Qualche giorno fa, abbiamo pubblicato alcune «note su una comunità impossibile», un testo sui blocchi del 9 dicembre a Torino, che conteneva anche delle critiche a un “brulotto” e a un “intempestivo” di Finimondo. Com’era prevedibile, i redattori di Finimondo hanno risposto con un altro brulotto, e noi pubblichiamo dunque anche questa risposta. Se c’è qualcosa di interessante da cavar fuori da questa discussione, chi vuole contribuisca: finirà tutto tra i panni sporchi.
Chi l’avrebbe detto? È trascorso più di un mese da quel 9 dicembre che vide il paese in subbuglio in occasione della scadenza di lotta lanciata dal cosiddetto Movimento dei Forconi. In quei giorni, di fronte a un dibattito tutto interno ad una baldanzosa sinistra antagonista, pubblicammo un breve articolo intitolato Si va o si fischia?. Mai e poi mai avremmo pensato che quelle nostre poche righe avrebbero irritato certi anarchici al punto di spingerli a dedicarci un magnifico capitoletto, intitolato Il cielo in una stanza, di un testo apparso nei giorni scorsi su alcuni blog di movimento: Torino, 9 dicembre. Note su una comunità impossibile.Si tratta di un lungo «contributo personale», scritto però al plurale in virtù delle capriole dell’Io collettivo, che torna su quanto accaduto nel capoluogo piemontese con modesta serenità. Oltre ad una narrazione aneddotica e non ideologica dei fatti, che qui c’è proprio scritto sull’uscio che l’ideologia non è di casa, vi si formula l’ennesima peritosa analisi della «composizione di classe» presente in strada quei giorni. Così, dopo la musica propinataci dai tromboni più sinistri, il panorama viene arricchito dal suono del piffero a-n-a-r-c-h-i-c-o.
Esercitazione resa tanto più non-ideologica dall’utilizzo di citazioni e rimandi a pensatori che non se ne vanno in giro con una A cerchiata tatuata in fronte. Uno di questi autori viene espressamente indicato in Robert Kurz, di cui abbiamo trovato invero indispensabili la «categoria assiologica» ed il «paradigma interpretativo». Ma è lo stesso Robert Kurz – già pubblicato da un blog che ospita le Note in oggetto – che sostiene: «Questa sinistra che annusa il culo alla minima manifestazione sociale che si vede per la strada, ciò che più avrebbe desiderato era di divertirsi nei paesaggi fioriti di un anno 2011 della rivoluzione. Solo che, tralasciando l’opportunismo cinico con cui si è operato per dissotterrare freneticamente quest’imbarazzante parola che comincia con la R, che rimaneva sotterrata e dimenticata, è chiaro che la mera adulazione dei diversi movimenti contestatari e insurrezionali non aiuta a nulla la causa dell’emancipazione sociale»?
Un altro autore citato viene definito più sommariamente «un noto filosofo italiano». Indovinarne il nome non è difficile, egli è l’annunciatore dell’avvento dell’uomo qualunque. Non basta? Va bene, vi diamo alcuni indizi: è uno dei filosofi preferiti dai negriani-obbedienti, è il maître-à-penser dei neoblanquisti francesi – quindi, per manifesta abdicazione di pensiero autonomo, è anche il fornitore del prêt-à-penser di certi anarchici italiani –, è lo stesso che un anno fa è salito alla ribalta, prima per aver salutato le dimissioni di papa Benedetto XVI quale atto «di coraggio, che acquista oggi un senso e un valore esemplari» perché insegna alle istituzioni che un conto è la legittimità ed un conto è la legalità, e poi per aver minato lo strapotere teutonico in Europa ripensando con nostalgia alla vecchia ipotesi di un «impero latino che avrebbe unito economicamente e politicamente le tre grandi nazioni latine (insieme alla Francia, la Spagna e l’Italia), in accordo con la Chiesa cattolica». In effetti, un’intuizione simile sarebbe proprio appetitosa qualora venisse tradotta «nel sostrato materialistico che la concreta, cioè strappandola all’idioma metafisico in cui è espressa».
