Opuscolo di sviluppo del manifesto contro la legalizzazione degli spazi occupati
A cura di El Paso Occupato e Barocchio Occupato – Torino, febbraio 1994
Introduzione: vivre libres ou mourir
Il nostro sogno è vivere liberi, distruggere ogni forma di potere costituito ed ogni gerarchia che ne sono la negazione.
Per noi la libertà non può essere separata dal piacere. Siamo però disposti a sforzi titanici per realizzare libertà e piacere. Consapevoli che non esiste libertà nel sacrificio e nell’immolazione.
In questo senso l’esperienza più completa che oggi ci prendiamo il lusso di vivere è quella dell’autogestione cui fa spazio l’azione diretta, intesa come esperienza aperta, collettiva, estendibile, che se ne infischia dei recinti tracciati dallo Stato tra legalità e illegalità.
L’occupazione degli spazi abbandonati riunisce queste prerogative ed apre la strada, nel modo più corretto, all’autogestione. Lo sviluppo dell’autogestione della nostra vita non è praticabile senza sovvertire l’esistente.
L’autogestione
é la forma di gestione dell’anarchia. II suo cuore pulsante.
Autogestione è la possibilità di stabilire secondo il principio della responsabilità individuale ed il metodo dell’unanimità (non certo quello – democratico – della maggioranza), le regole della propria esistenza.
Autogestione per offrirsi la possibilità di riunificare sfere separate dell’esperienza umana: pensiero e azione, attività manuale e attività intellettuale, per riconquistare quella completezza che ci è stata sottratta dalla specializzazione delle attività imposta dalla cultura del potere.
Perché l’autogestione è la forza prima dell’occupazione ed è la premessa indispensabile alla sua evoluzione in senso sovversivo.
Fin dal lontano 1988 gli occupanti di El Paso scrivevano sul bollettino dei Centri Sociali che gli occupanti si ponevano come soggetti della loro azione, primi fruitori, primi ad averne soddisfazione.
L’occupazione parte dalla necessità di soddisfare bisogni reali di casa – spazio espressivo – socialità – non mercificazione – estraneità alle regole alienanti delle istituzioni.
Solo questo interesse diretto, il desiderio di concretizzare queste forti aspirazioni negate dà la forza agli occupanti di superare le fasi repressive, di passare di sgombero in sgombero, di denuncia in denuncia fino a riuscire ad aprirsi uno spazio ed iniziare realmente l’autogestione collettiva. E di sopportare le mille angherie del potere contro i posti occupati (controlli-irruzioni-nuove denunce).
II fatto che gli occupanti rivolgano egoisticamente prima di tutto verso di sé i risultati delle loro azioni e dell’autogestione è la migliore garanzia di genuinità del loro discorso. Chi vorrà fare altrettanto trova così già sperimentata una strada nuova. In questo modo senza dover rinunciare alla lotta politica o meglio alla lotta per la distruzione della politica, gli occupanti si negano come avanguardia militante staccata e si propongono come primi fruitori del loro operato, mettendosi in gioco personalmente.
La bontà del loro esperimento di vita e la carica sovversiva delle loro proposte si vedranno dagli esiti dell’autogestione dentro e fuori dagli squatt.
Gli occupanti personalmente coinvolti, non più soltanto sul piano dell’astrazione ideologica – come lo erano i militanti dei collettivi politici – avranno così mille buone ragioni per combattere a fondo per la realizzazione dei progetti autogestionari che li vedono protagonisti di un immediato miglioramento della qualità della loro vita dovuto alla riappropriazione di spazi di libertà sottratti dal potere.
Si realizza così il superamento completo in senso sovversivo della triste ed anacronistica figura del militante politico-ideologico degli anni ’70 incompatibile nella dinamica dell’autogestione. E con la sua scomparsa trovano anche vita difficile le pallide figure dei gregari e degli omo-massa di manovra di piazza, futuri voti di sinistra. Una rottura netta con l’alienazione politica di matrice marxista-leninista che ha prodotto i ben noti disastri degli anni ’70 e ’80.
Uno schiaffo in faccia alla massificazione che presuppone delega e gerarchia, divisioni di ruoli ed organizzazione rigida. Un schiaffo al quantitativo come criterio centrale di valutazione di tutte le iniziative e le idee.
Concetto quantitativo ‘con ogni mezzo necessario’ che sta alla base della tanto propagandata politica dell’aggregazione.
L’autogestione rinchiusa muore
L’autogestione è la premessa indispensabile per lo sviluppo di una pratica sovversiva della socialità.
Ciò si evidenzia con forza nelle occupazioni.
Ma l’autogestione costretta tra le mura di una occupazione muore.
L’idea e la pratica sovversiva libertaria non si possono esaurire nella conservazione di uno spazio, anche se occupato. II loro sviluppo esclude una dimensione statica.
L’idea stessa di autogestione non è concepibile se non estesa a tutti gli aspetti della vita e non può accettare la reclusione tra quattro mura. L’autogestione reclusa diventa inevitabilmente autogestione della miseria, autogestione del ghetto.
Aggrapparsi alle briciole cadute dal banchetto dei potenti quando c’è tutto da riconquistare è un discorso di meschina conservazione che ci è estraneo, che è congeniale invece ai piani di controllo e di recupero del potere.
Le esperienze dei centri sociali e delle case occupate degli anni ’80 in Italia e le esperienze internazionali, ci danno un quadro chiaro della triste fine toccata alle realtà autogestite che si sono chiuse su se stesse.
Le tappe percorse nell’autospegnimento sono ricorrenti: gran scarsità di attività rivolte verso l’esterno. Soprattutto nessuna attività politica. Qualunque attività politica, vissuta come inizio di corruzione, viene demonizzata e identificata – non con tutti i torti – come inutile attività sacrificale.
Ci si specializza a calcare altre gabbie: quella della creatività ‘artistica’-artigianale, l’autocostruzione, l’autoproduzione, il lavoro collettivo o il divertimento: sesso, droga, rock’n’roll.
La caratteristica e la specializzazione degli autogestori in una o in alcune di queste attività separate dal resto del vissuta che non viene affrontato se non, quando ci si sbatte il muso, individualmente.
Fra le prime forme ’politiche’ a cadere è l’assemblea: un’inutile perdita di tempo. Superflua in aggruppamenti di pochi individui, strumentalizzabile da loquaci capetti, mai esauriente a causa dei suoi stessi limiti, l’assemblea rimane uno strumento di confronto e decisione collettiva non sostituibile negli squat popolosi e ricchi di iniziative. é infatti indispensabile ai capi in formazione evitare troppi confronti, specialmente collettivi, per poter imporre le loro iniziative come fatto compiuto.
I gregari, da parte loro, sono ben lieti di non dover perdere tempo in un frustrante luogo, dove si esprimono altri, che li vede sempre muti e passivi.
La delega si sviluppa come naturale modo di rapportarsi, con essa la calunnia e il mugugno come valvole di sfogo del malcontento.
Con la chiusura delle attività rivolte all’esterno prevale lo spirito di banda, naturalmente gerarchico. E la divisione dei ruoli secondo questa gerarchia.
Si creano così capi e sottocapi e semplici comparse. Veri capi che decidono senza neanche consultare gli altri ma che ‘annusano’ l’aria che tira. L’applicazione delle decisioni dei capi tocca a sottocapi rintracciabili nel gruppo dei fedelissimi che ruota attorno al capo.
Anche in situazioni di sovraffollamento prevale il rapporta amicale – qua siamo tutti amici – che porta come conseguenza la formazione quasi immediata di rapporti mafiosi. Non c’è più infatti un accordo comune cui ogni individuo aderisce perché l’ha scelto liberamente discutendone con gli altri e approvandolo secondo il metodo dell’unanimità. Ma tutta è ammesso da chi è amico dell’Amico, nulla da chi cade in disgrazia o è considerato esterno alla banda. Si perpetrano privilegi (miserabili) e soprusi, senza nessuna possibilità di far valere le proprie ragioni in un momento di confronto collettivo che non esiste più. Gli unici modi per farsi valere sono la forza e l’intrigo.
Esplodono all’interno dello squat tutte le tensioni individuali accumulate all’esterno e sul posto. Non vi è più nessuna possibilità di rovesciarle fuori, da dove provengono, mancando attività ed azioni rivolte fuori.
Se sopravvivono attività per l’esterno si tratta di cose ‘tranquille’: produzioni artigianali scadenti e superflue, sottoservizi sociali erogati con un entusiasmo paragonabile solo a quello dei parastatali, prevalentemente spettacolini.
