, tutta la falange degli operai uniti nelle loro organizzazioni di mestiere per la resistenza contro lo sfruttamento e la tirranide, che hanno sentito la gran voce che dal 1848 li ha chiamati a raccolta col grido: Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!
* * *
Dicevamo dunque: Guerra alla guerra, sotto qualunque forma si manifesti!
Guerra alla guerra economica, alla guerra morale, alla intellettuale! Guerra ad ogni forma di sopprafazione, e facciamo largo alla nuova civiltà nuova, basata sul gran principio della solidarietà, solidarietà delle patrie, delle classi, delle caste, concorrenti in un movimento uguagliatore al libero sviluppo delle energie di ciascuno per il benessere di tutti.
Oh! Il bel sogno! Come dolce sarebbe con un coro d’angeli e al batter di una bacchetta magica, veder trasformarsi questa nostra società, in cui è legge l’homo homini lupus di Hobbes, in un’altra società basata non più sul, privilegio, sull’ingiustizia e sul diritto collettivo ma sui grandi principi della solidarietà, della giustizia e della pace!
Ma invece, impedimento enorme all’avanzarsi dell’avvenire, nella società nostra esiste un gregge, che si contenta di pascolare, brucando i fili d’erba sul prato infecondo, senza conoscere altre vie all’infuori di quelle che menano all’ovile ed al macello.
E di contro a questo gregge, che bruca le tisiche erbe del prato, i padroni del fondo e dei velli futuri guardano ocn occhio soddisfatto dalle finestre della villa, mentre, per compiere il quadro, i soldatini in erba prendono a sassate i frutti del giardino e, in mancanza di quelli, magari i neri cipressi cantati dal Carducci, laggiù in fondo al viale, disegnatisi colle loro cime sul cielo cireneo, tutto coperto di nubi gravide di tempesta.
Bisogna dinque attendere; e nel frattempo combattere, e affrontar tempeste, correr pericoli, calpestare rovi pungenti, prima di giungere alla città della luce, laggiù, verso oriente, dove la scorgiamo appena biancheggiare, candida di una immensa promessa di amore e di tranquillità.
Si è mai domandato alcuno di voi come i militaristi giustifichino la soppravvivenza nella società nostra di queste consuetudini belluine di altri tempi, meno civili degli odierni?
Noi sì. Se no la giustifichiamo, la sappiamo spiegare questa permanenza fra noi degli istituti di violenza. E se anche nel sapessimo, se ne incaricano essi stessi di spiegarcela alla prima occasione.
Questa città, in cui ferve il lavorio della organizazzione economica, in cui gli scioperi si sono succeduti agli scioperi, nei giorni di battaglia anche la più pacifica, la meno irruenta, la più legale, deve aver visto passare da un capo all’altro, le compagnie di soldati mandati dal governo ad assicurare la… libertà del lavoro. Era quello il militarismo in azione, nell’esercizio delle sue mansioni: la difesa del privilegio politico ed economico.
Questa è una delle ragioni di sua esistenza fra le più importanti. Essa spiega ancora una volta perché gli uomini di progresso ne sono avversari, e perché noi, che contro il privilegio politico ed economico combattiamo, se non fosse per alcun’altra ragione, dovremmo combattere lo stesso per questa contro il militarismo.
Ma, ripeto, quale giustificazione chiamano mai in loro appoggio i militaristi, dal momento che questa nostra essi non la possono invocare senza ammattere implicitamente l’ingiustizia del loro privilegio insieme a quella di tutto il sistema che essi difendono?
Io ricordo come certe vecchie carte ingiallite la voce tremolante dell’avo che il militarsmo (l’armata si diceva allora) giustificava presso a poco coi sillogismi con cui Torquemada giustificava la Santa Inquisizione.
Nel concetto turpemente cattolico degli Inquisitori le vittime sottoposte ai suplizi su questa terra acquistavano più presto nell’altra vita le gioie del paradiso. «Se togliete dal mondo le armate – diceva mio nonno – quanta parte di nobiltà dello spirito umano se ne andrebbe con loro!».
Eppure questa giustificazione, che traeva le sue origini ancora dallo spirito ardimentoso dei cavallieri di ventura, era sempre meno ributtante che non quella dei guerraioli bottegai d’oggigiorno maledetti da Victor Hugo e pur sopravissuti al secolo dell’esperienza, il secolo dell’attesa, come lo chiamò Pietro Kropotkin. Nonostante, in questo lambicco di esperimento che fu il secolo XIX si continuò cinicamente a chiamar gloria ciò che non era che delitto.
