Il falso principio della nostra educazione

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Max Stirner

Poiché la nostra epoca è alla ricerca del termine attraverso cui esprimere il proprio spirito, molti nomi sono stati proposti, e tutti hanno la pretesa di risultare quelli giusti. In ogni dove il nostro presente mostra la più variopinta mischia di partiti, mentre i rapaci del momento si riuniscono attorno alla putrescente eredità del passato. Soprattutto abbondano in gran numero i cadaveri politici, sociali, ecclesiastici, artistici, morali ed altri, e fin quando questi non saranno consumati del tutto , l’aria non diverrà pulita e il respiro degli esseri viventi rimarrà oppresso.


Senza il nostro intervento l’epoca attuale non riuscirà a produrre la giusta parola, e a questo compito tutti dobbiamo collaborare Se quest’opera dipende da noi, conviene che ci chiediamo ciò che si è fatto su noi e ciò che si è considerato di fare; interroghiamoci attorno a questa educazione, attraverso cui si cerca di renderci capaci di divenire i creatori di quella parola..

Si forma la nostra inclinazione ad essere creatori con coscienza, oppure si viene trattati unicamente come creature, la cui nuda natura è di essere lasciate all’ addestramento?

La domanda è importante quanto lo possono essere solo le questioni sociali, e in effetti è la più importante, perché quelle si poggiano su quest’ultima base. Essendo valenti, costruirete cose valide: essendo “ciascuno compiuto in sé”, la comunità e la vita sociale diverranno (p.76)1 compiute anch’esse. Con ciò occupiamoci di tutto ciò che di noi si è fatto nel periodo della nostra formazione (formabilità): la questione della scuola è una questione di vita. Ciò appare anche ora evidente, e su questo terreno si è duellato da anni con un calore ed una schiettezza che supera ampiamente l’ambito della politica, poiché la questione non picchia contro gli ostacoli di un potere autoritario. Un venerabile veterano, il Professore Theodor Heinsius, che come il defunto Professore Krug ha conservato fino alla tarda età nella vecchiaia il proprio vigore e la capacità di fare proseliti, cerca ancora e nuovamente di suscitare l’interesse verso la cosa con un breve scritto. Si intitola “Concordato tra scuola e vita ovvero Mediazione tra umanesimo e realismo, considerata in prospettiva nazionale, Berlino 1842”. Due partiti lottano per la vittoria e ciascuno vuole presentare il proprio principio di educazione come il migliore e il più corretto per le nostre esigenze: gli umanisti e i realisti. Preoccupato di non guastarsi con l’uno o all’altro, Heinsius, nel Suo piccolo lavoro, parla con una certa mitezza e uno spirito di conciliazione che attraverso cui pensa di lasciar rendere giustizia ad entrambi, e nello stesso tempo compie il maggior torto alla cosa stessa, poiché questa può essere servito solo con una tagliente determinazione. Rimane così ancora una volta il peccato contro lo spirito della cosa, che costituisce l’inalienabile eredità di tutti i mediatori timorati. I «Concordati» non offrono che un modesto espediente.

 

«Ora franco come un uomo: pro o contro!
Ed il motto : schiavo o libero!
gli dei stessi discesero dall’Olimpo
E combatterono sul bastione del partito.»

Heinsius traccia un breve schizzo, prima di formulare le sue proposte, dello svolgimento storico della (p.77) Riforma. Il periodo che va dalla Riforma alla Rivoluzione è – ciò che qui voglio solo affermare senza dimostrazione, perché mi riservo di sostenerlo in altra occasione – quella dei rapporti tra maggiorenni e minori, tra dominanti e dominati, potenti e impotenti, in breve il periodo dell’assoggettamento. A prescindere da ogni altra fondamento che potesse legittimare la sua superiorità, la formazione2 in quanto potenza elevava il suo detentore in una collocazione superiore ai deboli che ne erano sprovvisti, per cui l’uomo formato giocava nella sua cerchia – piccola o grande che fosse – il ruolo del potente, del detentore di potere, di colui che si impone: da ciò egli era un’autorità.

Non tutti potevano professare questa signoria e questa autorità, come la formazione non era destinata a tutti, e l’idea di una formazione collettiva veniva a contraddire questo principio. La formazione procura superiorità e crea il signore; così essa in quell’epoca signorile era strumento per la signoria. La Rivoluzione da sola sfondò questa economia signore-servo, e diede vita a questo principio: «ognuno sia il suo proprio signore». Si impose quindi per necessità la conclusione che la formazione, che crea in effetti la signoria, doveva diventare una universale, ed allora si pose da sé il compito, di trovare l’inveramento della formazione universale. Questa spinta verso la formazione universale accessibile a tutti condusse alla guerra contro quella che restava ostinatamente esclusiva, ed su questo terreno la Rivoluzione dovette sfoderare la spada contro il dominio esercitato dal periodo della Riforma. L’idea di formazione per tutti entrò in conflitto con quella esclusiva,(p.78) e attraverso diverse fasi e differenti nomi tale guerra e battaglia si è protratta fino ai giorni nostri. Per gli aspetti oppositivi evidenziati dai campi avversi che si affrontano, Heinsius sceglie i nomi di Umanismo e di Realismo e, malgrado siano così poco corretti, noi li vogliamo mantenere in quanto più comuni.