Tutto viene fatto pagare, non per alimentare nuove iniziative d’autogestione, ma per mantenere i gestori dell”autogestione’. Costante impoverimento d’idee che non hanno più confronto se non nel privato. Ritrovo solo su attività rituali, risalenti all’epoca in cui nel gruppo c’era un feeling, ripetute stancamente. Evidente permanenza nello squat per incapacità di crearsi altre, più ambite, opportunità e non per scelta.
Tendenza, col passar del tempo, a privatizzare tutti gli spazi ed adattare quelli che non
servono per abitazione a simpatiche botteghe con le quali si cerca di sbarcare il lunario. Trasformazione del posto occupato in un’immensa bottega degradata su cui vorrebbero vivere tutti gli occupanti, coltivando l’illusione di sottrarsi al confronto con il resto del mondo.
A questo punto non si può neanche parlare di autogestione della sfiga ma solo di sfiga.
All’interno dell’occupazione si sono riprodotti, scimmiottati malamente, tutti i meccanismi dell’alienazione, e dell’autoritarismo, dello sfruttamento e del semplice conformismo, da cui si sfuggiva occupando.
Lo squatter, prima rinuncia all’azione diretta, appagato da quella che l’ha portato alla conquista del posto. Credendo di poter vivere nell’isola felice rinuncia man mano all’autogestione. Ma lo squatt perdendo l’autogestione perde il suo spirito, la sua identità. Non è che la spazzatura dello stato delle cose.
L’azione diretta
Com’è noto l’atto dell’occupazione di uno stabile è una forma dell’azione diretta: illegale – collettiva – condotta apertamente che porta un gruppo di individui a riconquistarsi uno spazio vitale precedentemente sottratto alla collettività dal potere.
La pratica anarchica dell’azione diretta ravviva l’autogestione delle occupazioni esistenti conferendo al popolo degli squat la giusta dimensione dinamica che può trasformare le occupazioni da ricettacolo di tutte le miserie di tutti i diseredati, avanzo dello stato delle cose in esperienza dilagante di liberazione.
Noi che coltiviamo il gusto dell’avventura ed il libero scorrere delle passioni vediamo che solo attraverso la pratica continuata dell’azione diretta, saltando fuori dalle quattro mura, superando con indifferenza i confini del lecito imposti dallo Stato, riusciamo ad aprire nuovi spazi all’autogestione della nostra vita al di là dagli squat, ed ad infondere nuova carica alle occupazioni esistenti. Insomma a diffondere qui ed ora la pratica dell’autogestione generalizzata.
L’etichetta dell’autogestione
Nel variegato panorama delle occupazioni in Italia spicca tutta una serie di Centri Sociali per la loro singolare interpretazione dell’autogestione.
In questi Centri prevale nettamente l’alienazione politica sulle altre forme di alienazione (alienazione artistica, esistenziale, produttiva). Sono i Centri dove ancora si trascinano gli zombi della militanza sacrificale. La loro matrice è marxista-leninista con qua e là qualche coloritura stalinista o maoista. Qui, e solo qui, l’ideologia non è mai morta, il tempo si è fermato, circolano barbe, eskimo, santini del Che e falci e martello in 3D.
L’unico reale motivo per cui sono sorti è l’aggregazione di masse su obbiettivi politici decisi dai vertici delle organizzazioni politiche cui fanno capo. Non stupisce infatti che questi Centri non presentino che forme larvali d’autogestione: un discorso che non si pratica. Buono però per essere sventolato come una bandiera.
Alcuni di questi CSA spiccano per una gestione strumentale, spettacolarizzata e centralizzata della musica. Accomodantissimi con la mercificazione ed il rock-star system.
Se l’obbiettivo è aggregare gente, è meglio che suoni il Gruppo famoso, ancorché puttane al servizio dei capitali di qualche grande multinazionale discografica, verrà più gente. E che il Grande Gruppo suoni nel Grande Centro Sociale della metropoli dove, … verrà più gente.
Scarsa e saltuaria pratica dell’autocostruzione ed altrettanto scarsa, saltuaria e ritardata pratica dell’autoproduzione. Autoproduzioni scimmiottate, con notevolissimo ritardo da quelle dei libertari. Ma subito ‘ammodernate’ con audaci snellimenti in linea con il pensiero macchiavellico-gesuitico che giustifica ogni mezzo per raggiungere il supremo fine. Autoproduzioni ed autogestioni della musica impantanate nel business, nella mercificazione, nella pubblicità. Che portano il marchio sterilizzante di tutte le attività nate strumentalmente per volontà superiore.
I CSA che fanno dell’autogestione la loro sigla non sono affatto immuni dalla richiesta di sovvenzionamenti statali e dalla richiesta di servizi allo Stato (ristrutturazioni, manutenzioni, forniture di materiali), per fornire altri servizi alla collettività, s’intende. Cosi ci spieghiamo meglio l’approccio turistico alle tematiche dell’autocostruzione.
Buona cosa sarebbe che i Centri Sociali sovvenzionati dallo Stato Italiano uscissero dall’equivoco rendendo noto a tutti che la lettera finale della loro sigla sta per Assistito e non per Autogestito.
Ma soprattutto in molti CSA sopravvive un sistema decisionale verticale basato sulla gerarchia e sulla delega che nulla hanno da spartire con l’autogestione. Questi Centri si preoccupano ben poco della diffusione della pratica autogestionaria ma curano molto la politica ‘di partito’ predeterminata dai vertici dell’organizzazione, dove il Centro Sociale svolge il ruolo di cinghia di trasmissione. La centralizzazione di tutto nel Grande Centro
Sociale produce effetti devastanti di impoverimento della periferia, sicché lo slogan 10-100-1000 occupazioni suona come una betta.
Molti CSA infine, sono più che disponibili ad una pratica autoriformista e compromissoria con il potere divenuto, da controparte, interlocutore dal quale bramano sicurezze, riconoscimenti, garanzie, contratti, diritti e soldi. Specialmente se una parte istituzionale – i partiti di sinistra – li appoggia (seppure per innominabili motivi di propaganda elettorale). Risbuca come uno spettro il mito dell’Unità su comuni basi ideologiche. Fingendo di non sapere si arriva a gabellare la legalizzazione – che nel resto dell’Europa occidentale è stata la fine delle occupazioni – come una vittoria politica…
In effetti, con una buona dose di cecità, ci si può illudere che le lotte antagoniste si possano condurre anche da Centri legalizzati, sovvenzionati, ristrutturati, regolamentati e controllati dallo Stato.
Quella che sicuramente non si può sviluppare in simili condizioni è l’autogestione.
L’autogestione richiede la massima libertà per poter crescere. E l’autogestione praticata dagli occupanti è l’unica base coerente per uno sviluppo della sovversione fuori e dentro dagli squat.
La spettacolarizzazione
Dalla loro nascita fino a pochi mesi fa, le gesta degli spazi occupati in Italia sono sempre state censurate dalla grande informazione asservita (stampa, radio, TV). La loro spettacolarizzazione veniva diffusa solo per produrre servizi riempitivi e di colore controculturale o come episodi di cronaca nera. L’immagine dello squatter gettata in pasto alle masse oscillava dal variopinto giovine punk al ‘terrorista’ in erba, autonomo o anarchico. Su tutti il sospetto di essere solo dei drogati.
Quando gli occupanti con le loro azioni mettevano in crisi qualche aspetto dello stato di fatto allora si ricorreva alla seconda immagine, poco rassicurante, di eredi degli estremisti picchiatori degli anni ’70, pazzi arrabbiati, completamente isolati dal contesto civile. Altrimenti, d’estate compariva qualche servizio di colore su questi strani ragazzi che non vogliono saperne di lavorare, si bucano le orecchie, si tatuare come animali ed ascoltano il rock. Sempre aperta, con iniziale stupore degli stessi occupanti, la rubrica degli spettacoli sulla grande stampa.
La democratica apertura agli aspetti spettacolari-culturali degli spazi sociali è un dato che fa riflettere.
Attraverso la grande stampa, gli spazi sociali hanno potuto presentare alle grandi masse la faccia spettacolare-assistenziale vedendo sistematicamente censurata o travisata tutto il resto. Una mutilazione significativa e non casuale nell’immaginario collettivo.
Questa situazione è rimasta immutata per anni. Ma le cose cambiano. Da qualche tempo, e precisamente da quando il CSA Leoncavallo è stato messo sotto sgombero, abbiamo assistito al disgelo di grandi e meno grandi organi di manipolazione del consenso in mano alla sinistra istituzionale, nei confronti della sinistra estrema, prevalentemente Autonomia, presente nei CSA.
