29 LUGLIO 1900
UN FATTO
MONZA
Il 21 luglio 1900 Umberto con un seguito modesto raggiunge la residenza estiva di Monza. Da anni usa trascorrere l’estate nella cittadina lombarda, al margine della ridente Brianza, dove gli è facile incontrare l’amante, Eugenia Attendolo Bolognini Litta Visconti Arese. Umberto può uscire discretamente da una porticina del parco, contrassegnata da due fanali e raggiungere la casa della donna. Dopo la morte, Vittorio farà murare la piccola porta per cancellare ogni traccia di quel passaggio( l).
Il 29 luglio è domenica. Il re, dopo cena, esce con il tenente generale Emilio Ronzio Vaglia, ministro della Real Casa, e il maggior generale Felice Avogadro di Quinto, aiutante di campo, per recarsi ad assistere alla premiazione degli atleti della società ginnastica Forti e liberi.
Dopo la premiazione, salito in carrozza, una berlina a due cavalli, ritto sulla vettura nell’atto di salutare un ufficiale riconosciuto tra la piccola folla che fa ala, viene colpito dai tre dei quattro proiettili di revolver sparati dall’uomo che sarà identificato per Gaetano Bresci. I primi tre colpi (Bresci sosterrà di aver sparato solo tre volte) colgono Umberto in parti vitali, il quarto – se è esploso – è deviato da un pugno che il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Braggi dà al braccio di chi ha sparato.
L’uomo viene subito fermato ed è certo che non oppone resistenza. Non pochi dei presenti gli sono addosso ed è appena possibile sottrarlo al linciaggio: è coperto di sangue, gli abiti a brandelli e un occhio che quasi gli esce dall’orbita per un colpo di bottiglia.
La reazione è comprensibile. Gioca l’emotività per l’azione contraria all’ordine morale. In più, sebbene gli ultimi anni del secolo siano caratterizzati dalla protesta del ceto contadino e del nuovo proletariato, gran parte del popolo tutto sommato è ancora portata verso l’iconografia d’effetto che la monarchia rappresenta.
Umberto è già stato fatto segno a due attentati: il primo, a Napoli, il 17 novembre 1878, quando, giunto in carrozza con Margherita e il presidente del consiglio Benedetto Cairoli in località Carriera Grande, nel quartiere di Porta Capuana, viene colpito da un colpo di pugnale infertogli da Giovanni Passanante, un disoccupato originario di Salvia, in Basilicata(2); il secondo, il 22 aprile del ’97, quando un altro disoccupato, Pietro Acciarito da Artena, vibra una coltellata al re che sta recandosi in carrozza con Emilio Ponzio Vaglia ad assistere al derby alle Capannelle( 3).
Mentre nella calda sera estiva la carrozza – Umberto ha già perduto conoscenza – si avvia a tutta andatura verso la villa, l’attentatore è portato in caserma. Non fa dichiarazioni. Solo dice il proprio nome.
Chi è, dunque, Gaetano Bresci?
Un tessitore di seta, nato a Cojano, un paese del pratese, nel novembre del 1869, l’11, stesso giorno, stesso mese e stesso anno in cui nel palazzo di Capodimonte nasce da Umberto e Margherita, Vittorio.
Gaetano è figlio di Gasparo e di Maddalena Godi.
L’infanzia è apparentemente serena – il ragazzino ha nove anni quando Umberto sale al trono – ma non l’adolescenza e non ci vuole eccessiva fantasia a supporre quale rapporto ci sia tra le angustie di quei giorni e le costanti protestatarie e ribellistiche della sua personalità.
Il Paese non è certo felice: malgrado l’arrampicata verso il progresso, il ceto contadino, soffocato da una pressione fiscale sempre più esosa, vive in condizioni miserrime. E in nessun luogo meglio che in Italia è possibile studiare le aspirazioni all’anarchia del ceto contadino perché nel Paese il problema è un problema di rapporti sociali senza complicazioni politiche, religiose e nazionali(4). Analitiche inchieste dei contemporanei, non certo sospette di sovversivismo sociale, come l’inchiesta parlamentare condotta da Stefano Jacini o quelle private, condotte da Leopoldo Franchetti e da Sidney Sonnino nelle regioni meridionali e insulari, confermano la validità del ritratto morale-psicologico del contadino italiano mettendo in rilievo le responsabilità dei grandi e medi proprietari indifferenti alle condizioni di vita dei sottoposti.
Non migliori sono le condizioni di vita del ceto operaio. Le periodiche sollevazioni e le manifestazioni popolari disorganizzate si concludono con dure rappresaglie e sanzioni penali e lo stesso carattere di spontaneità, disordine e insufficienza presentano gli scioperi che si verificano.
Inoltre al fenomeno dell’inurbamento e dell’abbandono di parte delle campagne dovuto al nascere dell’industria, al progredire dell’emigrazione(5), ad una indisciplinata crescita demografica, che pone nuovi problemi, si unisce la mancanza completa di senso sociale da parte del governo.
Gaetano a vent’anni è un ragazzo esuberante, pieno di slanci. Di bell’aspetto, buon parlatore, ha fortuna con le donne. Pensa che il mondo debba cambiare e c’è una carica genuina nel suo attivismo.
Nel ’95 durante uno sciopero viene arrestato e confinato a Lampedusa. Vi trascorrerà un anno e il soggiorno forzato nell’isola lo decide a lasciare il Paese (6).
Nel ’97 sbarca in America e si stabilisce prima a New York e poi a Paterson dove trova lavoro nel setificio Hamil and Boot.
Da Sofia Kneiland, irlandese, ha una figlia, Madeline(7), Gaetano è un uomo laborioso. In fabbrica è benvoluto e vive tutto sommato in non tristi condizioni mostrando di non avere «alcuna di quelle ragioni esteriori le quali spingono un individuo a commettere un atto che può apparire un suicidio(8)».
Bresci è dunque in America quando il governo del generale Pelloux, uomo di stretta fiducia della corte, che ha sostituito il ministro di Rudinì, presenta al parlamento una legge che di fatto abolisce le libertà d’associazione, di riunione e di stampa e l’opposizione socialista e radicale è costretta a ricorrere all’ostruzionismo parlamentare per bloccare l’approvazione del provvedimento. Bresci è in America mentre nel Paese la situazione va evolvendosi sul piano parlamentare profilando quell’accordo tra socialisti e Sinistra costituzionale considerata l’ultima difesa del regime contro la ventata popolare, contro un’opposizione non rivolta solo contro i partiti conservatori ma contro tutto.
Se l’Estrema si lascerà ingannare, la reazione approfitterà della tregua per riprendere fiato e presto gli stessi «democratici capitani della Sinistra » capeggeranno la reazione aperta, una reazione militare, nuove stragi di «sovversivi»(9), così si esprime Gaetano Salvernini negli articoli che si ostina a inviare all’Avanti! e che l’amico e maestro Bissolati cestina.
A Paterson Gaetano frequenta come molti altri operai del setificio un circolo anarchico – Il diritto all’esistenza – che gravita intorno al foglio La Questione sociale che Errico Malatesta dirige per qualche tempo.
Non c’è dato conoscere come sia maturato nel pratese il proposito di attentare a Umberto.
Sappiamo che a Paterson nell’inverno del 1899 viene costituito un Comitato per i moti rivoluzionari (in Italia) ma questo dimostra soltanto la volontà degli anarchici italiani d’America di aiutare i moti popolari e non pare attendibile la versione che riferisce che nell’ambito del circolo frequentato dal Bresci fosse estratto – deciso il regicidio – il nome dell’esecutore materiale. Sempre secondo tale versione sembra che la sorte avesse indicato un altro setaiolo, tale Cesare Bianchi alias Sperandio Carbone, che però ha preso la cittadinanza americana e pertanto, poiché ad eliminare Umberto dev’essere un italiano, viene affidato l’incarico al pratese.
Anche Giolitti avrà una sua versione non confortata da alcuna prova: sosterrà che dietro l’attentato ci sia un complotto internazionale al centro del quale è Maria Sofia di Baviera, vedova di Francesco II(10).
Comunque Bresci lascia l’America il 17 maggio del 1900 imbarcandosi sul Gascogne con un biglietto a prezzo ridotto per la visita all’Esposizione Universale di Parigi. Ha con sé uno chèque di cinquecento lire depositate presso il banchiere Cesare Conti e pagabile a Genova e un revolver a cinque colpi, calibro nove.
