«Dobbiamo abbandonare ogni modello, e studiare le nostre possibilità»
E. A. Poe
Le note che seguono nascono da un’esigenza: quella di riflettere assieme sulla situazione attuale al fine di trovare il filo di una prospettiva possibile. Esse sono il frutto di diverse discussioni in cui si sono mescolati il bilancio critico di esperienze passate, l’insoddisfazione per le iniziative di lotta in corso e la speranza per le potenzialità esistenti. Non sono la linea di un gruppo in competizione con altri, né sottendono la pretesa e l’illusione di riempire i vuoti — di vita e di passioni progettuali — con l’accordo più o meno formale su alcune tesi. Se conterranno critiche spiacevoli non è per il gusto fine a se stesso di muoverle, bensì perché credo sia urgente dirsi anche le cose spiacevoli. Come tutte le parole di questo mondo, esse avranno un’eco solo in chi avverte un’esigenza simile. Insomma, una piccola base di discussione per capire cosa si può fare, e con chi.
Sappiamo per esperienza che una delle forze maggiori della repressione è quella di seminare confusione e d’instillare sfiducia negli altri non meno che in se stessi, oppure di determinare chiusure identitarie e sospetti più o meno paralizzanti. In questo senso, prima si approfondiranno certi problemi, meglio sarà. Si preparano anni difficili che scuoteranno non poche delle nostre abitudini pratiche e mentali. Se è vero che il pregiudizio più pericoloso è quello di pensare di non averne, mi piacerebbe tuttavia che queste note venissero criticate per quello che dicono, senza letture preconcette. Un simile desiderio ne spiegherà il tono e persino lo stile.
Una casa inabitabile
La condizione in cui ci troviamo mi sembra quella di chi si barrica entro quattro mura per difendere spazi in cui per primo non ha voglia di vivere. Tanto discutere di aperture, di allargamenti, di alleanze nasconde il fatto che stiamo difendendo una casa diroccata in un quartiere inabitabile. La sola via d’uscita mi sembra quella di incendiare le postazioni e di andare all’aria aperta, scrollandosi di dosso l’odore di muffa. Ma cosa vuol dire, fuor di metafora?
L’epoca in cui viviamo è così prodiga di sconvolgimenti che sotto le macerie sono finite o stanno finendo le nostre stesse capacità di interpretare e, ancor più, di prefigurare gli avvenimenti. Se ciò vale per tutti i rivoluzionari, particolarmente malconce ne sono uscite le visioni del mondo e della vita basate su modelli autoritari e quantitativi. I gestori più o meno ammiccanti delle lotte altrui gestiscono solo inutili rappresentazioni politiche di conflitti già pacificati; le lotte che squarciano la pacificazione si lasciano sempre meno gestire. L’illusione del partito — in tutte le sue varianti — è ormai il cadavere di un’illusione.
Il disporsi, l’allinearsi e lo sciogliersi delle forze in campo, nei piccoli come nei grandi conflitti sociali, si fa sempre più misterioso. Quello che è sempre stato un nostro tratto distintivo — una visione non omogenea e non cumulativa della forza, una repulsione per la dittatura del Numero — corrisponde in parte alle attuali condizioni sociali e alle imprevedibili possibilità di rottura che queste nascondono. Dalle trasformazioni stesse del dominio — attraverso la sua rete di strutture, tecnologie e saperi — ad eventi come la guerriglia in corso in Iraq, possiamo trarre alcuni insegnamenti. Appare chiaro che gli scontri si verificano sempre meno nel senso dell’affrontamento di due eserciti o fronti, e sempre più nel senso di una miriade di pratiche diffuse e incontrollabili. Un dominio fatto di mille gangli spinge i suoi nemici a farsi più imprevedibili. Un modo non centralizzato di concepire le azioni e i rapporti è non solo più libertario, dunque, ma anche più efficace contro le maglie del controllo. Se una simile consapevolezza esiste a livello teorico, non sempre riusciamo a mantenerla nelle proposte pratiche. Da un lato si afferma che il potere non è un quartier generale (bensì un rapporto sociale), dall’altro però si propongono iniziative che tale lo raffigurano. Credo che dovremmo cercare le forme di azione più adeguate alle nostre caratteristiche, alle nostre forze (quantitative e qualitative). Purtroppo continuiamo a pensare che agire in pochi debba per forza voler dire agire in modo isolato. Per questo di fronte all’arresto di compagni e, più in generale, all’inasprimento della repressione, emergono sempre le solite proposte: il presidio, il corteo, eccetera. Non si tratta, beninteso, di criticare queste forme di protesta in quanto tali, ma la mentalità che per lo più le accompagna. In certi contesti — attualmente soprattutto locali —, all’interno di una serie di iniziative anche il corteo o il presidio possono avere il loro senso. Ma quando questo intreccio tra le forme di azione manca, e, soprattutto, quando si ragiona nell’ambito stretto dei compagni, credo che ripetere certi modelli finisca col creare un senso di impotenza e col riprodurre il noto meccanismo delle scadenze più o meno militanti. Anche qui, c’è bisogno di aria fresca. Organizzandosi, anche in cento si può, volendo, intervenire in modo interessante in cortei più o meno vasti. Ma se si è in cento e basta, poniamo, perché un corteo? Cosa possono fare cento compagni in una città di cui conoscono i punti nevralgici? Cosa ci stanno insegnando tutte le lotte che, a livello mondiale, riscoprono un uso appassionato e potenzialmente sovversivo del blocco?
In molti si sono resi conto che il problema della repressione non può essere ridotto all’ambito dei rivoluzionari. La repressione — quella diretta come quella indiretta — coinvolge fasce sempre più ampie di popolazione. Essa è la risposta di un dominio che sente franare il terreno sotto i propri piedi, consapevole di quanto ampio si stia facendo lo scarto fra l’insoddisfazione generale e le capacità di recupero dei suoi servitori storici: partiti e sindacati. Senza indagare qui le ragioni di tutto ciò, basterà dire che i sovversivi parlano tanto di carcere perché è sempre più facile finirci dentro e che sentono, allo stesso tempo, la necessità di non limitarsi, di fronte ad un giro di vite complessivo, alla difesa dei propri compagni arrestati. Qui cominciano i problemi. Se non si riesce ad opporsi alla repressione indipendentemente dagli individui su cui questa si abbatte, allora ognuno difenderà i propri amici e compagni, quelli con cui condivide idee, passioni e progetti — ed è inevitabile che sia così. La solidarietà contro la repressione, quando quest’ultima colpisce rivoluzionari con cui non si ha alcuna affinità, deve essere ben distinta dall’appoggio a progetti politici che non si condividono o che sono addirittura antitetici ai propri desideri antipolitici. Ora, più l’ambito delle iniziative si restringe ai rivoluzionari, più si rischia appunto di dare una mano a resuscitare ipotesi autoritarie fortunatamente in rovina. Più esso è ampio, viceversa, più i due piani (quello della solidarietà contro e quello della solidarietà con, cioè della complicità) risultano ben distinguibili. È quindi piuttosto stupefacente che, consapevoli della portata sociale ed universale della mannaia repressiva, da più parti si proponga come “soluzione” l’unità d’azione fra… le componenti rivoluzionarie. In questo modo, non solo ci si isola dal resto degli sfruttati che avvertono come noi il peso del controllo sociale e della sbirraglia, ma ci si illude anche su di un aspetto non trascurabile: una simile “unità d’azione” ha un prezzo (forse non nell’immediato, se i rapporti di forza sono favorevoli, ma alla lunga sì). Se invece di essere cento anarchici ad un’iniziativa, siamo in centocinquanta perché si uniscono cinquanta marxisti-leninisti, e per far questo dobbiamo sottoscrivere manifesti e volantini redatti in un gergo più o meno impenetrabile, si tratta forse di un «allargamento»? Non sarebbe forse più significativo organizzare un’iniziativa anche in dieci ma affrontando problemi sentiti da molti ed esprimendo dei contenuti più vicini al nostro modo di pensare e di sentire? Quanto alla solidarietà specifica ai compagni dentro, esistono ben altre forme…
Non vorrei che questo atteggiamento venisse letto come una “chiusura ideologica” o come la ricerca di egemonia su altri gruppi. È proprio per non ragionare in termini di sigle, cappelli e formalismi che è meglio mantenere ampie e chiare le proposte, senza avere come interlocutori determinati gruppi politici, bensì chiunque si senta coinvolto: dopo di che, chi vuole partecipare da pari a pari, è il benvenuto. Se gli altri rivoluzionari applicheranno lo stesso metodo, il giovamento sarà per tutti. C’è un’aria di alleanze più o meno di servizio che trovo irrespirabile. I fronti unici, le unità d’azione fra le forze rivoluzionarie — ben al di là di un obiettivo specifico di lotta, in cui ci si confronta con chiunque sia interessato, compagno o meno che sia — fanno parte, per me, della difesa di una casa inabitabile. E questo indipendentemente da quanto tizio e caio siano brave persone, corrette o simpatiche; è un problema di prospettive. Una volta Malatesta rispondendo a Bordiga disse più o meno: «Ma se, come pretendono questi marxisti, le differenze fra loro e noi non sono così sostanziali, perché invece di farci aderire ai loro comitati non vengono nei nostri?». Fare le cose fra anarchici, dunque? Nient’affatto. Agire su basi chiare, anche in pochi, ma rivolgendosi a tutti gli sfruttati, a tutti gli insoddisfatti di questo ergastolo sociale. E inserire in quello che diciamo e facciamo — si tratti di una lotta contro gli inceneritori, contro le espulsioni o per la casa — il problema del carcere (e quindi dei nostri compagni dentro). Non giustapponendo o appiccicando al resto la “questione carceraria”, bensì smascherando i nessi reali sulla base dell’esperienza comune. Qualsiasi lotta autonoma si scontra, prima o poi, con la repressione (sia che essa la affronti apertamente, sia che ripieghi per evitarla). Anche le occupazioni di case pongono il problema della polizia, degli interessi che difende, del controllo nei quartieri, dei ghetti e delle galere. L’autorganizzazione sociale è sempre anche autodifesa contro la repressione.