Ordunque queste sobrie note torinesi buttate giù per la loro utilità pratica, ovvero «per dare un po’ di ordine ai pensieri», hanno un solo difetto. Verso la fine sono purtroppo costrette a scadere di tono perché affrontano un argomento squallido, Finimondo, meritevole di disprezzo quanto e più della sinistra ortodossa. Cosa ci viene imputato dall’annotatore al plurale? Di averlo rattristato con il nostro «livello del confronto», di aver portato tale confronto «in quello che è teoricamente il nostro ambito di appartenenza» a risultare «così modesto ed insulso». Infatti, «come d’abitudine», noi avremmo impartito la «solita lezioncina “anarchica”», in qualità di «detentori della dottrina» che forniscono una «ricetta pronta per l’occasione». E questa nostra “ricetta” lo ha inviperito a tal punto da «scomodarli» (è plurale, lui!) a «liberare il campo da alcune palesi falsificazioni». Sorbole! E sapete qual è a suo dire questa nostra modesta, insulsa, abituale, dottrinale e palesemente falsa ricetta?
«Suvvia, uno sforzo di fantasia. Non lasciamo la Mesa Verde in mano alla finzione cinematografica. Davvero non ci sono altri luoghi nella geografia delle possibilità?».
E questa sarebbe una ricetta?!? E un simile rimbrotto ha richiesto una «intelligenza pratica» al plurale?!? Dopo esserci asciugati le lacrime per le risate provocate da tale critica umile, originale e che rallegra il confronto innalzandone il livello, dobbiamo ammettere di aver faticato non poco a riprenderci. Tuttavia, un cruccio ci è rimasto. Possibile che queste due semplici righe siano bastate all’annotatore al plurale per «scomodarli» a dire finalmente il fatto loro ai redattori di Finimondo, i quali nel «contesto delle sommosse a venire» se ne staranno «di certo a casa», essendo solo dei «Novatore da tastiera», dei «sentenziatori di tutte le risme», ecc. ecc. ecc.? La cosa è talmente comica da essere poco credibile. Una ricetta è un insieme di istruzioni che, elencando gli elementi necessari e la loro modalità d’uso, promette certi risultati. Non ci sembra che Finimondo sia così ricco di ricette, caso mai di parecchi interrogativi.
Per inciso, la Mesa Verde, nel riferimento cinematografico, non era affatto un altrove lontano mille miglia dallo scontro in atto. Era la banca di una città in rivolta, trasformata in carcere per detenuti. Approfittare del caos per liberare i prigionieri. Ovvero, approfittare della confusione in corso (quali che siano i motivi dichiarati che l’hanno scatenata, fossero anche i meno interessanti) per cercare di realizzare i propri progetti. E quindi intervenire, non starsene alla larga; ma intervenire sapendo già a grandi linee cosa fare, senza buttarsi nella mischia a fianco degli altri solo per poi battersi il petto e vantarsi di esserci stati.
La sproporzione fra le nostre parole e la replica astiosa ci ha dapprima lasciati perplessi. Ma poi abbiamo capito che, invece, a non essere andato giù all’Io collettivo è «un’altra perla di articolo» cui accenna senza citarlo esplicitamente. Si tratta di Come sono le nostre mani?, testo che prende spunto dalle discussioni post-9 dicembre per far notare come le mani sporche siano un tratto distintivo degli opportunisti. Ed ecco dove sta il problema! L’annotatore al plurale sarà pure anarchico, ma a quanto pare non desidera far notare i suoi guanti bianchi. Specchiandosi troppo nel Hoederer staliniano-sartriano o nei «poveri Machiavelli votati al pragmatismo politico», si lascia andare a scomposte argomentazioni e a patetici insulti che dicono ben poco di noi, ma molto di lui al plurale. Prendiamo atto per l’ennesima volta che la richiesta di un curriculum vitae, di un certificato di presenza – di una fedina penale? – rimane il cavallo di battaglia dei militanti più sbirreschi («Tu cosa fai? Vieni con noi? No? Non puoi perché sei in galera? Nemmeno? E allora non fai un cazzo! Dimostralo, dicci cosa fai!»). Sputiamo pure sopra a questa miserabile pretesa di credenziali e passiamo oltre.
