Contrastare la repressione: riflesso condizionato o moto proprio? (2003) it/en/fr

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Tira una brutta aria, inutile nasconderlo. Talmente brutta che persino fra le anime belle della sinistra serpeggia una certa preoccupazione e si denuncia in maniera sempre più veemente l’instaurazione di un “regime” da parte dell’attuale governo. È vero, a destra non hanno mai dimenticato la propria tradizionale inclinazione per l’olio di ricino e il manganello, ma resta il fatto che repressione, censura e divieti sono il pane quotidiano che ci propina ogni forma di governo, quale esso sia. In realtà, al di là della fazione politica momentaneamente incaricata di amministrarlo, è questo mondo a senso unico ad esigere una vita a senso unico, fatta di un pensiero a senso unico e d’un comportamento a senso unico… in un’autentica coerenza dell’abiezione. Fino alla messa al bando di ogni critica, d’ogni dissenso, d’ogni opposizione, che laddove si verificano vengono puntualmente isolate, circoscritte, calunniate, soffocate, rinchiuse.

Basterebbe dare una rapida occhiata a quanto sta accadendo nell’ultimo periodo un po’ in tutta Italia. All’interno del “movimento”, indagini, arresti, fermi, perquisizioni, percosse e diffide si stanno sprecando e stanno raggiungendo praticamente chiunque, dalle teste calde a quelle più fredde passando per quelle tiepide. Le porte della prigione si aprono per tutti: basta essere accusati di aver compiuto un attentato, o di aver costituito l’ennesima associazione sovversiva, o di aver ostacolato un’identificazione o una retata, o di aver allontanato un infiltrato da una manifestazione, o di aver partecipato a un presidio, o di aver occupato uno stabile e presto anche la semplice accusa di colorare le vetrine traboccanti merci diventerà motivo sufficiente per finire dietro le sbarre. Al tempo stesso si dà fondo alle mille possibilità fornite dal codice penale per ostacolare in maniera vellutata ogni forma di attività, elargendo fogli di via e vietando l’ingresso in città a compagni residenti nei piccoli paesi limitrofi (graziosa versione moderna edulcorata del vecchio confino). Facile prevedere l’incremento di simili pratiche repressive.

Ma, ciò che più importa, non è solo il movimento — nelle sue molteplici sfumature — ad essere nel mirino della repressione, bensì è la società nel suo insieme a subire uno stretto giro di vite. Il divieto di critica alla presenza delle truppe italiane in Iraq ha raggiunto livelli sbalorditivi: un campo di calcio è stato squalificato perché i suoi tifosi non hanno manifestato il proprio cordoglio per i militari morti a Nassiriya, alcuni studenti minorenni rei di aver esposto striscioni contro la guerra sono stati trascinati in caserma per essere interrogati, altri studenti che avevano diffuso un volantino hanno visto perquisite le proprie abitazioni, l’offuscamento di un sito d’informazione come Indymedia è stato chiesto in parlamento perché ha ospitato voci fuori dal coro nazionalista. Più in generale, si passano al setaccio intere scuole alla ricerca di droga, si espellono dal paese in poche ore degli stranieri perché sospettati di chissà cosa, li si buttano fuori casa a centinaia nel cuore dell’inverno, si censurano trasmissioni televisive satiriche perché troppo satiriche,… e si potrebbe andare avanti. Gli esempi, purtroppo, non mancano. Anzi, vanno aumentando con una certa progressione, come la delirante reazione allo sciopero dell’ATM a Milano che ha lasciato a piedi la città per una giornata: se a destra si invoca una dura punizione per gli scioperanti, a sinistra c’è chi chiede l’intervento dell’esercito in caso di nuove interruzioni di servizio. Ed è facile immaginare cosa accadrà non appena inizierà ad essere applicata la nuova legge sulle droghe.

A fronte di ciò, ci sembra davvero urgente un dibattito pubblico, prima che ogni spazio di parola e di azione ci venga precluso del tutto.