Saltare al cuore dell’occasione
Abbiamo un’occasione per certi aspetti storica: quella di intervenire in conflitti sociali — presenti e a venire — senza mediazione. Se gli epigoni delle forze autoritarie che hanno soffocato tante spinte sovversive sono, come numeri e come progetti, male in arnese, perché aiutarli noi ad uscire dalle loro ambasce? Perché attardarsi fra le mummie quando il vento soffia forte? Loro fanno calcoli politici, noi no. Nell’esperienza pratica si vedrà chi è davvero per l’autorganizzazione. Basiamoci su quella.
Con il ripiegamento riformistico generale, le poche realtà su posizioni anticapitaliste e antistituzionali sono come un incendio nella notte — ed è forte, dunque, la tentazione di tenersi stretti al di qua di certe barricate. Ma non è lì la nostra forza. Fourier diceva che una passione è rivoluzionaria se determina un innalzamento immediato del piacere di vivere. A me questo sembra il criterio più affidabile. So per esperienza che diversi ragazzi si sono avvicinati ad alcune realtà anarchiche poiché hanno scoperto che nella solidarietà e con il coraggio delle proprie idee si vive meglio. Perché? Perché il peso della merce e del lavoro è meno forte quando lo si affronta insieme, perché i comportamenti fuori-legge sono contagiosi per chi ama la libertà, perché i rapporti amorosi senza briglie possono essere più sinceri ed appaganti, perché nell’unione di pensiero e azione si rinnova, come diceva Simone Weil, il patto dello spirito con l’universo. Ecco allora che l’entusiasmo — quello della leggerezza pensosa e non della frivolezza avvilente — dovrebbe informare le nostre pratiche. Perché «portare il panico alla superficie delle cose» è appassionante; perché non c’è festa senza rottura della normalità. Lasciamo certi linguaggi da tristi militanti ad altri e fuggiamo i modelli che il potere conosce e si aspetta.
Dal guado in cui ci troviamo attualmente non usciremo con qualche iniziativa, per quanto ben riuscita. Sarà il caso di dirsi che i tempi saranno piuttosto lunghi. Trovare affinità reali, sperimentare di nuovo forme articolate e fantasiose di azione collettiva, beffare il controllo poliziesco, sono possibilità da reinventare fra mille ostacoli. «Sì, intanto però i compagni sono dentro, intanto la repressione incalza» — ci si potrebbe rispondere. Ma la cosa migliore che possiamo intraprendere per i compagni prigionieri non è forse far diventare socialmente pericolose quelle esigenze di vita per cui sono stati rinchiusi? In tal senso, è inutile guardarsi in specchi politici che ci dicono che non siamo nudi. Meglio una consapevole nudità piuttosto che qualche abito tessuto d’illusioni. Meglio ricominciare da capo, lontani dall’odore di cadavere e dal ciarpame ideologico incomprensibile agli indesiderabili di questo mondo.
Ecco, per tanti aspetti c’è bisogno di uno strappo forte che porti nelle relazioni individuali come nella pubblica piazza comportamenti inauditi. Non nel senso del gusto istrionico e autopromozionale di una sorta di vena artistica — notoriamente cadaverica —, bensì in quello di una nuova esigenza di vita che afferma spudoratamente se stessa. C’è bisogno di un odio di classe che non sa che farsene delle vecchie geremiadi e attacca i mille nodi dello sfruttamento quotidiano. Di una tensione etica che non confonde mai oppressori ed oppressi e che non esaurisce il proprio fiato contro i servi del potere — perché cerca di liberarsene, anche con la violenza, ma per andare oltre. C’è bisogno di una nuova bontà, armata e risoluta, capace di sconvolgere i calcoli da bottegai dei nostri contemporanei, capace di fare del disprezzo del denaro un comportamento individuale e sociale. C’è bisogno, insomma, che l’insopportabilità di questo mondo — dei suoi lavori come delle sue case, dei suoi consumi come della sua morale — trovi la propria espressione incontenibile, costante, quotidiana. È nella nostra vita che si gioca la guerra sociale, perché è nella vita di tutti i giorni che il capitale tesse la sua rete di alienazioni, di dipendenze, di piccoli e grandi capitolazioni. È lì l’alfa e l’omega di ogni sovversione sociale.
Non dite che siamo pochi…
Dite soltanto che siamo. Così cominciava un famoso adesivo antimilitarista di tanti anni fa. Poi continuava dicendo che anche solo qualche nuvola nera può oscurare il cielo. Non si tratta soltanto di un’astuzia dell’ottimismo (una sorta di bacio perugina dell’anarchia), ma anche di un’esperienza reale.
Per parecchi anni — almeno una quindicina — nel movimento anarchico d’azione diretta (quello autonomo dalla Federazione e dal sindacalismo, per intenderci) c’è stata in generale poca attenzione verso i conflitti sociali e le forme più o meno significative di autorganizzazione degli sfruttati. Oltre a ragioni storiche (la grande pacificazione degli anni Ottanta), ciò era dovuto ad un problema di atteggiamento mentale. Molti compagni che parlavano di insurrezione — un fatto indubbiamente sociale — percepivano la società come uno spazio abitato quasi interamente da servi e da rassegnati. Con una tale visione rimanevano così sospesi fra le dichiarazioni di principio e le loro effettive esperienze: indecisi rispetto ad una rivolta apertamente solitaria, lenti ad aprire l’uscio a possibilità collettive. (Forse da ciò, chissà, nasceva un certo rancore rovesciato nelle polemiche fra compagni). A fianco di questa scarsa sensibilità verso le lotte che rompono con la massificazione — ma che dalla massificazione tuttavia escono —, si è sviluppata una certa capacità di intervento autonomo, con una significativa diffusione di pratiche di attacco alle strutture del dominio (dal nucleare al militare, passando per le banche, i dispositivi del controllo tecnologico o i laboratori di vivisezione). Ora qualcosa sta cambiando, come se una confusa esigenza individuale incontrasse nuove condizioni sociali — ed ecco compagni che improvvisamente parlano di lotta di classe, magari prendendo a prestito letture e gerghi dal marxismo. Solo che spesso, oltre la retorica dei volantini, la visione della società è rimasta la stessa: attorno a noi, insomma, solo complici del potere. Credo che in tutto ciò giochi parecchio una mancanza di esperienza di lotte sociali direttamente vissute e stimolate. Qualche tentativo locale è esistito ed esiste, senza tuttavia raggiungere quelle difficoltà istruttive tipiche dei conflitti allargati. Ancora una volta, siamo come in un guado. Alcune riflessioni pratiche sono nate sulla base dei vari blocchi realizzati da lavoratori e non solo. In tanti ci siamo buttati, domandando a quelle lotte molto di più di quello che potevano esprimere — salvo poi tornare a lamentarsi del servilismo degli sfruttati. Altre occasioni non mancheranno, né forse mancherà una maggiore attenzione da parte nostra. Ma non basta.
Penso che sia meno che mai il momento di rinunciare al gusto per l’azione diretta, anche in pochi. Solo che questa dovrebbe essere maggiormente legata ai contesti sociali, alle insoddisfazioni percepibili. Quante occasioni abbiamo perso (dopo Genova, durante i blocchi contro i treni della morte, dopo Nassiriya, durante la tragedia della Cap Anamur, eccetera)? Il tempo è l’elemento in cui vivono gli uomini, e la rivolta è fatta di occasioni. Dovremmo studiare meglio le nostre possibilità, invece di girare così spesso in tondo. C’è stata qualche nobile eccezione, ovviamente (diverse azioni dopo Genova, altre contro le biotecnologie o la macchina delle espulsioni, alcuni sabotaggi contro la guerra, eccetera), ma sporadica, circondata dal clamore provocato da un’inutile retorica, da proclami al vento e da una distinzione pratica (ed etica) tutt’altro che chiara su chi siano i nemici. Proprio in un periodo in cui, di fronte alla violenza indiscriminata che sempre più spesso si impadronisce delle istanze di resistenza e liberazione dei dannati della terra, questa chiarezza sarebbe necessaria. Soprattutto da parte di chi ripete di continuo che la miglior teoria è la pratica, ma poi lascia al caso molto di quello che fa. Forse, abbacinati dagli effetti speciali dello spettacolo, noi per primi crediamo poco alle conseguenze delle nostre azioni (lasciandoci andare al pressappochismo), oppure ne esageriamo la portata (lasciandoci prendere dall’illusione mediatica). Ci sono effetti che continuano a produrre delle cause.
Il grande gioco
Il grande gioco, mi sembra, sta nella capacità di unire una certa dose di spregiudicatezza quotidiana (disturbare ovunque è possibile la normalità sociale, dai dibattiti cittadini alle fiere del consumo e dell’inebetimento culturale, dal lavoro alla paranoia del controllo) con la prontezza ad agire quando il momento è opportuno. Per essere conduttori di gioia di vivere, e non cassandre del futuro collasso capitalista. Perché l’azione anonima e distruttrice esprima la costruzione di una vita che anonima non è. Troppo vago? Certo, e non potrebbe essere diversamente. Trattandosi del più serio dei giochi, la partita spetta a ciascuno di noi. Le difficoltà esistono eccome, vista la perdita progressiva degli spazi di autonomia, tragicamente erosi dal presente sistema sociale e dai suoi mille narcotici tecnologici. Eppure spesso i limiti sono soprattutto nella nostra risolutezza e nella nostra fantasia, appesantiti come siamo dal fardello dell’abitudine nei gesti, nelle parole, nei rapporti. Un incontro più ampio fra le varie realtà locali nascerà dai rispettivi percorsi di autonomia di pensiero e di lotta, non da una sommatoria di forze dettata dall’urgenza. Allora le discussioni non saranno un balletto immobile di frasi fatte, bensì l’occasione di imparare gli uni dagli altri, di far comunicare finalmente i modi di vivere, cioè i reciproci mondi. Allora si ritroveranno la fiducia e l’entusiasmo, e nascerà qualcosa che assomiglia a un’esperienza comune.
La rivolta è l’incontro della leggerezza e del rigore.
un amico di Ludd.
settembre 2004.