Fin al momento in cui l’illuminismo iniziò a diffondere i suoi lumi nel XVIII secolo, la cosiddetta formazione superiore rimase senza dubbio nelle mani degli Umanisti, e si occupò quasi esclusivamente della riflessione3 sui classici antichi. Esistette dappresso un’altra formazione che ricercò alla stesso maniera anch’essa il proprio modello nell’antichità e il cui principio fu quello di una conoscenza approfondita della Bibbia. Che entrambe avessero scelto come proprio unico materiale di studio la migliore formazione del mondo antico prova a sufficienza quanto la nostra esistenza sembrasse priva d’importanza, quanto eravamo lontani dal poter produrre, con specifica originalità, le forme del Bello, e con ragione propria il contenuto della verità. Avevamo innanzitutto da apprendere forma e contenuto, eravamo apprendisti. E allo stesso modo in cui il mondo antico, attraverso i classici e la Bibbia, dominava su di noi come padrone ,così l’esser-signore e l’esser-servo costituiva – cosa che si può storicamente dimostrare – soprattutto l’essenza del nostro divenire storico complessivo, e si spiega soltanto da questa natura dell’epoca il perché si aspirasse così apertamente alla «formazione superiore» e perché ci si distinguesse tanto attentamente dal popolo. L’educazione faceva del suo detentore un padrone per gli individui non colti. Una educazione popolare sarebbe entrata in conflitto con ciò, perché il popolo doveva rimanere nella condizione volgare di fronte ai signori istruiti, e doveva limitarsi ad ammirare e venerare beatamente questo sconosciuta Eccellenza.

Così il Romanismo, i suoi due pilastri sono il greco e il latino, restavano sinonimo di erudizione. Inoltre, questo insegnamento doveva restare per forza ad un livello formale, in quanto l’Antichità, da tempo morta e sepolta, non possedeva che le forme tali e quali, come le regole letterarie e artistiche, e soprattutto perché si poteva facilmente conseguire e conservare la signoria sulle persone con una superiorità formale, in quanto c’è bisogno solo di un certo grado di agilità intellettuale per conquistare una superiorità su individui meno capaci. La cosiddetta formazione superiore era quindi una formazione elegante, un «sensus omnis elegantiae», una formazione del gusto, del senso formale; essa infine immerse tutto in un oscuro insegnamento grammaticale e impregnò la lingua tedesca di un profumo tutto latino, tanto che ancora oggi, per esempio, proprio nella «Storia degli Stati brandenburghese e prussiano. Un libro per tutti. di (A.) Zimmermann», recentemente (1842) apparsa, che si possono ammirare le più belle strutture sintattiche latine.

Nel frattempo dall’illuminismo si faceva avanti a poco a poco uno spirito di opposizione contro tale formalismo che, in armonia con il riconoscimento dei diritti universali dell’uomo, mise in atto la rivendicazione di uno dei più profondi, il diritto ad una formazione umana. Il modo in cui gli Umanisti avevano agito fino a quel momento mise nella giusta luce l’assenza di ogni istruzione solida capace di tenere conto della realtà, esigendo un insegnamento con scopi pratici. In questo modo ogni sapere sarebbe diventato vita, il sapere sarebbe stato vissuto; ciò poiché la realtà del sapere è proprio nel suo compimento. Facendo posto alla materia della vita nella scuola si rendeva un servizio a tutti, (p.80) pervenendo nello stesso tempo a convincere tutti della necessità di questa preparazione alla vita, e volgerla alla scuola, così si sarebbe smesso di invidiare i signori istruiti per il loro sapere raro e il popolo avrebbe abbandonato la sua condizione volgare. Il realismo tende a superare4 la condizione sacerdotale degli istruiti e quella volgare5 del popolo, e pertanto deve oltrepassare l’umanismo. Iniziò in tal modo il ridimensionamento delle forme classiche dell’antichità, e con esse nello stesso tempo la signoria-autorità perdette la sua aura. Il tempo si erge contro il rispetto tradizionale verso l’erudizione, come in generale si rivolta contro ogni specie di rispetto.

Bisognava che il vantaggio essenziale degli eruditi, la formazione generale, giungesse a beneficio di tutti. Ci si può chiedere cosa sia la formazione generale se non, in termini triviali, la capacità di «potere parlare di tutto», o, più seriamente, di padroneggiare qualsiasi argomento. Ci si rendeva conto che la scuola era in ritardo sulla vita, non solo perché si teneva distante dal popolo, ma perché subordinava la formazione generale a vantaggio di una esclusiva, evitando già nella scuola di istruire sul quel concreto materiale che la vita ci presenta continuamente. La scuola, si pensava, ha proprio da porre le linee fondamentali della nostra riconciliazione con ciò che la vita presenta, e ha da preoccuparsi che nessuno degli strumenti di cui abbisogniamo nella vita ci sia totalmente estraneo e al di fuori del nostro potere. È quindi con maggiore serietà che si tentò di familiarizzarsi con le cose e le relazioni del presente, cercando una regola pedagogica da applicarsi a tutti (p.81), perché questa potesse soddisfare le esigenze di ciascuno, nel proprio tempo e nel mondo. È così che in ambito pedagogico i principi fondamentali dei diritti dell’uomo ottennero vita e realtà: l’uguaglianza, poiché quel tipo di formazione andava a riguardare tutti, e la libertà, perché si diveniva consapevoli di ciò che occorreva per la vita, e ci si rendeva indipendenti e autonomi.

