In quest’opera di sovvertimento dei valori morali, pare che anche i vocaboli più correnti abbiano perduto il loro vero significato. Fra questi, la parola rinnegato non si applica più come una volta ai transfughi di una idea, di una fede. Rinnegato oggi significherebbe tutto l’opposto. Almeno così appare nei documenti destinati al pubblico dai novelli legislatori della nazione. Rinnegato è colui che al proprio ideale si mantiene fedele, che per esso opera con disinteresse, per esso colpisce, per esso si immola. Così insegna la morale espressa dal trasformismo dinamico dell’era nuova.
Come potrebbe essere altrimenti?
Se il vocabolo suddetto dovesse conservare il suo senso logico, sin qui universalmente ammesso, allora si conterebbero sulle dita di una mano quelli fra gli attuali arrivati al potere cui non confarebbe applicarlo in tutta la sua eloquente pienezza. Ed in primissima linea apparirebbe — non fra le eccezioni però — il supremo gerarca ed i suoi più immediati coadiutori. Non v’è gradino della nuova configurazione statale in cui non si annidino a bizzeffe i transfughi di un movimento d’avanguardia. Non v’è regione, provincia, comune di quest’Italia… ricostituita, rinazionalizzata in cui non pullulino i girella, i Rabagas: ecco perché conviene, agli attuali parvenus del potere, capovolgere i termini e chiamare rinnegato chi fermo si mantiene alla fede professata, onde di tale epiteto possano andare immuni coloro che, per vanità o per lucro, per vigliaccheria o per brama di potere, hanno abiurato, hanno tradito, son venuti meno alla lealtà, alla coerenza, al coraggio civile.
Non chiamiamoli dunque rinnegati, ì convertiti al regime nuovo, allo Stato forte. Se il senso troppo pronunziato dell’ironia c’interdice ancora di chiamarli coerenti, di esaltarli come uomini di carattere, chiamiamoli per intanto dinamici, realisti, attivisti. Rinnegati, no; poiché i rinnegati siamo noi, sono tutti coloro che al regime liberticida, allo Stato reazionario, non si sono piegati e non si piegano.
Scherzi a parte, l’atteggiamento della grande maggioranza dei politici di Italia rasenta l’incoscienza. Quello che addolora non è tanto la mancanza dì carattere o il rinnegamento di ogni singolo uomo pubblico in se stesso, ma l’effetto che le varie apostasie producono sul morale generale delle masse. Si ha un bel dire: ciò era fatale. Si ha un bel compiacerci di aver sempre affermato che il politicantismo mena a tutto fuorché al bene del popolo, che la democrazia è una menzogna, che il liberalismo mira a tutt’altra cosa che non alla libertà, che il parlamentarismo è l’ultimo rifugio della corruzione e dell’inganno. In fondo alle nostre critiche più acerbe v’è posto all’ottimismo, se non altro nel senso di concepire l’eccezione per altri metodi, per altri sistemi. E se chi fino a ieri ha consentito in tali nostre critiche, oggi le rinnega passando al nemico, il danno del suo tradimento non si circoscrive alla propria persona, ma va oltre colpendo ed infamando forse anche il campo di chi ha serbata intatta e pura la fede nella libertà.
A questo titolo il fedifrago va odiato ed additato al disprezzo generale, come un Giuda volgare che, per trenta denari, consegna al nemico quanto doveva essergli di più sacro: la bandiera del proprio ideale.
«Un mostro di coerenza» — così definiva a Roma il duce, colui che nel 1914 gli era stato compagno durante la “Settimana Rossa”. Forse, più che un complimento all’intransigenza dell’anarchico — che doveva logicamente implicare riprovazione per se stesso — il duce intendeva esprimere in quel momento una semplice constatazione, che cioè la coerenza più che una virtù operante, costituisce un impaccio, al quale egli, da perfetto arrivista, aveva saputo tempestivamente sottrarsi.
Così, su per giù, debbono aver ragionato i suoi compagni in… coerenza, i filosofi liberaleggianti diventati ministri reazionari, i giornalisti esaltatori del bel gesto innalzati al laticlavio, i già scapigliati demagoghi del sindacalismo e dell’antimilitarismo scaraventati alle varie prebende statali, tutta la sequela insomma dei procaccianti e dei profittatori dai campì più opposti assurti con dinamica prestezza al governo della pubblica cosa.
La psicologia del rinnegato sta tutta lì.
Un giorno essa verrà tracciata con i dovuti sviluppi da mano competente. Ma i suoi elementi si possono osservare sin da ora ogni giorno nelle manifestazioni pratiche dei virtuosi dell’apostasia che mai come in quest’epoca di decadenza e di decomposizione politica si sono inclinati in numero sì compatto dinanzi alle seduzioni dei poteri costituiti.
La psicologia del rinnegato è la psicologia della stessa vita politica italiana.
(Fede, n. 31 del 20 aprile 1924)