C’era una volta un re, e una regina dalla cui bocca ogni parola che usciva era una cosa dolce.
Ora un giorno, non so perché, la regina dovette stare quasi 24 ore senza mangiare; e, provando gli stimoli della fame, fece questo ragionamento: «Se io soffro tanto, per stare 24 ore senza mangiare, chi sa quanto devono soffrire quei che ci stanno quasi un giorno sì e un giorno no per tutta la vita!».
Allora incominciò a capire perché il popolo vuole la rivoluzione.
La regina, messa in pensiero, un giorno chiamò nel gabinetto segreto il presidente dei ministri e gli comandò di confidarle il segreto per far sparire la miseria dalla terra. Il presidente dei ministri, che un tempo aveva provato la fame anch’egli, rispose: «Abolizione della proprietà».
Allora la regina, chiamato suo marito, gli tenne questo discorso: «O tu abolisci la proprietà, o io ti faccio le corna».
Il re, grattandosi la testa, andò a riunire il consiglio dei ministri, e disse: «Onorevoli, avendo studiato seriamente la Questione Sociale, ho capito che, per risolvere il grande problema, è necessaria l’abolizione della proprietà». I ministri si meravigliarono tutti; alcuni credettero anche che il re fosse diventato pazzo. Ma il presidente dei ministri approvò l’idea del re, e consigliò di consulture la Camera dei deputati.
La Camera, ch’era composta tutta di ricchi nemmeno volle pigliare in considerazione il progetto reale; ma il re, con un calcio in…., la sciolse e ne fece eleggere un’altra. La nuova Camera, per timore di essere sciolta, prese in considerazione il progetto reale, e dopo molta discussione, approvò il seguente ordine del giorno:
«La Camera,
considerando che si tratta di vita o di morte del popolo, dichiarandosi inabile alla soluzione del grande problema per insufficienza di criterio,
DELIBERA
che la questione della proprietà si porti direttamente dinanzi al popolo, onde conoscere la sua volontà mediante una votazione generale, un plebiscito».
Al re piacque questa deliberazione.
Quando in paese si seppe ciò, figuratevi la gioia dei poveri, e lo strafottere dei ricchi, perché i poveri naturalmente sono in maggioranza!
Ora mentre i partiti popolari lavoravano ad organizzare il plebiscito, i ricchi pensavano ad imbrogliare le cose.
I giornali stipendiati scrivevano cosi: «La proprietà è di chi la possiede, perché fu ereditata, perché fu comprata, perché fu lavorata: nessuna autorità ha il diritto di togliere la proprietà ai proprietari».
Le persone vendute andavano dicendo: «La infelicita è tanto nei poveri quanto nei ricchi; ma i ricchi sono più infelici dei poveri, perché stanno sempre in paura dei ladri».
I filosofi salariati sentenziavano: «Il mondo nacque così e finirà così: nella società ci devono essere i ricchi e i poveri; se fossimo tutti uguali, nessuno più lavorerebbe».
I preti predicavano: «Beati i poveri, poiché di essi è il paradiso: chi ha niente in questa vita, avrà tutto dopo la morte».
E un giornale arrivò a dire che i poveri avevano tanto di buon senso da votare contro l’abolizione della proprietà!
Ma gli affamati non ne volevano sentire un corno: essi aspettavano il giorno del plebiscito.
Finalmente venne il giorno sospirato. Nelle città, nei borghi, nei villaggi, tutto era in movimento. Si doveva votare la seguente espressione: Abolizione della proprietà–A maggioranza sì, o a maggioranza no. Si venne alla votazione, si raccolsero i risultati e, fra 30 milioni di votanti, 29 milioni votarono sì e 1 milione votarono no.
La vittoria del popolo era infallibile. Figuratevi la tremarella dei ricchi!
Conosciuta così la volontà del popolo, si doveva pensare ora ad abolire la proprietà mediante espropriazione, e si doveva anche pensare ad organizzare la nuova società.
Ci fu una discussione generale di progetti di legge e di forme di governo. Quelli che volevano diventare nuovamente padroni chiedevano la repubblica sociale; ma naturalmente, logicamente prevalse l’opinione del comunismo-anarchico.
Però quando la regina intese che nel comunismo-anarchico ella assieme al marito doveva lasciare il trono, e vivere in una casa privata a pulirsi il cantaro ella stessa, cambiò di opinione; e chiamato a sé il re gli disse: «Se tu abolisci la proprietà, io ti faccio le corna».
Allora il re, grattandosi la testa, andò a riunire il Consiglio dei ministri, e disse: «Onorevoli, il mio progetto è stato uno scherzo, per vedere se i ricchi erano tanto imbecilli da lasciarsi scappare dalle mani il ben di dio: io non ho nessuna intenzione di riconoscere il plebiscito del popolo, perché i plebisciti sono stati sempre stupidaggini».
A questo discorso i ministri si guardarono tutti in faccia; e il presidente dei ministri, senza dire anche ciò, mandò una circolare segreta a tutti prefetti.
I prefetti comunicarono questa circolare a tutti i sindaci.
Ecco che un giorno destinato, in ogni città o villaggio, ogni sindaco, d’accordo con le autorità politiche e militari, riunì i cittadini in piazza, circondandoli di sbirri, carabinieri, soldati, cannoni, cavalleria, e fece questo discorso: «Miei cari figli, sua maestà il re nostro padrone ha intesa la vostra volontà, ed è soddisfattissimo di voi: in breve presenterà alla Camera un progetto di legge, per risolvere la Questione sociale mediante opere di carità». Detto ciò, le musiche intonarono la marcia reale.
I cittadini, che si aspettavano l’abolizione della proprietà, a sentire questa notizia, restaron di sasso, e…. ma guardando le bocche di cannoni e le baionette, cambiarono opinione, e ritornarono ognuno a casa, brontolando.
«Chi passata pi fissa!»
(El Porvenir Anarquista, Barcellona, 1891)