Due esempi: i servizi fiume sui bravi ragazzi del Leonka su RAI3, il Manifesto che si trasforma in tribuna dell’Autonomia sulla questione dei Centri Sociali.
Cos’è successo?
Da una parte la sinistra istituzionale, PDS, Rifondazione, Rete, Verdi, ha deciso di iniziare la sua campagna elettorale contro la Lega vittoriosa a Milano utilizzando lo sgombero del Leoncavallo.
Si tratta di un caso esemplare di opportunismo politico degli ex-PCI che nell’89, al governo della città insieme al compagno Craxi, avevano sgomberato militarmente e raso al suolo gran parte del Leoncavallo. Ma il ghiotto spunto antileghista ha fatto si che mutasse improvvisamente la valutazione politica sui Centri Sociali.
Da parta dell’Autonomia, che dirige il Leoncavallo, si affianca alla scelta di salvare ‘con ogni mezzo necessario’ il più antico e rinomato Centro Sociale d’Italia, l’evidente decisione – a livelli di vertice – di ricercare una qualche legittimazione dallo Stato.
A Milano come a Roma l’Autonomia cerca la forza politica necessaria per strappare un qualche riconoscimento allo Stato. Ma questa forza non c’è ed è necessario stringere alleanze e formare schieramenti.
Ed ecco risbucare un antico arnese che vien fuori ciclicamente quando l’estrema sinistra è in crisi di idee e progetti. L’alleanza su basi ideologiche con la sinistra istituzionale.
A Roma l’abbraccio osceno porta i CSA a raccogliere firme per la legalizzazione insieme all’ARCI ed ai boy-scout e ad appoggiare Rutelli in campagna elettorale. Ma è a Milano che il ‘Fronte popolare’ unito attorno al Leoncavallo trova la sua espressione più compiuta nello spettacolo. Interviste, tavole rotonde, servizi interminabili, cortei, presidi, contropresidi, artisti, saltimbanchi, pagliacci, martiri, premi Oscar, intellettuali progressisti, ghisa e poliziotti, paginoni di giornali e mamme preoccupate. Fiction e realtà si miscelano e tutto quanto fa spettacolo, che tutto tramuta in spettacolo.
E con la spettacolarizzazione passa la sterilizzazione.
Tutto succede in un grande spettacolo, e lo spettacolo domina la vita.
II Centro Sociale che aveva scelto come mezzo per difendersi le molotov nell’89 ora sceglie di difendersi con i TG dei suoi sgomberatori. E le condizioni sono durissime. Due mesi di spettacolo Leoncavallo lo chiudono in un vicolo cieco definito via via dai compagni della sinistra istituzionale. II Centro trasloca provvisoriamente all’estrema periferia sottoscrivendo condizioni molto limitative qualora fossero applicate.
E quando il Leonka sgarra uscendo dal copione concordato con la sinistra partitica e succede qualcosa che non piace ai compagni padroni dell’informazione, arrivano le bacchettate prima ed il silenzio della censura dopo.
Intanto per mesi è passata su tutte le TV e tutti i giornali l’immagine sconsolante imposta come prototipo del Centro Sociale. Quella che piace ai partiti, Centri Sociali come luogo di erogazione di servizi per emarginati, extracomunitari di colore, luogo del reinserimento dei casi pietosi, luogo del ‘tempo libero’, degli sfigati, contenitore e riproduttore di sottocultura giovanile, centro d’aggregazione di tensioni che evidentemente vi si sublimano, nobilitato solo dal fatto d’essere di sinistra e di costituire, in definitiva, un serbatoio di voti e di quadri per i partiti di sinistra.
In sostanza Centro Sociale come luogo assistito e supplementare della riproduzione del conformismo e della normalizzazione attraverso la somministrazione di servizi di cui è carente lo Stato rivolto a quei soggetti marginali che moltiplicandosi nelle grandi città potrebbero divenire un problema per l’ordine pubblico.
Questo, forse, l’aspetto più inquietante della spettacolarizzazione attuato da tutta la sinistra unita sul Leoncavallo.
La legalizzazione all’estero
Nonostante la diversità di evoluzione e di storia delle occupazioni del Nord Europa, alcune osservazioni sono possibili, soprattutto sul rapporto intercorso tra il “movimento” degli squatter ed il potere.
La legalizzazione, uno dei più efficaci rimedi contro i disturbi della sovversione, è stata utilizzata, soprattutto dai regimi social-democratici, per smorzare le spinte più radicali e apertamente sovversive.
Già anni fa il piano TREVI, congeniato da vari ministri degli Interni della CEE contro ogni sovversione sociale, consigliava due strade per risolvere il problema degli squat: l’intervento diretto della forza pubblica oppure il ricorso a “…processi graduali di legalizzazione / integrazione” (da Um. Nova, 28/11/93).
Ecco in breve alcuni dei fenomeni che la legalizzazione ha prodotto nelle grandi città europee, Amburgo, Berlino, Ginevra, Parigi, Zurigo:
Separazione negli intenti e soprattutto nella pratica fra squatter e legalizzati. Le case legalizzate, normalmente, non danno la solidarietà a quelle illegali minacciate di sgombero.
Una volta conquistato l’alloggio e il proprio spazio vitale attraverso un contratto con il proprietario, la tensione degli ex-occupanti si smorza, questi si vedono meno sovente alle manifestazioni e alle lotte, il ménage domestico prende il sopravvento sulla voglia di agire.
A Berlino e Amburgo nel movimento di occupazioni dei primi anni ’80 gli squat illegali si sono via via ridotti di numero fino a scomparire, congiuntamente anche le lotte più radicali si diradano.
I contratti vincolano gli occupanti.
Le case sotto contratto vengono ristrutturata secondo accordi con il proprietario, graffiti e facciate vengono ridipinti, il proprietario esige il pagamento di un affitto. Lo squatter si trasforma da potenziale sovversivo a normalissimo affittuario assistito.
Nasce il business alternativo.
Da Berlino a Ginevra sono molti i Centri Sociali legalizzati che pagano i loro baristi, chi attacchina i manifesti, il cassiere che stacca i biglietti.
Business della musica, dello spettacolo, delle feste: anche nei locali più alternativi gruppi teatrali, cinefili e musicali, chiedono sovvenzionamenti al Comune calpestando allegramente per un pugno di soldi i principi elementari di indipendenza, autofinanziamento ed autogestione, pur mantenendo l’etichetta alternativa. Inoltre non è raro che accettino di pagare le varie gabelle che lo Stato impone su musica e spettacolo.
Isolamento dei discorsi più radicali.
Iniziative ed azioni, manifestazioni e lotte vengono proposte ad un movimento già appagato dall’illusione di aver strappato qualche metro quadrato ai pescecani. Nella pratica dell’azione diretta il movimento infatti si esprime in scadenze fisse e spettacolarizzate; un esempio eclatante è il rito sportivo del Primo Maggio berlinese.
Ad Amburgo, nonostante la rinomata radicalità delle azioni di Hafenstrasse, gli squat sono tutti legalizzati. Chi occupa viene sgomberato in 24 are. Alcuni squatter sono arrivati ad affrontare il problema abitativo vivendo in roulotte. La stessa soluzione e stata adottata a Bema: Zaffaraya è un campo di roulotte e camion alla periferia abitato da una ventina di squatter.
Le responsabilità politiche dl chi vuole la legalizzazione
Negli ultimi tempi si sono evidenziati per la loro presunta simpatia per i Centri Sociali quasi tutti i partiti di sinistra; ciò naturalmente è accaduto soprattutto per l’antagonismo strumentale che hanno voluto far apparire nei confronti della Destra (il mostro di turno da combattere, dimenticando il resto e votando a sinistra “turandosi il naso”), Destra la cui odiosa e cristallina posizione nei confronti dei CSA è a tutti ben nota.
Non è un caso se non parlano di occupazioni ma di centri sociali: questo termine terrificante, dal sapore di realpolitik burocratico-socialista, comprende senza discriminazione tutti i luoghi che, nell’interpretazione istituzionale e agli occhi della cosiddetta società civile, svolgono funzioni di pubblica utilità: dai centri anziani alle cooperative di ceramisti, dai pronto-intervento per tossici alle sale prova di quartiere. Tutti Centri Sociali.
Su concetti di tale ambiguità la Sinistra ha sbracato con tutti i suoi mezzi sproloquiando di solidarietà a tutto spiano ma EVITANDO SEMPRE DI PARLARE DI OCCUPAZIONE. Conseguentemente a questo atteggiamento le giunte rosse hanno continuato a sgomberare ogni posto illegale non appena guadagnata la poltrona: da Genova a Roma, in un prosieguo ideale del buon governo di sinistra che ben conoscono tutti gli sgomberati negli ultimi 10 anni dalle giunte rosse a Torino, Milano, Bologna, Genova etc. etc. Alla faccia dei fascisti!!