D’altronde afferrare il passato, così come insegna l’umanismo, e cogliere il presente, così come si prefigge il realismo, conduce entrambe solo a dominare la dimensione temporale. Eterno è solo lo spirito, in quanto comprende se stesso. In questo modo uguaglianza e libertà prendevano solamente un posto secondario. Certo, era possibile diventare l’uguale degli altri e liberarsi della loro autorità; ma in questo principio, dell’uguaglianza con sé e per sé, dell’equilibrio e della riconciliazione della nostra umanità temporalmente condizionata e di quella eterna, della trasfigurazione della nostra naturalità in spiritualità, in breve dell’unità e dell’onnipotenza del nostro Io che è sufficiente a se stesso – perché non permette a nulla di estraneo di esistere al di fuori di sé – di tutto ciò si poteva trovare appena una sentore. E propriamente si scambiava la libertà per indipendenza nei confronti delle autorità, ma questa libertà vieppiù svuotata di autodeterminazione, che non conduceva a nessuno di quegli atti in cui si riconosce l’umanità libera in sé, l’autoaffermazione di una completa irrispettosità – cioè un limpido spirito liberato dalle fluttuazioni della riflessione. L’istruito formalmente non poteva più affacciarsi e dominare liberamente sullo specchio marino della formazione generale, e la sua «formazione superiore» diventava una «formazione specializzata» (cosa che non limitava naturalmente il suo innegabile valore, perché ogni formazione generale è destinata a diffondersi nelle branche particolari più diverse della formazione. specializzata); quello che solo era designato nel Nome del Realismo non poteva più porsi superiore all’uguaglianza (p.82) con gli altri e alla libertà degli altri e il suo valore non superava quello dei cosiddetti “uomini comuni”6. Senza dubbio non poteva sfuggire alla sconfitta la vuota eleganza dell’umanista, del dandy, ma sul vincitore solo spiccava la ruggine della materialità, egli era niente di diverso da un industriale privo di buongusto. Dandysmo e industrialismo si disputavano i favori dei nostri cari fanciulli e ragazze, e spesso cambiavano in modo seducente le loro abitudini: il dandy inalberava un rude cinismo, mentre l’industriale indossava una biancheria candida. Certamente il legno verde dei bastoni dei nostri industriali romperebbe facilmente il legno secco delle canne dei nostri dandy effeminati, ma legno vivo o legno morto, il legno tale resta e, quando deve bruciare la fiamma dello spirito, il legno deve prendere fuoco.

Comunque, se è in grado di accogliere in sé il buono dell’umanismo (non gli neghiamo questa capacità), perché il Realismo deve egualmente perire? Esso può certo assimilare ciò che l’umanismo ha d’indiscutibile e di vero: l’istruzione formale, che ha ora un metodo di assimilazione assai più semplice grazie alla diffusione del metodo scientifico e al trattamento razionale di tutte le materie d’insegnamento (ad esempio, voglio attirare l’attenzione sui contributi forniti da Becker alla grammatica tedesca); attraverso tale raffinamento esso riesce a fare sloggiare il suo avversario dalla sua solida posizione. Partendo realismo e umanismo da un punto comune, cioè che ogni educazione ha un obbiettivo, di fare ottenere all’uomo versatilità, tutti e due concordano nel ritenere, per esempio, che bisogna conoscere a fondo tutte le contorsioni idiomatiche e tutte le finezze delle dimostrazioni matematiche, che cioè si debba giungere ad una piena maestria nel maneggiare la materia. (p.83) In questo modo lo stesso Realismo finirà inevitabilmente per prendere come obbiettivo ultimo la formazione del gusto e darà la priorità all’attività formale, com’è di già in corso di realizzazione. Infatti nell’educazione ogni materia insegnata ha propriamente valore in questo senso, solo se cioè quello che i fanciulli imparano, iniziano ad adoperarlo. Ebbene, così come vogliono i realisti, sarebbero da inculcare solo le conoscenze utilizzabili e adoperabili: l’uso solo deve essere da ricercare nell’aspetto formale, nella generalizzazione, nella rappresentazione, e non si possono mai cancellare tali esigenze umaniste. Gli umanisti hanno ragione quando pretendono che questo vantaggio deriva prima di tutto da una istruzione formale, ma sbagliano non trovandola nel dominio di ciascuna materia; i realisti hanno ragione a volere che si affrontino a scuola tutte le materie, ma sbagliano a non voler considerare l’istruzione formale come fine prioritario. Se evidenzia una giusta abnegazione e non si lascia distogliere dalle seduzioni materialiste, il realismo può arrivare a superare il suo avversario e contemporaneamente a riconciliarsi con esso. Come mai allora gli siamo ancora ostili?