Sbarca a Le Havre, raggiunge Parigi in compagnia di una occasionale compagna di viaggio, tale Marisa Quazza. visita l’Esposizione; quindi Genova per riscuotere l’assegno (si accerterà che il denaro è la somma risparmiata dal pratese durante il tempo trascorso a Paterson), quindi arriverà a Prato – è il 4 giugno – dove è ospite di uno dei due fratelli che vi vivono(11)e a Prato si trattiene qualche settimana. Il 15 luglio è sicuramente a Castel San Pietro, un grosso borgo vicino a Bologna, dove vive la sorella(12). Da Castel San Pietro sì trasferisce a Piacenza, apparentemente
senza alcuna ragione, da qui a Milano dove alloggia presso una affittacamere in via San Pietro all’Orto e finalmente, la sera del 27 luglio, arriva a Monza e si registra in una modesta locanda.
Bresci a Monza sceglie con cura l’occasione e l’appostamento e la sera del 29, deciso, attende il passaggio di Umberto.
Vittorio Emanuele, che naviga con la moglie sul panfilo Yela, il 31 è ancora ignaro dell’accaduto. Nel Paese, un paese dove la gente comincia ad essere amata quando è sconfitta, si manifesta una sorta di solidarietà con i Savoia come se il gesto del pratese abbia cancellato il discredito che il nome di Umberto ha suscitato nelle masse; come se il sangue abbia colmato il solco aperto tra la monarchia e il popolo da anni di politica sorda alle esigenze nuove, autoritaria e spesso illegale. Così l’Italia che ha criticato Umberto sembra rifiutarsi di condividere la responsabilità di chi ha colpito e Giovanni Bovio, deputato repubblicano, può dichiarare che «Bresci con il suo gesto ha privato Umberto di qualche anno di vita ma ha prolungato di secoli l’esistenza della monarchia».
Nell’unanime immediata condanna unica manifestazione di solidarietà sembra quella di un frate francescano, don Giuseppe Volponi(13).
Gaetano Bresci è solo.
Note:
(1) cfr. S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III, Torino 1970.
(2) il Passanante riesce a balzare sul predellino della carrozza. Ha nelle mani un mazzo di garofani come se avesse intenzione di offrirli a Umberto. I fiori nascondono il pugnale. Il colpo vibrato ferisce di striscio il re a una mano. Cairoli si frappone rapidamente fra Umberto e il Passanante. La lama gli penetra in una coscia ma intanto il capitano dei corazzieri Giovannini abbatte l’attentatore con un colpo di spada.
(3) Umberto, dopo il pranzo di gala in occasione dell’anniversario del proprio matrimonio, decide di presenziare al derby (ha messo in palio ventiquattro mila lire per il cavallo vincente: una somma che può non destare meraviglia nel rapporto tra il valore della lira del 1900 e il valore attuale – 1 a 1.833,996 – secondo l’elaborazione degli indici istat ma che appare enorme confrontandone il potere d’acquisto. Il salario annuo di un operaio oscilla all’epoca sulle seicentottanta lire. Notevolmente inferiore il salario del contadino: centocinquanta lire l’anno più, al tempo del raccolto, un tomolo di grano e di fave, cfr. S. Somogyi, Cento anni di bilanci familiari in Italia (1857-1956) in Annali dell’Istituto Feltrinelli. II, 1959, pp. 121-257. Per quanto concerne il lavoro femminile risulta che il 40.3% delle operaie in età superiore ai quindici anni percepisce un salario di poco superiore alle duecentosettanta lire annue. Bassissimi i salari dei minori, cfr. G. Procacci, La lotta di classe in Italia agii inizi del secolo XX, Roma 1969. Il prezzo del pane è di centesimi 42,9 per chilogrammo; della pasta, 56,0; della farina di grano, 43,3 e della farina di granturco, 24,4 secondo i dati in A.C.C., busta 416). Giunta la carrozza a Porta San Giovanni, fra il vicolo della Morana e il cascinale dei Valloni, ecco balzare sulla vettura l’Acciarito e vibrare il colpo di pugnale che va a vuoto squarciando il mantice. Entrambi gli attentatori sono condannati all’ergastolo. Il governo non si preoccupa di cercare le cause del gesto compiuto da Passanante e da Acciarito né lo avverte come sintomo di una situazione che è sul punto di rottura.
(4) E. De Laveleye, Nouvelles lettres d’Italie. Parigi 1884, pag. 87.
(5) nel 1899 si tocca la punta massima di centosessantaquattro italiani ogni diecimila emigranti, tacitamente favoriti da un governo che spera con le loro rimesse di placare la disperata fame di soldi.
(6) Bresci è arrestato una prima volta nel ’92 per oltraggio alla forza pubblica e per rifiuto d’obbedienza.
(7) l’altra figlia, Gaetana, nascerà dopo l’attentato.
(8) cfr. G. Ciancabilla, Quel che ne pensiamo in L’Aurora, sett. 1900, citato in P.C. Masini, Stona degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati. Milano 1981. pag. 145.
(9) cfr. G. de Caro, Salvemini, Torino 1970, pag. 87.
(10) cfr. G. Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, vol. I: Da Porta Pia all’intervento, Milano 1977, pag. 846.
(11) l’altro fratello, Angelo, si trova a Caserta, ufficiale del 10° artiglieria di stanza in quella città.
(12) testimonianza resa dalla sorella a Mammolo Zamboni, cfr. L’Aurora, 10 otto. 1946.
(13) II frate viene arrestato e condannato a sette mesi per aver manifestato pubblicamente il suo plauso per l’accaduto, cfr. S. Bertoldi, Vittorio Emanuele, op. cit., pag. !58.
DAL REGICIDIO AI FUNERALI
Unanime cordoglio per il re. La Rivista popolare di Napoleone Colajanni, avversario irriducibile della scuola lombrosiana opponendo alla teoria della criminalità costituzionale la tesi del condizionamento sociale dell’individuo, esce listata a lutto come i giornali socialisti che, nella corsa pazza ad umiliarsi(1) per scrollarsi di dosso ogni responsabilità, piangono calde lacrime. Scriverà Arturo Labriola, sottolineando che in altra occasione i socialisti hanno mostrato mancanza di dignità: «Un esempio solo mi giova dare. Avendo la Gazzetta del popolo di Torino accusato Edmondo De Amicis di aver tenuto una conferenza a beneficio delle famiglie dei condannati nella Lunigiana, l’autore di Cuore smentisce in data 23 luglio 1898 pregando il giornale di una rettifica. Un po’ dì bene per le famiglie di alcuni sventurati, anche se anarchici, è cosa per questo cavalleresco socialista da respingere come un’offesa(2).
L’Avanti! definisce Gaetano Bresci «un pazzo criminale»(3). Alla Camera i deputati socialisti sono tuttavia fatti segno a mormorii e proteste e tacciati di complicità e i repubblicani vengono accolti al grido di «coccodrilli». Bovio, Colajanni e Pansini rendono pubblico un manifesto indirizzato al Paese per scagionare i repubblicani dimenticando nell’enfasi e nella preoccupazione che Mazzini ha promosso il regicidio e che repubblicani sono stati Orsini e Oberdan che il regicidio hanno tentato.
Il Corriere della Sera – giornale reazionario temperato per ragioni di distribuzione alla clientela – toglie argomento da un discorso pronunciato alla camera da Filippo Turati per accusare la predicazione della lotta di classe che, se può non parere criminosa, nella mente dei proseliti rozzi, che l’accolgono senza restrizioni e senza i correttivi con cui i teorici ne circondano il concetto, diventa odio e regicidio.
La Gazzetta dì Venezia scrive che il morbo omicida della ribellione è diffuso dai partiti sovversivi(4); il Corriere mercantile di Livorno chiede per Gaetano Bresci non solo la pena di morte ma che sia sottoposto alla tortura(5) e Francesco Crispi, scrivendo ne La Tribuna, sostiene senza perifrasi che «il Paese non è minacciato da nemici esterni ma da nemici interni che bisogna eliminare(6).
Arrivano intanto a Margherita le condoglianze di uomini che si chiamano Giosuè Carducci, Edmondo De Amicis, Leonida Bissolati, don Davide Albertario, direttore del quotidiano cattolico di Milano, condannato dopo la repressione di Bava Beccaris. Pascoli, l’ex-internazionalista, il poeta degli umili, scrive un inno per Umberto e Gabriele d’Annunzio, che ha sostenuto su Il Giorno la candidatura alle elezioni politiche del socialista Pieraccini e del repubblicano Dolfi, nello stesso giornale pubblica un’ode rivolgendosi a Vittorio Emanuele colto dall’annuncio della morte del padre mentre, salpato da Lepanto, naviga verso la costa calabra: giovane che assunto dalla morte / fosti Re sul mare(7).
