A.M. Bonanno (1999)
L’universo carcerario è un universo totale, un insieme di luoghi fisici dove uomini e donne vengono tenuti prigionieri. Rinchiusi per la più gran parte della giornata. Nessun discorso, per quanto ricco di dettagli tecnici e approfondito, può descrivere l’orrore del carcere, fare capire che cos’è questa istituzione voluta dagli uomini per sottrarre alla società una parte dei suoi membri ritenuta colpevole di avere trasgredito alle regole. Vivere da carcerato questa esperienza è qualcosa a cui, dopo un certo tempo, ci si abitua, come alle cose peggiori che possono capitare nella vita.
Dopo tutto l’uomo è un animale che si adatta alle più mostruose condizioni di sopravvivenza, un animale che progetta e spera, che sogna e che si illude. Molti sono i cosiddetti operatori carcerari, come molti sono coloro che studiano i problemi del carcere. Ma chi di costoro può dire di conoscere veramente il carcere? I cosiddetti tecnici del diritto forse possono dire, in tutta coscienza, di conoscerlo? Io credo di no, e questa sensazione di distanza, che ho avverto fin dalla prima volta che ho vissuto l’esperienza della segregazione, più di un quarto di secolo fa, ovviamente come detenuto, col passare degli anni l’ho vista sempre riconfermata. In fondo anche la custodia non conosce il carcere, ed apparentemente sembra costituita da uomini che vivono a diretto contatto giornaliero con i detenuti. Il fatto è, secondo me, che l’essenza del carcere, il perno attorno a cui ruota tutta questa struttura, è la chiave: oggetto fondamentale dell esperienza quotidiana dei detenuti. Solo chi ha sentito in vita sua il rumore che fa la chiave quando veniamo chiusi, la sera, dopo una giornata che bene o male cerca di mimare piccoli spicchi di una libertà impossibile, la passeggiata all’aria, momenti come questi di dialogo e di scambio di idee, la socialità, la palestra, la visita medica -, solo chi ha sentito ogni sera il ripetersi di quei rumore, per giorni, per mesi, per anni, può dire di conoscere il carcere. L’individuo che dall’altra parte del blindato gira la chiave, non ha questa conoscenza, per quanto sforzi possa fare per immaginarsela.
Diseguaglianze sociali.
Per quanto il carcere sia una istituzione totale, quindi segregativa e autosufficiente sotto quasi tutti gli aspetti, non è una istituzione egualitaria. Eppure, considerandolo diciamo dall’esterno può indurre a questo equivoco. Uomini e donne sono tutti parimenti chiusi a chiave, godono più o meno degli stessi miseri privilegi di locomozione all’interno della struttura, passeggiano le ore regolamentari in luoghi in genere non molto salubri, ecc. Lo stesso regolamento precisa che non ci deve essere mai una condizione interna al carcere che ponga un detenuto in situazioni di privilegio rispetto agli altri detenuti. Ma si tratta di considerazioni che potremmo definire estrinseche alla realtà. Una interpretazione basata sull’ideologia illuminista che propose, di già sul finire del diciottesimo secolo, l’ortopedia sociale come scopo di questa struttura e non la semplice distruzione dell’individuo carcerato. Non voglio tenere conto delle deviazioni individuali, sempre presenti come è esperienza comune di tutti, riguardanti i comportamenti di questa o quella guardia (meglio chiuderli tutti e gettare via la chiave), si tratta di manifestazioni aberranti e in fondo marginali, mi riferisco invece al meccanismo stesso della struttura carceraria che finisce per riflettere le diseguaglianze intrinseche alla società di cui essa è l’espressione. I quattro quinti della popolazione carceraria è in condizioni di povertà, la metà di essa è in condizioni di estrema povertà. Se c’è qualcosa da notare è che in carcere l’insieme dei detenuti è ancora più povero, in proporzione, di quanto non sia l’insieme degli indigenti nella società cosiddetta lihera. In questi ultimi anni, come è stato notato con attenzione autorevole, è aunentato l’afflusso di detenuti condannati per piccoli e piccolissimi reati creando una massa considerevole di bisognosi che vivono quasi esclusivamente dei vitto regolamentare e delle diecimila lire della carità pubblica. Com’è facile capire, ciò comporta una difficoltà di accesso a tutti quei mezzi che lo stesso Codice mette a disposizione per alleviare e ridurre la pena. La disgregazione sociale, la non conoscenza delle regole, spesso l’esiguità delle singole pene (che però separatamente scontate spesso costituiscono nel loro insieme una condanna rilevante), la mancata o ridotta assistenza legale, sottolineano pesantemente questa diseguaglianza. La sofferenza di chi vive in carcere in queste condizioni è la peggiore di tutte. L’essere umano si incattivisce senza un perché, smarrisce facilmente il valore della propria vita e non aspetta altro che il trascorrere lento dei giorni lo conduca alla porta del carcere, in quella società dove sa perfettamente che troverà un’altra segregazione se non peggiore di quella carceraria, altrettanto selettiva e punitiva.