Ma il Realismo getta via davvero la scorza dei vecchi principi, è all’altezza dei tempi? Questo è tutto da valutare, che faccia proprie le idee che l’epoca ha conquistato più caramente, oppure che le segua stentatamente. Bisogna considerare l’insormontabile paura che fa indietreggiare i realisti davanti alle astrazioni e le speculazioni, e voglio qui citare alcuni passi del lavoro di Heinsius che, su questo punto, non lascia passare niente ai realisti più intransigenti,(p.84) e mi risparmia di riportare le citazioni di questi, che sarebbero risultate facili da fornire . A pagina 9 scrive: «Si sente parlare negli istituti d’insegnamento superiore dei sistemi filosofici della Grecia, di Aristotele e di Platone, ed anche dei moderni, beninteso, e di Kant che ha presentato come indimostrabili le idee di Dio, di libertà, d’immortalità; di Fichte , che ha legittimato l’ordine del mondo morale al posto del dio incarnato, di Schelling, di Hegel, di Herbart, di Krause e di tutti coloro che vogliono essere considerati degli scopritori e degli araldi di sovrumana saggezza. Ma cosa mai dovremmo avere a che fare, si dice, cosa dovrebbe avere a che fare l’identità tedesca 7 con i miraggi idealistici, che non appartengono né all’ambito della vita pratica né alle scienze positive ed empiriche, e non portano alcun rispetto allo Stato? Cosa si dovrebbe avere a che vedere con una intuitività oscura, che scompiglia lo spirito dei tempi, che conduce all’incredulità ed all’ateismo, che divide gli animi, che fa scappare gli studiosi stessi dalle cattedre d’insegnamento del loro apostolato, così come rende oscura la nostra lingua nazionale, poiché converte i concetti più limpidi del sano intelletto umano in oracoli mistici? E sarebbe questa la saggezza che dovrebbe fare dei nostri giovani degli brave persone morali, di soggetti razionali pensanti, degli onorevoli cittadini, degli utili e valenti lavoratori, sposi amorevoli e padri solleciti attenti al benessere familiare?» E a p.45: «Consideriamo la filosofia e la teologia che sono state elevate al rango di scienze del pensiero e della fede, per il bene universale: che cosa sono diventate queste a causa delle loro reciproche polemiche dopo che Lutero e Leibniz ebbero spianato la strada,? Dualismo, materialismo, idealismo, supernaturalismo, (p.85) razionalismo, misticismo e tutti quelli che vogliono essere gli altri astrusi «ismi» di astratte ed esaltate speculazioni e sentimenti : che cosa hanno apportato per il bene dello Stato, della Chiesa, delle arti, della cultura nazionale? Il pensiero e il sapere hanno certamente allargato il proprio campo d’azione, ma questo si è reso più chiaro, e quello è divenuto più certo? La religione si è epurata nel suo assetto dogmatico, ma il credo soggettivo è divenuto più confuso, indebolito, spezzato nei propri sostegni interni, scosso dal pensiero critico e dall’ermeneutica testamentaria, oppure si trasforma in fanatismo e in una farisaica esibizione di santità. E la Chiesa? La sua vita è : divisione oppure morte. Non è forse così?» Per qual motivo i realisti si sentono così maldisposti nei confronti della filosofia? Perché disconoscono il loro peculiare compito e con tutto il loro potere vogliono restare nel proprio universo limitato invece di renderlo illimitato! Perché odiano le astrazioni? Perché sono essi stessi degli esseri astratti, perché essi stessi si astraggono dal proprio compimento, dall’evoluzione verso la verità liberatrice!

Vorremmo per caso mettere la pedagogia nelle mani dei filosofi? In nessun caso! Essi si comporterebbero molto maldestramente. Si affiderà la pedagogia a coloro che sono più che filosofi, quindi infinitamente più che umanisti o realisti. Questi ultimi vedono giusto presentando il declino dei filosofi, ma non hanno il minimo sentore della resurrezione che seguirà al loro tramonto: essi si astraggono dalla filosofia per giungere senza di essa allo stesso Regno dei fini, la scavalcano e… cadono nell’abisso della propria vacuità; come l’Ebreo errante sono immortali ma non sono eterni. Solo i filosofi possono morire (p.86) e trovare nella propria morte il proprio autentico Sé. Con essi finisce il periodo della Riforma, l’età del sapere. Si, in realtà, lo stesso sapere deve morire per rifiorire, con la propria morte, come volontà. Le libertà di pensiero, di fede e di coscienza, questi fiori meravigliosi di tre secoli, si nascondono nel grembo della terra per nutrire con la loro preziosa linfa una nuova libertà, la libertà della volontà. Sapere, avere la libertà di sapere, questo era l’ideale di quell’epoca, finalmente raggiunto all’apogeo della filosofia. Adesso l’eroe deve erigere da sé il proprio rogo e conquistare la propria porzione d’eternità nell’Olimpo. La filosofia chiude dietro di sé il passato ed i filosofi sono i Raffaello dell’età del pensiero; grazie ad essi, il vecchio principio si compie in una splendente sontuosità cromatica e attraverso questo ringiovanimento diviene eterno, da temporalizzato che era. Da qui in poi, chi vuole custodire il sapere lo perderà; chi però lo abbandona, lo conquisterà. Solo i filosofi sono adatti a questa rinuncia e a questa conquista: stanno di fronte al fuoco fiammeggiante, e devono come l’eroe morente bruciare il loro involucro mortale affinchè venga liberato lo spirito imperituro.

Ciò occorre che divenga quanto più comprensibile possibile. È precisamente qui che risiede l’errore dei nostri tempi: non condurre il sapere al suo compimento e alla sua evidenza; farlo restare una elemento materiale, formale e positivo, cercando di innalzarsi senza di esso verso le cose assolute, perché esso ci pesa addosso come un fardello. Come gli antichi, si deve desiderare l’oblio, si deve bere l’acqua dell’inebriante Lete: oppure non si giungerà ad esso. Tutto quello che è grande deve imparare a morire e rivelarsi attraverso la propria presenza: solo (p.87) il miserabile ammucchia documenti su documenti, simile all’irrigidito tribunale della Camera suprema dell’Impero, e gioca i millenni di storia come graziose figurine di porcellana, con l’eterna puerilità dei Cinesi. Il sapere autentico trova il proprio compimento cessando di essere sapere e ridiventando un semplice istinto umano: la volontà. Così, ad esempio, colui che ha riflettuto per anni sulla propria «compito umano» immerge in un istante nel Lete di un sentimento unico, tutte le preoccupazioni, le peregrinazioni della sua ricerca, in un istinto che da allora lo guiderà e in cui ha trovato il suo compito. Questa «compito dell’umanità», di cui seguiva le tracce lungo mille cammini, mille sentieri lo getta, non appena ne è divenuto consapevole, nella fiamma della volontà morale , e riscalda il petto dell’uomo che non si perde più nella ricerca, ridiventato nuovamente fresco e naive:

 

Su, o discepolo, immergi dunque immantinente
Il tuo petto mortale nella rosea aurora

È là la fine e, nello stesso tempo, l’intramontabilità ed eternità del sapere. Diventato immediatamente semplice e diretto, il sapere, sotto una nuova forma, si manifesta e si ricrea come volontà in tutte le nostre azioni. La volontà non ha naturalmente l’importanza che vorrebbe farci credere la gente pratica: noi non abbiamo il diritto di passare al di sopra della volontà del sapere per essere subito in grado di volere, perché il sapere, al contrario, si compie in volontà quando sfugge ai sensi e si crea come spirito che «si costruisce il proprio corpo». Per conseguenza, i limiti della temporalità,8 la formalità e la materialità, il dandysmo e l’industrialismo sono legati a quei modelli di educazione, che non vanno verso questa morte e questa Assunzione del sapere.(p.88) Il sapere che non si purifica né si concentra in modo tale da trascinare verso il volere, o, in altre parole, che pesa su di me solo come un avere o un possesso, completamente opposto all’essere complementare a me – in modo tale cioè che l’Io libero nel movimento, non disturbato da alcun “avere” a rimorchio, possa percorrere il mondo con rinnovati significati – questo sapere che non è mai diventato personale, fornisce una ben povera preparazione alla vita. Così non si vuole lasciarlo giungere all’astrazione attraverso cui , peraltro, avviene la vera consacrazione del sapere concreto ; infatti la materia viene uccisa realmente da essa, e trasformata in spirito, accordando all’uomo l’ultima e autentica liberazione. Solo nell’astrazione vi è la libertà: l’uomo libero è soltanto colui che ha conquistato ciò che ha acquisito e ricondotto assieme nell’unità del suo Io quello che ha tratto da sé in modo saggiamente problematico.

E’ la tensione storica9 del nostro tempo, quella che, dopo avere conquistato la libertà di pensiero, intende condurla a compimento come libertà di volontà, per realizzarla come il principio di una nuova epoca; in tal modo il fine ultimo dell’educazione non può più essere il Sapere, ma il Volere nato dal Sapere e la relativa espressione usata nel parlato, per indicare ciò verso cui l’educazione si è protesa, è: l’uomo personale o libero. La stessa verità dell’uomo non è altro che la rivelazione del proprio sé e a ciò appartiene la dimensione della scoperta di se stesso, la liberazione da tutto quello che è estraneo, l’estrema astrazione ovvero il distacco da ogni autorità, l’innocenza riconquistata. La scuola non forma la vera umanità, (p.89) ; se malgrado tutto esistono uomini del genere è nonostante la scuola. In realtà, la scuola ci consente di signoreggiare le cose e in tutti i modi anche di padroneggiare la nostra natura: ma essa non ci compie come nature libere. Non esiste sapere, per quanto vasto e profondo sia, né vivacità di spirito e perspicacia, né finezza dialettica che possa preservarci dalla volgarità del pensiero e della volontà. Non è certo merito della scuola se noi ne usciamo senza portare con noi il suo egoismo. Tutte le forme della vanità legata all’interesse personale, tutte le forme della cupidigia, di corsa agli impieghi, di sottomissione meccanica e servile, di carrierismo10 riguardano tanto il modello di sapere allargato quanto quello dell’elegante formazione classica, e poiché l’intero insegnamento non esercita alcuna influsso sul nostro comportamento morale, è fatale che lo si dimentichi spesso, in quanto non è stato adoperato: si scuote via così la polvere della scuola. E tutto ciò perché la formazione viene perseguita solo nell’aspetto formale o nel materiale o al massimo nella coniugazione dei due, ma non nella ricerca della verità, non nell’educazione di uomini veri. I realisti compiono senz’altro un progresso quando dichiarano che l’alunno deve cercare e capire ciò che studia. Così Diesterweg, per esempio, sa parlare a lungo del «principio del vissuto». Solo che anche qui non è ancora la verità l’oggetto del sapere; piuttosto ci sono delle conoscenze positive date (tra cui si conta anche la religione), che lo studente finisce per mettere in corrispondenza e in collegamento con la somma delle sue altre conoscenze positive, senza che ciò gli faccia superare in alcun modo la stolidità del vivere e dell’intuire; è privo così del tutto dello stimolo, conquistato in virtù dell’intuizione individuale, di continuare a lavorare con lo spirito, e di produrre da esso (cioè speculativamente) ciò che suole (p.90) così spesso essere definito “pratico”, cioè essere ed operare eticamente .