Dicevamo dunque che non a caso non si parla di occupazioni: i partiti di sinistra (Rifondazione, PDS, Verdi, Rete) sono disposti a tollerare i C.S. solo ed esclusivamente se questi hanno una loro funzione riconosciuta dal consorzio civile e se sono legittimati dalla soddisfazione dei fruitori dei loro servizi, in modo da non perdere consensi elettorali ed evitando l’accusa di tollerare situazioni estranee all’ordine vigente o addirittura nemiche dello stesso.
In poche parole, il Potere scende a patti tollerando l’esistenza fisica di quattro mura da lui non direttamente concesse solo a patto che i modi e gli intenti finali provenienti dalla controparte non siano in contrasto con lo status quo; e quindi ben vengano i servizi gratuiti e volontari che sopperiscono alle lacune assistenziali dello Stato; ben vengano le opere sociali che se da una parte legittimano l’esistenza dei C.S. verso il popolo, dall’altra legittimano il Potere che le permette ed il suo buon governo con la cui collaborazione si può migliorare il nostro modo di vita in questo stato senza mai rischiare di metterne in pericolo l’esistenza vera e propria.
Ma incredibilmente non sono -come sarebbe logico pensare- solo i partiti del recupero che spingono per la legalizzazione, per la pacifica convivenza, per un rientro delle istanze di rivolta in categorie più assimilabili dal Potere, ma anche alcune realtà specifiche dell’area che, sia pur con le dovute riserve, chiameremo di “movimento”, in particolare dell’area della cosiddetta autonomia.
In questo caso sembra che le istanze di legalizzazione e/o conciliazione con le istituzioni vadano di pari passo con il consolidamento delle proprie sedi, cioè con il riconoscimento di un potere o contropotere che dir si voglia. È una conseguenza diretta di un modo di vivere le occupazioni che poco ha a che vedere con i propri desideri e la voglia di liberarsi, ma che deriva da una metodologia politica che ha già mostrato tutti i propri mostruosi fallimenti anche sul piano individuale.
Per capire a fondo quali sono le responsabilità di fronte al suddetto movimento della legalizzazione, teniamo a mente qualche particolare:
1) Per loro il C.S. si legittima solo attraverso una fruizione di massa.
2) Messaggi, modi di comunicazione, utenza e soprattutto attività sono stabilite in stretta relazione con l’esistenza di precise classi sociali (le stesse che il Potere fornisce): proletari (!?!), studenti, immigrati di colore.
3) Ogni dimensione rivoluzionaria individuale è ignorata, ovvero, la propria vita non cambia assolutamente ma si divide fra il tempo del “privato” ed il tempo “libero” militante.
4) Scomparsa totale anche dell’immaginario rivoluzionario: niente più “Non credere ai media” ma “li usiamo perché il messaggio è forte”; niente più “Per avere un futuro bisogna prima sognarlo”, perché è il momento di essere concreti, c’è sempre una massa in piazza a cui dare indicazioni precise; niente più “Contro la mafia dei partiti” perché non tutti i partiti sono uguali, ci sono partiti di sinistra con amici che conosciamo che ci possono aiutare, consigliare, difendere, sostenere, finanziare; il nemico è solo la Destra.
Teniamo a mente questi quattro particolari.
Inquadriamoli nel panorama nazionale, in cui si muovono almeno un centinaio di realtà d’occupazione ma un’informazione che riflette esclusivamente (com’è costume di ogni mass-media) le posizioni di due grandi realtà organizzate, Roma e Milano.
E pensiamo ora a quelle che possono essere le conseguenze di accordi presi da posti grossi in queste due città nei confronti del resto del mondo: intanto sarà lampante che se nemmeno lì (dove ci sono le masse, dove quindi, secondo la mentalità democratica e pecorile, ci sono le lotte più grosse anche se insignificanti dal punto di vista politico e rivoluzionario) si può occupare e tenere un posto senza venire a patti coi partiti, figuriamoci nelle realtà di provincia o per quelle che -ah, sciagura!!- hanno la colpa di non avere una massa dietro di sé!
E figuriamoci l’atteggiamento degli amministratori che, di fronte a cotanto esempio saranno ben certi della loro invulnerabilità politica nel caso dovessero sgomberare chi non si piegasse a tali patti; quando ci sono precedenti così eclatanti, la carriera è al sicuro (a meno che poi non scorra il sangue e si verifichino quindi casi ANCORA PIÙ eclatanti).
Tutta gli altri posti, quelli già nati ma soprattutto quelli nuovi, quelli delle metropoli ma soprattutto quelli delle piccole città e di provincia, SOPRATTUTTO QUELLI NON SCHIERATI, si troveranno di fronte ad una repressione immediata e militare oppure all’alternativa di accettare uno stato di fatto condizionato in senso limitativo dagli accordi presi precedentemente da altre realtà “in alto loco”, più legittimate di fronte alle autorità.
E tutti i posti occupati che CONTINUANO A NON VOLERNE SAPERE DI DIALOGHI COL POTERE e che si trovano a convivere con i raggruppamenti che hanno spinto per il riconoscimento legale saranno sgomberati con la forza; gli sgomberatori saranno legittimati in pieno nella loro opera di repressione dagli accordi presi precedentemente nelle città dai grandi posti. Accordi che stabiliscono anche agli occhi dell’opinione pubblica, una linea divisoria tra i buoni (chi accetta il dialogo con le istituzioni) ed i cattivi (chi lo rifiuta).
Si chiuderà definitivamente la possibilità di realizzare nuove occupazioni, come si può ben vedere in altri paesi d’Europa dove la legalizzazione degli squat è in atto. Chi vorrà uno spazio potrà inoltrare domanda all’amministrazione e attendere con fede. Chi si ostinerà ad occupare ancora sarà immediatamente sgomberato.
La gravità delle responsabilità di chi vuole o cerca un dialogo non necessario col Potere è amplificata dal fatto che quest’area si presenta come un gruppo compatto che per ogni iniziativa/campagna ha indicato una linea precisa e rigorosamente osservata da tutti i suoi affiliati, creando schieramenti precisi nella stessa area della sinistra estrema: non a caso ci sono situazioni di scontro e conflittualità all’interno di città come Roma, Padova, Firenze e Milano. Le situazioni che, pur appartenendo alla sinistra, non si allineano sono tagliate fuori da ogni considerazione ed ignorate dall’informazione ufficiale; l’unica voce rappresentata all’esterno è quella di chi ha deciso di rapportarsi con le istituzioni e che s’impone come L’UNICO interlocutore esistente.
Da qui la presentazione di assemblee nazionali che si autodefiniscono come uniche rappresentanti del cosiddetto movimento.
È altresì chiaro che se c’è chi costruisce una “linea” univoca, esiste tutto il resto (cioè la maggior parte delle esperienze di occupazioni) che si trova di fatto dall’altra parte, non essendosi schierato o non volendo schierarsi. Per costoro non c’è alternativa di fronte al fronteggiamento col Potere se non quella di confrontarsi con una linea CHE ESSI NON HANNO CHIESTO NÉ VOLUTO ma con la quale devono per forza fare i conti; e questa si chiama, voluta o meno, prevaricazione.
Naturalmente questa legalizzazione non sarà unica e univoca, potrà essere un passaggio che comprende l’associazione forzata (con tanto di statuto, presidente, tessere, etc.), la cooperativa, l’affitto simbolico o magari non simbolico ma pagato dall’amministrazione comunale, la convivenza con altre associazioni di ogni tipo, il rispetto delle norme antincendio, d’igiene, agibilità e abitabilità con relativi controlli di funzionari e sbirraglia varia. E poi ancora la SIAE, le licenze per gli alcolici, la Finanza (cosa già proposta dai Verdi a Torino: i C.S. incassano quindi devono scontrinare e pagare le tasse come gli altri…), etc. etc. Non saranno magari tutte queste cose, magari non tutte in una botta sola, ma una volta aperto, il discorso non si potrà chiudere mai più. È altrettanto ovvio che lo Stato, già soddisfattissimo di aver creato il precedente per affrontare e risolvere il problema, non imporrà ai Grandi C.S. delle Grandi città delle condizioni inique che possano scatenare le reazioni della base, ma non si farà nessuno scrupolo nell’imporle fin dall’inizio alle realtà minori.