La Mesa Verde da noi evocata è sinonimo di altrove. E qui, su cosa sia questo altrove, l’annotatore al plurale se la canta e se la suona. Da un lato fa domande, «D’altro canto cosa mai vorrà dire questo “altrove”? Vuol dire apportare pratiche proprie nei luoghi dove la lotta si sta svolgendo?»; dall’altro si dà risposte: «No. Vuol dire tentare un percorso autonomo nel corso della lotta, facendosi trovare in altri luoghi rispetto a quelli previsti. In questo percorso autonomo cercheremo di coinvolgere altre persone, magari una parte di quelle che sono in strada per conto proprio? Vogliamo dialogare almeno in parte con la lotta in corso, creare delle rotture o evitare qualsiasi contatto? Non importa, come non importa che tutte queste modalità siano state tentate con uguale impegno. L’importante è elargire istruzioni saccenti. Si è capito che, qualsiasi lotta si sviluppi dalla Valsusa a Niscemi, la panacea è altrove: disertare tutto, evitare di trovarsi vicino alla “massa pecorona” sommamente disprezzata».
Perché i redattori di Finimondo sono degli snob, sapete. Amano la solitudine. L’annotatore al plurale sa di cosa parla, li conosce tutti, uno ad uno. Li sorveglia da tempo, non gli sfuggono, e sa perfettamente cosa (non) fanno, uno per uno. E siccome la rivoluzione non la si fa in pochi, ergo loro che amano la solitudine sono dei controrivoluzionari. Ormai scatenato, continua ad annotare: «Ma poi questo essere altrove rispetto agli spazi in cui la lotta si concentra, perché dovrebbe essere una direttrice sempre valida? In quale esperienza o testo di teoria rivoluzionaria ed anarchica è sancito questo comandamento? Muoversi per proprio conto ed in piccoli gruppi può favorire alcune pratiche. Sicuro. Ma quando invece esiste il margine perché queste pratiche si possano svolgere, o addirittura allargare, in situazioni di conflitto a fianco di altri sfruttati? Fateci capire se dobbiamo stare da soli perché ce lo ha ordinato il medico».
L’annotatore al plurale ci sembra leggermente alterato. Se si asciugasse la bava che gli è schizzata fin sugli occhiali, avrebbe(ro) capito da tempo che nessuno su Finimondo ha mai sostenuto il dovere dell’azione solitaria. Caso mai, si è sempre sostenuto che è preferibile essere soli che male accompagnati. Il che non è affatto la stessa cosa. Quello che non condividiamo – quando si tenta di coinvolgere altri per allargare i conflitti in corso – è entrare a far parte del coro pur di essere popolari. Non siamo certo contrari alla partecipazione degli anarchici nella lotta contro l’Alta Velocità, in Val Susa come altrove, o a quella contro il Muos. Ma siamo contrari al fatto che, in nome dell’allargamento delle lotte, della necessità strategica di fare numero, gli anarchici rinuncino alle proprie idee per farsi propagatori di quelle altrui. L’annotatore al plurale, evidentemente, non ha di queste preoccupazioni. Lui si scomoda solo per liberare il campo dalle palesi falsità di Finimondo, ma non trova nulla da annotare sulla mediocrità di certi anarchici che solo pochi anni fa strillavano contro il Tav perché non aumenta sul serio la circolazione delle merci, o che oggi si danno da fare contro il Muos perché non è conforme alle norme del Parlamento Europeo. Se facciamo notare che simili argomentazioni sono più che giudiziose in bocca ad un cittadinista, assai meno in bocca ad un anarchico, gli facciamo letteralmente saltare i nervi. Per lui, è una lezioncina d’anarchia. Per noi, tutto ciò rientra in quelle che lui stesso definisce «invarianze, delle direttrici di principio che devono muovere l’agire di un compagno».