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A l’air libre
E.A. Poe
Les notes qui suivent naissent d’une exigence : celle de réfléchir ensemble sur la situation actuelle afin de trouver le fil d’une perspective possible. Elles sont le fruit de plusieurs discussions au cours desquelles se sont mélangés le bilan critique d’expériences passées, l’insatisfaction à propos des initiatives de lutte actuelles et l’espoir dans les potentialités existantes. Elles ne sont pas la ligne d’un groupe en compétition avec les autres, ni ne sous-tendent la prétention et l’illusion de remplir les vides — de vie et de passions projectuelles — à partir de l’accord plus ou moins formel sur certaines thèses. Si elles contiennent certaines critiques déplaisantes, ce n’est pas pour le goût en soi de les remuer, mais plutôt parce que je crois qu’il est aussi urgent de se dire les choses désagréables. Comme toutes les paroles de ce monde, elles ne trouveront un écho que chez ceux qui ont une exigence identique. En somme, une petite base de discussion pour comprendre ce qu’on peut faire, et avec qui.
S’il est vrai que le préjugé le plus dangereux est celui de penser ne pas en avoir, cela me ferait toutefois plaisir que ces notes soient critiquées pour ce qu’elles disent, sans lecture a priori. Un tel désir en explique le ton aussi bien que le style.
Une maison inhabitable
La situation dans laquelle nous nous trouvons me semble être celle de ceux qui se barricadent entre quatre murs pour défendre des espaces dans lesquels ils n’ont pas envie de vivre. C’est pourquoi
discuter d’ouverture, d’élargissement et d’alliances cache le fait que nous sommes en train de défendre une maison en ruines dans un quartier inhabitable. La seule issue me semble être d’incendier les lieux et d’aller à l’air libre, en y chassant l’odeur de moisi. Mais qu’est-ce que ça veut dire, en dehors de la métaphore ?
L’époque dans laquelle nous vivons est si prodigue en bouleversements que nos propres capacités d’interpréter les événements, et encore plus de les préfigurer, sont tombées (ou sont en train de le faire) sous les décombres. Si ceci concerne tous les révolutionnaires, les visions du monde et de la vie basées sur les modèles autoritaires et quantitatifs en sortent particulièrement en piteux état. Les gestionnaires des luttes des autres ne gèrent plus que d’inutiles représentations politiques de conflits déjà pacifiés ; et les luttes qui percent la pacification se laissent toujours moins gérer. L’illusion du parti — sous toutes ses formes — est désormais le cadavre d’une illusion.
La disposition, l’alignement et la dissolution des forces en présence, dans les petits comme dans les grands conflits sociaux, est toujours plus mystérieuse. Ce qui a toujours été un de nos traits distinctif — une vision non homogène et non cumulative de la force, une répulsion pour la dictature du Nombre — correspond en partie aux conditions sociales actuelles et aux imprévisibles possibilités de rupture qu’elles contiennent. Des transformations elles-mêmes de la domination — à travers son réseau de structures, de technologies et de savoirs — aux événements comme la guérilla en cours en Irak, nous pouvons tirer quelques enseignements. Il semble clair que les conflits se déroulent toujours moins au sens d’un affrontement de deux armées ou fronts, et toujours plus au sens d’une myriade de pratiques diffuses et incontrôlables. Une domination faite de mille nœuds pousse ses ennemis à se rendre plus imprévisibles. Une façon non centralisée de concevoir les actions et les rapports n’est pas seulement plus libertaire, donc, mais aussi plus efficace contre les mailles du contrôle. Si une telle conscience existe sur le plan théorique, nous ne réussissons pas toujours à l’appliquer dans nos propositions pratiques. D’un côté on affirme que le pouvoir n’est pas un quartier général (mais plutôt un rapport social), d’un autre pourtant on propose des initiatives qui le représentent ainsi. Je pense que nous devrions chercher les formes d’action plus adéquates à nos caractéristiques et à nos forces (quantitatives et qualitatives). Malheureusement, nous continuons de penser qu’agir à quelques uns doive forcément vouloir dire agir de manière isolée. C’est ainsi que face à l’incarcération de compagnons et, plus généralement, à l’exacerbation de la répression, ce sont toujours les mêmes propositions qui sortent : le rassemblement, la manifestation, etc. Il ne s’agit pas, bien entendu, de critiquer ces formes de protestations en tant que telles, mais la mentalité qui le plus souvent les accompagne. Dans certains contextes — actuellement surtout locaux —, à l’intérieur d’une série d’initiatives, même la manifestation ou le rassemblement peuvent avoir leur sens. Mais lorsque cet entrelacement entre les formes d’actions manque, et, surtout, lorsqu’on raisonne entre stricts compagnons, je pense que répéter certains modèles finit par créer un sentiment d’impuissance et par reproduire le mécanisme connu des échéances plus ou moins militantes. Là aussi, il y a besoin d’air frais. On peut s’organiser, même à cent, en voulant, pour intervenir de façon intéressante en manifs plus ou moins vastes. Mais si on est cent et pas un de plus, disons, pourquoi faire une manif ? Que peuvent faire cent compagnons dans une ville dont ils connaissent
les points névralgiques ? Qu’est-ce que nous enseignent toutes ces luttes qui, au niveau mondial, redécouvrent l’usage passionnant et potentiellement subversif du blocage ?
Beaucoup se sont rendus compte que le problème de la répression ne peut être réduit au cercle des révolutionnaires. La répression — directe comme indirecte — implique des franges toujours plus larges de la population. C’est la réponse d’une domination qui sent crouler la terre sous ses pieds, consciente de l’abîme qui se creuse entre l’insatisfaction générale et la capacité de récupération de ses serviteurs historiques : les partis et les syndicats. Sans en approfondir ici les raisons, il suffit de dire que si les subversifs parlent autant de prison c’est parce qu’il est toujours plus facile d’y finir et qu’ils sentent, en même temps, la nécessité de ne pas se limiter, face à un tour de vis complexe, à la défense de ses propres compagnons incarcérés. Là commencent les problèmes. Si on ne réussit pas à s’opposer à la répression indépendamment des individus sur lesquels elle s’abat, alors chacun défendra ses propres amis et compagnons, ceux dont il partage les idées, les passions et les projets — et c’est inévitable qu’il en soit ainsi. La solidarité contre la répression, lorsque cette dernière frappe des révolutionnaires avec lesquels on n’a aucune affinité, doit être bien distincte du soutien aux projets politiques qu’on ne partage pas ou qui sont justement antithétiques à ses propres désirs antipoliticiens. Or, plus le cercle des initiatives se restreint aux révolutionnaires, plus on risque justement d’aider à ressusciter des hypothèses autoritaires heureusement en ruines. Plus elle est vaste, vice et versa, et plus les deux niveaux (celui de la solidarité contre, et celui de la solidarité avec, c’est-à-dire de la complicité) sont bien séparables. Ainsi, il est plutôt étonnant que, sachant la portée sociale et universelle de la manie répressive, il soit proposé comme « solution » de plusieurs côtés l’unité d’action entre… les composantes révolutionnaires. De cette façon, non seulement on s’isole du reste des exploités qui subissent comme nous le poids du contrôle social et de la flicaille, mais on s’illusionne aussi sur un des aspects non négligeables : une telle « unité d’action » a un prix (peut-être pas dans l’immédiat, si les rapports de force sont favorables, mais à la longue si). Si plutôt que d’être cent anarchistes à une initiative, nous sommes cent cinquante parce que nous rejoignent cinquante marxistes-léninistes, et que pour obtenir cela on doit signer des affiches et des tracts rédigés dans un jargon plus ou moins impénétrable, il s’agit peut-être là d’un quelconque « élargissement » ? Ne serait-il pas plus significatif d’organiser une initiative, même à dix, mais en affrontant les problèmes ressentis par beaucoup et en exprimant des contenus plus proches de notre façon de penser et de sentir ? Quant à la solidarité spécifique avec nos compagnons à l’intérieur, il existe bien d’autres formes…
Je ne voudrais pas que cette attitude soit lue comme une « fermeture idéologique » ou comme la recherche d’une hégémonie sur d’autres groupes. C’est justement pour ne pas raisonner en termes de sigles, de chapelles et de formalismes qu’il vaut mieux que les propositions soient larges et claires, sans avoir comme interlocuteurs des groupes politiques précis, mais au contraire tout un chacun qui se sent concerné : ensuite, ceux qui veulent participer d’égal à égal sont les bienvenus. Si les autres révolutionnaires appliquaient la même méthode, cela serait profitable à tous. Il flotte un air d’alliances plus ou moins de convenances que je trouve irrespirable. Les fronts uniques, les unités d’action entre forces révolutionnaires — bien au- delà d’un objectif spécifique de lutte, dans laquelle on se confronte avec toute personne intéressée, qu’elle soit un camarade ou pas — font partie, pour moi, de la défense d’une maison inhabitable. Et ceci, indépendamment de combien Pierre ou Paul sont des personnes gentilles, correctes ou sympathiques ; c’est un problème de perspectives. Répondant à Bordiga, Malatesta dit une fois plus ou moins cela : « Mais si, comme le prétendent ces marxistes, les différences entre eux et nous sont si subtiles, pourquoi plutôt que de vouloir nous faire adhérer à leurs comités ne viennent-ils pas dans les nôtres ? ». Faire les choses entre anarchistes, donc ? Pas du tout. Agir sur des bases claires, même à quelques uns, mais s’adresser à tous les exploités, à tous les insatisfaits de cette perpétuité sociale. Et insérer dans ce que nous disons et faisons — qu’il s’agisse d’une lutte contre les incinérateurs, contre les expulsions ou pour un toit — le problème de la prison (et donc de nos compagnons à l’intérieur). Non pas en juxtaposant ou en collant au reste « la question carcérale », mais au contraire en dévoilant les liens réels sur la base de l’expérience commune. N’importe quelle lutte autonome se heurte, un jour ou l’autre, à la répression (soit en l’affrontant ouvertement, soit en se repliant pour l’éviter). Même les occupations de maison posent le problème de la police, des intérêts qu’elle défend, du contrôle des quartiers, des ghettos et des taules. L’auto-organisation sociale est également toujours une auto-défense contre la répression.