Il Codice penale riproduce le diseguaglianze
Per quanto i tecnici del diritto possano esercitare le loro competenze sulla lettera del Codice penale, il problema sembra privo di soluzioni. Il fatto di trattare in modo uguale le persone sottoposte a procedimenti giudiziari ha due livelli di eccezioni: il primo è quello stesso previsto dalla procedura, cioè i casi in cui la medesima lettera del Codice prevede una differenziazione di trattamento collegata all’esistenza di alcuni reati. Un secondo livello riguarda invece la diseguaglianza oggettiva, diciamo di partenza, in cui si trova il singolo individuo, cioè la sua condizione sociale di origine, alla quale nessuna uguaglianza procedurale può porre rimedio In fondo la diseguaglianza di partenza, quella espressa dalla società con le sue intrinseche divisioni, è di natura economica, ma quest’ultima prende, di volta in volta, nei singoli individui, la forma che la vita di ciascuno, insomma il proprio destino, ha voluto darle. Molti si appellano alla fortuna, e chiamano disgrazia l’essere stati poniamo catturati dalla polizia nel corso di una rapina perché “qualcosa è andato male”, ma, in fondo, si tratta di disponibilità di mezzi, di capacità di ragionamento, di tempo a disposizione, di lucidità di intenti, insomma di capacità vere e proprie, e queste non sono altro dalla discriminazione di fondo. Il caso riveste, anche nel cosiddetto comportarnento criminale, un aspetto del tutto marginale. Il bisogno, si dice, è sempre un cattivo consigliere, e i suoi stimoli, quando sono pressanti perché più si avvicinano alle condizioni della pura e semplice sopravvivenza, sono sempre portatori di consigli addirittura pessimi. Insomma la distribuzione della ricchezza è una caratteristica rilevante di diseguaglianza. Non so se da sola può costituire sempre e in ogni caso un elemento determinante, forse non lo può, ma nella maggior parte dei casi ciò avviene, con conseguenze tragiche. Solo per restare nel limite di un solo esempio: il nostro Codice prevede tra livelli di giudizio, ma non so quanti fra coloro che hanno come propria condizione la miseria più assoluta possano significativamente percorrerli tutti, cioè sfruttando tutte le occasioni che questi tre livelli mettono a disposizione. E intuitivo che non ogni singolo detenuto può disporre dei servigi di un grande avvocato. Spesso piccole pene vengono scontate del tutto prima che si possa proporre un appello decente. I cumuli non sempre sono eseguiti a regola d’arte, ecc.
La produzione del crimine
Quale che sia la concezione in base alla quale si considera il cosiddetto crimine, quest’ultimo resta pur sempre un atto proibito che determinate regole indicano come attinente ad un fatto considerato lesivo di determinati interessi. Che queste regole colgano poi l’esistenza di elementi geneticamente impliciti ad una data società, oppure il comportamento criminalizzante dei fattori di controllo sociale, questo ha una importanza soltanto teorica. In pratica, a condurre in carcere una consistente fascia della popolazione detenuta sono i processi di criminalizzazione voluti dalla parte dominante della società che così fissa l’identità e il ruolo criminale di coloro che compiono certi atti. in questo modo il crimine viene prodotto dalla stessa societa che, da un lato, con i suoi meccanismi intrinseci fissa quella diseguaglianza che allarga a dismisura la necessità di compiere determinati atti, dall’altro, con i suoi meccanismi estrinseci indica con la massima precisione quali atti sono da considerare come crimini. Produzione del crimine a livello sociale e sua precisazione a livello giuridico sono un tutt’uno. Il prospettare come universali i valori che stanno alla base della scelta, e quindi della codificazione di certi atti come criminali è una forzatura diretta a raccogliere il consenso sociale sui processi di criminalizzazione e sulla relativa condanna dei criminali, cioè sulla loro esclusione, definitiva o temporanea, dalla società. In effetti, senza questo consenso sociale, e senza una continua sua manutenzione da parte degli organi di informazione, questo processo di esclusione, l’esistenza stessa delle carceri e dell’intero sistema della cosiddetta giustizia verrebbe a trovarsi compromessa.