Ma anche per questo problema traspare lampantemente la consequenzialità della politica dell’autonomia: i posti che riusciranno a colloquiare col Potere senza perdere il posto saranno esclusivamente quelli che avranno attirato le masse dalla loro parte ponendosi demagogicamente come avanguardia politica, quelli quindi che avranno dalla loro parte il fattore aggregazione e quindi voce su giornali e TV, legittimati di fronte all’opinione pubblica e alle istituzioni, tutto secondo il dogma democratico: la maggioranza ha sempre ragione.
Se l’asse portante della lotta per le occupazioni dev’essere la sicurezza dell’intangibilità del posto, la sicurezza del riconoscimento del proprio status, viene a mancare tutto l’elemento psicologico di rottura dal proprio vissuto che caratterizza una volontà rivoluzionaria.
Chi realmente cerca un cambiamento radicale non può cercare sicurezze, in quanto l’unica sicurezza che possiamo avere è quella di conservare la propria dignità di individui rivoltosi di fronte ad un mondo in cui non possiamo vivere liberi, il resto è una tragica ingenuità o un’alienante mistificazione della vita.
D’altra parte gli anarchici, non essendo, naturalmente, un movimento e non avendo né linee né organismi centrali, vivono nel modo più eterogeneo le proprie situazioni di occupazione e d’autogestione, lasciando il campo libero ad ogni sperimentazione a chi vive direttamente le esperienze sul proprio territorio, e proprio per ciò evitando accuratamente di fornire indicazioni precise e prescrizioni ideologiche sulle modalità del caso.
I soli principi che teniamo a ribadire, non solo nei confronti degli anarchici ma anche nei confronti di tutti coloro che aspirano ad un percorso di autogestione diretto al sovvertimento di questo stato di cose, è che più liberi siamo meglio è; sembra ovvio, ma non cercheremo mai dialoghi con le istituzioni (tantomeno con partiti, né di destra né di sinistra) se non in caso di estrema necessità. A noi sembra che le sorti delle occupazioni, soprattutto nelle grandi città, non siano in completa balia dei favori dei partiti e della Legge, cosa che si verifica più sovente altrove; non possiamo che valutare un’operazione dei genere come un tentativo di legittimazione di potere para-istituzionale che nulla ha a che vedere con l’autogestione e con la rivolta.
Non abbiamo inoltre nessuna intenzione di far le spese di questa opportunistica politica di revisionismo.
Qualora questo dovesse succedere sapremo a chi chiederne conto. Per questo indichiamo a tutti fin d’ora queste fumate compromissorie con tutto il carico di minacce che nascondono.
Per questo non ci interessa essere “tanti” quanti più possibile se non verificando attraverso le nostre quotidiane pratiche d’azione diretta l’affinità che ci lega ai singoli individui.
Non vagliamo trovarci in un “movimento” di club alternativi che inseguono il sogno dello show business o che vogliono tirare a campare col mercatino dei poveri, tantomeno con delle cellule para-istituzionali pronte ad assemblarsi con organi di potere (ancorchè di sinistra) pur di sopravvivere per poter adempiere ad un fantomatico ruolo di avanguardia delle masse.
II nostro scopo è la distruzione della politica, quindi non vogliamo nessun tipo di Potere, il Potere va distrutto.
Proponiamo perciò la massima diffusione, soprattutto attraverso l’azione diretta, delle varie esperienze di autogestione dichiaratamente rivoluzionarie come eterogeneità operativa delle esperienze di occupazione su tutto il territorio nazionale e INTERNAZIONALE. Sollecitiamo una serie di incontri volti a scambiarsi informazioni ed esperienze sulle proprie metodologie alegali e fuori dalle istituzioni che tocchino tutti i temi, individuali e collettivi, di chi ha deciso per propria scelta – e non per miserabili necessità – di vivere secondo principi autogestionari e di libertà.
I terni che proponiamo sono quindi quelli di chi opera attivamente e quotidianamente nei vari campi: dall’autofinanziamento all’organizzazione di concerti fuori dal business alternativo, all’autoproduzione, alla distribuzione, all’autocostruzione, alle attività di supporto alle realtà minori, alla propaganda delle nostre idee e delle nostre attività; e tutte le sfere d’attività esterne alle occupazioni: antimilitarismo, anticlericalismo, astensionismo, controllo sociale, critica al lavoro, altre forme di lotta autogestionaria.
Contro l’accentramento, contro l’omogeneizzazione, contro ogni schieramento, diffondiamo mille pratiche di liberazione.
FINE
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::Contra la legalización de los espacios okupados.
[El Paso Occupato]
Vivir libres o morir.
Nuestro sueño es vivir libres, destruir cada forma de poder constituido y toda jerarquía.
Para nosotr@s la libertad no puede ser separada del placer y somos capaces de llevar a cabo grandes esfuerzos para conseguir ambas cosas. Somos conscientes de que no existe libertad en el sacrificio y la inmolación.
En este sentido, la experiencia más completa que tenemos hoy, el lujo de vivir, es la de la autogestión, la cual se abre espacio a través de la acción directa, entendida como experiencia abierta, colectiva y ampliable a la que no le importan los límites que el Estado establece entre legalidad e ilegalidad.
La okupación de los espacios abandonados reúne estas prerrogativas y abre las puertas del modo más correcto a la autogestión. El desarrollo de la autogestión en nuestra vida no es practicable sin subvertir lo existente.
La autogestión.
Es la forma de gestión de la anarquía, su corazón impulsador. Autogestión es la posibilidad de establecer según el principio de la responsabilidad individual y el método de la unanimidad (alejándose de cierto principio democrático o de mayoría), las reglas de la propia existencia.
Autogestión como posibilidad de reunificar esferas separadas de la experiencia humana: pensamiento y acción, actividad manual y actividad intelectual, autogestión para reconquistar la totalidad que ha sido sustraída por la especialización de la actividad impuesta desde la cultura del poder.
Porqué la autogestión es la primera fuerza de la okupación y premisa indispensable de su evolución en sentido subversivo.
En el lejano 1988 l@s ocupantes de El Paso escribieron en el boletín del centro social que l@s ocupantes se presentaban como sujetos de su propia acción, primeros frutos, primeras y últimas satisfacciones. La okupación parte de la necesidad de satisfacer necesidades reales y cotidianas: búsqueda de un espacio de expresión, alejamiento de la comercialización y extrañamiento respecto a las reglas alienantes de las instituciones.
Sólo estos intereses directos, el deseo de concretar estas fuertes aspiraciones negadas a la fuerza a l@s ocupantes, permite superar las fases de represión, el traslado de okupación en okupación, denuncia tras denuncia hasta triunfar abriendo un espacio donde realmente funcione la autogestión colectiva. Solo así se explica como es posible soportar las vejaciones que el poder ejerce contra las okupaciones (controles, irrupciones, nuevas denuncias).
El hecho que l@s okupantes se dirijan egoístamente y en primer lugar hacia los resultados de sus acciones y de la autogestión, es la mejor garantía de genuidad de su discurso.
Quién quiera hacer otro tanto encuentra así un nuevo camino ya experimentado.
De este modo, sin tener que renunciar a la lucha política, o mejor dicho, a la lucha por la destrucción de la política, l@s ocupantes se niegan a sí mism@s como vanguardia militante destacada y se proponen como primeros frutos de su acción introduciéndose en el juego personalmente.
Lo positivo de nuestro experimento de vida y la carga subversiva de esta propuesta se verán en los éxitos de la autogestión dentro y fuera de la okupación. L@s okupantes implicad@s personalmente, y no solo ideológicamente como ocurría con l@s militantes de los colectivos políticos, tendrán miles de buenas razones para combatir a fondo por la realización de los proyectos autogestionarios, proyectos que se presentan como medios para la mejora inmediata de la calidad de vida gracias a que permiten la reapropiación del espacio de la libertad sustraído por el poder.
Se consigue así la superación completa en sentido subversivo de la triste y anacrónica figura del militante político-ideológico de los años 70 incompatible en la dinámica de la autogestión. Y con su desaparición encuentran también difícilmente vida las pálidas figuras de los gregarios* y de la gente instrumentalizable en la calle, futuros votos para la izquierda. Una ruptura limpia con la alienación política de carácter marxista-leninista que ha provocado el bien conocido desastre de los años 70 y 80. Una bofetada en la cara a la masificación que presupone poder y jerarquía, división de roles y rígida organización. Una bofetada a lo cuantitativo como criterio central de valoración de todas las iniciativas e ideas.
*Hace referencia a quienes les gusta ser mandados y admiran a quienes mandan.
La autogestión encerrada muere.
La autogestión es la premisa indispensable para el desarrollo de la práctica subversiva de la socialización. Por tanto, se evidencia con fuerza en la ocupación. Pero la autogestión encerrada tras los muros de una ocupación muere.