Sauter au cœur de l’occasion
Nous avons, sous certains aspects, une occasion historique : celle d’intervenir dans des conflits sociaux — présents et à venir — sans médiation. Si les épigones des forces autoritaires qui ont étouffé tant d’élans subversifs sont, comme nombre et projets, mal en point, pourquoi les aider à sortir de leur désastre ? Pourquoi s’attarder parmi les momies alors que le vent souffle fort ? Eux font des calculs politiques, nous pas. C’est dans l’expérience pratique qu’on verra qui est vraiment pour l’auto-organisation. Basons-nous sur cela.
Avec le redéploiement réformiste général, les quelques composantes anticapitalistes et anti-institutionnelles sont comme des incendies dans la nuit — la tentation est donc forte de s’en tenir strictement en deçà de certaines barricades. Mais ce n’est pas là que réside notre force. Fourier disait qu’une passion est révolutionnaire si elle permet une élévation immédiate du plaisir de vivre. Cela me semble être le critère le plus fiable. Je sais que de nombreux jeunes se sont rapprochés de certains milieux anarchistes parce qu’ils ont découvert qu’on vit mieux avec la solidarité et le courage de ses propres idées. Pourquoi ? Parce que le poids de la marchandise et du travail est moins fort lorsqu’on l’affronte ensemble, parce que les comportements hors-la-loi sont contagieux pour ceux qui aiment la liberté, parce que les rapports amoureux peuvent être plus sincères et plus satisfaisants sans bride, parce que dans l’union de la pensée et de l’action se renouvelle, comme le disait Simone Weil, le pacte de l’esprit avec l’univers. Voilà ce que l’enthousiasme — celui de la légèreté soucieuse et non pas celui de la frivolité décourageante — devrait apporter à nos pratiques. Parce que « porter la panique à la surface des choses » est passionnant ; parce qu’il n’y a pas de fête sans rupture de la normalité. Laissons à d’autres certains langages de militants tristes et fuyons les modèles que connaît et attend le pouvoir.
On ne sortira pas du gué sur lequel on se trouve actuellement par quelque initiative, même bien réussie. Il faut s’avouer que les temps seront plutôt longs. Trouver des affinités réelles, expérimenter à nouveau des formes d’action collective articulées et imaginatives, berner le contrôle policier, sont des possibilités à réinventer au milieu de mille obstacles. « Oui, mais en attendant les compagnons sont dedans, en attendant la répression s’échauffe » — pourrait- on nous répondre. Mais la meilleure chose que nous puissions entreprendre pour les compagnons incarcérés n’est- elle pas de rendre socialement dangereuse cette exigence de vie pour laquelle ils sont enfermés ? En un sens, il est inutile de se regarder dans des miroirs politiques qui nous disent que nous sommes nus. Mieux vaut une nudité consciente que quelque habit tissé d’illusions. Mieux vaut recommencer à zéro, loin de l’odeur de cadavres et du bric-à-brac idéologique incompréhensible aux indésirables de ce monde.
Voilà, il y a besoin pour de multiples aspects d’une forte secousse qui porte des comportements inouïs dans les rapports individuels comme sur la place publique. Non pas au sens du goût de jouer les histrions et de façon autopromotionnelle dans une sorte de veine artistique —notoirement cadavérique —, mais comme une nouvelle exigence de vie qui s’affirme effrontément. D’une tension éthique qui ne confonde jamais oppresseurs et opprimés, et qui n’épuise pas son propre souffle contre les serviteurs du pouvoir — en cherchant à s’en libérer, par la violence aussi — mais pour aller au-delà. Il y a besoin d’une nouvelle bonté, armée et résolue, capable de bouleverser les calculs de boutiquiers de nos contemporains, capable de faire du mépris de l’argent un comportement individuel et social. Il y besoin, en somme, que l’insupportabilité de ce monde —de son travail comme de ses maisons, de ses biens de consommation comme de sa morale — trouve sa propre expression irrésistible, constante, quotidienne. C’est dans notre vie que se joue la guerre sociale, parce que c’est dans la vie de tous les jours que le capital tisse son réseau d’aliénation, de dépendance, de petites et grandes capitulations. C’est là l’alpha et l’oméga de toute subversion
sociale.
Ne dites pas que nous sommes peu…
Dites seulement que nous sommes. C’est ainsi que commençait un autocollant antimilitariste il y a plusieurs années. Il continuait ensuite en disant qu’il suffisait de quelques nuages noirs pour obscurcir le ciel. Il ne s’agit pas uniquement d’une astuce de l’optimisme, mais aussi d’une expérience réelle.
Pendant de nombreuses années — au moins une quinzaine — il y a eu en général peu d’attention dans le mouvement anarchiste d’action directe (celui qui est autonome de la Fédération Anarchiste et du syndicalisme, pour être clair) aux conflits sociaux et aux formes plus
ou moins significatives d’auto-organisation des exploités. Outre les raisons historiques (le grande pacification des années 80), c’était dû à un problème de mentalité. De nombreux compagnons qui parlaient d’insurrection — un fait indubitablement social — percevaient la société comme un espace peuplé presque entièrement d’esclaves et de résignés. Avec un tel regard, ils restaient ainsi suspendus entre les déclarations de principe et leurs expériences effectives : indécis sur le fait de mener une révolte ouvertement solitaire, lents à ouvrir leur porte à des possibilités collectives (c’est peut-être de là, qui sait, que naissait une certaine rancœur ensuite balancée dans les polémiques entre compagnons). A côté de cette faible sensibilité aux luttes qui rompent avec la massification —mais qui sortent cependant de cette massification —, s’est en revanche développée une certaine
capacité d’intervention autonome liée à une diffusion significative de pratiques d’attaques contre les structures de la domination (du nucléaire au militaire, en passant par les banques, les dispositifs de contrôle technologique ou les laboratoires de vivisection). A présent, quelque chose est en train de changer, comme si une exigence individuelle confuse rencontrait de nouvelles conditions sociales — et voici que des compagnons parlent à l’improviste de lutte de classe, parfois en empruntant lectures et jargon au marxisme. Mais bien souvent, au-delà de la rhétorique des tracts, la vision de la société est restée la même : autour de nous, en somme, il n’y a que des complices du pouvoir. Je pense que dans tout ça joue pour beaucoup un manque d’expérience de luttes sociales directement vécues et stimulantes. Quelques tentatives locales ont existé et existent, sans toutefois rejoindre cette difficulté instructive des conflits plus larges. Encore une fois, nous sommes sur un gué. Certaines réflexions pratiques sont nées sur la base des différents blocages réalisés par les travailleurs ou par d’autres [1]. Nous nous y sommes jetés à nombreux, demandant à ces luttes beaucoup plus que ce qu’elles pouvaient exprimer — sauf pour retourner chez soi en se plaignant de la servilité des exploités. D’autres occasions ne manqueront pas, pas plus qu’une plus grande attention de notre part. Mais ça ne suffit pas.
Je pense que c’est moins que jamais le moment de renoncer au goût de l’action directe, même à peu nombreux. Mais celle-ci devrait seulement être majoritairement liée à des contextes sociaux, à des insatisfactions perceptibles. Combien d’occasions avons-nous perdues (après Gênes, au cours des blocages contre les trains de la mort [qui transportaient armes et troupes italiennes en partance vers l’Irak], après Nassiriya [où 19 carabiniers ont explosé d’un coup en Irak en novembre 2003], au cours de la tragédie du Cap Anamur [bateau d’immigrés que la marine italienne a laissé couler au large des côtes], etc.) ? Le temps est l’élément au sein duquel vivent les hommes, et la révolte est faite d’occasions. Nous devrions mieux étudier nos possibilités, plutôt que de tourner ainsi souvent en rond. Il y eut diverses nobles exceptions, bien entendu (plusieurs actions après Gênes, d’autres contre les biotechnologies ou la machine à expulser, certains sabotages contre la guerre, etc.), mais sporadiques, entourées du bruit provoqué par une rhétorique inutile, par des proclamations au vent et une distinction pratique (et éthique) tout sauf claire sur qui sont les ennemis. Et justement en une période où, face à la violence indiscriminée dont s’emparent toujours plus souvent des instances de résistance et de libération des damnés de la terre, cette clarté serait nécessaire. Surtout de la part de ceux qui répètent sans cesse que la meilleure théorie est la pratique, mais laissent ensuite au hasard beaucoup de ce qu’ils font [2]. Peut-être qu’éblouis par les effets spéciaux du spectacle, nous sommes les premiers à peu croire aux conséquences de nos actions (nous laissant aller à l’à peu près), ou bien à en exagérer la portée (nous laissant prendre par l’illusion médiatique). Il y a des conséquences qui continuent à produire des causes.
Le grand jeu
Le grand jeu, me semble-t-il, réside dans la capacité de réunir une certaine dose de non-conformisme quotidien (perturber partout où c’est possible la normalité sociale, des débats citoyens aux foires à la consommation et à l’abrutissement culturel, du travail à la paranoïa du contrôle) avec la célérité d’action au moment opportun. En étant des véhicules de la joie de vivre et non des Cassandre du futur effondrement du capitalisme. Pour que l’action anonyme et destructrice exprime la construction d’une vie qui ne soit pas anonyme. Trop vague ? Certes, et il ne pourrait pas en être
autrement. S’agissant du plus sérieux des jeux, c’est à chacun de jouer la partie. Les difficultés existent et sont énormes, vu la perte progressive des espaces d’autonomie, tragiquement érodés par le système social actuel et ses mille narcotiques technologiques. Et pourtant, les limites résident surtout dans notre résolution et notre fantaisie, lourds que nous sommes du fardeau de l’habitude des gestes, des paroles, des rapports. Une rencontre plus large entre les différents milieux naîtra des parcours respectifs d’autonomie de pensée et de lutte, non pas d’une somme de forces dictée par
l’urgence. Alors, les discussions ne seront pas un ballet immobile de phrases toutes faites, mais au contraire l’occasion d’apprendre les uns des autres, de faire finalement communiquer les modes de
vivre, c’est-à-dire les mondes réciproques. Alors retrouverons-nous la confiance et l’enthousiasme, et quelque chose qui ressemble à une expérience commune pourra naître.
La révolte est aussi la rencontre entre la légèreté et la rigueur.
Un ami de Ludd
[Traduit du texte italien “All’aria aperta. Note su repressione e dintorni“, qui a circulé en septembre 2004. Extraits de Cette Semaine n° 91, hiver 2006.]