L’espulsione dalla società
La condanna è una espulsione dal contesto sociale, quindi una marginalizzazione. lì condannato che entra in carcere viene a subire una forte riduzione delle risorse, delle garanzie, dei privilegi che il sistema dice di assicurare alla maggior parte dei suoi membri. Il fatto che la maggior parte di questa riduzione sia di già operante, in maniera oggettiva, anche al di fuori del carcere, per la quasi totalità della popolazione detenuta, la dice lunga sulla corrispondenza di diseguaglianze che si forma tra società e carcere per ben precisi strati della popolazione. Il detenuto vive questa espulsione, cioè il suo nuovo status di carcerato, come una fortissima coazione, ma difficilmente questa coscienza della propria situazione si eleva alla dimensione collettiva. Quasi essa resta disgregata, in balia degli avvenimenti quotidiani, in una lotta senza quartiere per la sopravvivenza, per il piccolo beneficio che l’amministrazione promette in relazione quasi sempre a comportamenti di assuefazione e rassegnazione. La possibilità di pervenire ad una considerazione collettiva della propria condizione, in un insieme significativo con gli altri detenuti, è una presa di coscienza difficile da raggiungere, anche perché l’intero sistema di controllo fa da ostacolo, pretendendo una nsocializzazione singola, di per sé più illusoria che reale, e nascondendo la sua vera natura repressiva (in uno con la caratteristica essenziale della pena).
Il cosiddetto resinserimento
Chiudendo gli occhi davanti alla realtà macroscopica delle diseguaglianze sociali, la società del controllo, che ha fissato essa stessa le condizioni in cui si determina il fatto considerato come cnminale, ci si illude che l’ideologia ortopedica dell’intero sistema delle pene dia i suoi frutti. È strano notare come il sostrato pedagogico che sta alla base di questa ideologia, e che in un certo senso la giustifica da più di un secolo e mezzo, sia scomparso dal luogo dove aveva trovato origine, cioè nell’educazione dei fanciulli. Nessun pedagogista sostiene oggi il sistema dei castighi, nessun teorico dell’educazione sognerebbe oggi di tornare al sistema di picchiare i bambini per educarli. Eppure lo stesso sistema continua a pretendere di educare i detenuti col meccanismo della pena. Più correttamente invece mi sembra giusto considerare il carcere come una punizione, come un allontanamento dalla società, senza che ci sia alcuno scopo direttamente visibile di risocializzazione. Chi ha esperienza di stare dietro le sbarre, chi ha sentito con le proprie orecchie lo stridore della chiave la sera, quando i desideri si fanno più penetranti e il ricordo va a quegli affetti che sembrano definitivamente perduti, sa che si tratta di un equivoco, se non di un imbroglio.
La frantumazione
Il sistema penitenziario tende a frantumare ogni sorta di aggregazione fra detenuti. Questo processo è implicito nella struttura del carcere che tende all’isolamento e alla estremizzazione della durezza dei trattamenti individuali, ma che poi per la sopravvivenza stessa del sistema punitivo deve fare delle concessioni, altrimenti, come si dice, tenderebbe troppo la corda. Queste concessioni costituiscono la parte essenziale della storia dell’istituzione carceraria. Nello stesso tempo esse si collegano con una società in evoluzione fondata su concezioni della vita cosiddette progressiste. Molto ci sarebbe da dire sulla intrinseca valenza autoritaria di questi progressivismi, ma non è questo il luogo. Invece è importante sottolineare che la concessione, cioè il dare più spazi circoscritti di libeità ai detenuti, il prospettare un futuro flessibile della condanna, tutto questo, è diretto ad abbassare un livello di sempre possibile conflittualità, in altre parole a rendere attuabile l’intero sistema delle pene. Il complesso meccanismo delle concessioni è basato però sulla frantumazione. Ogni individuo carcerato deve potersi considerare un caso a sé. Non per nulla si parla di “trattamento”, che è termine di origine clinica, diretto a ricondirrre l’azione repressiva e quella correlata di recupero nell’ambito del progetto ortopedico. Pensare che ogni singolo individuato sia mediato dalla totalità sociale oggettiva significherebbe accettare l’influenza sul singolo dell’intera comunità dei carcerati e, per conseguenza, dell’intera società – con la sua divisione diseguale – sul carcere e sul singolo detenuto. Significherebbe, in altri termini, ammettere una latente pericolosità della popolazione carceraria, collegata cosi con quella ribollente condizione sociale che sembra continuamente sotto controllo ma che potrebbe minacciare rivolte per qualsiasi motivo. Il carcerato è quindi da tenersi non solo sotto chiave, ma anche tagliato fuori da ogni aggregazione, separato in modo radicale dal sentirsi facente parte di un insieme in cui tutti dipendono da tutti. Da parte sua, il carcerato mette fatica a sentirsi facente parte di una qualsiasi aggregazione, passa la maggior parte del suo tempo a sopravvivere, fra le mille difficoltà della sua vita di recluso. Tutte le volte che si è realizzata, nella storia passata e recente della popolazione detenuta, un’unità significativa, si è sempre corso ai ripari. La struttura repressiva ha operato frantumazioni sia ricorrendo a miglioramenti di trattamento (ad esempio permessi più facilmente concessi), sia coi trasferimenti dei detenuti più impegnati nell’opera di aggregazione del tessuto sociale detenuto, sia con le punizioni vere e proprie, con le denuncia, con i pestaggi, ecc. La caratteristica dell’istituzione carceraria è quella di restare legata al suo ideale primigenio di reclusione: chiudere a chiave e gettare via la chiave, e di spostarsi poi sull’asse dei miglioramenti e delle concessioni in relazione all’intensità, all’incidenza e all’articolazione delle lotte in carcere.