Fogazzaro in una intervista al Figaro attribuisce alla propaganda socialista la responsabilità dell’attentato.
Filippo Turati, dopo aver rifiutato di difendere Bresci(8), riassume in un lunghissimo articolo l’opinione della stampa dandocene un quadro completo(9).
«Se fra cinquant’anni o fra un secolo – scrive Turati- qualcuno sfoglierà i giornali di quell’agosto infocato, penserà che l’Italia borghese sia stata travolta da un’epidemia di delirio. Gaetano Bresci non è soltanto l’uomo che ha ucciso il re, è necessariamente una belva. Cosi è definito on assoluta sicurezza da gente che di lui, della sua vita, del suo pensiero, della sua psicologia ignora tutto. Nella colta e civile Milano si deplora nella stampa che i carabinieri lo abbiano protetto, non consentendo alla folla di linciarlo; dagli uni si chiede l’immediata erezione della forca e dagli altri (e non solo giornali reazionari si chiede che il processo sia sommario e “di pura apparenza”. Nessuno dubita di distruggere così dì un colpo le conquiste di secoli che sono la ragione, la sostanza, l’onore della civiltà che fa sacro il giudicabile, sacre le garanzie della difesa, che demolisce i patiboli, che vuole distinti – sebbene punibili entrambi – il delitto politico, cui muove una idealità, dal delitto comune. Così si è stampato senza alcuna protesta che al detenuto rinchiuso, isolato, vigilato nella cella, viene applicata la tortura regolarmente e il direttore del cellulare milanese non crede di dover smentire quest’incredibile obbrobrio!».
La valanga dei coraggiosi insulti si riversa dal regicida incatenato sugli anarchici d’ogni scuola e d’ogni specie senza distinzione ad opera di chi mai ha avvicinato un anarchico, che ne ignora le teorie, le tendenze anche se, girata pagina – a riprova della sincerità del gazzettiere – ecco articoli che parlano di Elisée Reclus e di Kropotkin e dei loro seguaci come «tempere mistiche, nature superiori, precorritrici di una civiltà più evoluta».
Frattanto la polizia si abbandona al solito libito suo arrestando mezza Italia: gli anarchici, i possibili complici, gli apologisti(10). E si è possibili complici anche se solo si è conosciuto il Bresci, se si è di Cojano, se si è stati a Paterson.
Centinaia di italiani popolano «le dolci carceri patrie» per titolo di apologia con l’unico risultato di accreditare l’opinione che tutto sommato il lutto nazionale sia un’imposizione e che la morte di Umberto abbia soddisfatto larga parte del popolo.
Si infierisce contro i sospetti di pensiero politicamente eterodosso, elevando a reato manifestazioni verbali, spesso superficiali e fugaci.
Scrive ancora Turati che a sommare tutte le opinioni è possibile concludere che i responsabili dell’atto di Bresci sono i trenta milioni di italiani infatti i moderati reazionari accusano i socialisti, i repubblicani, i radicali, tutta la Sinistra di Zanardelli e Giolitti, gesuiti congiuranti contro il trono, ed anche i rudiniani di Destra che hanno fornicato con quelli, non escludendo i clericali, colpevoli di non dare il voto alla monarchia. E i clericali accusano i laici ché la vera causa del regicidio è nel pensiero laico e per i cattolici intransigenti la colpa è di Kant, di Hegel, di Negri, di Vigoni e dei redattori della Perseveranza.
Intanto il 9 agosto Roma si pavesa a lutto. Perfino i fanali davanti alla stazione sono addobbati con veli neri. Sotto la pensilina dove fermerà il convoglio sono allineate le novantasei bandiere abbrunate di altrettanti reggimenti di fanteria, l’arma di Umberto.
Le ultime ombre della lunga notte sono messe in fuga da migliaia di torce di resina.
La folla è fitta. Quando il treno si ferma, scendono il conte di Torino e il duca d’Aosta, che hanno scortato la salma, seguiti da un canonico del duomo di Monza che reca su un cuscino rosso la Corona ferrea.
Il corteo sfila per le vie della città nera di insegne fra due ali di folla, uomini e donne di ogni ceto sociale accostati gli uni alle altre. Improvvisamente – il corteo è ormai in via Nazionale all’altezza della Banca d’Italia – senza motivo quella folla comincia ad ondeggiare. Qualcuno grida e subito uomini e donne tentano di scavalcarsi l’un l’altro cercando scampo verso via dei Serpenti e via della Consulta, Muschetto, il bajo preferito da Umberto, che segue il feretro, si imbizzarrisce.
Nicola di Montenegro, suocero di Vittorio, pensando ad un attentato, si lancia sul genero tentando di coprirlo mentre i principi, sguainate le spade, fanno quadrato intorno e il nuovo re, la piccola persona vestita nell’uniforme di generale con la fascia dell’Ordine Mauriziano e il Collare dell’Annunziata, scompare sotto quel mucchio di elmi e di sciabole levate.
In realtà è caduta solo una sedia, un mulo ha avuto uno scarto impaurito e il conducente non ha saputo trattenerlo.
Mentre si copre il morto e si raccolgono una quarantina di feriti, bilancio dell’ingiustificata paura, il corteo ricomposto arriva al Pantheon. Sopra le colonne del pronao pende una epigrafe assai poco originale, scritta da Enzo Panzacchi, poeta e prosatore di Ozzano: Preghiere a Dìo / per l’anima di re Umberto I / buono, leale, magnanimo / innalza il popolo italiano con lacrime espiatorie.
Margherita, che ha scritto una sorta di preghiera-poesia per il defunto, veglia la salma l’intera notte e compie un gesto che farà lacrimare molte donne: permette a Eugenia Litta di accostarsi da sola – è ormai l’alba del nuovo giorno – all’uomo di cui è stata l’amante per trentatrè anni e che le ha dato un figlio.
Umberto, scomunicato, avrà i funerali religiosi da Leone XIII.
In una osteria di via della Vite, un cantastorie, muta la piccola folla intorno, improvvisa: Una belva inferocita / fino a Monza lo insegui / e per togliergli la vita /con tre colpi lo ferì.
Non tutti tuttavia hanno il pollice verso. Lo stesso Cesare Lombroso, convinto che alcune forme criminali derivino da un ritorno all’istintività incontrollata di lontani progenitori di cui si riproducono note morfologiche che rendono possibile l’identificazione del delinquente, esprime nei riguardi di Bresci un giudizio sereno. «La causa impellente – scrive Lombroso – sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro Paese». E aggiunge: «…massima delle classi dirigenti (è) non di guarire i mali che ci guastano ma di colpire inesorabilmente coloro che li rivelano. Strano rimedio invero, che basterebbe da solo a mostrare fin dove siamo discesi(11)». E più tardi Lombroso non ignorerà che un delitto apparentemente comune compiuto come strumento di azione politica e quindi delitto comune si distingue da questo in base al piano immaginato dal suo autore. A distinguere tali delitti giova la diagnosi storica(12).
E Arturo Labriola scriverà: «Sensuale e un po’ malinconico come sono in genere i sensuali (Umberto) avrebbe potuto chiudersi nel suo egoismo di gaudente e ridursi agli uffici meccanici che il regime parlamentare lascia alla regalità. Fu sua sventura aver fortemente risentita l’influenza del Crispi che gli pose in cuore propositi imperialistici e desideri di potere personale. Peggiore fu il frutto della sua intimità con l’imperatore tedesco e delle suggestioni che l’ambiente germanico esercitò su di lui. Il suo regno legò il suo nome ai tre avvenimenti più disgraziati che abbiano colpito l’Italia risorta: gli scandali bancari, Adua e le repressioni di maggio. La sua morte favorì lo scopo degli storiografi cortigiani (ma) un giudizio obiettivo sul suo regno costringerà a riconoscere che egli voleva mutare a danno dell’elemento elettivo la natura degli istituti politici italiani. Credette di fregiare di distinzioni cavalleresche coloro che avevano sparso il sangue degli inermi(13)».
Leone Tolstoj affermerà che l’esempio della violenza viene dall’alto con le guerre, le parate, le rappresaglie, il culto dell’orrore e della gloria militare: «Se Alessandro di Russia, se Umberto non hanno meritato la morte, assai meno l’hanno meritata le migliaia di caduti sotto Plevna e in terra d’Abissinia(14)».