Perché qui sta il bello. L’annotatore al plurale non nega affatto che queste invarianze esistano. Solo che non condivide le nostre. Ce ne faremo una ragione. Ma è un vero peccato che si dimentichi di nominarne almeno qualcuna delle proprie. In fondo, ci sembra che sia di bocca non buona, ma buonissima. Mica per niente ostenta il carattere spurio di ogni movimento sociale al fine di ricavarne… «categorie assiologiche». Ora, se il movimento è spurio, allora anche la teoria è meglio che sia spuria, e quindi pure le pratiche devono essere spurie. Perdinci, cosa aspettiamo a diventare spuri pure noi? Ed infatti negli ultimi anni si è assistito ad una vera stura di anarchici spuri: chi amico del WWF e chi amplificatore di capipopolo autoritari, chi compagno di preti e chi ospite di personaggi televisivi, chi ecumenico con tutte le religioni e chi sostenitore della non-orizzontalità decisionale. Ce n’è per tutti i disgusti, essendosi spinto qualcuno perfino a proteggere infiltrati o a giustificare delatori.
Ma perché no? Quando un Kropotkin si dichiarava a favore della guerra, quando un Garcia Oliver sosteneva la partecipazione al governo, quelli non erano anarchici che avevano capito come fertilizzare le lotte reali. Perciò faceva bene Malatesta e chi per lui a riprenderli, poiché criticarli non era elargire ricette dottrinali. Sapete perché? Perché allora l’identità esisteva! Lo ha spiegato con erudizione «un noto filosofo italiano», secondo cui le cose sono radicalmente mutate nel corso degli ultimi anni. Oggi l’avvento dell’uomo qualunque in questo mondo qualunque dominato da merci qualunque spinge il compagno qualunque ad esprimere idee qualunque da mettere in atto con pratiche qualunque. Tanto, una vale l’altra. Nel calderone dell’insignificanza (fatto passare a botte di retorica per alambicco della diversità), non c’è più differenza fra critica radicale e rimprovero cittadinista, così come non c’è più differenza fra scontrarsi con gli sbirri e accompagnare petizionisti. Tutto fa brodo insurrezionale. I negriani-obbedienti ed i loro rivali in contropotere lo sostengono da sempre, la conflittualità per ricaricarsi deve circolare ad energia intermittente, certi anarchici ci sono arrivati solo da poco.
Ora, la domanda verbosa, fiacca e ideologica è: ma non è anche in questo modo, cioè a furia di ripetere idee e pratiche qualunque, che il «logos della liberazione e dell’odio di classe» è andato fuori moda? Anziché assecondare tale tendenza, non sarebbe meglio contrastarla?
L’annotatore al plurale – tutto preso da levatacce, presidi, blocchi, picchetti e caffè al bar – non se lo chiede neppure. Preferisce ricordare che la vecchia ipotesi progettuale dei nuclei autonomi di base mirava ad «includere sia compagni che sfruttati». Già. Peccato che preferisca tralasciare che in passato per sfruttati non s’intendeva ambientalisti di Stato o rappresentanti di partito. Basti pensare che nei primi anni 80 a Comiso – dove quell’ipotesi ha conosciuto una sperimentazione pratica – non c’erano rapporti fra compagni anarchici e animali politici. Entrambi portavano avanti i rispettivi progetti, tenendosi a distanza. Centinaia di anarchici da una parte, a cercare di sobillare quanti più sfruttati possibile contro una base militare. Animali politici dall’altra, a rappresentare il pacifismo. Nessuna comunella, nessuna condivisione. Non si partiva assieme, non si tornava assieme. E questo lo possiamo dare per certo all’annotatore al plurale, visto che fra i «Novatore da tastiera» di Finimondo c’è pure chi prese parte a quella lotta. Ora, è ovvio che ciò che ieri è stato tentato, non per forza di cose è da ripetere oggi. Basta dirlo. Ma quando quella esperienza di alterità ostile viene adesso sbandierata da chi mira a recuperarla nella condivisione possibilista, quando arrivare ai ferri corti coi falsi critici dell’esistente è diventato sedersi al loro stesso tavolo per giocarci partite a rubamazzetto, chi sta palesemente falsificando cosa?