La idea y la práctica subversiva libertaria no pueden concluir en la conservación de un espacio. Su desarrollo excluye una dimensión estática. La idea misma de autogestión no es concebible sino es extendida a todos los aspectos de la vida y no puede aceptar la reclusión entre cuatro muros. La autogestión reclusa se convierte inevitablemente en autogestión de la miseria, autogestión del ghetto.
Aferrarse a las migajas caídas del banquete de los poderosos cuando deberíamos reconquistarlo todo es un discurso mezquinamente conservador que nos es extraño y que, además, coincide con los planes de control y recuperación del poder. Las etapas recorridas en la autoextinción son recurrentes: gran escasez de actividad dirigida hacia el exterior, sobre todo, ninguna actividad política. En caso de que estas últimas surjan suelen ser vistas como inicio de corrupción, serán rechazadas e identificadas como inútiles actividades sacrificales.
Entre las primeras expresiones “políticas” que caen está la asamblea: empieza a considerarse como una inútil pérdida de tiempo, superflua en agrupaciones de pocos individuos, instrumentalizable por locuaces cabecillas, jamás concluyente a causa de sus propios límites. En efecto, a los grupúsculos en formación les es indispensable evitar los enfrentamientos, especialmente colectivos, para así imponer mejor sus iniciativas como hecho consumado. L@s gregari@s, por su parte, están bien content@s de no tener que perder el tiempo en situaciones en las que los demás se expresan, pues a esto últimos los consideran siempre mud@s y pasiv@s.
El poder se desarrolla como modo natural de relación, convirtiéndose la calumnia y el murmullo en válvulas de escape del malestar. En el fin de las actividades dirigidas hacia el exterior prevalece el espíritu de banda, naturalmente jerárquico. La división de roles se impone también según esta jerarquía. Aparecen así jefes, subjefes y simples comparsas. Jefes reales que deciden sin consultar anteriormente con los demás. La aplicación de las decisiones de los jefes afectará también en los subjefes; pertenecientes al grupo de los fidelísimos que se agrupan en torno al “capo”.
Pero también es posible que en situaciones de casas ocupadas en las que hay mucha gente prevalezca una relación amistosa (aquí tod@s somos amig@s) que trae como consecuencia la formación casi inmediata de relaciones mafiosas. En efecto, no hay un acuerdo común al cual se adhiera cada individuo porque lo haya elegido libremente, discutiéndolo con los otros y aprobándolo según el método de la unanimidad. Por el contrario, todo se decidirá en función de quién sea tu amigo intentando no caer en desgracia ante él. De este modo se perpetran privilegios (miserables) y abusos, sin ninguna posibilidad de hacer vales la razón en un momento de ridículo enfrentamiento. Los únicos medios de hacerse valer serán ahora la fuerza y la intriga. Explotan en el interior de la casa ocupada todas las tensiones acumuladas siendo imposible volcarlas hacia fuera, de donde en realidad provienen, faltando así la actividad y acción hacia el exterior.
También es posible que esta actividad externa sobreviva pero se tratará meramente de cosas tranquilas: producción artesanal ordinaria y superflua, servicios sociales suministrados con un entusiasmo comparable al de las organizaciones paraestatales (ONGs); prevalentemente “teatro”.
En esta situación no se alimentan nuevas iniciativas de autogestión sino que únicamente se mantiene a ciertos gestores de la autogestión. Se produce un constante empobrecimiento de las ideas, que no exponen más que en privado. Se encontraran solamente actividades rituales, procedentes de una época en la cual el grupo era un feeling* repetidas cansinamente. Se permanece en la casa ocupada por incapacidad para crear otras y no por elección.
Tendencia, con el pasar del tiempo, a privatizar todos los espacios y adaptar, aquellos que no sirven para habitaciones, en simpáticos talleres con los cuales se intenta vivir al día. Transformación del lugar ocupado en un inmenso taller degradado del cual quisieran vivir tod@s l@s ocupantes, mientras se cultiva la ilusión de encontrarse a salvo del resto del mundo.
En el interior de la ocupación son reproducidos, burdamente imitados, todos los mecanismos de la alienación y del autoritarismo, de la explotación y del simple conformismo, de los cuales se pretendía escapar ocupando.
La ocupación renuncia a la acción directa, se separa de aquello que la ha conducido a la conquista de un espacio. Creyendo poder vivir en una isla feliz se termina renunciando a la autogestión. Pero la casa ocupada, perdiendo la autogestión, pierde su espíritu, su identidad. No es más que la basura del propio estado de las cosas.
*El grupo era algo que se sentía colectivamente.
La acción directa.
Como es sabido, el objetivo de la ocupación es una forma de acción directa: ilegal, colectiva, conducida abiertamente y que lleva a un grupo de individuos a reconquistar un espacio vital sustraído anteriormente a la colectividad por el poder.
La práctica anárquica de la acción directa reaviva la autogestión de las ocupaciones existentes, dándole a la gente de las casas okupadas la justa dimensión dinámica que puede transformar las okupaciones de receptáculo de todas las miserias a plasmación de lo deseado, de resto del estado de las cosas a experiencia propagatoria de liberación.
Nosotr@s, que cultivamos el gusto por la aventura y el libre transcurso de las pasiones, vemos que sólo a través de la práctica continua de la acción directa, saltando fuera de los cuatro muros, superando con indiferencia los confines lícitos impuestos por el Estado, conseguimos abrir nuevos espacios a la autogestión de nuestra vida y de la casa ocupada y a dar un nuevo sentido a las ocupaciones existentes. En resumen, a difundir aquí y ahora la práctica de la autogestión generalizada.
La etiqueta de la autogestión.
En el variopinto panorama de las ocupaciones italianas destacan por su particular interpretación de la autogestión toda una serie de centros sociales.
En estos centros prevalece llanamente la alienación política sobre otras formas de alienación (alienación artística, existencial, productiva). Son los centros donde todavía se encuentran los zombis de la militancia sacrificada. Su carácter es marxista-leninista con ciertos tintes estalinistas o maoístas. Aquí, y sólo aquí, la ideología no ha muerto, el tiempo se ha congelado, se ven barbas, retratos del Che y hoces y martillos en tres dimensiones.
El único motivo real por el que se constituyen como colectivo es la agrupación de las masas entorno a objetivos políticos decididos por la cúpula de la organización política. Por lo tanto, no sorprende que estos Centros Sociales presenten la autogestión sólo como discurso y no como práctica. Bueno sin embargo, para ser agitado como bandera.
Algunos de estos CSA destacan por su gestión instrumental, espectacular y centrada en la música. Acomodadísima a la comercialización y al Rock-Star System. Si el objetivo es reunir gente, es mejor que toque el Grupo famoso y si consigue putear al capital de alguna multinacional discográfica vendrá más gente, y si el Gran Grupo toca en el Gran Centro Social de la metrópoli donde,… vendrá más gente.
La escasa práctica de la autogestión implica también una escasa y retrasada práctica de la autoproducción. Autoproducción que imita con notable retraso a la de los libertarios. Pero rápidamente modernizada en la línea del pensamiento maquiavélico-jesuítico que justifica cada medio para alcanzar el fin supremo. Autoproducción y autogestión de la música impactante en el negocio, en la comercialización, en la publicidad de que constituyen el marco esterilizante de todas las actividades (nacidas como meros instrumentos de un fin establecido por una voluntad superior).
Los CSA que hacen de la autogestión su propia sigla no son en absoluto inmunes a la solicitud de subvenciones estatales o de servicios al Estado (reestructuración, manutención, obtención de materiales), se sobreentiende que por abastecer de otros servicios a la colectividad. Estaría bien que los Centros Sociales subvencionados por el Estado italiano evitaran malentendidos aclarando que su sentido final es el de la asistencia y no la autogestión. Estos centros se ocupan bien poco de la difusión y práctica autogestora pero cuidan mucho la política de partido, predeterminada por las cúpulas dirigentes de la organización. La total centralización en el Gran Centro Social produce efectos devastadores en la periferia, de manera que el eslogan 10-100-1000 ocupaciones suena a burla.
En definitiva, muchos CSA están más que dispuestos a una práctica comprometida con el poder volviéndose interlocutores de la seguridad, el reconocimiento, las garantías, contratos, derechos y dinero. Especialmente si una institución (partidos de izquierdas) los apoya (siempre por motivos de propaganda electoral). Pero lo que seguramente no se puede desarrollar en similares condiciones es la autogestión. La autogestión necesita de la libertad máxima para poder crecer. Y la autogestión practicada por los ocupantes es la única base coherente para el desarrollo de la subversión fuera y dentro de la casa okupada.
La espectacularización.