La diseguaglianza delle pene e quella del trattamento
Un sistema penale moderno prevede una differenziazione delle pene in relazione al reato commesso. L’infrazione di una regola che interdice un determinato comportamento è valutata in base alla sua presunta gravità. A sua volta, questa gravità è in relazione all’entità degli interessi sociali messi in discussione da quel comportamento. Poiché a fissare le regole, e quindi anche le modalità di infrazione, è la stessa struttura deputata al controllo sociale, ne deriva la presenza di una scala di penalizzazioni che differenziano di fatto la situazione carceraria di ogni singolo detenuto. Pene più consistenti, quindi tali da presupporre una maggiore permanenza in carcere di chi li subisce, di regola, dopo una fase introduttiva quasi sempre poco chiara, vengono sottoposte ad una sorta di regime comune, ma sempre diretto ad impedire qualsiasi forma di aggregazione sulla base della specificità dei reati. Ciò non toglie che la stessa condizione carceraria, per le situazioni esacerbate di convivenza, fornisce una sorta di situazione privilegiata per la ulteriore produzione del crimine, per cui l’obiettivo di recupero e di reinserimento sociale, sbandierato dall’ortopedia sociale, risulta quasi interamente svuotato di contenuto reale. Nonostante questo, il trattamento diretto a capire la reale condizione dei singolo detenuto, cerca di pervenire a degli accertamenti riguardo la sua disponibilità a tornare nel contesto sociale, ovviamente in determinate condizioni Che dietro tutto questo si celi un reciproco gioco delle parti è talmente evidente da non meritare discussione.
Le due controparti
Per quanto possa essere latente, cioè mitigato da condizioni carcerarie definite in maniera approssimativa come “aperte”, il conflitto tra chi custodisce e chi è custodito resta sempre forte. E non c’è modo che le cose stiano diversamente. Pretendere che ognuna delle parti regga il confronto in maniera oggettiva è una tipica illusione positivista. Dietro l’oggettivazione della lettera, così come è imposta dal Codice c’è la reazione del singolo e, sotto certi aspetti, anche quella della classe, su cui però ci sarebbe molto da dire, cosa che non è possibile fare qui. Non esiste un controllo sociale asettico, come non esiste un potere realmente illuminato. lì confine tra il permissivismo e la chiusura totale dell’istituzione è sempre fluido, ed è importante capire che esso è segnato, o comunque controllato, dal livello dello scontro, per come questo livello può profilarsi all’interno dell’istituzione stessa, tra custodi e custoditi. Nel perseguire il proprio programma ortopedico l’istituzione trova l’ostacolo della resistenza dei soggetti reclusi. Questa resistenza è di regola disgregata, ma a volte può presentarsi in maniera più compatta. in quest’ultimo caso l’istituzione è costretta a delle concessioni, le quali possono arrivare fino ad un certo punto, oltre il quale l’equilibrio della permissività si rompe e si entra in una contraddizione del tutto differente, che di regola può proporre anche momenti di estrema repressione, non escludendo la stessa eliminazione fisica. In teoria, quindi, l’ideologia ortopedica propugna una sorta di reificazione del proprio contenuto. Il pensiero migliorativo che ne deriva presuppone di guidare i procedimenti totalizzanti della custodia, di portarli oltre il limite della reciproca tolleranza passiva, verso un attivo intervento di trasformazione del soggetto detenuto. Ne viene fuori un amalgama culturale fluido e contraddittorio, un insieme di decisioni legislative, di regolamenti improbabili, di decisioni politiche di piccola e media portata, un sopravvivere nella quotidianità dell’altalenante attesa e un desiderare di ridurre il danno al minimo. Tutto questo intessuto nel pessimismo radicale dei detenuti e nell’ottimismo di facciata dei responsabili istituzionali del controllo sociale. Nella considerazione del conflitto sociale, che si rispecchia con chiarezza nelle carceri, gioca un ruolo importante la diseguaglianza che regola sia le strutture di dominio, sia la stessa conflittualità di classe nel suo insieme, divisione del lavoro in primo luogo. Non tenerne conto, come fa l’ideologia ortopedica che tenta di impostare il proprio discorso fittizio di recupero sul singolo individuo, condanna quest’ultima non solo all’inefficienza (il che sarebbe il minore dei mali), ma la fa diventare un elemento in grado di rinfocolare il conflitto stesso, rinviandone gli esiti, invece di oltrepassarlo in qualcosa di realmente diverso.
