L’occhio del padrone
La prigione moderna prende sempre di più a prestito dalle «norme di vita» della società civile. Lavoro salariato e tempo libero, sport e, da poco, parlatori «coniugali» si sono installati durevolmente nel microcosmo penitenziario, come altrettante carote di cui fa uso l’amministrazione — d’altronde sempre pronta a brandire il suo duro bastone: torrette d’osservazione, manganelli, galera.
Dietro l’apparenza di considerazioni umanitarie, i carcerieri intendono soprattutto raffinare i metodi di controllo negli edifici che «gestiscono», pianificando in tal modo le condizioni di sopravvivenza dei carcerati. L’esempio della generalizzazione dei televisori nelle celle a metà degli anni 80 è a questo proposito particolarmente eloquente. Il dilagare di immagini ipnotiche ed il rumore (babele mediatica, canzonette inette, telefilm indistinti quanto edificanti, giochi non ludici, tonitruanti elogi della merce) che produce il televisore hanno rivelato di rimediare in qualche modo ai potenziali inconvenienti di questi strumenti della comunicazione, che è stata a lungo l’ossessione viscerale dei carcerieri così come dei governanti. Ora anche i più ottusi fra i secondini hanno finito col capire i vantaggi nel servire la vinaccia della propaganda mercantile in guisa di nettare della comunicazione. Ai giorni nostri, chi può ancora ignorarlo? il silenzio delle pantofole è un garante dell’ordine più sicuro del rumore degli stivali…
Ma se la prigione è sempre di più la parodia della società, è perché in un inquietante movimento convergente la società — nel suo spazio pubblico come nei suoi luoghi privati — assomiglia ormai così tanto ad una vasta prigione da trarre in inganno: magazzini sotto alta sorveglianza, alloggi di tipo cellulare nelle città operaie, videosorveglianza delle strade, pattuglie di sbirri della stessa risma che suddividono i quartieri, spionaggio discreto o palese delle “risorse umane” da parte dei gestori, e più in generale la disumanizzazione utilitarista delle condizioni d’esistenza che tanto ha imparato perfezionando i regimi carcerari — ed il cui segreto come il metodo operativo sono la paranoia.
L’architettura carceraria è una cristallizzazione caratteristica e centrale di quel delirio morboso che moltiplica gli ostacoli alla vita e le separazioni tra viventi: le prigioni moderne sono state spesso concepite da architetti “sociali” e integrate nel deserto di cemento delle periferie da urbanisti alquanto polizieschi. Il principio del panopticon, immaginato, come d’uso delle prigioni del XVIII secolo, da razionalisti borghesi, si è anzitutto esteso alle fabbriche prima di contaminare lo spazio pubblico e poi l’habitat. L’occhio del padrone — sia questo datore di lavoro o governo — esige da lunga data di essere ovunque e l’intrusione generalizzata delle tecnologie digitali gliene offre attualmente la possibilità, mentre l’apatia affetta da amnesia degli schiavi favorisce come mai prima i diversi progetti di addomesticazione assoluta.
L’invenzione della giustizia, della polizia e della prigione moderna nel secolo dei «lumi» non aveva come solo motivo la razionalizzazione del trattamento delle deviazioni sociali e dei metodi di coercizione. I suoi ideatori intendevano, con Bentham, disegnare un modello di spazio-tempo proprio alla dittatura democratica dell’economia fornendo allo Stato una potente arma contro i refrattari al paradiso mercantile — uno strumento di Diritto, questa mediazione tra ricchi e poveri che rende perenne l’ineguaglianza sociale. Non si trattava tanto, per i potenti, di farsi temere — castigare e dissuadere — quanto di stabilire delle strutture integrative dei poveri nel mondo del lavoro alienato e di assicurare la loro abnegazione.
I grandi regimi totalitari del XX secolo, avendo preso il potere per gestire con mano di ferro la crisi in cui si trovava il capitalismo prima della guerra, hanno naturalmente spinto questa logica di Stato-penitenza e di società-prigione fino al terrore assoluto: la carcerazione di massa e la sbirraggine generalizzata. I loro dirigenti, i quali si ispirano alle potenze coloniali «illuminate» che avevano immaginato le forme moderne della deportazione del secolo precedente, si distinguono innanzitutto per la delirante esacerbazione del loro spirito poliziesco.