Notes
[1] L’Italie connaît peu de « grands mouvements sociaux » à la française. Aussi la grève sauvage des traminots et chauffeurs de bus de décembre 2003 avec blocage des dépôts a-t-elle pris au dépourvu les compagnons, qui après un temps de latence se sont lancés dans les grandes villes avec enthousiasme dans des pratiques de solidarité (voir les traductions de Quale Guerra dans Cette Semaine n° 87, février/mars 2004, p.19). La reprise de la lutte en Val Susa contre le TAV à partir de septembre 2005 a souvent constitué pour nombre d’entre eux la première expérience de lutte sociale et populaire élargie.
[2] Nous y voyons là une claire allusion critique aux méthodes de la Fédération Anarchiste Informelle alors naissante, dont plusieurs actions revendiquées consistaient en l’envoi de colis piégés, laissant « au hasard » de l’acheminement postal et des personnes chargées d’ouvrir le courrier des grands de ce monde le soin d’être ciblées ou à côté de la plaque.
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In The Open Air – Notes on repression and related matters
on the current situation with the aim of finding the thread of
a possible perspective. They are the fruit of various discussions in
which the critical balance of past experience, the dissatisfaction
with endeavors of struggle now going on and hope for existing potentialities
blended together. They are not the line of one group in
competition with another. Nor do they have any pretense or illusion
of filling the voids – of life and projectual passion – with any more
or less formal agreement on a few theses. If they contain unpleasant
critiques, it is not for the sake of advancing them as an end in itself,
but rather because I believe that it is still necessary to say unpleasant
things. Like all the words in this world, they will only find an
echo in those who feel a similar need. In short, a small basis for discussion
in order to reach an understanding of what we can do, and
with whom.
We know from experience that one of the greatest powers of repression
is that of spreading confusion and instilling distrust in others
as well as in ourselves, or else of determining rigid attachments
to identity and more or less paralyzing suspicions. In this sense, it
would be best to examine certain problems in depth as soon as possible.
Difficult years lie ahead that will shake up many of our mental
and practical habits. If it is true that the most dangerous prejudice
is that of thinking one has none, I would still prefer that these
notes get criticized for what they say, without preconceived interpretations.
Such a desire will explain their tone and even their style.
An Uninhabitable House
The condition in which we find ourselves seem to me to be that
of someone who barricades herself inside four walls in order to defend
a space in which no one has any desire to live. So much discussion
of opening out, of expansion, of alliance, hides the fact that
we are defending a tumbledown house in an uninhabitable
neighborhood. It seems to me that the only way out is to set fire to
the defense posts and go out into the open air, shaking off the moldy
odor. But what does this mean beyond the metaphor?
The age in which we live is so lavish with disruption that our
very capacity to interpret, and still more, prefigure events is collapsing beneath the rubble. If this is valid for all revolutionaries, the visions
of the world and of life based on authoritarian and quantitative
models have come out in particularly bad shape. The more or less
knowing managers of other people’s struggles manage only useless
political representations of already pacified conflicts; the struggles
that burst through pacification don’t leave any space for managers.
The illusion of the party – in all its variants – is now the corpse of
an illusion.
The spreading out, aligning and breaking up of forces on the
field, in small as well as great conflicts, becomes increasingly mysterious.
The thing that has always been our distinctive trait – a nonhomogenous,
non-cumulative vision of force, a repugnance for the
dictatorship of the Number – corresponds in part to the current social
conditions and to the unpredictable possibilities for rupture that
these conceal. From the transformation of the ruling order itself –
through its network of structures, technologies and knowledge – to
events like the guerrilla struggle going on in Iraq, we can draw
some lessons. It seems clear that conflicts occur less and less in the
form of the confrontation between two armies or fronts, and more
and more in the form of a myriad of widespread and uncontrollable
actions. A ruling order made of thousands of centers of vital points
pushes its enemies to make themselves more unpredictable. Thus, a
non-centralized way of conceiving actions and relationships is not
only more libertarian, but also more effective against the nets of
control. If such an awareness exists on a theoretical level, we don’t
always manage to maintain it in practical proposals. On the one
hand, we affirm that power is not a general headquarters (but rather
a social relationship), but on the other hand we propose endeavors
that depict it as just that. I think that we have to start seeking the
forms of action most fitting to our characteristics, to our (quantitative
and qualitative) strengths. Unfortunately, we still think that acting
in small groups must necessarily mean acting in isolation. This
is why, in the face of the arrest of comrades and the more general
increase of repression, the usual proposals always come out: the
rally, the march, etc. Of course, it isn’t a matter of criticizing these
forms of action as such, but the mentality that usually goes along
with them. In certain contexts – at present, particularly, local ones –,
the march or rally might have their meaning as part of a series of
endeavors. But when this weaving together of various forms of actions
is lacking, and especially when we are thinking within the narrow
circle of comrades, I think that repeating certain models ends up creating a sense of powerlessness and reproducing the wellknown
mechanism of more or less militant set dates. Here as well,
there is a need for fresh air. Even by organizing with a hundred, if
we want, we can intervene in interesting ways in rather huge
marches. But if there are just a hundred and that is all, let’s ask, why
a march? What can a hundred comrades do in a city where they
know the key points well? What do all the struggles going on
around the world that are rediscovering a passionate and potentially
subversive use of the blockade have to teach us?
Many have become aware that the problem of repression cannot
be reduced to the sphere of revolutionaries. Repression – both direct
and indirect – involves ever broader portions of the population. It is
the response of a ruling order that feels the earth slipping under its
feet, aware of how wide the gap between general dissatisfaction and
the capacities of its historical servants (the parties and unions) is becoming.
Without looking into the reasons for all this here, it is
enough to say that subversives speak so much about prisons because
it is so much easier to end up inside, and at the same time, they feel
the need not to limit themselves, within the totality of life, to the defense
of their arrested comrades. Here problems arise. If we can
only oppose repression as it relates to those on which it falls, then
everyone will defend her own friends and comrades, those with
whom he shares ideas passions and projects – and this is unavoidable.
Solidarity against repression that strikes revolutionaries with
whom we don’t have any affinity has to be quite clearly distinguished
from support for political projects we don’t share that are
downright antithetical to our anti-political desires. Now, the more
we limit the sphere of our endeavors to revolutionaries, the more we
risk precisely giving a hand to reviving authoritarian theories that
are fortunately in ruins. On the other hand, the broader this sphere
is, the easier it seems to be to distinguish the two levels (that of
solidarity against and that of solidarity with, i.e., complicity). It is
therefore rather astonishing that, despite awareness of the social and
universal range of the repressive blade, the “solution” proposed
from most sides is unity of action among … the revolutionary elements.
In this way, we don’t just isolate ourselves from the rest of
the exploited who feel the weight of social control and policing like
us, but we also fool ourselves about an important facet: such “unity
of action” has a price (maybe not immediately if the relationships of
force are favorable, but certainly in the long run). If , instead of one
hundred anarchists, there are one hundred fifty people involved in an endeavor because fifty Marxist-leninists join in, and to accomplish
this, we have to sign manifestoes and flyers written in a relatively
impenetrable jargon, is this really about “expansion”?
Wouldn’t it possibly be more meaningful for even just ten people to
organize an endeavor that confronts problems felt by many and expresses
contents closer to our way of thinking and feeling? As to the
solidarity that relates specifically to comrades inside, quite different
forms exist…
I don’t want this attitude to be interpreted as an “ideological closure”
or as a search for hegemony over other groups. Precisely in
order to avoid reasoning in terms of acronyms, strained ideological
interpretations and formalism, it is best to keep our proposals broad
and clear, without any particular political groups acting as spokespeople,
but rather everyone who feels involved speaking for herself.
After that anyone who wants to participate as an equal among
equals is welcome. If other revolutionaries apply the same methods,
it will benefit everyone. There is an atmosphere of alliance based on
reciprocal favors that I find unbreathable. United fronts, unity of action
among revolutionary forces – quite apart from any specific objective
of struggle in which anyone who was interested could meet
together, whether comrades or not – are a part of the defense of an
uninhabitable house for me. And this, regardless of what fine, correct
or sympathetic people these guys may be. It’s a question of perspective.
Once in response to Bordiga, Malatesta said, “But if, as
these Marxists claim, the difference between us and them is not so
substantial, instead of making us join their committees, why don’t
they come to ours?” Doing things among anarchists, then? Not at
all. Acting on clear foundations, even in small groups, but addressing
all the exploited, all those dissatisfied with this social prison.
And including in what we do and say – whether it’s a struggle
against incinerators, against expulsions or for housing – the problem
of prisons (and thus of our comrades inside). Not juxtaposing and
pasting the “prison question” onto the rest, but rather exposing the
real connections on the basis of common experience. Every
autonomous struggle sooner or later comes up against repression
(whether it faces it openly or retreats in order to avoid it). House
occupations also pose the problem of the police, of the interests they
defend, of ghettoes and jails. Social self-organization is also always
self-defense against repression.
Leaping to the Heart of the Opportunity
In certain respects, we have an opportunity: the opportunity to
intervene in social conflicts – present and to come – without mediation.
If the second-rate followers of authoritarian forces that have
smothered so many subversive drives are down-at-the-heels in
terms of numbers and projects, why should we help them out of
their troubles? Why linger among the mummies when a strong wind
blows? They make political calculations, we do not. In practical experience,
it will be seen who is really for self-organization. We base
ourselves on this.
With the general reformist retreat, the few realities about anticapitalist
and anti-institutional positions are like a fire in the night –
and so the temptation is strong to keep them tightly clasped on one
side of certain barricades. But our strength is not there. Fourier said
that a passion is revolutionary if it brings about an immediate increase
in the enjoyment of life. This seems to me to be the most
trustworthy standard. I know from experience that various young
people have embraced some anarchic realities because they have
discovered that in solidarity and with the courage of one’s ideas,
one lives better. Why? Because the weight of the commodity and of
work is not so heavy if we face it together, because outlaw behavior
is contagious for those who love freedom, because loving relationships
without restraint can be more sincere and fulfilling, because in
the union of thought and action, as Simone Weil said, the pact of the
spirit with the universe is renewed. Here then is the enthusiasm that
should inform our practice – the enthusiasm of thoughtful levity, not
of demeaning frivolity. Because “bringing panic to the surface of
things” is thrilling; because there is no festival without a rupture
with normality. Let’s leave certain words of sad militants to others
and avoid the models that power knows and expects.