Al contrario, ci si contenta di educare gente intelligente , ma non è propriamente previsto formare uomini razionali.11 Capire le cose, le acquisizioni culturali, e può bastare così; non appare invece essere cosa di tutti quella di interrogare se stessi. Così si segue il significato della conoscenza positiva, nella sua parte formale e contemporaneamente in quella materiale, e ciò insegna: conformarsi al “positivo”. In pedagogia, come negli altri ambiti noti, la libertà non fa breccia, l’energia dell’opposizione non viene lasciata esprimersi: si vuole solo sottomissione. Viene perseguito solo il raggiungimento di abilità di computo formale e materiale: dal serraglio degli umanisti non escono che degli istruiti, da quelle dei realisti non escono che “utili cittadini” e, in tutt’e due i casi non si ottiene nient’altro che se non uomini sottomessi. Il nostro sano fondo naturale di primitività viene soffocato con la forza con esso lo sviluppo del sapere verso la libera volontà. Alla fine il risultato della vita scolastica è il filisteismo. Come da bambini ci siamo trovavamo ad abituarci a tutto ciò che ci veniva fornito, così ci troviamo e ci conformiamo piè tardi nella “vita positiva”, ci conformiamo al nostro tempo, ne diventiamo i buoni servitori e i cosiddetti bravi cittadini . Dove si può rafforzare lo spirito di opposizione, al posto di quella sottomissione che è stata alimentata fino ad oggi? Dove si educano degli uomini creatori al posto di uomini che studiano? Dove il maestro si trasforma nel collaboratore e riconosce che il sapere deve rovesciarsi in volontà, e dove l’umanità libera vale come fine, e non ciò che viene ottusamente formato? Purtroppo finora questo si trova in ben rari luoghi. Ma ci si renderà conto sempre che la più alta missione dell’uomo non è quella della formazione, della civilizzazione, bensì di tendere alla propria autoaffermazione (p.91). Ma in questo modo la formazione non verrebbe ad essere abbandonata? Non più di quanto siamo disposti a perdere la nostra libertà di pensiero, lasciandola risolversi e sublimarsi nella libertà della volontà. Non appena l’uomo s’impegna a sentirsi, a conoscersi, a realizzarsi – sia nel sentimento che nella coscienza di sé e nella libertà, egli si forza di mettere fine alla sua insipienza, perché quest’ultima, in quanto oggetto estraneo, costituisce un ostacolo, una barriera alla conoscenza di sé. Se l’idea della libertà si sveglia nell’uomo, una volta libero egli non cessa di liberarsi; ma nel caso non fosse che semplicemente istruito, egli si adatterebbe alle circostanze in quanto persona altamente colta e raffinata e non sarebbe altro che un servitore dall’anima sottomessa. Che cosa sono dunque, nella maggior parte dei casi, i nostri personaggi ricchi di spirito e di istruzione? Sogghignanti mercanti di schiavi, schiavi essi stessi.

I realisti possono gloriarsi di un superiorità: essi non formano gente soltanto colta, ma cittadini dotati di capacità di capire e utilizzabili. In effetti, la loro parola d’ordine: «si insegna tutto ciò che deve potersi rapportare alla vita pratica», potrebbe servire da motto al nostro tempo, se soltanto non intendessero coi termine di vita pratica l’accezione volgare della parola. La vera pratica non consiste nel farsi strada nella vita e il sapere vale di più dell’uso che se ne può fare per raggiungere obiettivi pratici. La più alta praxis è propriamente quella che rivela l’uomo libero a se stesso e il vero sapere- che sa di dover morire – è la libertà che la vita dona.

”La vita pratica!” Con ciò si crede avere detto tutto, ma gli stessi animali conducono una vita davvero pratica, fin dal momento in cui la madre (p.92) le ha svezzate dalla loro condizione teorica di lattanti, e le bestie o cercano per istinto il loro nutrimento nei campi e nel bosco, oppure vengono attaccate al giogo, di una occupazione. Scheitlin , specialista della psicologia animale, spinge ancora più lontano il paragone, fino al dominio della religione, come si può vedere nella sua «Psicologia degli animali», opera in effetti molto istruttiva, precisamente perché riconduce così vicino l’animale all’uomo civilizzato e l’uomo civilizzato all’animale. Questa preoccupazione di “educare per la vita pratica abbisogna solamente di gente di sani principi, che opera e pensa secondo massime, ma non di uomini che hanno principi: spiriti rispettosi delle leggi, non spiriti liberi. Gli uomini la cui totalità di pensiero e di azione viene animata da un continuo movimento e da rinnovamento, sono molto diversi di quelli che restano fedeli alle loro convinzioni. Le convinzioni stesse rimangono immobili, non pulsano affatto come il sangue rinnovato che passa attraverso le arterie verso il cuore, si irrigidiscono come corpi inerti, ed anche se sono conquistate – e non apprese dallo studio -, sono soltanto “acquisizioni positive” e oltretutto valgono come qualcosa di santo. Così l’educazione realista può formare benissimo caratteri forti, solidi e ben temprati, uomini incrollabili, cuori fedeli, e ciò è un inestimabile guadagno per la nostra generazione di carrieristi. Solamente che i caratteri eterni – la cui solidità permane attraverso il flusso incessante della propria continua opera di auto-creazione – che sono eterni proprio perché si fanno da sé in ogni istante, perché la temporalità di ogni loro manifestazione si fonda sulla spontaneità, mai sfiorita né invecchiata, e sulla condizione creatrice del loro spirito eterno, questi caratteri non provengono da questo tipo di educazione. Il cosiddetto carattere sano,(p.93) è nel migliore dei casi spesso solo un carattere rigido: se vuole divenire compiuto, occorrerà che divenga contemporaneamente un sofferente, palpitante e fremente nella santa Passione di un incessante rinnovamento e di rinascita.