Desde su nacimiento hasta hace pocos meses la gesta de los espacios ocupados en Italia ha sido siempre censurada por los medios de comunicación (prensa, radio, televisión). Su espectacularización era llevada a cabo solo para producir reportajes superfluos y de carácter contra-cultural o como episodios de crónica negra. La imagen del okupa que llegaba a la gente oscilaba entre el joven “punk” y el terrorista debutante, pero sobre todo triunfaba la sospecha de no ser más que drogadictos.
Cuando los ocupantes con sus acciones ponían en entredicho algún aspecto del Estado entonces se recurría a la segunda imagen, poco tranquilizadora, de hereder@s de l@s luchadores extremistas de los años 70, loc@s, rabios@s, completamente aislad@s de la sociedad.
Otra forma que tenían los medios de comunicación para acercarse a las ocupaciones era mediante la publicación, siempre en verano, de algún reportaje a todo color sobre esos extraños jóvenes que no quieren saber nada de trabajar, se agujerean las orejas, se tatúan como criminales y escuchan música rock. De este modo se abría, con el estupor de l@s propi@s ocupantes, la página de espectáculos de la gran prensa.
La democrática apertura a los aspectos espectaculares y culturales de los espacios sociales es pues un dato que hace reflexionar. A través de la gran prensa, los espacios sociales han podido presentar a la gente la cara espectacular-asistencial viendo sistemáticamente censurado todo lo demás. Una mutilación significativa y no casual.
Esta situación ha permanecido invariable durante años. Pero las cosas cambian. Desde hace algún tiempo, y precisamente desde que el CSA Leoncavallo fue desalojado, hemos asistido al deshielo de los grandes y menos grandes órganos de manipulación del consenso de la izquierda institucional, al confrontamiento de la extrema izquierda, prevalentemente “Autonomía”, presente en el CSA. Dos ejemplos: los abundantes reportajes sobre l@s brav@s chic@s del Leonka en RAI 3 y el Manifiesto que se transforma en tribuna de “Autonomía” sobre la cuestión de los Centros Sociales.
¿Qué ha sucedido?.
Por una parte la izquierda institucional, PDS, Rifondazione, Rete, Verdes deciden iniciar su campaña electoral contra la Liga* victoriosa en Milano, utilizando el desalojo del Leonkavallo. Se trata de un caso ejemplar de oportunismo político del ex-PCI que en el 89, gobernando la ciudad junto a su compañero Craxi, había desalojado militarmente gran parte del Leonkavallo. Pero la golosa ocasión anti-Liga hizo que se variara la valoración política sobre los Centros Sociales.
Por parte de “Autonomía”, que dirige el Leoncavallo, se intentó salvar con todos los medios necesarios el más antiguo y renombrado Centro Social de Italia, decidiéndose (al nivel de la cúpula) encontrar alguna legitimación estatal. Tanto en Milano como en Roma, “Autonomía” busca la fuerza política necesaria para arrancar cualquier reconocimiento del Estado. Pero esto no pasa y es necesario buscar alianzas y organizar formaciones. Y he aquí que resurge una antigua estrategia usada cíclicamente cuando la extrema izquierda está en crisis de ideas y proyectos. La alianza sobre bases ideológicas con la izquierda institucional.
En Roma el abrazo obsceno lleva al CSA a recoger firmas por la legalización junto al ARCI y a los Boy Scout, y a apoyar Rutelli* en su campaña electoral. Pero es en Milano donde el “Frente Popular” unido entorno al Leoncavallo, encuentra la expresión más completa del espectáculo. Entrevistas, mesas redondas, artículos interminables, artistas, saltimbanquis, plagiadores, mártires, premios Oscar, intelectuales progresistas, policía, páginas de periódicos y madres preocupadas. Ficción y realidad se mezclan y todo deviene espectáculo. Y con la espectacularización se llega a la esterilización. Todo sucede como un gran espectáculo y éste domina la vida.
El Centro Social que había escogido en el 89 el cocktail molotov como medio de defenderse ahora escogía el Telediario de su desalojo. Y las condiciones son muy duras. Dos meses de espectáculo- Leoncavallo lo conducen a un callejón sin salida cogido de la mano de la izquierda institucional. Y cuando el Leonka rompe huyendo del guión acordado con la izquierda y comienzan a suceder cosas que no son del agrado de los patrones de la información llegan los primeros golpes y luego el silencio de la censura.
Durante meses todos los medios de comunicación proyectaron la imagen desconsoladora impuesta como prototipo del Centro Social. Aquella que les gustaba a los partidos: Centro Social como lugar de suministro de servicios para marginad@s, extracomunitari@s de color, lugar de acciones piadosas, lugar para el “tiempo libre” y el desarrollo de la cultura joven, centro de aproximación a la izquierda y, en definitiva, depósito de votos para los partidos de izquierda.
En esencia, el Centro Social como lugar para reproducir el conformismo y la normalización a través del suministro de servicios de los cuales carece el Estado. Dedicación a los sujetos marginales que multiplicándose en las grandes ciudades podrían convertirse en un gran problema para el orden público. Este quizá sea el aspecto más inquietante de la espectacularización vinculada a toda la izquierda relacionada con el Leoncavallo.
La legalización en otros países.
A pesar de la distinta evolución e historia de las ocupaciones en el norte de Europa podemos hacer algunas observaciones, sobre todo referentes al movimiento de ocupaciones y el poder. La legalización, uno de los remedios más eficaces contra los disturbios de la subversión, ha sido utilizada, sobre todo por regímenes social-demócratas, para aplacar los impulsos más radicales y los movimientos subversivos. Hace ya años que el plan TREVI (Terrorismo, Radicalismo, Extremismo y Violencia Internacional), organizado por varios ministros de la CEE como respuesta a la subversión social, proponía dos salidas para resolver el problema de las ocupaciones: la intervención directa de la fuerza pública, o bien, el recurso a “… procesos graduales de legalización-integración”. (De Umanitá Nova 28-11-93).
Exponemos a continuación una breve relación de los fenómenos que la legalización ha producido en las grandes ciudades europeas; Hamburgo, Berlín, Ginebra, París, Zurich: – Separación en la práctica entre casas legalizadas y casas ocupadas. Las casas legalizadas, normalmente no se solidarizan con las ilegales amenazadas de desalojo. Una vez conquistado el alojamiento y el propio espacio vital a través de un contrato con el propietario la tensión de l@s ex-ocupantes se apacigua, est@s ya se ven menos vinculad@s a las manifestaciones y a la lucha, las preocupaciones domésticas predominan sobre la voluntad de acción. En Berlín y Hamburgo, en el movimiento de ocupación a principios de los 80, las casas ocupadas ilegales fueron bajando en número hasta desaparecer, paralelamente la lucha más radical se dispersó. La transgresión une a l@s okupas.
– Las casas con contrato son reestructuradas según lo acordada con el propietario, graffitis y fachadas son pintadas de nuevo, el propietario exige el pago de un alquiler. El ocupante se transforma de potencial subversivo en mero inquilino.
Nace el negocio alternativo. Negocio de la música, del espectáculo, de la fiesta: también en los locales más alternativos grupos teatrales, cinéfilos y músicos piden subvenciones al estado pisoteando alegremente por un puñado de billetes los principios más elementales de la independencia, autofinanciación y autogestión, pero manteniendo la etiqueta alternativa. En otros casos no es extraño ver el pago de ciertas tasas que el Estado impone a la música y otros espectáculos. El Estado se impone sobre la música y el espectáculo.
Aislamiento respecto al discurso más radical. Iniciativas y acciones, manifestaciones y lucha son propuestas por un movimiento carente de la ilusión de arrebatar algún metro cuadrado a los tiburones. En la práctica de la acción directa el movimiento se expresa como derrota y espectacularización: un ejemplo claro es la celebración del Primero de Mayo berlinés. En Hamburgo a pesar de la renombrada radicalidad de la Hafenstrasse, las casas ocupadas son todas legales. Quién ocupa es desalojado en 24 horas. Algun@s ocupantes llegan a afrontar el problema de la vivienda habilitando roulotts. La misma solución se ha adoptado en Berna: Zaffaraya es un campo de roulotts y camiones donde viven una veintena de okupas.
La responsabilidad política de quién quiere la legalización.
En los últimos tiempos se han evidenciado como simpatizantes de los Centros Sociales casi todos los partidos de izquierdas, esto naturalmente ha surgido sobre todo por el antagonismo instrumental que han querido generar en su enfrentamiento contra la derecha. Derecha cuya posición de odio hacia los CSA, es por tod@s bien conocida. Pero la izquierda no muestra la misma actitud si hablamos de ocupaciones en lugar de Centros Sociales; terrible término este último, con sabor a política burocrática-socialista y que hace referencia a todos aquellos lugares que, según la interpretación institucional y a los ojos de la llamada sociedad civil, desarrollan funciones de utilidad pública: desde centros para ancianos a cooperativas ceramistas, del tratamiento de toxicómanos, a la animación sociocultural. Todos centros sociales.