Il concetto di lotta intermedia
Una situazione come quella carceraria rende possibile la lotta sociale con l’obiettivo di ottenere dei miglioramenti. Obiettivo minimo ma non trascurabile. Una lotta come ad esempio il rifiuto del vitto fornito dall’amministrazione, chiamata spesso “sciopero del carrello”, di per sé è poca cosa, ma diventa fatto considerevole se si riflette sulla questione che per essere possibile questa pur minima manifestazione di dissenso si richiede un’aggregazione fra detenuti, spesso anche a livelli considerevoli che potrebbero dirsi di massa. Senza stare ad analizzare in dettaglio il perché questa aggregazione viene in essere inevitabilmente, è facile capire che non siamo davanti alla semplice somma di un numero, anche considerevole, di rifiuti individuali, quanto di fronte ad una decisione collettiva. E questo, all’interno di una realtà che per proprio compito, diciamo istituzionale, ha quello di impedire qualsiasi aggregazione e di considerare i singoli carcerati come atomi in movimento all’interno di un universo chiuso, è risultato di per sé considerevole. L’avere, ad esempio, fischiato tutti insieme nel 1997 l’allora Ministro di Grazia e Giustizia in visita a Rebibbia, è stato un fatto di considerevole importanza, non tanto per la cosa in sé, ovviamente circoscritta ad un semplice dissenso che poteva essere interpretato come di natura accidentale, quanto per il segno di aggregazione che il fenomeno non mancava di portare in evidenza. La stessa cosa riguardo lo sbattere di pentole contro le sbarre delle celle, prolungato per circa un’ora, che venne posto in essere, se non ricordo male, più o meno nello stesso periodo. Lo stesso dicasi per un altro ciclo di lotte, quello della fine del 1990, da me vissuto nel carcere di Bergamo, in cui si sviluppò tutto il raggio delle possibilità: dallo sciopero del carrello allo sciopero della fame, dalla sospensione del lavoro all’interno del carcere alla fermata all’aria, ecc. Spesso, considerando le cose dal punto di vista di chi si trova fuori, queste lotte in carcere vengono valutate come poca cosa, espressione dì una condizione ferita e ridotta al minimo della sopravvivenza. Nessuno si illude, esse sono di certo solo un piccolo segno di quello che sarebbe necessario fare, ma, nello stesso tempo, sono anche il segno di una conflittualità mai doma, di qualcosa che continua a dormire sotto il comportamento spesso acquiescente della totalità dei detenuti.
L’ideale della distruzione del carcere
In prospettiva, l’ideale dei carcerati non è certo quello di migliorare il carcere. Quando gli ospiti coatti si lamentano dell’affollamento, come pure quando cercano di organizzare qualche protesta in questo senso, non lo fanno nell’ottica di chiedere la costruzione di nuove carceri. Questa conclusione sarebbe assurda. Eppure ci sono tecnici del diritto e politici che pensano sia veramente questa la speranza dei detenuti: ottenere cioè, col loro comportamento di protesta, se non di lotta vera e propria, condizioni migliori di vita. Le migliori condizioni sono soltanto una tappa intermedia, sono quell’allentarsi della repressione necessario a riprendere le forze, a misurare le proprie capacità di aggregazione per riprendere la lotta con altri obiettivi. L’obiettivo finale resta sempre quello della distruzione delle carceri, di tutte le carceri.