Attualmente si assiste a una deriva paragonabile nelle così virtuose democrazie occidentali, a cominciare dalla più ricca e libera, la più potente e la più esemplare fra di esse: gli Stati Uniti, dove i tassi di imprigionamento sono sul punto di superare quelli della Russia, a lungo campione incontestato in materia di repressione di massa. È nella patria di Jefferson e Lincoln che imperversano i promotori puritani e populisti della «tolleranza zero» per i «delitti-prototipo» — nella patria di Montesquieu, alcuni parlano più volentieri di «inciviltà» — il cui ventaglio è infinito, e tutto ciò che può turbare le diverse visioni dell’ordine che hanno qui e là i padroni: così la fellatio (proibita in Alabama e in altri Stati della Bible Belt) o i graffiti (a New York) — aspettando (entro breve) la repressione penale delle bestemmie o delle tenute scollacciate. È con l’adozione di tali criteri e di una tale volontà di severità (specialmente di fronte alla diabolica «recidiva») che le prigioni americane hanno visto la loro popolazione moltiplicata per sei nel giro di vent’anni. Nella stessa logica esponenziale ed oltre questi due milioni di detenuti, otto milioni di americani sono oggi sotto controllo giudiziario, fra cui numerosi «volontari» portano «braccialetti» inamovibili che permettono la sorveglianza a distanza.
Fra parentesi, non c’è alcuna differenza fra il «guinzaglio elettronico» che è costituito dal telefonino portatile dell’impiegato medio non delinquente e le «manette elettroniche» di chi si è lasciato sedurre — si può trattare dello stesso individuo, del resto, poiché la poco costosa posa del bracciale negli Stati Uniti sanziona fin da ora degli infra-delitti come il non pagamento degli assegni alimentari o certe infrazioni al codice stradale…
Il trionfo dello «Stato di diritto» si riassume interamente nelle cifre del vertiginoso aumento del numero di detenuti in occidente — lo sradicamento del pauperismo attraverso la «purificazione sociale» (a connotazione fortemente etnica) dello spazio pubblico — e nella crescente raffinatezza delle tecniche di imprigionamento. Proprio come l’idea che ci si può fare della «felicità» dei consumatori è ammirevolmente caratterizzata dalle decine di milioni di utenti della «camicia chimica» e tutti gli altri forsennati dell’illusione tariffata. La differenza con la barbarie stalino-nazista è dunque soprattutto qualitativa: questo sterminio ammassa ai margini della società i cattivi soggetti e i mendicanti come poc’anzi si disponeva, più brutalmente e più grossolanamente, degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali o degli oppositori politici. Inoltre, questa liquidazione sociale è giusta perché è redditizia. E per chi aderisce alla logica del capitale, tutto ciò che è redditizio è giusto.
D’altronde la vera molla di questa «catastrofe umanitaria» largamente occultata non è soltanto la folle diffidenza dei porci che si abbuffano il pianeta sotto la bandiera della libertà di commercio; alla guisa dei regimi hitleriani o stalinisti generati dalla crisi, si tratta per i nostri moderni decisori di prevenire per sempre gli effetti nocivi dell’ineluttabile pauperizzazione di frange della popolazione che lo Stato post-keynesiano non vuole più assistere. Questo processo si iscrive a meraviglia nella «mercificazione» del mondo, inattaccabile (a volte sotto pena della prigione…) poiché intimamente legata, secondo l’unanime parere degli esperti e dei mediatici, alla «democratizzazione» della società mondiale. E, in effetti, si imprigiona in nome dell’ordine pubblico molto meno di prima in perdita — vale a dire a spese dei contribuenti. Lo sviluppo del tutto-carcerario, diventata una autentica industria in espansione che si spartiscono i settori pubblico e privato, ha generato in nome della logica di mercato una vasta riserva di «risorse umane»: della manodopera poco onerosa — e ben inquadrata…
Studiando le strutture dell’imprigionamento si è colpiti nel vedere fino a che punto queste, al di là della varietà delle aberrazioni arcaiche o futuriste, riproducano una logica di ostilità alla vita che trascina la società intera nello smarrimento asettico in nome della lotta contro lo smarrimento «batterico» — lo spettro della «insicurezza».