Così tutte le educazioni convergono verso un unico punto centrale: la personalità. Il sapere, per quanto sia erudito e profondo, ampio ed intellegibile, resta solo un possesso ed una proprietà, fin quando non sarà insieme svanito nel punto invisibile del nostro Io, e da qui per riaffermarsi come volontà, come spirito trascendentale ed indeterminabile, onnipotente. Il sapere compie questa trasformazione se cesserà di riferirsi ai soli oggetti della conoscenza, e diverrà sapere di se stesso, o, se ciò sembrerà più chiaro, un sapere dell’Idea, una autocoscienza dello spirito. Allora egli si converte per così dire nella pulsione, in istinto dello spirito, in un sapere privo di coscienza, di cui ciascuno può darsi una rappresentazione appena lo si compari a ciò, a quante e ampie esperienze vengono sublimate da noi stessi in quel semplice sentimento che viene chiamato tatto: tutto il sapere esteso proveniente da quelle diverse esperienze viene concentrato in un sapere istantaneo, con cui egli decide in un battibaleno il suo operare. Ma per giungere a questa immaterialità, il sapere deve sacrificare la sua parte mortale e diventare immortale -volontà.

Questa la situazione a grosso modo in cui giace la miseria della nostra educazione dei giorni nostri, il fatto che il sapere non si è orientato a diventare volontà, ad affermazione di sé, a giungere alla pura Praxis. I realisti hanno sentito questo bisogno e sono venuti pietosamente in soccorso, formando gli «uomini pratici» privi di idee e non liberi. La maggior parte (p.94) dei futuri insegnanti sono la prova vivente di questa triste tendenza. Mutilati della visione del sublime, sono loro adesso a mutilare; addestrati, tocca a loro ora addestrare. Ma ogni tipo di educazione deve divenire personale, e propriamente avere sempre davanti agli occhi l’essenza proveniente dal sapere, vale a dire che esso non deve essere un possesso, bensì l’essere l’Io- se stesso. In una parola, non bisogna tanto formare il sapere, quanto occorre che la persona giunga da sé al proprio pieno dispiegamento; la pedagogia non può più andarsene verso l’idea del civilizzare, ma verso la piena formazione di persone libere, caratteri sovrani; e pertanto occorre dunque smettere di indebolire la volontà, fino ad oggi sempre così brutalmente schiacciata. Se non si vuole indebolire l’istinto di sapere, perché allora si indebolisce l’istinto di volontà? Se si ha cura dell’uno, così si abbia cura anche dell’altro. La testardaggine e inciviltà infantile ha tanto la sua ragion d’essere quanto quella dell’infantile desiderio di sapere. Quest’ultimo si pretende che venga stimolato; che si richiami allo stesso modo anche la forza naturale della volontà, l’opposizione. Se il fanciullo non impara a sentirsi12, è chiaro che egli non apprende la cosa più importante. Che non si schiacci il suo orgoglio, il suo coraggio naturale. La mia specifica libertà resta sempre al riparo della sua arroganza. Infatti quando l’orgoglio degenera in ostinazione, allora il fanciullo vuole farmi violenza; io non ho bisogno di sopportare tutto ciò, dato che sono un essere libero, tanto quanto il fanciullo. Ma, per difendermi occorre che mi metta al riparo della forza di difesa armata dell’autorità? No, io gli opporrò la durezza della mia specifica libertà, e l’ostinazione del piccino si frantumerà da sé. Colui che è un uomo completo non ha bisogno di essere un’autorità. E se il coraggio naturale del fanciullo degenera in insolenza, questa perderà la propria energia davanti al morbido potere di una vera femminilità, alla sua sensibilità materna, ma anche (p.95) davanti alla fermezza maschile. È veramente debole colui che deve chiedere aiuto all’autorità, e ben colpevole colui che crede di correggere l’insolente terrorizzandolo! Esigere la paura e il rispetto, questi sono i principi che appartengono al defunto periodo stile rococò.

Di cosa ci lamentiamo infine quando prendiamo in esame i difetti della nostra formazione scolastica contemporanea? Del fatto che le nostre scuole si basano ancora sul vecchio principio del sapere privo di volontà. Il principio giovane è quello del volere, quale sublimazione del sapere. Quindi, nessun «concordato tra la scuola e la vita», ma che la scuola sia vita e che là, come altrove, il suo compito sia quello dell’autorivelazione della persona. La formazione generale dispensata dalla scuola deve essere una formazione per la libertà e non per la sottomissione: essere liberi, è questa la vita vera. Uno sguardo sulla carenza di vita dell’umanismo avrebbe dovuto spingere il realismo verso questa consapevolezza. Ma nonostante si riconoscesse alla formazione umanista il difetto di ogni attitudine alla cosiddetta vita pratica (del cittadino13, non della persona), si ritornava, per opposizione ad una formazione meramente formale, verso una formazione materiale, nel convincimento che attraverso la comunicazione di una materia utilizzabile nelle relazioni, non solo si sarebbe sorpassato il formalismo, ma si sarebbero soddisfatte le necessità più importanti. Solo che la formazione pratica resta ancora assai lontana da quella libera e personale: quella insegna il talento di lanciarsi nella vita, questa invece fornisce la forza di fare scaturire da sé la scintilla della vita; quella prepara a trovarsi a casa propria in un mondo dato, questa insegna a sentirsi in casa propria in se stessi. Noi non possiamo esprimere (p.96) ancora tutto ciò quando ci muoviamo come utili membri della società, ma possiamo farlo compiutamente quando perveniamo propriamente a ciò, se siamo cioè persone libere, autocreatrici – che ci produciamo da noi stessi.