Il processo di ristrutturazione
La risposta dell’istituzione alle spinte aggregative capaci di alimentare il continuo ripresentarsi delle lotte in carcere è la ristrutturazione. Lo scopo di questo processo, assai complesso e spesso contraddittorio, è quello di indirizzarsi verso gli aspetti immediati che coinvolgono una maggiore tensione fra le parti in causa, spesso astrattamente considerati come elementi di un quadro generale di per sé suscettibile di perfezionamento. I tecnici della ristrutturazione carceraria considerano i problemi più urgenti, ad esempio quello del sovraffollamento, e cercano di evitare di porsi problemi insolubili, e per altro non di loro competenza, quale ad esempio il problema dell’esistenza stessa delle carceri in una società come la nostra. Il risultato è di regola un miglioramento delle condizioni di vita all’interno dell’istituzione per i soggetti che subiscono l’imprigionamento, anche se questo miglioramento (poniamo la televisione a colori in tutte le celle), non può che essere considerato in relazione a tutto il sistema nel suo complesso. Spesso un miglioramento specifico (vedi il caso di cui sopra) si paga con un maggior controllo indiretto o con l’allontanarsi di altri possibili benefici. Non si può dire, in tutta coscienza, che l’attività di ristrutturazione dello Stato sia nel settore qualcosa di concretamente chiaro e pianificato. Ad esempio, le forze che il Ministero dedica al problema del lavoro per i detenuti che si avviano alla semilibertà sono ridicolmente esigue. Nella maggior parte dei casi, il lavoro di ristrutturazione avviene sulla base di sollecitazioni indirette, fra le quali non mancano anche gli interessi politici precisi, perfino di carattere elettorale, lavoro che in ogni caso Segue i livelli di pressione determinati da singoli gruppi di potere o anche dall’intera opinione pubblica, opportunamente opinionata dai grandi mezzi di informazione.
Le singole leggi di riforma carceraria e la riforma del Codice Penale
Dalla Gozzini in poi, alla Simeoni e fino alla progettata riforma del Codice penale, sullo sfondo resta, come soggetto passivo dei processi legislativi di cui si discute, l’insieme dei carcerati. Non questo o quel detenuto di cui parlano le cronache repubblicane, ma l’insieme della popolazione carceraria, più di cinquantamila “signor nessuno” che vivono quotidianamente in prigione. Affrontare il problema del carcere partendo da un singolo detenuto la cui situazione risulta particolarmente interessante, è un modo errato di dire delle cose sensate. Se da un lato è giusto fare conoscere queste situazioni eciatanti, uomini e donne nei cui confronti la repressione ha colpito più duramente, o nei riguardi dei quali si sono commessi errori giudiziari macroscopici, o si è voluto dimostrare un teorema inquisitorio più che applicare la legge, è cosa giusta, ma, nello stesso tempo, è cosa che relega in secondo piano l’esistenza di tutti gli altri detenuti, la cui situazione, spesso al limite della tortura, quotidianamente è priva di riscontro nei grandi mezzi d’informazione. Chi potrà mai dare voce ai malati in carcere? Chi farà parlare gli stranieri privi di soldi e di speranza? Chi amplificherà il grido di paura che ogni giorno i tossici gettati in galera soffocano in gola? E, accanto a loro, mille e mille detenuti con sulle spalle condanne pesantissime che sopravvivono spesso grazie agli sforzi della famiglia, in una lotta quotidiana per non morire di galera. Lasciati a loro Stessi, migliaia di persone Si Sentono abbandonati da una società contro cui hanno soltanto alzato la mano perché qualcosa era stato loro negato, forse un diritto fondamentale? Non lo so. Forse qualcosa di più importante? Può darsi. Nell’abbandono, sistematicamente puntualizzato da tutti gli interventi correttivi che la struttura carceraria rende inevitabili, tutti si sentono soli, privi di contatti reali con gli altri detenuti, se non le quattro chiacchiere all’aria o le due ore di socialità. La quasi totalità dei discorsi che si tengono in carcere rasentano l’incredibile. Ognuno, per non morire, Si mostra più forte di quello che è, nascondendo la propria solitudine con un atteggiamento che è capace solo di sprezzare chi invece non nasconde la paura e la generale mancanza di futuro.
L’attesa
Uscire al più presto dal carcere: ecco lo scopo unico di ogni detenuto, ecco la sua attesa, che inizia con il primo giorno di carcerazione. Non c’è pena lunga o incerta che possa cancellare questa Speranza. Ma la lettura delle disposizioni di legge, l’addentrarsi tra i cento meandri delle possibilità, anche quando è resa possibile da un minimo di informazione o di cultura, resta spesso materia di chiacchiere giornaliere. Le domandine si accavallano l’una sull’altra, le speranze pure, mentre i giorni e i mesi passano in attesa che qualcosa si muova. D’altra parte, la custodia e l’amministrazione cercano di gestire una situazione non facile. Non possono tirare la corda come vorrebbero (non dimentichiamo l’idea di chiudere e gettare via la chiave), e non vogliono andare incontro a troppi acconsentimenti. Dopo tutto il carcere è un luogo di pena, non certo un albergo. In fondo ad ogni teorico dell’ortopedia sociale si acquatta il convincimento, corroborato dall’irrisoria disponibilità di strurnenti efficaci, che il suo lavoro è del tutto inutile. Eccolo quindi arrivare alla conclusione che vista l’inutilità del recupero, che almeno il carcere sia luogo di sofferenza, la qual cosa (ritorno dell’ideologia correttiva, diciamo dalla finestra) mette in pace la propria coscienza e rida lustro alla funzione del carceriere che altrimenti correrebbe il rischio di svanire nella più assoluta inutilità sociale. Dal canto suo, il carcerato continua ad aspettare.