El crimen de la guerra, prezioso libro dell’Alberti, poco conosciuto dagli italiani, che rinunciano tanto volentieri nel loro anafalbetismo politico a conoscer ciò che pur così da vicno li riguarda, El crimen de la guerra illustra questo concetto della gloria militareassimilata al delitto, e diversa da questo sol perché è esplicazione d’una criminalità collettiva, e rileva tutta l’assurdità della condanna di due rissanti, che sulla via si prendono a coltellate, quando si è indulgentissimi verso altri due che scendono sul terreno a scannarsi, sol perché questi lo fanno con un coltello più lungo e più… nobila: la spada.
Una morale che condanna la zuffa violenta di due uomini corrotti e violenti che si contendono col pugnale alla porta di un pastribolo il possesso di una sventurata che poi il vincitore sfrutterà, e che condanna anche, se non troppo severamentecon le leggi penali almeno nell’opinione dei più, i pretesi gentiluomini che con la sciabola o la rivoltella si battano per rivalità d’amore, un amore forse copre cupidigia d’una dote – questa stessa morale perché non dovrebbe condannare e render impossibili quanto prima i giganteschi duelli di popoli, assai più funuesti e terribili, che fanno spargere sudore, lagrime e sangue, e troncano migliaia di vite umane e laboriose, per assicurare ad una potenza politica piuttosto che ad un’altra autorità su di un paese, per dare ad una oligarchia finanziaria piuttosto che ad un’altra la possibilità di sfruttarlo economicamente?
– Tu sei un regicida! – grida la società, terrorizzata da un colpo mortale, che una mano armata di pugnale, alla cui cima affidava la ragion d’una idea seppe vibrare nel petto di un coronato.
E nessuno pensa che è da questo contagio di sangue che si respira nell’aria e da questa ridda d’interessi, di passioni e di appetiti che sorge il desiderio, la necessità, il bisogno di uccidere. E la morale di questa frenesia, la determinante?
Chi di voi ha avuto la disgrazia di dover leggere qualcuna di quelle offese alla logica ed alla grammatica che soglionsi chiamare note diplomatiche, avrà capito che la sorte della giustizia e della pace tra gli uomini sta tutta ancora racchiusa in questo poche barbariche espressioni:
– Io ho ragione! – No, la ragione è mia! – Ebbene, eccoti questo colpo di spada. – E tu, pigliati questa fucilata -. E così scoppia la guerra, e l’umanità in pieno secolo XX fa la prova dell’acqua amara, dello stivale di pece rovente, il Giudizio di Dio di medioevale memoria.
Oh! di fronte a tanta incoscienza turpe e brutale, si capisce benissimo come lo stesso codice che manda in galera gli autori dell’omicidio individuale, permette appena che, dopo l’assassinio di 35.000 patritti in Polonia, l’anima popolare lanci per bocca di Flouquet il suo anatema, la sua maledizione: «Vive la Pologne, Monsieur!» – Davvero, se il biblico qui gladio ferit gladio perit si dovesse avverare, quante volte dovrebbero cadere uccisi i gallonati e i responsabili dei favolosi eccidi come quelli di Polonia!
Ma il concetto biblico della vendetta, dell’«occhio per occhio, dente per dente» è troppo contraddicente alle nostre idealità perché io abbia qui ad invocare.
* * *
Però, abbiamo di che consolarci! La guerra oggi ha perduto parecchio del suo carattere primitivo; ora la guerra, secondo i suoi apologisti, non è più selvaggia come una volta, perché è diventata… scientifica.
Quale cinismo! quale profanazione d’una parola sacra! La guerra scientifica, e cioè, le doti dell’ingegno, le notti insonni dello studioso dedicate al problema della sitruzione. Scienza in questo caso è sinonimo di maledizione.
Ma servitene, o uomini, della scienza, di questa benefica Dea, per strappare i suoi segreti alla natura, per dar vita alle macchine, la forza al carbone, per rendere l’elettricità produttrice di ricchezza, – ristorare i tendini rilassati delle pecchie umane nella fatica del lavoro quotidiano; servitene per tagliare le montagne, per irrigare le valli, per rendere l’aria salubre, per allacciare fra di loro i popoli stringerli in un patto fraterno di solidarietà e di collaborazione, affinchè procedano insieme alla conquista del progresso e della felicità.