E già che ci siamo, è per interessata amnesia o per pura ignoranza che l’Io collettivo non annota il fatto che a metà degli anni 90 ci fu chi propose un esperimento analogo in Val Susa contro il Tav? Perché all’epoca, alcuni anni prima la morte di Baleno e Sole, c’era chi avrebbe voluto un intervento anarchico costante e munito di una certa progettualità in Val Susa. Lo sapevate? Nessuno ve lo ha mai confidato? Questa proposta purtroppo non venne nemmeno discussa, ma bocciata in partenza nel corso di un incontro tenutosi a Torino. Chi fu a proporla e chi a bocciarla? Se la memoria al plurale venisse sondata, potrebbe venir fuori chi sta falsificando cosa.
E, a proposito di falsificazioni, ci domandiamo come si possano conciliare le «invarianze, delle direttrici di principio» con una «teoria della situazione» talmente elastica da essere in grado di soccorrere i «casi imprevisti» delle lotte reali. La prima è intransigente, la seconda assai flessibile. Ad esempio, lo scorso dicembre a Torino l’annotatore al plurale ha preferito stare in periferia, denunciando la «centralizzazione come strumento per contenere e disinnescare la lotta». Qui ha potuto appuntarsi come «“i politici” o semplicemente “quelli che sanno parlare”» fossero guardati con avversione. Ma questo non è mica un «insegnamento dell’esperienza da cui trarre istruzioni», sapete. Perché basta spostarsi di pochi chilometri ad ovest, nel «punto di riferimento per i partigiani del conflitto sociale di ogni dove», ed è l’esatto contrario. La centralizzazione è necessaria ed “i politici”, ovvero “quelli che sanno parlare”, vanno ascoltati con deferenza. E quindi, cari insorti delle sommosse a venire, se volete sapere come comportarvi con i politici, lasciate perdere le gravose invarianze. Orologio e bussola sono leggeri e funzionali. Un calendario può aiutare. E il vento, lo sapete fiutare il vento? Altrimenti, chiedete al vostro leaderino di fiducia quale teoria e pratica situazionali adottare.
Noi viceversa pensiamo che spuria possa essere la situazione in cui ci si trova. Non le nostre idee, né le nostre aspirazioni, né i nostri desideri. Non i nostri amori, né le nostre ostilità. Essendo poco umili, e non essendo mai stati cattedratici di filosofia e di estetica, non ci consideriamo esseri qualunque. Ma individui unici, irripetibili, magari abnormi. Non vogliamo ciò che è comune, ma ciò che è stra-ordinario. Quindi la questione preferiamo porla così: considerato il contesto in cui ci si trova, quale che sia, qual è il modo migliore per portare avanti ciò che abbiamo più a cuore? E poiché il nostro cuore batte decisamente fuori tempo rispetto al ritmo della normalità quotidiana, non può fare a meno di eccedere il ragionevole rivendicazionismo situandosi altrove. Né può fare a meno della ricerca di una affinità molto più rara da trovare di un’amicizia politica, soprattutto in questa epoca infestata da prolifici camaleonti. Peggio per noi, sterili panda.
Rimane il fatto che bisogna proprio essere privi di fantasia per pensare che questo altrove esprima per forza di cose una distanza geografica. No, esprime un ribaltamento di prospettiva. È inutile essere altrove fisicamente, se si è semplici succursali in attesa di direttive. Allo stesso modo talvolta deve essere divertente imboccare il centro in controsenso. Ma se si è sempre laddove sono tutti, a tacere per non dare scandalo o a ripetere quello che dicono tutti, a fare quello che fanno tutti dopo che è stato approvato da tutti – ma quant’è bella una comunità? – come si può sperare di uscire dai luoghi comuni?