Dunque la libertà della volontà è l’idea e la protensione del tempo nuovo, e così occorre che la pedagogia abbia davanti gli occhi, come principio e come fine, la formazione della personalità libera. Umanisti e realisti si sono arrestati ancora davanti al sapere e nel migliore dei casi si preoccupano del libero pensiero e fanno di noi, in nome di una liberazione teorica, dei liberi pensatori. Tuttavia il sapere non rende liberi che interiormente (libertà alla quale non bisognerà per altro rinunciare mai più), ma per tutte le forme di libertà di coscienza e di pensiero possiamo pure restare esteriormente schiavi, restare nella umiliazione. E pertanto la libertà esterna è precisamente per il sapere ciò che la vera e interiore libertà è per la volontà, la libertà morale. Così è nella formazione universale, dove il più umile incontra sullo stesso piano il più elevato, che troviamo la vera uguaglianza di tutti, l’uguaglianza delle persone libere: soltanto la libertà è uguaglianza.

Se si necessita di un nome, si può parlare di moralisti (die Sittlichen: parola esclusivamente tedesca) che si pongono al di sopra degli umanisti e dei realisti, in quanto il loro obiettivo finale è la formazione morale. Senza dubbio si obietterà subito che essi vorranno insegnarci ancora le leggi morali positive e che, in fin dei conti, si tratta di quello che si è prodotto fino ad oggi. Ma che sia andata così fino ad ora, io proprio non lo penso, e il voler vedere risvegliarsi la forza dell’opposizione , l’autentica volontà non schiacciata bensì trasfigurata, tutto ciò penso che possa illustrare la differenza con il passato. Vorrei mostrare quello che separa l’esigenza qui formulata dagli sforzi più meritori (p.97) degli idealisti, e per esempio da quello che reclama Diesterweg a p.36 del suo «programma» recentemente pubblicato: «E’ la mancanza di formazione del carattere vi è la debolezza delle nostre scuole, come quella della nostra educazione in generale. Noi non formiamo alcun modo di pensare14morale.» Perciò direi piuttosto che noi abbiamo bisogno ormai di una educazione personale (e non di imprimere un modo di pensare morale). Per qualificare quelli che seguono questo principio, e si denominano con un vocabolo in «isti», suggerisco di usare la parola personalisti.

Per ritornare ancora a Heinsius, l’ «ardente desiderio che ha l’identità nazionale di vedere la scuola legata strettamente alla vita» si realizzerà solo se si troverà la vita reale nel compimento della piena personalità, indipendenza e libertà: in effetti, chi tende verso questo fine, non rinnega nulla di ciò che l’umanismo e il realismo hanno di buono, ma li eleva e li nobilita ambedue infinitamente. Il punto di vista nazionale adottato da Heinsius non si può neppure ritenere corretto, in quanto lo può essere pienamente solo quello personalista. Soltanto I’ uomo libero e avente una personalità è un buon cittadino (per i realisti) e, anche per la cultura scarsamente specializzata,(erudita, artistica o altro) egli può giudicare con buon gusto (per gli umanisti).

Se concludendo si vuole esprimere brevemente il fine verso cui si orienta la nostra epoca, bisogna riassumerlo col necessario tramonto della scienza priva di volontà e l’avvento della volontà autocosciente, che si compie al sole splendente della personalità libera, scaturendo nel modo seguente: il sapere dovrà morire per rinascere come volontà e ogni giorno prodursi nuovamente come libera personalità.


Tr. it. di Andrea Felis

NOTE:
1 Diamo da qui in poi l’indicazione progressiva delle pagine dell’edizione tedesca, per il Lettore che intendesse verificare sul testo in lingua il pensiero dell’Autore. [NdT]
2 Il termine Bildung rinvia tanto al significato culturale del concetto quanto alle sue implicazioni pedagogico-educative: in questa prospettiva ci pare sia preferibile tradurlo con formazione, termine non solo letteralemente corretto ma soprattutto concettualmente aperto ad entrambi i lati del significato. [NdT]
3 L’autore usa qui il termine Verstand, le cui implicazioni gnoseologiche e pedagogiche risultano evidenti: lo rendiamo qui come “riflessione” per distinguerlo dal termine Verstaendnis-comprensione e dal termine Kenntnis-conoscenza, usato poco sotto. [NdT]
4 “Aufzuheben”, richiama esplicitamente la figura del superamento-compimento dialettico hegeliano
5 “Priesterstand” e “Laienstand”, letteralmente “sacerdozio” e “laicato”, noviziato
6 “praktische Menschen”
7 L’Autore usa il termine “Nation” in un contesto non politico, bensì culturale.
8 “Zeitlichkeit”, dimensione temporale, termine ben noto al linguaggio fenomenologico, di cui abbiamo utilizzato la traduzione più usata (temporalità) per rendere il significato esistenziale che per Stirner riveste tale accezione del concetto tempo; si ricorderà che il suo corrispettivo “inautentico” nel linguaggio fenomenologico ed esistenziale è quello della “Zeitigkeit”, la dimensione temporalizzata, oggettivata.
9 L.A. usa il termine “Drang”, ricco di sfumature dialettiche romantiche e storiche: tensione, tendenza storica, movimento del reale [NdT]
10 “Acsheltraegerei”, testualmente “portatore di spalline”
11 “verstaendige Leute” contrapposta a “vernuenftige Menschen”
12 “sich fuehlen”, avere sentimento di sé [NdT]
13 “buergerlich”, nel doppio significato di cittadino e borghese [NdT]
14 Gesinnung, inteso nel suo significato di carattere morale dell’individuo, distinto da Charakter, che designa l’aspetto personale (in senso stirneriano) dell’individuo [NdT]