Benvenuti, dunque, in un mondo migliore, il migliore di tutti i mondi capitalisti possibili, dove la libertà non sarà più che un videogioco di alta qualità e dove la comunicazione rischia di essere ridotta definitivamente ad un esclusivo dialogo fra software: il mondo della prigione per tutti, dove il grado di rassegnazione degli uni e degli altri determinerà il regime della loro reclusione.
Tra quattro mura
«Una gabbia dorata resta sempre una gabbia. Una prigione non può essere umana,
nemmeno se ne ha l’apparenza»
Jacques Mesrine
Rinchiuso su ordine di un tiranno o per decisione di un giudice democratico, privato della sua libertà, il prigioniero non è alla fine della sua pena. La logica vorrebbe che la reclusione, castigo supremo, basti a punire il criminale. Non gli viene proibito di andare dove più gli pare, di incontrare chi vuole, di amare chi preferisce? Non si tratta della peggiore delle sentenze? Certo. Ma il potere che lo imbastiglia giudica che è ancora troppo poco. Dopo averlo sottratto, lo nasconde. La buona coscienza della società è salva, possono cominciare i regolamenti di conti. All’ombra delle fortezze dalle alte mura, tutte le bassezze sono permesse.
Nelle vecchie prigioni, quelle del passato e quelle che sono sopravvissute alle diverse modernizzazioni, il prigioniero rumina la sua solitudine come un bue. Ma deve anche sopportare una lunga serie di costrizioni che si aggiungono alla sua sventura.
Per prima cosa si baderà ad ogni cosa strettamente: il costruttore di prigioni è economo di metri quadri. Il detenuto non dovrà essere troppo illuminato: al posto di finestre, delle finestrelle. Si avrà cura di fornirgli un letto duro, preferibilmente di cemento. Il tavolo sarà fisso, sigillato nel muro. La coperta sarà unica e sporca. Il gabinetto troneggerà nel mezzo della sua sala di soggiorno perché lui stesso finisca per sentire la merda ed il piscio. Il suo cibo sarà una sbobba da vomitare il cui fetore, freddo, aleggerà giorno e notte nelle corsie. In inverno avrà freddo, in estate troppo caldo. Quanto alla “passeggiata”, sarà una marcia forzata, talvolta silenziosa, in una corte spoglia dal cielo chiuso con una grata.
Nelle prigioni moderne, la fredda asetticità dell’ospedale e la paranoica sorveglianza elettronica delle centrali nucleari hanno sostituito il sudiciume. La televisione diffonde a gara la sua propaganda ipnotica. Per il resto, non è cambiato quasi nulla. Il detenuto rimane un criceto che gira nella sua lugubre gabbia. Per impiegare il suo tempo: nulla. A volte un lavoro stupido il cui salario paga appena le sigarette.
La corrispondenza? Letta e controllata da un secondino analfabeta. Le visite? Filtrate, razionate e sorvegliate. La compagnia? Una promiscuità soffocante. In caso di sgarro: la cella di punizione, infame segreta dove il detenuto è svilito al rango di animale. Per i recalcitranti, i «detenuti particolarmente sorvegliati»? L’isolamento e la privazione sensoriale, una tortura bianca che a poco a poco distrugge il cervello.
La lista non finisce mai. Mostra comunque che ciascuna delle condizioni materiali della reclusione carceraria è una pena supplementare. Ma è tutto?
Sarebbe dimenticare il «fattore umano». Non contenti di fornire al detenuto un ambiente da ratto, lo si consegna alle guardie. Secondini, sorveglianti, agenti di custodia, guardiani… qualsiasi nome abbiano, questi individui escono dalla spazzatura della società per esercitare una sorveglianza pignola. Reclusi essi stessi, spesso a vita, per compiere questo vergognoso bisogno si arrogano tutti i diritti per vessare gli esseri che sono incaricati di guardare. Al riparo da sguardi indiscreti, avranno tutto il tempo di insultare, minacciare, picchiare, o addirittura di «suicidare» i prigionieri sottomessi alla loro odiosa riprovazione. Feccia dell’umanità, anche se non se lo confessano, essi si vendicano.