Nel settembre, dopo la condanna, Amilcare Cipriani, il colonnello della Comune scrive: «La storia non esalta Bruto l’uccisore di Cesare che pure non aveva ordinato alcun massacro ma solo voleva farsi signore di Roma? non Cromwell che fece cadere la testa di Carlo I? chi chiama assassini quelli che condannarono a morte Luigi XVI, sua moglie e sua sorella? e Lorenzo dei Medici non uccise il bastardo di papa Clemente VII e Ravaillac e Jacques Clement, che eliminarono Enrico III e Enrico IV, non sono stati santificati dalla chiesa? perfino i libri santi sono densi di apologie al tirannicidio. Aod uccise Eglou, re dei Moab, tiranno del popolo di Dio(15)». Aggiungiamo: in onore di Armodio e Aristogitone che uccisero Ipparco, tiranno di Siracusa – e la democrazia ateniese li esaltò come eroi -, Callistrato compose un inno e Antenore prima e poi Crizio e Nesiote fissarono nel bronzo il loro gesto.
Ventidue anni dopo Palmiro Togliatti scriverà: «II re e la rivoluzione sociale, i due soli principi unitari affacciatisi nella storia italiana sul cadere del secolo XIX non potevano coesistere in pace. Uno doveva uccidere l’altro. Mossa da una mano ferma se pure da una mente ingenua, la rivoltella del regicida aveva colpito dunque nel punto giusto. La morte violenta di re Umberto fu l’affiorare, in forma tragica ed esasperata, di un conflitto profondo, di un contrasto di forze reali che mezzo secolo di storia avevano preparato. Nella mano ferma e nell’occhio sicuro dell’anarchico individualista quasi simbolicamente prendevano forma la volontà e la forza delle masse, irosamente levate a protestare contro il potere dello stato oppressore, affamatore, fucilatore e sbirro(16)».
E nel ’47 Gaetano Salvemini a sua volta scriverà: «A me sembra che sia necessario tener nettamente distinto, il terrorismo dall’attentato individuale. L’atto di terrorismo è compiuto contro ignoti senza discriminare fra innocenti e colpevoli (le cronache di questi ultimi decenni sono dense di atti di terrorismo: basta pensare a Piazza Fontana, n.d.r.); l’attentato individuale prende di mira una persona determinata così Gaetano Bresci compì un attentato individuale su Umberto e non un atto di terrore…».
Il tirannicidio, quando la comunità non ha altri mezzi per mettere fine ad una oppressione ingiusta, è stato giustificato anche dai moralisti della chiesa cattolica. II gesuita padre Mariana nel secolo XVI approva l’assassinio di Enrico III. Mazzini consente ad un attentato – continua Salvemini, radicale fino all’ultimo pur avendo militato nelle file del PSI fino all’11 – contro il Re Tentenna (Carlo Alberto).
Umberto faceva il tiranno nel significato classico della parola tenendo mano allo strangolamento delle libertà politiche, per questo «la memoria di Bresci è rimasta circondata da un’aureola di simpatia e gratitudine nella coscienza di molti italiani, anche non anarchici…».
E ancora: «L’opera di Bresci non sollevò indignazione che in zone assai circoscritte della popolazione italiana. La grande maggioranza del Paese trovò che Umberto quella palla di revolver non l’aveva rubata. E fu precisamente questo sentimento popolare favorevole a Bresci ed ostile ad Umberto che rese utile l’attentato. Bresci mise nelle ossa del successore di Umberto I una tremarella maledetta che lo fece arar diritto fino a quando una paura anche maggiore – la paura dei generali raccolti intorno ai duca d’Aosta, che furono i veri autori della marcia su Roma – lo costrinse a diventare complice dell’uomo mandato al governo dai generali e, secondo Pio IX, della Provvidenza(17)».
Infine è doveroso riportare il concetto di Pietro Gori, concetto sviluppato nella polemica con Giovanni Bovio, che ribadisce che la violenza del regicida altro non è che il segno rovesciato della violenza stataria(18), il rimprovero che Errico Malatesta, uscendo a Londra nel settembre con un numero unico Causa ed effetti 1898-I900, rivolge ad alcuni compagni che mostrano di dubitare che «il colpo di cui è restato vittima Umberto di Savoia sia andato a ferire al cuore l’ideale per il quale il feritore intese far sacrificio della vita» e il giudizio di Umberto Marzocchi che definisce il gesto di Gaetano Bresci non altro che «la risposta alla violenza del governo. Bresci raccoglie la sfida della reazione umbertina facendo giustizia(19)».
Note:
(1) cfr. A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, Milano 1910, pag. 78.
(2) A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, op. cit., pag. 80, n. 4.
(3) Avanti!, 2 agosto 1900.
(4) Gazzetta di Venezia, 1 agosto 1900.
(5) cfr. A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, op. cit., pag. 78.
(6) cfr. A. Labriola, ibidem, pag. 78.
(7) // Giorno, 12 agosto 1900. L’ode viene ripubblicata su La Stampa il giorno successivo.
(8) Filippo Turati declina l’incarico dopo un colloquio con Bresci, P.C. Masini in Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati. op. cit., pag. 150 riporta una lettera del leader socialista ad Anna Kuliscioff, pubblicata in Carteggio, Torino 1977, vol. 2°, pp- 7-9: «Che fare? L’impressione di molti è che sia un tiro mancino in ogni modo, magari della Questura, che abbia fatto suggestionare il Bresci. Immagina i commenti dell’Alba e della Sera ma poi c’è la questione della responsabilità, della pratica che ho perduto, dell’assurdo che io, che non difendo più da dieci anni, che non difenderei neppure te o l’amico più intimo, debba difendere proprio quel caro compagnone! Se il ricusare si presta ad interpretazioni di viltà, l’accettare – in queste condizioni – non ha anch’esso un significato politico? Oh! che animale! Dopo aver tirato tre volte alla monarchia. Volle tirare il quarto al socialismo. Fors’anche fu una sua ispirazione spontanea. D’altronde si può abbandonare un uomo che è ricusato da tutti (anche il Martelli e il Gallina, designati d’ufficio, non vogliono saperne! che è come un forestiero che in una città a lui sconosciuta cerca un padrino per un duello? Ma è la noia, con tutto il daffare che ho. Di assumermi anche questa briga … Ho parlalo stasera con Albini, Treves, Tanzi. Tutti sono di parere che non si può rifiutare e che anche questo sarebbe il tuo parere. Treves anzi, il miserabile!, dice che Bresci ha fatto benissimo e che e una bellissima cosa! Purtroppo questo parere concorda coll’intimo senso mio, non che sia una bella cosa, ma che non si può rifiutare per quanto la mia accidia cerchi degli argomenti in contrario».
(9) I teppisti dell’ordine, in Critica Sociale, 16 agosto 1900, 2a edizione dopo il sequestro.
(10) la prima sentenza pronunciata dal Tribunale di Mantova in nome di Vittorio Emanuele III, re d’Italia, condanna tale Ottorino Malagola, di vent’anni, studente in medicina, a dieci mesi di reclusione e a una multa per aver pronuncialo in un caffè la frase: «La vita del re è sacra quanto quella dell’ultimo cittadino. Come uomo compiango Umberto, non come re».
(11) l’articolo di Cesare Lombroso, apparso su L’Adriatico di Venezia, 24 sett. 1900, è ripubblicato in parie su I l Secolo di Milano il 25 settembre.
(12) L. Bulferelli, Lombroso, Torino 1975, pag. 338.
(13) A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, op. cit., pp. 76-77.
(14) L. Tolstoi, Per l’uccisione di re Umberto, Rocca San Giovanni 1913.
(15) A Cipriani, Bresci Savoia. Il regicidio, Parigi 1906, ripubblicato da Gruppi Anarchici di Roma, 1945
(16) P. Togliatti, Due date in II Comunista, Roma 1° agosto 1922, ripubblicato in Togliatti. Opere, Roma 1967, vol. 1, pp. 399-402.
(17) G. Salvemini, Terrorismo e attentati individuali, in Guerra e Pace, Roma 11 gennaio 1947, ripubblicato in Controcorrente, Boston marzo 1947.
(18) P. Gori, in difesa di un ideale in Opere, vol. IX Pagine di vagabondaggio. La Spezia 1912.
(19) U. Marzocchi, lettera al direttore del Secolo XIX di Genova, 29 settembre 1981.