We will not manage to get across the river we find ourselves in
now through any single endeavor no matter how good it is. We’d
better say that it will take quite a bit of time. To find real affinity, to
experiment with new articulate and imaginative forms of collective
action, to mock police control, these are possibilities for us to reinvent
amidst thousands of obstacles. One might respond, “Yes, but in
the meantime there are comrades inside, in the meantime, repression
is on our tail.” But isn’t the best thing that we could undertake for
the imprisoned comrades perhaps to make those demands for life
for which they have been locked up become socially dangerous? In this sense it is useless to look into political mirrors that tell us that
we are not nude. Better a conscious nudity than any garment woven
from illusions. Better to start again from scratch, far from the odor
of corpses and the ideological rubbish incomprehensible to the undesirables
of this world.
Thus, from so many sides, there is a need for a strong breach that
brings unheard-of behavior into individual relationships as well as
into the public squares. Not in the dramatic and self-promotional
sense preferred by the sort with an artistic streak – notoriously
corpse-like –, but rather in the sense of a new urgency for life that
affirms itself without shame. There is a need for a class hatred that
does not know what to make of the old complaints, and attacks the
myriad nodes of daily exploitation. There is a need for an ethical
tension that never confuses oppressors and oppressed, and that
doesn’t waste its breath against the slaves of power – because it
seeks to free itself from them, even with violence, but in order to go
beyond. There is a need for a new generosity, armed and resolute,
capable of overturning the shopkeepers’ calculations of our contemporaries,
capable of making contempt for money an individual
and social behavior. In short, there is a need for us to find ways to
express the unbearable reality of this world – of its jobs and its
houses, of its consumption and of its morality – daily, constantly,
insatiably. The social war plays out in our lives, because it is in
daily life that capital weaves its web of alienation, of dependence,
of great and small capitulations. Here is the alpha and omega of all
social subversion.
Don’t Say that We Are Few…
Say only that we are. This is how a famous anti-militarist sticker
from many years ago began. It then went on to say that it was only
some black cloud that darkened the sky. It wasn’t just an artifice of
optimism, but also a real experience.
For several years – at least fifteen – in the anarchist direct action
movement (the one autonomous from the Federation and from syndicalism,
to clarify), there has generally been little attention given to
social conflicts and the more or less significant forms of the selforganization
of the exploited. Aside from the historical reasons (the
great pacification of the 1980’s), this has been due to a problem of
mental attitude. Many comrades who spoke of insurrection – an unquestionably
social event – perceived society as a space inhabited
almost entirely by the servile and the resigned. With such a vision they thus remained suspended between declarations of principle and
their effective experience: undecided with regard to an openly solitary
revolt, slow to open the door to collective possibilities. (Who
knows, maybe this is what gave birth to a certain rancor that spilled
out in the disputes between comrades). Alongside this low sensitivity
toward struggles that break through massification – but that
nonetheless come out of massification – a certain capacity for
autonomous intervention has developed, with a significant spread of
practices of attack against the structures of domination (among them
the nuclear industry, the military, banks, equipment of technological
control and vivisection laboratories). Now something is changing,
as if a confused individual need met with new social conditions –
and from this come the comrades who speak unexpectedly of class
struggle, perhaps even taking on loan interpretations and jargon
from Marxism. It’s just that often, aside from the rhetoric of flyers,
their vision of society has remained the same: in short, that we are
surrounded on all sides by accomplices of power. I believe that a
lack of experience in directly lived and incited social struggles plays
a major role in all this. Some local attempts have existed without yet
reaching those instructive difficulties typical of expanded conflicts.
Once again, we are at a crossing. Some practical reflection has been
born on the basis of various blockades carried out by workers and
others. Many of us have thrown ourselves into it, asking much more
of these struggles than what they could express – safe then to turn
around and complain of the servility of the exploited. Other occasions
will not be lacking, nor perhaps will a greater attention on our
part be missing. But that isn’t enough.
I think that this is not at all the time for abandoning the taste for
direct action, still in small groups. It’s just that this should be better
linked to social contexts, to perceivable dissatisfaction. How many
opportunities have we lost (after Genoa, during the blockades of the
death trains, after Nassiriya, during the tragedy of Cap Anamur,
etc.)? Time is the element in which human beings live, and revolt is
made of opportunities. We will have to study our possibilities better,
instead of chasing our tails. Obviously, there have been a few
noble exceptions (various actions after Genoa, others against biotechnology
or the mechanisms of expulsions, some sabotage against
the war, etc.), but they have been sporadic, surrounded by the
clamor provoked by useless rhetoric, by proclamations thrown into
the wind and by a practical (and ethical) distinction utterly lacking
in clarity about who the enemies are. Precisely at a time when this clarity is necessary in the face of the indiscriminate violence that
more and more often takes over in the moments of resistance and
potential liberation of the damned of the earth. Those who continually
repeat that the best theory is practice, but then leave much of
what they do up to chance, particularly need this clarity. Maybe,
blinded by the special effects of the spectacle, we either have too
little trust in the consequences of our actions (allowing ourselves to
get sloppy), or else we exaggerate their importance (allowing ourselves
to be caught up in media illusions). There are effects that go
on producing their causes.
The Great Game
It seems to me that the great game lies in the capacity for uniting
a certain amount of daily daring (disrupting social normality is possible
everywhere, from public debates to fairs of consumption and
cultural stupefaction, from work to the paranoia of control) with the
readiness to act when moment is opportune. In order to be catalysts
of the joy of living, and not Cassandras of the future capitalist collapse.
Because anonymous and destructive action expresses the construction
of a life that is not anonymous. Too vague? Of course, and
it cannot be otherwise. Being the most serious of games, the match
concerns everyone of us. Difficulties most certainly exist, considering
the progressive loss of autonomous spaces, tragically eroded by
the present social system and its many technological narcotics. And
yet, the limits are often, above all, in our resoluteness and our
imagination, weighed down as we are by the burden of habit in gestures,
words and relationships. A wider encounter between various
local realities will be come to be from respective autonomous pathways
in thought and in struggle, not from an adding up of forces
dictated by urgency. Then discussion will not be a motionless dance
of set phrases, but rather the opportunity for learning from one another,
for finally making the ways of living, i.e., the mutual worlds,
communicate. Then, confidence and enthusiasm will be found
again, and something resembling a common experience will be
born.
Revolt is where levity and rigor meet.
A friend of Ludd,
September 2004.
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In Open Lucht
Aantekeningen over repressie en haar vormen
E.A. Poe
Onderstaande aantekeningen zijn geboren uit de noodzaak om samen na te denken over de huidige situatie en de draad van een mogelijk perspectief op te pikken. Ze zijn de vrucht van vele discussies waarin het kritische bilan van voorbije ervaringen, de ontevre-denheid over de huidige strijdinitiatieven en de hoop in de bestaande mogelijkheden zich vermengd hebben. Ze zijn geen lijn van een groep in competitie met andere groepen; noch hebben ze de pretentie en de illusie om leemtes op te vullen – van het leven en van project-matige verlangens –op basis van een min of meer formele instemming met bepaalde stel-lingen. Als ze wat onaange-name kritieken bevatten, dan is dan niet omwille van het plezier op zich om de dingen door elkaar te gooien, maar eerder omdat ik denk dat het ook nodig is om ons over onaangename dingen te buigen. Zoals alle woorden van deze wereld zullen deze aantekeningen alleen maar een echo vinden bij diegenen die dezelfde nood voelen. Samengevat, een basis voor discussie om te begrijpen wat we kunnen doen, en met wie.
We weten uit ervaring dat één van de grootste krachten van de repressie het zaaien van verwarring is en het wantrouwen opstoken tegenover zowel de anderen als tegenover jezelf. De repressie schept identitaire geslotenheid en enigszins verlammende verdenkingen. In die zin: hoe sneller bepaalde problemen uitge-diept worden, hoe beter. Er wachten ons moeilijke tijden die onze praktische en mentale gewoontes niet weinig zullen dooreen rammelen. Als het waar is dat het meest gevaarlijke vooroordeel het geloof is er geen te hebben, dan zou het me plezier doen, mochten deze aantekeningen bekritiseerd worden op wat ze beweren, zonder een vooringenomen lezing. Een dergelijk verlangen verklaart zowel de toon als de stijl.
Een onbewoonbaar huis
Het barricaderen binnen vier muren om ruimtes te verdedigen waarin we niet willen wonen, dat lijkt me onze huidige situatie te zijn. Daarom verhullen discussies over opening, verbre-ding en bondgenootschap het feit dat we een huis in puin middenin een onbewoonbare wijk aan het verdedigen zijn. Mij lijkt de enige uitweg die plekken in brand steken, naar open lucht gaan en de schimmelgeur verjagen. Maar wat wil dat zeggen, de metafoor daargelaten?
Het tijdperk waarin we leven is zo kwistig met omwentelingen dat ons eigen vermogen om de gebeurtenissen te interpreteren en zeker om ze te zien aankomen, in puin ligt (of ineenstort). Voor zover dat alle revolutionnairen aangaat, komen de visies op de wereld en het leven die gebaseerd zijn op autoritaire en kwantitatieve modellen er bijzonder erbarmelijk uit. De managers van de strijden van anderen beheren niets meer dan nutteloze politieke vertegen-woordigingen van conflicten die al gepacificeerd zijn; en de strijden die de pacificatie doorbreken, laten zich alsmaar minder beheren. De illusie van de partij – in al haar vormen – is voortaan het kadaver van een illusie.