Così, la prigione non si riassume nell’ignobile pena della privazione della libertà. Essa è anche il luogo della centuplicata pena della miseria delle mura e del tormento delle guardie.
Il tempo sospeso
«La prigione è una mancanza di spazio compensata da un eccesso di tempo»
Joseph Brodsky
Prigione… Allontanamento dietro le mura, esilio dalla società, ma mostruosità partorita da questa stessa società: suo riflesso deforme, specchio delle sue miserie e delle sue tare. Tempo della miseria generalizzata, tempo di prigione. Prigione… Ultimo stadio della solitudine, condizione banale dell’uomo moderno. Tempo dell’isolamento generalizzato, tempo di prigione.
La prigione, ultimo girone dell’inferno. Centro nevralgico del dispositivo di terrore e di sottomissione di tutte le società moderne. Luogo di sperimentazione e di perpetuazione delle tecniche di sorveglianza, di gestione del bestiame umano, di castigo, gli stessi procedimenti che si ritroveranno all’opera successivamente, eventualmente addolciti, nella società fuori dalle mura. Tempo di pubblica sicurezza, tempo di prigione.
Regolarmente viene posta la questione della durata delle pene. Sempre in funzione delle sue conseguenze sulla società e sui suoi secondini, molto poco in merito a quelle e quelli che le subiscono… Naturalmente l’amministrazione si pone problemi in maniera amministrativa: come gestire tale pena, tale detenuto? Nella società occidentale del tempo misurato (contato, pagato, venduto, guadagnato, perduto…), gli amministratori giudiziari e penitenziari sono i peggiori dei contabili, distributori e gestori di secoli di prigionia, che misurano la vita stessa degli uomini, quando non la accorciano (la ghigliottina è nel museo ma gli Stati Uniti battono ogni anno il loro record di esecuzioni). In Francia non ci sono mai state tante incarcerazioni e tanti detenuti, e la durata media delle pene non è mai stata così lunga (tra il 1978 e il 1998, le pene a cinque anni sono aumentate del 1020%, le condanne a più di dieci anni del 233% e gli ergastoli del 100%, mentre il numero di libertà condizionate concesso è stato diminuito della metà).
Ma in questo paese che ha rinchiuso la libertà nel suo motto per scolpirlo sul frontone delle sue prigioni, di fronte all’orrore carcerario non si ode nella società «civile» che il mormorio umanitario, spesso alla semplice ricerca della buona misura di queste pene. Esisterebbe dunque una «giusta pena»! Forse sul povero modello del «giusto salario» a cui aspira lo stesso genere di piccolo democratico…
Eppure, quale misura potrà mai avere una pena, fuori dalle astrazioni statistiche e dallo spettacolo dei fatti diversi? Come misurare la dismisura di questo atto crudele fra tutti: imprigionare un essere, strapparlo dalla vita, separarlo da tutti e da tutto? Quale diabolica contabilità, quale scambio malefico di questa «scala di pene» che inventa, nel diritto, la mostruosa equivalenza che fa regnare il denaro nell’economia. Tutto ha un prezzo e chiunque è in vendita. Tutto paga e chiunque è debitore. Merce in serie o merce di lusso, piccolo delitto o crimine aggravato, esiste un’aritmetica terribile che fissa a tutto e a tutti una tariffa che si paga con il proprio tempo, vale a dire con la propria vita.
Giorni, settimane, mesi, anni, decenni, vite intere di credito o di prigione, secondo il cammino che avrete scelto. Un’automobile, a credito la pagherete in tre anni, in tre mesi di galera se la rubate (qualora vi facciate arrestare). Duecentocinquanta testoni, un lavoratore con salario minimo li pagherà con una vita di lavoro, un ladro sfortunato potrà pagarli con la vita in prigione. Le macabre tabelle di calcolo della legge e dell’economia snocciolano così le loro colonne fino alla nausea. Nulla vi è dimenticato: l’economico e il giuridico hanno orrore del vuoto.