IL PROCESSO
Filippo Turati rinuncia a difendere Bresci probabilmente perché alla fine prevale in lui l’incomprensione politica per l’atto, l’impossibilità di comprendere un uomo capace di compiere un tale gesto senza la prospettiva rivoluzionaria, realistica o immaginaria che fosse.
Difensore d’ufficio è designato l’avvocato Luigi Martelli, decano del foro milanese; avvocato di fiducia è Francesco Saverio Merlino che, dopo la rinuncia di Turati, ha ricevuto l’incarico soltanto nel pomeriggio di due giorni prima.
Il processo, come è noto, si svolge alla Corte d’Assise di Milano e dura una sola giornata, il 29 agosto.
La città è presidiata. Piove, una pioggia leggera e insistente che penetra nelle ossa.
La truppa circonda il palazzo, davanti al quale, già di prima mattina, sono un’ottantina di corrispondenti italiani e stranieri.
Il pratese è stato condotto in Assise durante la notte.
In apertura Merlino chiede un rinvio per avere il tempo materiale – dice – di convocare alcuni testimoni che vivono negli Stati Uniti ma in realtà per avere la possibilità di preparare la difesa. La richiesta è ovviamente respinta.
Bresci ammette a domanda di aver voluto coscientemente eliminare Umberto: – «Ho attentato al capo dello stato perché a parer mio è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. E, come ho detto altre volte, ho concepito tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia circa sette o otto anni or sono, in seguito agli stati d’assedio emanati per decreto reale in contraddizione alle leggi dello stato. E, dopo avvenute le altre repressioni del ’98, ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d’assedio emanati per decreto reale, il mio proposito ha assunto in me maggiore gagliardia».
E’ domenica, il 10 dicembre, quando a Giardinello in Sicilia, la folla, terminata la messa, si riversa nelle strade gridando: – Abbasso il municipio! Abbasso le guardie campestri e i birri! E’ l’antico, ingenuo modo dei contadini dell’isola di esprimere la propria protesta contro le ingiustizie degli amministratori locali ma l’urto fra i dimostranti e la forza pubblica si chiude con un oscuro eccidio: sette i morti fra cui una donna che porta il ritratto del re.
L’eccidio sì ripete a Lercara, a Pìetraperzia, a Gìbellina, a Marineo e Umberto firma il decreto di stato d’assedio e manda in Sicilia Morra di Lavriano(1).
Un secondo proclama di stato d’assedio dopo i fatti del ’94 nel carrarese, poi le pesanti condanne inflitte dai tribunali-giberna, la disfatta di Amba Alagi, il disastro di Adua e la rivoluzione di Milano, condotta da un popolo inerme nell’anniversario delle Cinque Giornate(2).
E’ ancora domenica, l’8 maggio del ’98, quando Bava Beccaris ordina il fuoco a Porta Ticinese e fa aprire a colpi di cannone una breccia nel convento dei cappuccini dove non ha rifugio la truppa dei ribelli ma solo ventotto frati e una quarantina di mendicanti.
Nel giro di quattro giornate le donne di Milano piangono, secondo le statistiche ufficiali, settantanove morti. I morti in realtà sono più di cento e i feriti oltre cinquecento. Ed è lo stato d’assedio anche per Milano, esteso poi a Firenze e a Napoli.
Il fondatore e direttore del Corriere della Sera, Eugenio Torelli-Viollier, uomo al di sopra di ogni sospetto, si dimette per protestare contro quello che definisce «il colpo di stato a beneficio della borghesia contro il popolo(3)».
Domata Milano, il governo adotta provvedimenti eccessivi: Turati, Bissolati, la Kuliscioff. il repubblicano De Andreis, il cavallottiano Romussi, direttore del Secolo, sono deferiti al Tribunale Militare e condannati a pene che vanno da uno a dodici anni. Cento e dieci giornali vengono soppressi (cinquanta sono socialisti, dieci repubblicani, venticinque cattolici, tre anarchici e ventidue di orientamento incerto: redattori e collaboratori socialisti, massoni, repubblicani, libertari, cattolici sono portati in blocco davanti ai Tribunali di Guerra. Il Popolo Sovrano, organo centrale del partito repubblicano subisce il dodicesimo e ultimo sequestro e non uscirà più, cfr. U. Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, vol. VII, Bologna 1979) e sciolte le società operaie e perfino le organizzazioni cattoliche comprese le sezioni dell’Opera dei Congressi, giudicate convergenti nella loro intransigenza «con il moto rivoluzionario».
Umberto Marzocchi, nella lettera al direttore del Secolo XIX, citato, scrive: «Da una parte c’è una monarchia ottusa e repressiva che alimenta intrighi politici degradanti; dovunque la sopraffazione del potere, l’abuso disumano dell’autorità, scandali bancari e temerarie avventure colonialiste non fanno che esasperare il malcontento e le dimostrazioni popolari, gli scioperi vengono sedati con gli stati d’assedio. Dall’altra, la massa dei lavoratori malpagati, affamati, spremuti dalle imposte, governati con le baionette, con la corruzione, con la paura. La spirale della violenza repressiva, iniziata con lo scioglimento dei fasci siciliani sul finire del 1893 non accenna a diminuire negli anni successivi. La mancanza di grano e l’aumento del prezzo del pane, dovuti alla guerra ispano-americana, costituiscono il motivo fondamentale dei malcontento che sbocca nelle tragiche giornate di Milano del 1898. Milano rappresenta il momento più drammatico delle violenze governative ma esse si estendono anche in altre zone. Imperterrito il governo prosegue nella sua politica poliziesca, sciogliendo associazioni operaie, socialiste, radicali e cattoliche. Migliaia sono gli arrestati e più di seicento i condannati da speciali tribunali militari, istituita la censura su tutte le pubblicazioni e sui giornali».
Il Secolo XIX scrive all’epoca coraggiosamente che la repressione è sproporzionata e testualmente «chi afferma che esiste un piano rivoluzionario non tiene conto che i ribelli non hanno armi. Non si organizza una rivoluzione senza armi».
Non basta: Pelloux, successo a Rudinì nel maggio del ’99, presenta alla Camera una serie di disegni di legge volti fra l’altro a ristabilire il domicilio coatto e la limitazione di stampa, seguendo una prassi che risponde perfettamente alle esigenze dell’annosa classe dirigente. «Quei provvedimenti sono l’espressione di un determinato piano politico, elaborato al cospetto della paura del ’98 e inteso a garantire l’ordine pubblico col fornire al governo mezzi legali (sic!) di repressione(4)».
Le parole di Bresci, che si esprime con estrema sobrietà e chiarezza e senza ricercare alcuna frase ad effetto, rievocano gli avvenimenti succintamente esposti.
Quando il presidente afferma che Umberto non è responsabile dei decreti di stato d’assedio, il pratese ribatte: – «Lui li ha firmati. Oltre vendicare gli altri, ho voluto vendicare me stesso, costretto, dopo una vita di miseria, ad emigrare. I fatti di Milano in cui si adoperò il cannone, mi hanno fatto piangere di rabbia e pensare alla vendetta. Ho pensato al re perché costui, oltre a firmare i decreti, premiava gli scellerati che avevano compitilo le stragi. Ho deciso di tornare in Italia e a questo scopo ho cercato di mettere in disparte delle economie».
Merlino, che si propone con la propria appassionata e improvvisata difesa di strappare Bresci all’ergastolo, invoca a favore del suo difeso l’attenuante che si riconnette alla situazione politica e sociale che ha generato il regicidio. Continuamente interrotto dal Pubblico Ministero, Nicola Ricciuti, l’avvocato napoletano riesce a dire: – «Noi effettivamente abbiamo attraversato un periodo acuto della nostra vita politica. Vi e stato un momento in cui, come diceva l’imputato, pareva che le nostre libertà fossero in pericolo; pareva che la gran legge dello stato fosse la sola salvezza del governo; fu proclamato che per una ragione suprema di necessità e di difesa della propria esistenza il governo avesse il diritto di manomettere le leggi, di violare lo statuto, di creare tribunali straordinari, di mettere stati d’assedio e fare tutto quello che venisse in mente al presidente del consiglio dei ministri. Noi siamo usciti fuori dal terreno delle libertà, abbiamo ricorso alle violenze; sì, il governo ricorse alla violenza e non dovete meravigliarvi se l’esempio della violenza, venendo dall’alto, provocasse una reazione al basso della società, se c’è stato chi ha creduto ad un’altra necessità, a quella cioè di opporre, alla violenza del governo la violenza privata(5)».