La diseguaglianza del trattamento come selezione e premio
L’ insieme delle leggi e dei provvedimenti diretti a recuperare il detenuto prevede una disponibilità di quest’ultimo ad essere recuperato. il concetto di recupero si basa su di una scala di valori che se è valida per la società nel suo insieme, reggendone le scelte di status, non lo è in modo certo per il detenuto il quale, bene o male, quella scala di valori ha revocato in dubbio, se si vuole in modo piiì o meno cosciente. È grande pertanto la violenza che viene esercitata su di un soggetto in condizioni di debolezza: quella cioè diretta a fare accettare, e a richiedere comportamenti adeguati in grado di provare questa accettazione, una scala di valori che non solo la scelta di partenza (il reato vero e proprio), ma la stessa permanenza in carcere negano completamente. L’accettazione di un scala di valori però non è soltanto un moto dell’animo, è principalmente una valutazione positiva in vista dell’ottenimento di qualcosa. Crediamo all’importanza di ciò che desideriamo perché dal suo possesso pensiamo di ricavarne un beneficio. Ora, il detenuto si trova nella strana situazione di essere costretto a desiderare qualcosa (ad esempio, il lavoro) per poterne ottenere un’altra (in pratica, la libertà). Niente in una relazione del genere, costante nel rapporto tra istituzione di controllo e soggetto coatto, può avere a che fare con la sincerità, con la verità. L’istituzione sonda e mercanteggia, cerca di ottenere il massimo profitto da una struttura formalmente ortopedica ma sostanzialmente punitiva; il soggetto in esame, schiacciato e reso sospettoso dalle condizioni di pena in cui si trova, cerca la via per meglio ridurre i danni. Il recupero in società, qualora fosse possibile, dovrebbe essere qualcosa di completamente diverso. In queste condizioni, l’unico risultato è quello di un mercanteggiamento tra selezione e premio.
La soluzione dell’automatismo
Si presenta come la sola soluzione egualitaria, in persistenti condizioni di diseguaglianza. I benefici previsti dovrebbero essere concessi a tutti in base ad una semplice richiesta, quindi ad una dichiarazione di volerli ottenere. Ogni altra procedura, diretta a indagare sulla efl’ettiva condizione di recupero del detenuto, cozza con l’evidente inadeguatezza di qualsiasi ideologia ortopedica, da un lato, e con la palese ingiustizia di un sistema basato sul meccanismo della selezione e del premio. Le ritrosie istituzionali di fronte ad una soluzione automatica nell’applicazione dei benefici, mettono a nudo la reale natura di questi benefici, e quindi l’effettiva estraneità dei detenuti a tutti i tentativi di riforma che sono stati fin qui attuati, come pure a quelli in corso di attuazione. Estraneità basata sul fatto che il mondo della condizione coatta non partecipa di certo alla elaborazione delle riforme, ma queste vengono studiate ed approvate come risposta migliorativa alla pressione esercitata sull’istituzione dall’insieme dei detenuti, sia attraverso le loro lotte, sia attraverso il loro cominciare a sentirsi partecipi di un tutto unitano: partecipi cioè della condizione coatta del recluso. Ecco spiegata l’importanza, per l’istituzione, di spezzare continuamente, e fin dal suo sorgere, qualsiasi forma di aggregazione, proprio perché quest’ultima minaccia di diventare lo strumento di una pressione sia per l’attuazione delle riforme carcerarie, sia per l’applicazione delle stesse leggi esistenti.