Un giorno, una settimana, un mese, un anno… Molti li vivranno come una parentesi, ognuno tentando a modo proprio di annichilirne la vacuità. Ci sono quelli che si anestetizzano nell’alternanza ipnotica farmaco-televisione, colmando il vuoto con il vuoto, abolendo il tempo che scorre abolendo se stessi. Ci sono quelli che si danno da fare in una o diverse di quelle magre attività possibili fra quattro mura: sport, lettura, corsi, lavoro… Un’attività il più delle volte solitaria, che non riesce a calmare il dolore dell’essere ma arricchisce per lo meno il suo avere. Ci sono quelli che si aggrappano con tutte le loro forze a un’idea, dedicandovi ogni minuto, evadere per esempio. Ci sono quelli che, per sfuggire l’oscura realtà, si inventano storie di cui sono gli eroi, e quelli che colmano la mancanza affettiva e sessuale attraverso le relazioni epistolari più fantasmagoriche: il tempo così poveramente vissuto della prigione porta all’apice le alienazioni, le nevrosi, le psicosi e, fra tutte, la schizofrenia e la mitomania. Ci sono anche quelli la cui esistenza fuori è talmente miserabile, che il semplice fatto di avere un letto, un tetto, tre pasti al giorno, e la televisione gli procura, per esempio, la soddisfazione di trascorrere l’inverno al caldo…
Ma al di là di ciò che può inventare un galeotto per passare il tempo (nessuno è più inventivo, costretto com’è a fare tutto con quasi niente; il prigioniero è così diventato maestro nell’arte di comunicare con i suoi codetenuti o con l’esterno…), al di là dei mezzi di dimenticare o di occupare il tempo, questo costituisce la sua opera e il suo oltraggio. Il prigioniero uccide il tempo ma è il tempo ad ucciderlo. Invecchia senza aver vissuto e, quando esce, si dice che ha fatto il suo tempo… Aver fatto il proprio tempo è anche essere usati, spezzati, superati. Più tragicamente d’ogni altro uomo, il prigioniero è la carcassa del tempo.
Un giorno, una settimana, un mese, un anno… Perché la prigione, questa società «al di fuori», è ugualmente una società «al di dentro», dove si vivono anche momenti di piacere, di incontro, di apprendimento. Se la parentesi è «breve» (un aggettivo soggettivo, variabile a seconda del detenuto, della detenzione, ecc.) e il detenuto è a posto con la testa, non sarà obbligatoriamente «invivibile»… Un giorno, una settimana, un mese, un anno… Alcuni parlano anche di pene «gestibili». Ma chi può permettersi un simile giudizio, se non… un giudice evidentemente! Un giorno di prigione è sempre un giorno di troppo, e a volte è per sempre: la maggior parte dei suicidi hanno luogo proprio all’inizio della pena. E la Francia, paese record dei suicidi degli uomini liberi, ha battuto nell’ultimo anno del millennio il record dei suicidi nelle sue galere (124 nel 1999).
Un giorno è di troppo, ma allora un anno? E 5, e 10, 15, 20, 25, 30, 40 anni… Sono intere vite strappate. E cosa si può misurare? L’orrore della dismisura? L’incommensurabile spossessione? Solo coloro che le sopportano, e in altro modo i loro cari, sono in grado di testimoniare queste devastazioni che non si misurano ma si vivono, questa mutilazione che la maggior parte del tempo si tace ma a volte si sussurra o si urla.
Il volo
Un mondo senza prigioni è il minimo che si possa sognare. Nondimeno questa intenzione vitale, non appena la si approfondisce un poco, fa comparire ogni genere di contraddizione, ogni genere di trappola, ogni genere di falsa soluzione. Perché, come si sa, il problema è più vasto, è fondamentalmente quello di un mondo fondato sulla coercizione e l’interesse, sulla messa in schiavitù dei molti per i bisogni dei pochi, perché questo dominio si è procurato i mezzi di farsi passare per ineluttabile: perché non si può immaginare un mondo senza prigioni, senza farla finita con il denaro, lo Stato e tutti i rapporti mercantili. Allora ci si ricorderà di nozioni quali giustizia e polizia come vecchi incubi. Siamo d’accordo, ma è là che tutto inizia: non ci si può accontentare di belle frasi, di voci pietose, di slogan. Se la critica della prigione si limita al solo «Abbasso le prigioni», raggiunge un livello di astrazione che la rende illusoria e inoffensiva.