Alterità e possibilismo sono incompatibili. Perché l’odio, quindi anche quello «di classe», per rimanere vivo (e non solo teorizzato) ha bisogno di saper tenere le distanze. La convivialità lo mortifica, lo soffoca, lo trasforma in mero fastidio e disaccordo. Condividere le lotte con i riformatori di questo mondo, respirarne giorno dopo giorno la stessa aria, è il modo più sicuro per cessare di odiarli. Accettarne la vicinanza, inseguirli addirittura per fare le cose insieme, parlare la loro popolare lingua, è così che poco alla volta si diventa simili a loro. Trovarseli accanto in certe situazioni, capita. Collaborarci attivamente, no. Non è né un caso, né un errore, ma una scelta deliberata. E chi ha compiuto questa scelta deliberata pensa davvero di zittire le critiche alzando la voce e dicendo che “quelli che non fanno un cazzo” devono chiudere la bocca e lasciare sperimentare gli altri, che almeno fanno qualcosa e sono radicati sul territorio?
Questo è il vero spartiacque, tracciato ormai già da anni ed irreversibile, non di certo la scelta fra un medico che ordina di battere sulle tastiere o uno che ordina di battere sulle strade.
L’annotatore al plurale invita a partecipare ai «conflitti quotidiani degli sfruttati per i propri bisogni materiali». Il che è nobile e generoso – ma come? Lo spirito assistenzialista che contraddistingue preti e militanti non fa per noi. Sfamare, curare e alloggiare i dannati della terra sarà utile per reclutare bassa manovalanza, riconoscente e quindi obbediente (per un po’, che poi basta una briciola in più offerta da altri per vederli sparire), ma non ci sembra possa aprire orizzonti che vadano oltre una mera riproduzione dell’esistente. Anzi, a dirla tutta ci sembra proprio questa una delle «formule per recuperare l’ignoto ai parametri del conosciuto». E poi, i giorni scorrono troppo in fretta. Preferiamo dedicarci più ai nostri desideri che agli altrui bisogni, verso cui non abbiamo alcuna curiosità. Ci pesano fin troppo i nostri. Ma questa naturalmente è una differenza che «dipende tutta dalle urgenze e dalla sensibilità di chi scrive».
Capiamo perciò bene i motivi per cui l’annotatore al plurale va alla ricerca della «forza messianica» rivoluzionaria. In effetti anche a noi sembra che egli abbia «qualche idea» per sopperire alla «scissione tra i sogni della città celeste e il mondo» responsabile di aver prodotto «da una parte la religione e dall’altra la politica». Come avrà senz’altro imparato, a furia di leggere quel «noto filosofo italiano», è sufficiente unire religione e politica per partire alla ricerca del tempo di ora.
Peccato che, così facendo, si finisca sempre e soltanto ad annusare l’aria del tempo.
macerie @ Febbraio 5, 2014
Mani sporche e guanti bianchi
Chi l’avrebbe detto? È trascorso più di un mese da quel 9 dicembre che vide il paese in subbuglio in occasione della scadenza di lotta lanciata dal cosiddetto Movimento dei Forconi. In quei giorni, di fronte a un dibattito tutto interno ad una baldanzosa sinistra antagonista, pubblicammo un breve articolo intitolato Si va o si fischia?. Mai e poi mai avremmo pensato che quelle nostre poche righe avrebbero irritato certi anarchici al punto di spingerli a dedicarci un magnifico capitoletto, intitolato Il cielo in una stanza, di un testo apparso nei giorni scorsi su alcuni blog di movimento: Torino, 9 dicembre. Note su una comunità impossibile. Si tratta di un lungo «contributo personale», scritto però al plurale in virtù delle capriole dell’Io collettivo, che torna su quanto accaduto nel capoluogo piemontese con modesta serenità. Oltre ad una narrazione aneddotica e non ideologica dei fatti, che qui c’è proprio scritto sull’uscio che l’ideologia non è di casa, vi si formula l’ennesima peritosa analisi della «composizione di classe» presente in strada quei giorni. Così, dopo la musica propinataci dai tromboni più sinistri, il panorama viene arricchito dal suono del piffero a-n-a-r-c-h-i-c-o.
[31/1/14]