Merlino che, condannato nell’84 e riparato all’estero, arrestato nel ’94 al suo rientro clandestino nel Paese, è rimasto in carcere fino al febbraio del ’96, mette coraggiosamente sotto accusa il regime ponendo l’accento sull’incapacità della classe dirigente, chiusa nella gelosa difesa dell’organizzazione statale carente di caratteristiche democratiche, di affrontare le situazioni vecchie e nuove altrimenti che con pesanti repressioni. Da qui le proteste dei presenti, un pubblico esclusivamente composto da funzionari e agenti di Pubblica Sicurezza.
Prende la parola l’avv. Luigi Martelli, liberale ma devoto alla monarchia. Il Martelli parla pochi minuti insinuando il dubbio «se il Bresci abbia di sua volontà compiuto un fatto a mente sana o se questa volontà non fu al servizio di una forza arcana» ma l’imputato l’interrompe: – «Io non sono pazzo. Non voglio essere giudicato per un atto di follia ma per un atto rivoluzionario » e aggiunge, la voce alta e ferma: – «II fatto fu compiuto da me senza complicità alcuna».
Viene letta la sentenza: ergastolo e sette anni di segregazione cellulare.
Sono le 18. Fuori la pioggia cade violenta.
Bresci ha ascoltato la sentenza senza batter ciglio ma qualcuno in quel pubblico composto di secondini ha rabbrividito: segregazione significa tentare di vivere in una cella di due metri quadrati, bassa, con poca luce, un tavolaccio e una sola coperta d’inverno, una zuppa pane ed acqua una volta al giorno, il bugliolo e le cimici, divieto di leggere, di scrivere, di fumare, di parlare con gli stessi carcerieri e, in caso di insubordinazione, pene di rigore, vale a dire la camicia di forza, i ferri, il letto di contenzione. Un uomo in tale condizione finisce per impazzire se non riesce a morire. La lunga giornata è finita.
L’avv. Mario Martelli, di chiara fede monarchica, che più di una volta ha incontrato l’imputato, uscendo, dichiara: – «La figura morale del Bresci è rimasta molto misteriosa per me. Ha un fondo di straordinaria indifferenza che non arriverei a qualificare cinismo ma che è nondimeno sorprendente perché non si commuove per niente e di nulla. E’ piuttosto un bel giovane e non ha alcuno dei caratteri del delinquente(6)».
Note:
(1) N. Valeri, Giolitti, Torino 1972, pp. 135-136.
(2) Sui fasci siciliani e sulla repressione nell’isola si veda F.S. Romano, Storia dei fasci siciliani, Bari 1959; sugli stati d’assedio e i tribunali militari. A. Muratori – G. Giannini, Lo stato d’assedio e i tribunali militari, Firenze 1894; sui moti e la repressione nel carrarese, R. Bertolucci, Milleottocentonovantaquattro, Storia di una rivolta. Carrara 1981; sulla rivoluzione di Milano, N. Valeri, Giolitti, Torino 1972.
(3) In una lettera di Torelli-Viollier a Pasquale Villari pubblicata da Lucio Villari in Studi Storici, 3, 1967.
(4) cfr. G. Manacorda, introduzione all’edizione di Quelques souvenirs de ma vie del Pelloux, Roma 1967.
(5) si veda F.S. Merlino, Una difesa in Corte d’Assise, in Il Pensiero, Roma 25 dicembre 1903.
(6) p.c. Masini, Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentali, op. cit., pag. 147
VITTORIO EMANUELE RE D’ITALIA
E LE CONSEGUENZE DEL REGICIDIO
Chi s’aspetta da parte del nuovo re repressioni tradizionali all’assassinio di Umberto e chi, come Ponzio di San Martino, ministro della guerra, gli propone di proclamare lo stato d’assedio, resta quantomeno incerto alle prime decisioni. Vittorio, dopo aver rivolto un generico proclama al popolo, appone la propria firma soltanto sotto il brevetto di nomina a cavaliere dell’anziano cameriere del padre, tale Macchi, e alla concessione della pensione di combattente ai reduci delle guerre risorgimentali. Dice, dunque, di no alla repressione, all’illegalità legale, al pugno di ferro.
In una Roma svuotata dal caldo, nell’aula di palazzo Madama parata a lutto, il nuovo re presta giuramento allo statuto davanti ai senatori e ai deputati. Ci sono tutti: Crispi, Rudinì, Biancheri, Giolitti, Zanardelli, Bissolati. Firmate le tre copie del giuramento, che il guardasigilli Gianturco gli presenta, Vittorio Emanuele pronuncia un breve discorso che gli uomini della sinistra interpretano come un annuncio di apertura e di sconfessione ad una politica d’odio e di divisione.
Eppure non è azzardato pensare che, se Vittorio Emanuele lo avesse voluto, la stessa estrema avrebbe sottoscritto la soppressione del Parlamento(1). Gli stessi conservatori tirano un sospiro di sollievo, chiaro che la paura ha scrostato la patina democratica che le esigenze della concorrenza elettorale avevano imposto.
Della successione al trono ognuno trae argomento a speranze in senso diverso e impulso a tentare le più diverse pressioni e, mentre i costituzionali di sinistra vogliono credere in un orientamento più democratico, gli utopisti della reazione cui nessuna lezione è sufficiente «a snebbiare la mente dai loro sogni di ferocia e di sangue(2)» già sì industriano di tirare un po’ più d’acqua al loro mulino. E intanto c’è chi si affanna a scovare intorno al regicidio aeree complicità dell’ambiente che la logica elementare non può collocare che dalla loro parte. «Non sono loro ad avere incoraggiato la violenza plaudendo alle fucilazioni su un popolo inerme? loro, le cui suggestioni hanno empito di innocenti le gale re(3)?».
L’aria è dunque ancora infocata ma in via di decantazione. Presto lo sciopero verrà riconosciuto per quello che è, non un fatto rivoluzionano da soffocare con le baionette ma una manifestazione sindacale di lotta(4).
La retrograda e immiserita borghesia – l’economia del Paese risente notevolmente anche dei danni provocati dalle guerre e dal categorico rifiuto di Umberto di diminuire le spese militari – prende coscienza di sé e comincia ad identificare i propri interessi in quelli della massa proletaria.
Vittorio è re da quattro mesi quando il prefetto di Genova prende un provvedimento gravissimo. Scioglie la Camera del Lavoro definendola «un’organizzazione sovversiva».
Migliaia di lavoratori scendono in sciopero contro la decisione prefettizia.
Saracco difende il rappresentante del governo ma subito dopo annulla il provvedimento. Aspramente criticato per opposti motivi dall’estrema sinistra, dai conservatori di Sidney Sonnino, dall’ala liberale e progressista cui appartengono Zanardelli e Giolitti, il ministero Saracco cade il 6 febbraio del 1901.
Giolitti, due giorni prima, ha pronunziato in parlamento il famoso discorso: «Il moto ascendente delle classi popolari si accelera ogni giorno di più ed è un moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiato sul principio dell’eguaglianza fra gli uomini. Nessuno si può illudere di poter impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza politica. Dipende principalmente da noi, dall’atteggiamento dei partiti costituzionali nei rapporti con le classi popolari, che l’avvento di queste classi sia una nuova forza, elemento di prosperità e di grandezza e non un turbine che travolge».
Umberto vivo avrebbe manipolato le conclusioni parlamentari, avrebbe composto un gabinetto di sua mano al di fuori di qualsiasi indicazione delle camere, avrebbe scelto un presidente del consiglio come si sceglie un sarto(5). Il fìglio – Bresci è già stato trasferito al penitenziario di Portolongone e rinchiuso in una cella del sotterraneo del fabbricato che ha accolto Passanante – tra il generale favore conferisce l’incarico a Zanardelli, leader riconosciuto del centro-sinistra, in passato avversario irriducibile di Umberto.
Il nuovo governo, con Giolitti agli interni, adotta misure di alleviamento fiscale su generi di prima necessità: farina, pane, pasta il cui prezzo è il cappio alla gola del popolo dai tempi della tassa sul macinato.
La storiografia oggi con il riconoscimento di una razionalità oggettiva che l’attentato di Monza ha nello sviluppo delle vicende del nostro Paese fa propria la valutazione delle conseguenze del regicidio data da Luigi Galleani: «La conversione di Zanardelli e di Giolitti verso l’estrema sinistra, la collaborazione che questa – sacrificata la temerità del programma massimo – dà incondizionata al ministero borghese, lo spirito militare diminuito al governo, lo statuto circondato di più prudente rispetto, la foia di legiferare intorno al lavoro e alla tutela del lavoratore, uno spirito nuovo di conciliazione in cui cercano di assopirsi gli attriti di classe, la rara ed eccezionale applicazione della legge sul domicilio coatto, sono fenomeni che procedono dal sacrificio generoso di Gaetano Bresci e, se da esso non si riattaccano come a causa unica, con esso hanno rapporto strettissimo di causa ed effetto(6)».