Fate della scienza uno strumento di civiltà, – non di distruzione e morte!
La guerra moderna, abbiamo detto, è cinica.
Infatti, la guerra scientifica, per cui si possono recidere a migliaia di metri di distanza migliaia di uomini che non si conoscono, ha perduto anche la forma del culto primitivo della forza e della destrezza delle armi, che si aveva nella Grecia antica.
Gli Agamennone, gli Achille, gli Ettore, gli Enea non sono più possibili ora, coi fucili a ripetizione, colle palle dum dum, colla dinamite e colla melenite, con tutte quelle sostanze esplodenti insomma, che han la deisnenza molto simile a quella dei malanni dell’umanità (la bronchite, la polmonite, la pleurite, ecc…). Oggi giorno è Moltke che trionfa, disponendo serenamente sulla carta topografica le bandierine rosse, per studiare più facilmente a tavolino le mosse del nemico ed i felici attacchi dei suoi.
Ma se un grande occhio pensoso si affacciasse dimani, durante una guerra, alla volta del cielo per assistere alla tragedia umana, a vedere le giovani vite mietute come spighe d’oro dall’immensa falce inesorabile, e le armi da fuoco vomitanti la morte, – inconsapevoli esse non meno di coloro che le caricano, – se quest’occhio pensoso vedesse i cadaveri ammucchiati, orribilmente mutilati, gli uni sugli altri, e il sangue scorrere a rivi, senza una lacrima, e senza un rimorso da parte di chi n’è la cagione, verrebbe fatto a quel grande occhio pensoso di domandarsi se non sia un destino cieco, inesorabile, che condanna gli uomini dalla loro origine a un mutuo macello, o non pittosto una grande sciagurata follìa che soggioga il genere umano e pervade la storia e ne trionfa.
* * *
Attaccandosi all’ultimo rasoio, bruciando l’ultima cartuccia, col recitare il classico licet vim repellere vi, i guerrafondai parlano gesuiticamente di difesa del territorio nazionale, del suolo natio, della patria.
Ma qual patria, di grazia? La patria dei commendatori e dei banchieri, o la patria comune degli italiani?
Quando ci coprivate di fango e ci legavate i polsi e ci cacciavate in esilio quali distruttori della famiglia, della religione, della patria, noi pure piangemmo il nostro mare e il nostro azzurro d’Italia, e delle nuove patrie adottammo lungo il vagabondaggio non inutile oltre il monte ed oltre il mare, sentimmo anche noi il culto e la venerazione fatta di desiderio del natìo loco lontano; noi pure, e noi più che gli altri, rivolgemmo sempre il pensiero più gentile a questa patria, da cui ci avete scacciati; – ma non per questo mai sentimmo il bisogno di uccidere coloro che non avevano avuto la sorte di nascere sotto un cielo azzurro come il nostro, sulla riva d’un mare così odoroso come il mar di Liguria.
E imparammo così, accanto all’amor di patria, l’amore degli uomini, e imparammo a ripetere ogni giorno la formula dell’augusto Tolstoj, che invita i soldatini di tutto il mondo a non sparare contro i loro fratelli, quando anche ciò venga comandato.
Ed è per questo che bisogna sempre ripetere, e a chi la nostra voce sembrasse ormai monotona rispondiamo come Molière alla propria moglie: «Io vi ripeto sempre le medesime cose, perchè voi fate sempre le medesime cose; e finchè voi farete le medesime cose, continuerò a ripetervi le medesime cose». Napoleone stesso – vedete che io prendo anche da lui le prove del mio assserto – Napoleone stesso disse che l’argomentazione più forte è la ripetizione.
Così, ripetendo quanto abbiamo detto finora, noi non possiamo che riassumere le nostre parole in un grido, che sia a un tempo maledizione, promessa ed auspicio d’un’era nuova, in cui non sia bandita la lotta feconda, la benefica contesa nel campo dell’arte, della scienza e dello esplicarsi multiforme della vita quotidiana, – ma sia bandita per sempre la lotta sanguinosa e fraticida perpetua dai potenti per bramosia di dominio, per monopolio di potere sul gregge umano, che altre vie non conosce all’infuori di quelle dell’ovile e del macello: «Guerra alla guerra!».
(1) Il Gori fa riferimento alle parate militari che si svolgevano a Parigi in quei giorni.