Zowel in kleine als in grote sociale conflicten worden de ingesteldheid, de samenstelling en ontbinding van de aanwezige krachten alsmaar mysterieuzer. Wat altijd één van onze onder-scheidingstekenen geweest is – een niet-homogene en niet-cumulatieve visie op kracht, een afkeer voor de dictatuur van het Aantal – beantwoordt deels aan de huidige sociale omstan-digheden en aan de onvoorzienbare mogelijkheden tot breuken die ze bevatten. We kunnen enkele lessen trekken uit de transformaties zelf van de overheersing – doorheen haar netwerk van structuren, technologieën en kennis – en uit meer specifieke gebeurtenissen zoals de guerilla in Irak. Het lijkt duidelijk dat conflicten zich alsmaar minder afspelen als een botsing tussen twee legers of fronten en alsmaar meer als een myriade van verspreide en oncontro-leerbare praktijken. Een overheersing die bestaat uit duizend klissen spoort haar vijanden aan om meer onvoorspelbaar te worden. Een niet-gecentraliseerde manier om acties en verhou-dingen te begrijpen, is dus niet alleen meer libertair, maar ook efficiënter tegen het net van de controle. Voor zover er al zo’n bewustzijn leeft op theoretisch vlak slagen we er toch niet altijd in om dat in onze praktische voorstellen toe te passen. Langs de ene kant affirmeren we dat de macht geen algemeen hoofdkwartier kent (maar eerder een sociale verhouding is) en langs de andere kant blijven we toch bij initiatieven die het zo voorstellen. Ik denk dat we actievormen zouden moeten zoeken die meer in overeenstemming zijn met onze karakter-istieken en onze krachten (kwantitieve en kwalitatieve). Jammer genoeg blijven we geloven dat met enkelen ageren noodzakerlijkerwijze geïsoleerd ageren betekent. En zo komen tegen-over de gevangenzetting van kameraden en meer algemeen tegenover een oplaaiende repressie altijd dezelfde voorstellen naar buiten: de samenkomst, de betoging, etc. Het gaat er niet om, moge dat duidelijk zijn, deze protestvormen op zich te bekritiseren, maar wel de mentaliteit die er meestal mee gepaard gaat. In bepaalde contexten – momenteel vooral lokaal -, als deel van een reeks initiatieven, kunnen zelfs betogingen of samenkomsten hun zin hebben. Maar wanneer de verstrengeling van actievormen ontbreekt, en dan vooral wanneer we strikt onder kameraden redeneren, dan denk ik dat het herhalen van bepaalde modellen uiteindelijk een gevoel van onmacht creëert en het gekende mechanisme van militante doodlopende straatjes reproduceert. Ook hier is nood aan frisse lucht. We kunnen ons (zelfs met honderd) organiseren om op een interessante manier te interveniëren tijdens grote betogingen. Maar als we met honderd zijn en met niet één meer, kom dan, waarom dan een betoging organiseren? Wat kunnen honderd kameraden doen in een stad waarvan ze de pijnpunten kennen? Wat leren al die strijden ons die over de hele wereld het aanstekelijke en potentieel subversieve gebruik van de blokkade herontdekken?
Velen zijn tot het besef gekomen dat het probleem van de repressie niet herleid kan worden tot het kringetje revolutionairen. De repressie – zowel direct als indirect – betrekt alsmaar bredere lagen van de bevolking. Dat is het antwoord van een overheersing die de aarde voelt wegzakken onder haar voeten en die zich bewust is van de kloof die gaapt tussen de algemene ontevredenheid en het recuperatievermogen van haar historische dienaars: de partijen en de vakbonden. Zonder de redenen daarvoor hier uit te diepen volstaat het te zeggen dat subversievelingen zo veel over de gevangenis praten omdat het alsmaar eenvoudiger is om erin te belanden en omdat ze tegelijkertijd de noodzaak voelen om zich tegenover een ingewikkelde, toenemende repressie niet te beperken tot de verdediging van de eigen opgesloten kameraden. Daar beginnen de problemen. Als we er niet in slagen ons tegen de repressie te verzetten, onafhankelijk van de individuen waarop ze neerkomt, zal ieder zijn eigen vrienden en kameraden verdedigen met wie je ideeën, passies en projecten deelt – en het is onvermijdelijk dat het zo geschiedt. De solidariteit tegen de repressie wanneer die revolutionairen raakt met wie we geen enkele affiniteit hebben, moet goed onderscheiden worden van de steun aan politieke projecten die we niet delen of die pal tegenover de eigen antipolitieke verlangens staan. Hoe meer de kring van initiatieven zich beperkt tot revolu-tionairen, hoe meer we juist riskeren om autoritaire hypotheses die gelukkig in puin liggen te helpen herrijzen. Vice versa, hoe ruimer de kring, hoe beter de twee niveaus (solidariteit tegen en solidariteit met, maw. de medeplichtigheid) gescheiden kunnen worden. Zo wekt het eerder verbazing dat, gezien de sociale en universele draagwijdte van de repressieve manie, als ‘oplossing’ de eenheid in de actie wordt voor-gesteld tussen… de revolutionaire compo-nenten. Op die manier isoleren we ons niet alleen van de rest van de uitgebuitenen, die net zoals ons het gewicht van de sociale en politionele controle ondergaan, maar maken we ons ook illusies over één van haar onverwaarloosbare aspecten: zo’n ‘eenheid in de actie’ heeft z’n prijs (misschien niet onmiddellijk, als de krachtsverhoudingen gunstig zijn, maar alleszins op lange termijn). En als we eerder dan met honderd anarchisten met honderdvijftig zijn omdat er vijftig marxisten-leninisten ons ver-voegen; en dat we daarvoor affiches en pamfletten moeten ondertekenen die in een quasi ondoordringbaar jargon geschreven zijn, schuilt daar dan soms ‘verbreding’ in? Zou het niet meer betekenisvol zijn om, zelfs al zijn we maar met z’n tienen, een initiatief te organiseren dat de problemen aanpakt die door velen ervaren worden en een inhoud uitdrukt die veel nauwer aansluit bij onze manier van denken en voelen? En wat de specifieke solidariteit met onze kameraden binnen betreft, daar bestaan heel wat andere vormen voor…
Ik zou niet willen dat deze houding gelezen wordt als een ‘ideologische geslotenheid’ of als een zoektocht naar hegemonie over andere groepen. Het is net om letterwoorden, kapelletjes en formalismen te vermijden dat brede en duidelijke voorstellen beter zijn, zonder precieze politieke groepen als aangesprokenen te nemen maar integendeel dat ieder-één zich betrokken voelt. En daarna, wel, diegenen die als gelijken willen deelnemen, zijn welkom. Mochten andere revolutionairen dezelfde methode toepassen zou dat voor iedereen goed uitkomen. Er hangt een walm van bondgenootschappen die ik onverteerbaar vind. De eenheidsfronten, de eenheid in de actie van revolutionaire krachten – ver voorbij een specifiek strijdobjectief, waarvoor we vechten met iedereen die het interesseert, of het nu een kameraad is of niet – zijn voor mij deel van de verdediging van een onbewoonbaar huis. En dat los van hoe vriendelijk, correct of sympathiek Jan of Pieter ook mogen zijn; het is een kwestie van perspectieven. Malatesta antwoordde een keer aan Bordiga: “Maar als, zoals die marxisten beweren, de verschillen tussen zij en wij zo subtiel zijn, waarom sluiten ze zich dan niet aan bij onze comités in plaats van ons te wil en doen aansluiten bij die van hen?” Alleen maar dingen onder anarchisten doen dan? Helemaal niet. Ageren op een duidelijke basis, zelfs met enkelen, maar zich richten tot alle uitgebuitenen, tot alle ontevredenen van dit sociale levens-
lang. En in wat we zeggen en doen– of het nu gaat over de strijd tegen verbrandingsovens, tegen uitwijzingen of voor een dak – het probleem van de gevangenis (en dus van onze kameraden binnen) betrekken. Niet door de ‘gevangeniskwestie’ naast de rest te zetten of erbij te plakken, maar integendeel door de reële banden op basis van gemeenschappelijke ervaring te onthullen. Eender welke autonome strijd botst vroeg of laat op de repressie (of de strijd pakt de repressie openlijk aan, of trekt zich terug om de repressie te ontwijken). Zelfs huisbezettingen raken het probleem van de politie aan en de belangen die ze verdedigt, de
controle in de wijken, getto’s en gevangenissen. Sociale zelforganisatie is evenzeer
zelfverdediging tegen de repressie.
De gelegenheid te baat nemen
In bepaalde opzichten hebben wij een historische gelegenheid: interveniëren in sociale –huidige en toekomstige – conflicten zonder bemiddeling. Als de epigonen van de autoritaire krachten die zoveel subversief elan verstikt hebben er momenteel zowel qua aantal als qua projecten slecht voorstaan, waarom zouden we hen dan helpen om uit hun miserie te geraken?
Waarom blijven aanmodderen tussen de mummies terwijl de wind hard waait? Zij maken politieke berekeningen, wij niet. Het is in de ervaring van de prakijk dat we zullen zien wie er echt voor zelforganisatie is. Laten we ons daarop baseren.
Met de algemene, hernieuwde reformistische ontplooiing flakkeren de enkele anti-kapitalistische en anti-institutionele componenten op als vuurhaarden in de nacht. De verleiding is dus groot om zich strikt te beperken tot wat vertrouwde barricades. Maar het is niet daar dat onze kracht schuilgaat. Fourier zei dat een passie revolutionair is als ze een onmiddellijke verheffing van levensgenot toelaat. Dat lijkt me het meest betrouwbare criterium. Ik weet dat vele jongeren bepaalde anarchistische milieus benaderen omdat ze ontdekt hebben dat het beter leven is met solidariteit en de moed van eigen ideeën. Waarom? Omdat het gewicht van de koopwaar en het werk minder zwaar is wanneer we het samen aanpakken, omdat buitenwettenlijke gedragingen besmettelijk zijn voor diegenen die de vrijheid beminnen, omdat amoureuze betrekkingen oprechter en bevre-digender kunnen zijn zonder teugels, omdat de eenheid van gedachten en actie, zoals Simone Weil zei, het pact van de geest met het universum hernieuwt. Da’s wat het enthousiasme – de bezorgde lichtheid en niet de ontmoedigende frivoliteit – aan onze praktijken zou moeten bij-dragen. Omdat ‘de paniek naar de oppervlakte van de dingen brengen’ aanstekelijk is; omdat er geen feest is zonder breuk met de normaliteit. Laten we de taal van trieste militanten aan anderen overlaten en de modellen die de macht kent en verwacht ontvluchten.