Saranno rispettate dunque le libertà statutarie e il suffragio universale verrà a testimoniare che «gli italiani al governo considerano gli italiani tout court» e quando il conte Arrivabene se la prenderà con il ministro dell’agricoltura, Guido Baccelli, perché i suoi contadini scioperano e il governo non fa niente per indurli a lavorare «come usava quando contro di loro si sarebbe mandato l’esercito» e deplora d’essere costretto a prendere lui stesso l’aratro, Giolitti può rispondergli, malizioso e grave: – «La esorto a continuare così. Potrà rendersi meglio conto della fatica che fanno i suoi contadini e pagarli meglio».
Vittorio Emanuele liquida intanto la composita compagnia di consiglieri e di assistenti di cui Umberto amava circondarsi. Dev’essersi certo chiesto il piccolo re quid agendum?, proprio come Sonnino che così intitolerà un suo articolo che apparirà nella Nuova Antologia(7) ma, mentre Sonnino affermerà che «alle forze disgregatrici occorre opporre una qualche unione dei partiti nazionali, Vittorio deve domandarsi se sia veramente utile alla causa della conservazione ignorare le agitazioni operaie e denunziarle come attentati all’integrità della patria.
Si chiude la villa di Monza. Si ordina di murare la piccola porta. Si diradano le pratiche religiose che, con Margherita impegnata a dissipare l’antica ruggine fra i Savoia e la Santa Sede, hanno acquistato negli anni particolare evidenza. Nota è del resto la scarsa simpatia di Vittorio Emanuele per i preti. Meno noto è che, morto Gaetano Bresci in carcere, lasciando la famiglia nella più completa miseria(8), assegna motu proprio una pensione alla vedova e alle figlie dell’anarchico(9).
Il piccolo re, che suo padre umiliava bambino; il mezzo storpio, tenuto lontano dalla politica fino a trentun’anni, che non ha amici né dimestichezza con gli uomini di governo, costretto a raccogliere una monarchia già logora, mostra di aver capito la lezione più di molti suoi contemporanei.
Inizia così la sua carriera di sovrano quel re che mai avrebbe voluto esserlo(10), quel re che appartiene alla classe espressa dal fermento innovatore della borghesia italiana e che della borghesia interpreterà sempre gli impulsi anche quelli dissennati o isterici: prima con una certa propensione verso il socialismo, poi con l’impennata nazionalistica, il fervore interventistico, l’appoggio al fascismo, la passività durante il ventennio(11).
Note:
(1) A. Labriola, Storia di dieci anni 1899-1909, op. cit., pag. 80.
(2) cfr. La successione, in Critica Sociale, n. 15, 1° agosto 1900.
(3) cfr. La successione, art. cit.
(4) Ricordiamo al lettore che l’astensione dal lavoro per la tutela e la rivendicazione dei diritti di determinate categorie di lavoratori può individuarsi fino dalla più remota antichità: episodi di notevole risonanza si hanno sia nell’economia schiavistica (è sufficiente citare lo sciopero degli addetti al recinto funerario regio in Egitto nel 1300 a.Cr.; quello degli addetti alle miniere in Grecia nel 650 a.Cr. e quello dei flautisti a Roma nel 309 a.Cr.) sia nei secoli del medioevo fino ai primordi dell’età moderna peraltro sempre represso e accompagnato da disposizioni legislative restrittive (costituzioni dell’imperatore Zenone nel 470; norme dettate da Federico I; misure contro l’astensione dal lavoro contemplate dagli statuti di Sassari, Bologna e Padova; proibizioni imposte dai vari sovrani in Francia e in Inghilterra).
(5) S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III, op. cit., pag. 188.
(6) L. Galleani. Gaetano Bresci in Cronaca sovversiva, 26 luglio 1902.
(7) 16 settembre 1900.
(8) La Questione sociale di New York promuoverà una sottoscrizione (la Nickelprotesta dato che la richiesta sarà di una moneta di cinque soldi) a favore della famiglia, sottoscrizione che supererà i mille dollari.
(9) S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III. op. cit., pag. 184.
(10) Vittorio Emanuele confiderà più tardi al proprio aiutante di campo, generale Paolo Puntoni: «Non avevo alcuna intenzione di succedere a mio padre e l’avevo quasi convinto ad accogliere il mio proposito di rinunciare alla corona ma fu ucciso ed io non potei rifiutare… (così il Puntoni nel suo diario. Parla Vittorio Emanuele, edito nel 1958).
(11) S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III, op. cit., pp. 185-186.
IL SUICIDIO DI BRESCI
Gaetano Bresci si trova quindi nella torre di Passanante e con tutta probabilità, come Passanante, considerate le condizioni fisiche e psichiche di quella segregazione, avrebbe finito con l’impazzire.
Giunge tuttavia l’ordine di trasferimento al penitenziario di Santo Stefano.
Per amore della verità è da tener conto che, se la posizione geografica di isolamento con la conseguente quasi assoluta impossibilità di evasione giustifica il trasferimento, proprio quella quasi certa impossibilità di sfuggire alla pena, avrebbe consentito un trattamento meno restrittivo.
Bresci sbarca sull’isola dell’arcipelago pontino il 23 gennaio.
La nave da guerra Messaggero con la bandiera ammainata è giunta davanti all’isolotto alle sette del mattino. Subito è stata calata in mare una lancia sulla quale hanno preso posto sei uomini ai remi.
Fa freddo. La foschia avvolge l’isola ma si vede chiaramente la sagoma del vecchio carcere borbonico che il governo italiano ha ripristinato come penitenziario nel 1893.
Bresci tira diritto verso il barcarizzo senza alzare lo sguardo. Scende nella lancia e si sistema a poppa ma gli viene intimato di sedersi sul fondo.
– Perché mai?- chiede e levando in alto i polsi incatenati aggiunge: – Non ho alcuna intenzione di morire affogato.
Il pratese viene sistemato in una cella già predisposta(1). Ai lati della cella, posta in un luogo assolutamente irraggiungibile da parte degli altri detenuti, sono state ricavate due stanzette, munite di feritoie per consentire ai due guardiani di sorvegliare costantemente Bresci.
Il giovane, indossata la divisa da galeotto a righe bianche e marrone con il colletto nero (che distingue gli assassini più abbietti dagli altri che hanno una divisa con il colletto giallo), entra in cella a mezzogiorno. E’ sereno. Sa che Merlino ha presentato ricorso contro la sentenza di Milano e spera in cuor suo che, come già per Cipriani e per Batacchi, siano prese iniziative per una revisione del processo ma le voci insistenti di un piano per liberare l’anarchico fanno si che a Santo Stefano sia inviato ben presto un plotone del 49° fanteria per vigilare dall’esterno il penitenziario: un aggravio non certo trascurabile che si aggiunge all’onere sostenuto dall’amministrazione carceraria per la vigilanza a vista(2).
Giolitti intanto confida ad Alessandro Guiccioli, allora prefetto di Torino, quella sua convinzione, cui abbiamo dato cenno, che il gesto di Bresci sia stato guidato dalla volontà di Maria Sofia(3). La confidenza fatta a Guiccioli corre di bocca in bocca: sarà l’alibi morale del delitto che Giolitti, sotto il pretesto della ragion di stato si prepara a consumare. In realtà dietro la montatura del complotto sta l’opera di un branco d’incapaci, assoldati dal governo con il compito di sorvegliare i sovversivi italiani residenti in Francia e in Inghilterra e di riferire sui movimenti dell’anarchico Errico Malatesta. Le notizie trasmesse si rivelano spesso prive di fondamento o, se hanno un fondo di verità, volutamente gonfiate.
Per quanto riguarda Maria Sofia di vero c’è solo il fatto che l’odio che porta ai Savoia la spinge a simpatizzare con gli anarchici (da qui l’appellativo di reine aux anarchistes) fra i quali milita quel suo vecchio suddito napoletano che si chiama Malatesta con cui ha rapporti diretti e che da lei riceve certamente un modesto aiuto finanziario da utilizzare nella propaganda.