Illusoria, perché i governanti, i filosofi di questa società, anche loro si azzardano sempre più spesso a presagire l’abolizione delle prigioni. Per essi, il sogno sarebbe quello di una società in cui il controllo sociale fosse totalmente integrato dalla maggioranza dei suoi membri, un mondo di «cittadini responsabili» in qualità di migliori ingranaggi della sbirraglia generale. Ciò sarebbe tanto più fattibile quanto meno ci fosse un’autentica libertà. È in questa miseria di rapporti, di offuscamento che il vecchio adagio «la libertà individuale finisce laddove comincia quella altrui» assume tutto il suo significato e lascia via libera alle nozioni di diritto, di giudizio, di punizione… Non ci avremo guadagnato se in cambio dell’abolizione delle prigioni avremo un imprigionamento senza mura. Già oggi, vomitiamo ogni idea di pene sostitutive che sono le premesse di questo progetto, che si tratti di braccialetti elettronici, di lavori di pubblico interesse, di semi-libertà e tutta la panoplia di punizioni che rendono il condannato sedicente responsabile della propria condanna: ci vorrebbe una schizofrenia totalmente digerita perché i futuri detenuti modelli accettino ciò. Si può affermare senza tema di errore che chi immagina la prigione «ideale» di una società «ideale» può solo dipingere quadri agghiaccianti, poiché, a cosa può assomigliare l’ideale del peggio se non alla sua perfezione? Le utopie carcerarie, che tendono a confondersi con l’utopia del Diritto, sono prima di tutto quelle dei carcerieri…
Illusoria perché le diverse esperienze del passato, per quanto sociali, per quanto sovversive siano state, non hanno mai risolto il problema. Una «grande sera» non è sufficiente. Né gli insorti della Comune di Parigi, né gli anarchici delle province spagnole sono riusciti a mettere in piedi una logica radicalmente diversa; avevano come giustificazione da una parte una situazione di conflitto militare, dall’altra la breve durata di quei periodi rivoluzionari. Il regime penale e carcerario era di certo meno duro, ma non venne abolito. Nemmeno le comunità dette primitive, spesso citate come riferimento del funzionamento sociale, ignoravano la punizione, la pena — senza per altro ricorrere ai penitenziari. Le messe al bando possono equivalere a volte a una pena di morte in un ambiente ostile. Se tutte queste storie particolari contengono preziosi elementi di riflessione per tutto ciò riguardante il delitto, la mancanza, il crimine, la punizione, la pena, esse non danno risposte soddisfacenti. D’altronde non ne esistono che possano essere date in abstracto: non si può nemmeno essere certi che, come tendono a sognare gli utopisti, in un mondo migliore l’uomo sarebbe migliore. Chi lo sa?
Inoffensiva perché, sostenere l’abolizione delle prigioni senza proporre altro che la soppressione pura e semplice di ogni forma di società, non presenta molti pericoli reali per la perpetuità del sistema capitalista.
Inoffensiva perché, finché la critica sociale non osa avventurarsi dietro le mura della prigione, al loro interno gli anni passano.
Inoffensiva perché l’urgenza della soppressione della prigione, anche interrogandosi sulle sue cause, la sua genealogia, le sue evoluzioni, su ciò che potrebbero essere altri modi di regolare i conflitti, non è concepibile se non ci si ricorda sempre della sua esistenza permanente e reale. Liberarsi dell’idealismo soggettivo della Grande Sera della soppressione delle prigioni e basarsi sulla realtà è un preludio al superamento e dunque alla realizzazione dello slogan «Abbasso le prigioni». La lotta contro le prigioni comincia negli spazi quotidiani, in tutto ciò che può essere giustamente strappato al quotidiano.
[Libera traduzione dall’introduzione ai capitoli di Au pied du mur, ed. L’Insomniaque, Paris 2000]
http://www.finimondo.org/node/288