Zelfs met wat succesvolle initiatieven, zullen we niet van de zandbank geraken waarop we terechtgekomen zijn. En ja, we moeten toegeven dat het eerder lang zal duren. Werkelijke affiniteiten ontdekken, met gearticuleerde en vindingrijke collectieve actievormen experimenteren, de politiecontrole omzeilen… zijn mogelijkheden die zelfs omringd door duizend obstakels opnieuw uitgevonden kunnen worden. “Allemaal goed en wel, maar ondertussen zitten de kameraden wel binnen, ondertussen laait de repressie wel op,” zou iemand ons kunnen ant-woorden. Maar is het beste wat we voor onze gevangen kameraden zouden kunnen onder-nemen niet juist de noodzaak tot leven waarvoor ze opgesloten zijn sociaal gevaarlijk maken? In zekere zin is het nutteloos onszelf te bekijken in de politieke spiegels die vertellen dat we naakt zijn. Een bewuste naaktheid is beter dan eender welk gewaad dat geweven is met illusies. Het is beter van nul af aan te beginnen, ver weg van de stank van kadavers en van de ideologische rommelhoop die onbegrijpelijk is voor de ongewensten van deze wereld.
Voila. Om zovele redenen is er nood aan een sterke opschudding die ongehoorde gedragingen bin-nenbrengt in de individuele verhoudingen, net zoals in het openbaar. Niet in de zin van goesting om komediant te spelen of om onszelf te promoten met een soort artistieke aderlating – een berucht kadaver -, maar juist als een nieuwe nood tot leven die zichzelf schaamteloos affirmeert. Als een ethische spanning die nooit onderdrukkers en onderdrukten door elkaar haspelt en die niet buiten adem raakt door het gevecht tegen de dienaars van de macht – in de poging er zich van te bevrijden, ook met geweld – maar hen juist voorbijsteekt. Er is nood aan een nieuwe welwillendheid, een gewapende en vastberaden welwillendheid. Een welwillend-heid die in staat is de boekhoudersberekeningen van onze tijdsgenoten door elkaar te schud-den, die in staat is van het misprijzen voor geld een individueel en sociaal gedrag te maken. Samengevat, het is nodig dat de onverdraaglijkheid van deze wereld – zowel van haar werk als van haar huizen, zowel van haar consumptie-goederen als van haar moraal – haar eigen onweerstaanbare, constante en dagelijkse uitdrukking vindt. Het is in óns leven dat de sociale oorlog zich afspeelt, want het is in het leven van alledag dat het kapitaal haar web van ver-vreemding, afhankelijkheid, van kleine en grote capitulaties weeft. Daar leeft het alpha en het omega van alle sociale subversie.
Zeg niet dat we met weinig zijn…
Zeg alleen dat we zijn. Zo begon een antimilitaristische sticker van vele jaren geleden. De tekst vertelde verder dat enkele donkere wolken volstaan om de hemel te verduisteren. Da’s niet alleen wat optimistische argeloosheid, maar ook de vrucht van werkelijke ervaring.
Jarenlang – op z’n minst een vijftiental – was er in het algemeen weinig aandacht binnen de anarchistische beweging van directe actie (voor alle duidelijkheid; de beweging die los staat van de Anarchistische Federatie en van het syndicalisme) voor de sociale conflicten en voor de vrij betekenisvolle vormen van zelforganisatie van uitgebuitenen. Naast de historische redenen (de grote pacificatie van de jaren 80) was het ook te wijten aan een mentaliteits-probleem. Vele kameraden die over opstand praatten – onbetwistbaar een sociale gebeurtenis – zagen de maatschappij als een ruimte die bijna uitsluitend bevolkt werd door slaven en onderworpenen. Met zo’n blik bleven ze steken tussen princiepsverklaringen en effectieve ervaringen: onbeslist over het feit om een openlijk solitaire revolte te ondernemen, traag om hun deur te openen voor collectieve mogelijkheden (het is misschien daar, wie weet, dat een zekere wrok ontstond die daarna in de polemieken tussen kameraden binnengeslingerd werd). Naast deze zwakke gevoeligheid voor strijden die breken met massificatie – maar die toch voortkomen uit deze massificatie – heeft zich daarentegen een zeker vermogen tot autonome interventie ontwikkeld die verbonden is met een betekenisvolle verspreiding van aanvals-praktijken tegen structuren van de overheersing (van het nucleaire tot het militaire, via de banken, de technologische controle-apparaten of de vivisectielaboratoria). Er is iets aan het veranderen, alsof een warrige individuele nood nieuwe sociale omstandigheden ontmoet – en hop, daar beginnen kameraden plots te praten over klassenstrijd en ontlenen ze soms lezingen en jargon aan het marxisme. Maar vaak is de visie op de maatschappij, voorbij de retoriek van de pamfletten, dezelfde gebleven: rondom ons zijn er uiteindelijk alleen maar medeplichtigen van de macht. Ik denk dat in dat alles vooral een gebrek aan ervaring in sociale strijden speelt die direct geleefd werden en stimulerend waren. Enkele lokale pogingen hebben bestaan en bestaan nog, zonder evenwel de leerrijke moeilijkheid van bredere conflicten te bereiken. Opnieuw staan we op een zandbank. Bepaalde praktische bedenkingen werden geboren op basis van verschillende blokkades door werkers of anderen [1]. Wij hebben er ons met velen op gestort en hebben veel meer van deze strijden gevraagd dan ze konden uitdrukken – alleen maar om terug naar huis te keren en ons te beklagen over de gedienstigheid van de uitgebuitenen. Andere gelegenheden zullen niet ontbreken, evenmin als een grotere aandacht van onze kant. Maar dat volstaat niet.
Ik denk dat het minder dan ooit het moment is om af te zien van de smaak voor directe actie, zelfs met weinigen. Maar die moet hoofdzakelijk ver-bonden worden met sociale contexten, met waarneembare ontevredenheden. Hoeveel gelegenheden hebben we laten liggen (na Genua, tijdens de blokkades tegen de treinen van de dood [die wapens en Italiaanse troepen naar Irak vervoerden], na Nassiriya [waar 19 carabinieri in één klap explodeerden in november 2003], tijdens de tragedie van Cap Anamur vluchtelingen-boot die de Italiaanse marine heeft laten zinken voor de kust], etc.)? De tijd is een element waarbinnen mensen leven, en de revolte is opgebouwd uit gelegenheden. Wij zouden onze mogelijkheden beter moeten bestuderen in plaats van onszelf zo vaak in cirkelredeneringen op te sluiten. Er zijn verschillende waardevolle uitzonderingen geweest, da’s zeker (verscheidene acties na Genua, acties tegen de biotechnologieën en tegen de deportatiemachine, bepaalde sabotages tegen de oorlog, etc.). Maar ze waren sporadisch en omgeven door het gedreun van nutteloze retoriek, van verklaringen in de wind en van een allesbehalve duidelijk, praktisch (en ethisch) onder-scheid tussen wie de vijanden zijn. En dat net in een periode waarin, tegen-over het geweld zonder onderscheid van alsmaar meer haarden van verzet en bevrijding van de verworpenen der aarde, deze duidelijkheid juist noodzakelijk is. Vooral van de kant van diegenen die zonder ophouden herhalen dat de beste theorie de praktijk is maar vervolgens veel van wat ze doen aan het toeval overlaten [2]. We zijn de eersten – misschien verblind door de speciale effecten van het spektakel – om weinig geloof te hechten aan de conse-quenties van onze acties (en ons laten gaan in het ongeveer) of om de draagwijdte ervan te overdrijven (en ons laten inpakken door de mediatieke illusie). Er zijn consequenties die oorzaken blijven voortbrengen.
Het grote spel
Het grote spel schuilt in het vermogen om een zekere dosis dagelijks non-conformisme (overal waar mogelijk de sociale normaliteit verstoren, van burgerdebatten tot consumptie-markten en culturele afstomping, van werk tot controleparanoïa) te verenigen met de gezwindheid van actie op het opportune moment. Door dragers van levensvreugde te zijn en geen Cassandra’s van de toekomstige ineenstorting van het kapitalisme. Opdat de anonieme en destructieve actie de opbouw van een leven uitdrukt dat niet anoniem is. Te vaag? Zeker, en het zou niet anders kunnen. Het is aan ieder om z’n beurt te spelen in het meest serieuze van alle spelen. De moeilijkheden bestaan en zijn enorm gezien het stelselmatige verlies van ruimtes van autonomie die tragischerwijze geërodeerd worden door het huidige sociale systeem en haar duizendvoudige technologische narcotica. En toch schuilen de beperkingen
vooral in onze vastberadenheid en onze fantasie, beladen als we zijn met de ballast van de gewoontes van daden, woorden en verhoudingen. Een bredere ontmoeting tussen verschillende milieus zal geboren worden uit de parcours van autonomie in denken en strijd, niet als een optelsom van krachten die gedicteerd wordt door de hoogdringendheid. Dan zullen de discussies geen star ballet zijn van afgeborstelde zinnen, maar integendeel een gelegenheid om van elkaar te leren, om eindelijk de manieren van leven – met andere woorden, de wederkerigheid van de werelden – te laten spreken. Dan zullen we het ver-trouwen en het enthousiasme terugvinden en kan er iets dat lijkt op een gemeenschappelijke ervaring geboren worden.
De revolte is ook de ontmoeting tussen lichtheid en onbuig-zaamheid.
Een vriend van Ludd
[Vertaling verschenen in Uitbraak n8, juni 2007]
Opmerkingen
[1] Italië kent maar weinig ‘grote sociale bewegingen’ op z’n Frans. De wilde staking van de trambestuurders en buschauffeurs in december 2003 heeft de kameraden bij verrassing genomen. Na een tijd van afwachten hebben ze in verschillende steden enthousiast solidariteitspraktijken ontwikkeld. De heropname van de strijd in het
Val di Susa tegen de TAV hogesnelheidstrein vanaf september 2005 was voor vele kameraden de eerste ervaring van brede sociale strijd.
[2] Hier zien we een duidelijke kritische verwijzing naar de methodes van de toen prille Informele Anarchistische Federatie. Verschillende acties die werden opgeëist door de informele FAI waren verzendingen van bompakketen. De effectieve bestelling van de pakketten werd ‘aan het toeval’ overgelaten. Ook de risico’s voor diegenen die de post van de groten der aarde moeten openmaken werden ‘aan het toeval’ overgelaten of compleet genegeerd.