Scrive Malatesta: «in quanto alla buona o cattiva fede della Signora (chiaramente Maria Sofia) è possibile anzi è probabile che Oreste (con ogni probabilità Oreste Boffino) abbia ragione. Ma ciò in fondo non importa nulla. Quando avverrà la rivoluzione in Italia, vi saranno certamente, specie nel Mezzogiorno, tentativi reazionari ma essi non saranno più importanti e non avranno maggiore possibilità di riuscita per il fatto che quella Signora è stata in relazione con noi e ci ha fornito dei mezzi. Ciò sarebbe il caso se noi ci facessimo imporre da lei o da chi per lei una qualsiasi direzione(4)».
La pubblicazione di questa lettera fa luce, come nota il Masini nell’opera citata, sulla questione dei rapporti intercorsi fra Malatesta e Maria Sofia.
Nel 1926 Benedetto Croce pubblicherà su La Stampa di Torino una serie di articoli, poi compresi nel volume Uomini e cose della vecchia litalia. In uno di questi articoli, l’ultimo. Croce Scriverà: «Maria Sofia sembra che fosse, conforme alla sua indole, di volta in volta disposta a folli speranze e non aliena da intrighi: quel tale Insogna, biografo di Francesco II, venne in Italia nel 1904 con una lettera dell’anarchico Malatesta a prendere accordi per liberare Bresci».
I comunisti saranno pronti ad utilizzare l’articolo di Croce per gettare un’ombra sul gesto dell’anarchico, considerato non più un fatto individuale ma il frutto di una macchinazione borbonica(5). Malatesta, raccogliendo la sfida, risponderà ironizzando sull’errore del Croce: è possibile tentare di liberare un uomo morto da tre anni(6)?
Giolitti però a suo tempo insiste sul complotto borbonico per strappare Bresci all’ergastolo, già in lui la volontà di mandare ad effetto il disegno tracciato nell’atto del trasferimento del detenuto da Portolongone a Santo Stefano(7).
L’annuncio ufficiale della morte del detenuto n° 515 è del 22 maggio.
Un telegramma, firmato dal direttore del penitenziario giunge a Roma: «Questo momento (ore 16) impiccossi inferriata mediante asciugamano detenuto Bresci». Ma come se il regolamento vieta gli asciugamani in cella? Con un fazzoletto allora?
Sarebbe possibile, poiché più di un detenuto si è tolto la vita stringendosi il fazzoletto intorno al collo fino a rimanere soffocato ma allora perché mai il secondino Barbieri di turno alla feritoia dichiara di «essersi allontanato per un paio di minuti per soddisfare una necessità corporale dopo essersi accertato che il detenuto, seduto sullo sgabello, sia tranquillo (Bresci sta leggendo) e, tornato al proprio posto, di aver visto l’uomo penzolare dalla sbarra trasversale dell’unica finestrella con il collo stretto da un nodo scorsoio formato con l’asciugamano»?
Del resto, se Bresci per togliersi la vita ha usato il fazzoletto di grossa tela bianca e azzurra in dotazione, come avrebbe potuto appendersi alla finestra?
E perché mai l’ispettore Doria, già implicato nello scandalo delle confessioni estorte ad Acciarito, che, a leggere i giornali dell’epoca, parte da Roma per Santo Stefano intorno alla mezzanotte dello stesso giorno 22 si trova invece nel penitenziario dal giorno 18 per compilare una relazione personale per Giolitti?
E perché mai dal registro che contiene il curriculum dei detenuti manca una sola pagina, proprio quella che riguarda Gaetano Bresci(8)?
In più i tre medici – Gianturco, Corrado e De Crecchio – che eseguono l’autopsia constatano con stupore che il cadavere presenta evidenti segni di putrefazione, cosa giudicata del tutto anormale essendo l’uomo deceduto da meno di quarantotto ore.
C’è da chiedersi infine: può un uomo deciso a farla finita preoccuparsi del pasto serale(9) che ai detenuti in segregazione non viene distribuito?
I compagni di fede sostengono subito la tesi del delitto. Sofia dichiara al New York Times: – «Posso serenamente affermare che mio marito mai si sarebbe tolto la vita».
Bresci stesso al giudice istruttore ha a suo tempo dichiarato che non sarebbe stata necessaria la sorveglianza a vista non avendo alcuna intenzione di sopprimersi: se avesse voluto farlo avrebbe rivolto contro se stesso l’arma con la quale aveva ucciso Umberto e sparato il quinto colpo (il che avalla l’ipotesi che i colpi sparati siano stati quattro).
Ezio Taddei affermerà che Bresci è stato ucciso dal capomozzo Sanna(10). Certo è che il Sanna viene trasferito due giorni dopo la morte del regicida a Procida e successivamente liberato per grazia sovrana(11).
Secondo Ezio Riboldi, il pratese è finito a colpi di bastone durante un santantonio, il trattamento a base di percosse cui sono sottoposti i detenuti(12).
Fatto è che la tesi ufficiale non regge.
A una anno dal suicidio a New York vanno a ruba le cartoline postali con l’immagine del pratese, ritto, la mano levata, gli occhi fieri, al posto della statua della libertà(13), cartoline che gli emigrati inviano in Italia.
Del resto la tesi dell’assassinio è condivisa anche da uno storico conservatore che, pur dando credito all’opinione del complotto borbonico con l’aggiunta di «complicità papaline» per liberare l’anarchico venuto dall’America, afferma che Doria «mette le cose a posto in poche ore» (14).
Pier Carlo Masini aggiunge: «che cosa di più liberale e di più liberante sul piano della coscienza dell’eliminazione di Bresci per sventare un complotto del nemico nell’interesse dello stato e della nazione(15)?»
Bresci entra due volte nella storia.
Note:
(1) sappiamo che la Direzione Generale delle Case di Pena ha inviato al direttore del penitenziario, tale Cecinelli, un progetto in tal senso: la predisposizione della cella ricalca fedelmente quella che ha accolto il capitano Dreyfus all’Isola del Diavolo.
(2) P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, op. cit., pag. 167,
(3) testimonianza di A. Giuccioli riportata da G. Artieri in Cronaca del Regno d’Italia, op.cit., pag. 846.
(4) si veda al riguardo la lettera di Malatesta, datata Londra 18 maggio 1901 a destinatario sconosciuto, pubblicata da L. Gestri, Dieci lettere inedite dì Cipriani, Malatesta e Merlino in Movimento operaio e socialista, anno XVII, ottobre-dicembre 1971.
(5) Chi spinse Bresci al regicidio, in L’Unità, 11 giugno 1926.
(6) E. Malatesta, Per un fatta personale. Manovre borboniche e malignità comunista? in Il Risveglio, Ginevra, 31 luglio 1926.
(7) si veda al riguardo l’intervista di C. Fontana a U. Alfassio Grimaldi, Perchè venne inscenato il suicidio di Bresci in Avanti!, 13 marzo 1971.
(8) i registri del penitenziario di Santo Stefano, chiuso nel 1963, si trovano presso la direzione dell’Istituto di Pena di Montecassino. Arrigo Petacco. che nel ’68 raccoglie per una trasmissione televisiva il materiale da cui verrà fuori i! suo libro-inchiesta (A. Pet acco, L’anarchico che venne dall’America, Milano 1969) testimonia questa circostanza e aggiunge che, consultando l’Archivio Generale dello Slato, non è possibile trovare una sola notizia che riguardi Bresci come se l’anarchico mai fosse sbarcato a Le Havre, mai avesse raggiunto Monza, mai avesse sparato al re, mai fosse stato giudicato, mai fosse morto.
(9) Bresci consuma il pasto di mezzogiorno: brodo di verdura e pane scuro ma, poiché dispone di un piccolo deposito (vi ha provveduto Sofia Kneiland) ha chiesto un bicchiere di vino e un po’ di formaggio: mette da parte per la sera quel formaggio e un po’ di pane.
(10) Enzo Taddei come Enzo Riboldi, anarchici entrambi, conducono in tempi diversi indagini sulla morte di Bresci. Sul suicidio è stato precedentemente scritto da G. Ciancabilla, direttore della rivista La Protesta umana, in L’Aurora, Il processo agli assassini di G. Bresci, Spring Valley III, 15-22 giugno 1901; da Effabo Scaramelli in La Protesta umana, Sulla morte di Bresci, 22 giugno 1907. Si vedano sull’argomento anche gli articoli di II Nichilista in La Protesta umana, La morte di Bresci, 25 maggio 1907 e si consulti il numero speciale de L’Aurora, 21 luglio 1901.
(11) E, Taddei, Bresci in L’Adunata dei refrattari , 26 febbraio 1938