Bajo tal heterogeneidad de actividades la izquierda ha intentado, por todos los medios posibles, prolongar la solidaridad a múltiples ámbitos pero siempre evitando hablar de ocupación. Consecuentemente con esta actitud la izquierda ha apoyado el desalojo de todo sitio ilegal, de Génova a Roma, de Torino a Milano, Bolonia, etc…
Decíamos entonces que la izquierda se niega a hablar de ocupación: los partidos de izquierdas (Rifondaziones, PDS, Verdes, Rete) están dispuestos a tolerar los Centros Sociales sólo y exclusivamente si estos tienen una función propia reconocida por el consorcio civil, de esta manera no se pierde el apoyo electoral y se evitan acusaciones referentes a la tolerancia de situaciones diferentes al orden establecido.
En pocas palabras, el poder se rebaja a pactar la existencia de cuatro muros sólo si de aquellos no surgen acciones contrarias al status quo; por tanto, bienvenidos sean los servicios gratuitos y voluntarios que cubren las lagunas asistenciales del Estado, bienvenidas sean las obras sociales que, por una parte legitiman la existencia de los Centros Sociales de cara a la gente y, por otra parte legitiman al poder que las tolera.
Pero increíblemente no son sólo los partidos de la izquierda institucional los que exigen la legalización, la convivencia pacífica y la vinculación a categorías más asimilables por el poder, también hay sectores del área que, con las debidas reservas llamaremos del movimiento, apoyan esta situación (en concreto del área “Autonomía”). En este caso parecería que las instancias de legalización y/o conciliación con las instituciones fueran a la par con la consolidación de las mismas okupaciones. Esto es consecuencia directa del modo de vivir las okupaciones que poco tiene que ver con el deseo de liberación, que deriva de una metodología política que ha demostrado todos sus monstruosos fallos.
Para entender mejor cuales son las responsabilidades del movimiento de legalización hemos de tener en cuenta lo siguiente:
1.- Para ellos el Centro Social sólo se legitima a través de unas funciones dirigidas a las masas.
2.- Contenidos, formas de comunicación y acciones son establecidas en estrecha relación a la existencia de clases sociales precisas (las mismas que el poder potencia): proletariado (¡…!), estudiantes, emigrantes de color.
3.- La dimensión revolucionaria individual es ignorada y la propia vida se divide en “tiempo de lo privado” y “tiempo libre” militante.
4.- Carencia absoluta de imaginación revolucionaria. Tengamos en mente estos cuatro rasgos particulares. Encuadremos las situación en el panorama nacional en el cual encontramos al menos un centenar de ocupaciones, aunque los medios de comunicación (como es costumbre en los mass-media) reconozca solamente la existencia de dos grandes centros organizados: Roma y Milano.
Todos los demás centros, tanto aquellos que surgieron hace ya tiempo, como los más nuevos, aquellos de las grandes ciudades y los de los pueblos pequeños y sobre todo los que se muestran más reacios frente a los pactos, se encontrarán ante una represión militar inmediata o bien ante la alternativa de aceptar condiciones aceptadas precedentemente por otros centros ya legitimados frente a la autoridad.
Y todas las ocupaciones que continúan sin querer saber nada del diálogo con el poder y que se ven obligadas a convivir con agrupaciones que han optado por el reconocimiento legal serán desalojadas por la fuerza; desalojos que se ven legitimados por los acuerdos previos tomados entre otros centros y el Estado. Acuerdos que establecen también a los ojos de la opinión pública una línea divisoria entre buenos (que aceptan el diálogo con las instituciones) y malos (que lo rechazan).
La grave responsabilidad de quienes quieren o buscan un diálogo no necesario con el poder se amplía aún más por el hecho de que este sector se presenta como un grupo compacto que ha indicado una línea rigurosamente aceptada por todos sus afiliados, creando así escisiones dentro de la extrema izquierda: de hecho existen situaciones de conflictividad en ciudades como Rma, Pádova, Florencia y Milano. Esta situación es, sin embargo, ignorada por la información oficial ya que la única voz representativa es aquella que ha decidido pactar con las instituciones y que se impone como único interlocutor válido.
La legalización nunca será única y unívoca, sino que abarcará todo un panorama de posibilidades que comprenderán la asociación legalizada (con estatutos, carnets…), la cooperativa, el alquiler simbólico o quizás no tan simbólico pero pagado por la administración pública, la convivencia con otras asociaciones de todo tipo, el respeto de las normas de higiene y habitabilidad con sucesivos controles de funcionarios, y la licencia para el alcohol, los impuestos, etc …
Quizás no se den todas estas exigencias o quizás no se den todas de una sola vez, pero una vez abierto el discurso ya no se podrá cerrar. Y mientras tanto es obvio que el Estado, satisfecho de haber creado el precedente para resolver el problema, no impondrá a los grandes Centros Sociales de las grandes ciudades condiciones que puedan romper las bases de lo acordado, pero no tendrán escrúpulos a la hora de acabar con las realidades menores y contestatarias.
Los centros que lleguen a acuerdos con el poder serán aquellos que hayan conseguido poner a la gente de su parte, situándose demagógicamente como vanguardia política, aquellos cuya voz se escuche en los periódicos y en la televisión, aquellos que hayan logrado legitimarse de cara a la opinión pública y a las instituciones; todo según el dogma democrático -la mayoría siempre tiene razón -.
Con esta seguridad del propio status, con la seguridad del reconocimiento, se pierde todo elemento de ruptura que caracteriza la voluntad revolucionaria.
Quien realmente desee un cambio radical no puede buscar seguridad, pues la única seguridad que se debe tener es la de conservar la dignidad como individuos rebeldes frente a un mundo en el que no podemos vivir libres, el resto es una trágica ingenuidad o una alienante mistificación de la vida.
Por otra parte, l@s anarquistas, no siendo un movimiento ni teniendo líneas ni organismos centrales, viven del modo más heterogéneo la ocupación y la autogestión, dejando el campo libre a la experimentación y huyendo de las indicaciones precisas y las prescripciones ideológicas.
El principio único que sostenemos es que cuanto más libres seamos mejor, por lo tanto es obvio que no aceptemos jamás diálogos con las instituciones (excepto en ocasiones de extrema necesidad). A nosotros nos parece que las distintas okupaciones, sobre todo en las grandes ciudades, no deben buscar los favores de los partidos ni la asimilación por las leyes pues esto no conlleva más que la legitimación del poder para-institucional que nada tiene que ver con la autogestión y su desarrollo.
No tenemos la intención de servir de cebo a esta política oportunista de revisionismo. Por tanto no nos interesa ser tantos como podamos, si no es verificando en nuestras acciones cotidianas la afinidad directa al individuo.
No queremos encontrar un movimiento de club alternativo que persiga el sueño del negocio-show, o una asociación de solidaridad con los pobres, sedienta de vínculos con los organismos del poder para así sobrevivir y mantener un movimiento de vanguardia de las masas.
Nuestro objetivo es la destrucción de la política y por tanto, no queremos ningún tipo de poder, el poder ha de ser destruido.
Proponemos la máxima difusión, sobre todo a través de la acción directa, de las distintas experiencias de autogestión declaradamente revolucionaria como heterogeneidad operativa de la experiencia de ocupación en el territorio nacional e internacional.
Solicitamos una serie de encuentros para intercambiar información y experiencias, donde se toquen todos los aspectos, individuales y colectivos, vinculados a aquell@s que han decidido por elección propia (y no por miserable necesidad) vivir según principios de autogestión y libertad. Los temas que proponemos son por lo tanto aquellos que operan activa y cotidianamente en distintos ámbitos; autofinanciación, organización de conciertos fuera del negocio alternativo, autoproducción, distribución, autoconstrucción, actividades de ayuda a otras ocupaciones menores, propaganda de nuestras ideas y nuestra actividad y también temas externos a la ocupación en si: antimilitarismo, anticlericalismo, control social, crítica al trabajo y otras formas de lucha autogestionaria.
Contra la centralización, contra la homogeneidad, difundamos mil prácticas de liberación.
Mario Frisetti, Mario Spesso, Luca Bruno de El Passo Occupato y Barocchio Occupato.
Torino, febrero 1994
http://flag.blackened.net/pdg/textos/textos/legalizacion.htm