Una mentalità flessibile
Se l’istituzione carceraria non può realizzare l’utopia illuminista di una modificazione del singolo attraverso la pena, può comunque progettare un modello di detenuto che sia più flessibile, più adatto alle mutate condizioni del carcere, il quale ultimo, in quanto struttura di controllo, riflette a sua volta le mutate condizioni della soci età. Mille iniziative, all’interno delle carceri, s’indirizzano verso la flessibilità. L’universo esterno, con le sue profonde modificazioni produttive, una realtà non più schematica fondata sulla centralità di una classe rispetto alle altre, viene riprodotto nei microcosmo carcerario, e qui si lavora ad ammorbidire la contrapposizione tra custodi e custoditi. Il carcerato rimane così incerto sul proprio ruolo, aumenta il livello delle aspettative, si colloca in una dimensione possibilista che una volta era impensabile. Il carceriere, a sua volta, è chiamato a compiti non precipui suoi, non più strettamente legati alla conta e alla chiusura dei blindati. Si allarga così e si diversifica la figura dell’operatore carcerario, si diffonde la presenza del volontariato, come pure si moltiplicano le attività culturali: cinema, teatro, conferenze, dibattiti, ecc. Considerando le cose da un punto di vista strettamente carcerario, ogni piccolo miglioramento è una conquista: dall’ora passata fuori dalla cella, alla televisione, alle possibilità di acquisto di prodotti vari all’interno, una volta limitata a pochi articoli adesso diversificata al massimo. Nello stesso tempo questi miglioramenti hanno un prezzo: rendono più difficile mantenere alta la coscienza di carcerato, la stessa cognizione della propria sofferenza, contribuiscono ad alleviare la pena ma ovviamente non possono cancellarla, per cui, alla lunga, gettano le basi della disgregazione e di quel sentirsi soli, in balia di una struttura nemmeno tanto bene identificabile.
Lo scopo delle lotte in carcere
È sempre quello della costituzione o del rafforzamento dell’unità dei carcerati. Non si tratta più, come è accaduto in passato, di etichettare questa unità sotto una sigla egemone, ma di farla camminare coi propri piedi, cioè di contribuire alla crescita della coscienza individuale. Non una coscienza genenca, tipica di clii trovandosi in condizioni di bisogno si arrangia per sopravvivere, ma di una coscienza specifica, cioè qualificata, di una coscienza che sta individuando ed approfondendo la proprià condizione sociale di emarginato ed espulso dai meccanismi societari, di racchiuso in un ghetto ben custodito caratterizzato da ragguardevoli privazioni di libertà. Questa coscienza non è il prodotto di indottrinamenti o di scelte politiche a priori, non si tratta di accettare la guida di qualcuno, tanto meno quella di qualcuno orientato politicamente. Si tratta di una crescita culturale, di un aumento delle occasioni di riflessione, di moltiplicare all’interno dell’istituzione la circolazione delle idee: naturalmente delle idee di libertà, non delle idee di acconsentimento e di rinuncia. Sulla crescita culturale dei detenuti tutti sono d’accordo. Prima di tutti la stessa istituzione, che nei secoli della sua storia ha messo in atto atroci sistemi di indottrinamento (ad esempio, le ridicole conferenze contro l’alcolismo, ecc.). Anche oggi il sistema carcerario si da un gran daffare per mettere in piedi una circolazione della cultura. Anche le forze tradizionalmente dedite alla semplice pietà adesso fanno cultura nelle carceri, e perfino, a volte, la stessa custodia in prima persona pretende di farlo. Ma non è di questa cultura che sto parlando. Sappiamo tutti, in quanto carcerati o ex carcerati, quale può essere la risposta dei detenuti all’offerta istituzionale di cultura: sempre quella del cercare di uscire dalla cella per qualche ora, di approfittare di ogni occasione possibile per variare il monotono panorama dell’ annientaniento quotidiano. Ma la crescita della coscienza individuale verso un senso collettivo del sentirsi insieme, se è fatto culturale, è fatto culturale diverso. Ecco perché sono di grande importanza tutte le iniziative culturali autogestite dai detenuti, perché vengono immediatamente viste come iniziative diverse dagli altri carcerati, e quindi ogni occasione del genere produce molto di più dì quello che sia pure con le migliori intenzioni può produrre l’istituzione nei confronti della quale vige un radicato e giustificabilissimo sospetto.
La risposta
Alle attività politiche in senso stretto e a tutte quelle iniziative che vengono prese per studiare e affrontare con intenti migliorativi il problema deUe carceri, i detenuti possono rispondere a mio avviso in un solo modo: con una attenzione programmatica. Cioè, da un lato documentarsi e studiare quali sono queste attività, indicando quali di esse hanno vero e proprio fondamento pratico e quali costituiscono solo fumo indirizzato a coprire scopi diversi; dall’altro, aggregarsi in vista delle possibili lotte di domani. Infatti è solo questo il mezzo che i carcerati possiedono per rendere più veloci le riforme, più significativi gli eventuali provvedimenti di miglioramento, più applicate le leggi di già esistenti. Tutto ciò senza dimenticare che il problema non può essere risolto in questo modo, che nessuna riforma e nessun uomo politico potrà risolverlo, e che l’unica soluzione possibile è la completa distruzione delle carceri.
Alfredo M. Bonanno
Catania, 6 Dicembre 1999
Relazione al Convegno dal titolo: “Riforma del Codice Penale” tenuto nel carcere di Rebibbia.
Pubblicato in:
Alfredo Maria Bonanno, “carcere e lotte dei detenuti” Edizioni Anarchismo, Catania, 2000