Cominciamo con una premessa. Il fatto che oggi chiunque non sia pronto a scattare sull’attenti finisce nel mirino della repressione, significa che la divisione fra i “buoni” da coccolare e i “cattivi” da bastonare ha fatto il suo tempo. Sicuramente ciò non servirà ad unire le diverse anime del movimento – con buona pace di tanti ecumenici —, divise da ben altro che dal voto in condotta sulla pagella dello Stato, ma potrebbe contribuire a spazzare via un vecchio e insulso luogo comune purtroppo diffuso, quello secondo cui la repressione equivarrebbe ad un certificato di radicalità: «vengo represso, dunque sono». Convinzione che porta alcuni a credere che più si viene repressi e più si è, in un delirio di autocompiacimento che in qualche caso deborda nel sacrificio. È evidente che, nel momento in cui la repressione si sta estendendo ad ogni settore della società, diventa ridicolo pensare che essa colpisca solo chi attenta alla sicurezza dello Stato. Ciò significa che, contrariamente a quanto pensano i capibastone dei vari racket militanti, l’incremento della repressione non corrisponde affatto all’incremento della minaccia rivoluzionaria del movimento o di qualche sua componente. Ad essere sinceri ci sembra che il movimento, inteso nel suo senso più ampio, stia toccando uno dei suoi punti più bassi, tutto preso da un lato a conquistare sponde mediatiche e istituzionali e dall’altro a dibattersi in una cronica carenza di prospettiva. La stessa esplosione di Genova avvenuta due anni or sono ci pare più dovuta a un insieme di circostanze, verificatesi soprattutto a livello internazionale, che a una supposta maturità raggiunta dal movimento qui in Italia (prova ne sia il deflusso che ne è immediatamente seguito).

Ma allora, se il movimento in sé non è affatto così forte, così pericoloso per il sonno di lorsignori, perché stiamo assistendo a questo stillicidio di arresti e intimidazioni? A nostro avviso perché è la situazione sociale nel suo insieme ad essere oramai talmente debole e fragile da non permettere a chi di dovere di correre troppi rischi. L’edificio sta sì ancora in piedi in tutta la sua monumentale imponenza, ma le sue fondamenta si fanno vieppiù putrescenti e gli scricchiolii più rumorosi. Come a dire che non veniamo repressi perché siamo forti noi, decisamente no, ma piuttosto perché sono deboli loro. Sia chiaro, non si sta dicendo che questo ordine sociale non sia in grado di imporre il suo volere o che sia vulnerabile militarmente o cos’altro. Solo che procede più per un moto d’inerzia che grazie ad un’azione propulsiva, poggiando più su una passiva rassegnazione che su un attivo consenso, in un contesto talmente lacerato da non garantire alcuna stabilità duratura. Insomma, la precarietà sta affliggendo anche il dominio. Consapevole di questa sua debolezza, si trova costretto a fare la voce grossa e ad intimidire i suoi nemici, veri o presunti che siano: lo fa adesso perché se lo può ancora permettere. Ciò lo porta anche ad esagerare ogni accadimento al fine di creare quell’allarmismo capace di giustificare pubblicamente misure altrimenti improponibili, nonché di provocare quel panico bisognoso di uno straccio di sicurezza in grado di rincuorarlo.

Come abbiamo già detto questo grande abbaiare dei cani da guardia del potere incute sì timore, ma denota anche una certa fragilità. Questo dovrebbe farci riflettere sulle possibilità che ci si aprono davanti, su come aggirare i mastini al fine di allungare le mani su quanto proteggono. Invece ci sembra che i loro latrati stiano diventando un’ossessione per tanti compagni, portando chi ad occuparsi esclusivamente di curare le ferite inferte dai loro morsi, chi a sfidarli per il piacere dello scontro o perché incapaci di vedere oltre. Vogliamo far notare come in entrambi i casi abbia luogo uno slittamento dei nostri obiettivi, e quindi anche delle nostre pratiche, come il nostro fine si modifichi giacché dalla lotta contro l’esistente si passa alla lotta contro le forze che lo difendono. Si tratta della stessa cosa? No, non lo è, a meno di confondere causa ed effetto. Combattere e difendersi dalle forze dell’ordine non significa in sé e per sé sovvertire i rapporti sociali dominanti. Ed in un momento in cui questi rapporti sociali sono particolarmente instabili, è lì che bisogna puntare la nostra attenzione, la nostra critica teorica e pratica, evitando il più possibile di venire spinti unicamente dal riflesso condizionato provocato dalla repressione. Perché altrimenti si finisce con l’abbandonare il terreno fertile ma sconosciuto dei conflitti sociali per arroccarsi in quello sterile ma noto della contrapposizione fra noi e loro, fra compagni e sbirri, in uno scontro ricco di spettatori ma povero di complici.

Ormai, col solo fatto di inquisire ed arrestare, lo Stato riesce spesso a dare a chi viene represso l’illusione d’essere per ciò stesso pericoloso, di stare già facendo qualcosa di concreto. Dà a tutti noi la letale illusione di essere forti, che il nostro dibatterci sia significativo, laddove in realtà si è debolissimi (benché potenzialmente nocivi per il dominio). In questo modo possiamo dirci soddisfatti della nostra attività, per quanto carente sia, senza chiederci come affinarla, respingendo ogni dibattito critico in quanto concepito sovente come una perdita di tempo. Inoltre, come ben si sa, la repressione spinge il movimento sulla difensiva, ci porta tutti quanti a doverci occupare dei compagni arrestati, degli avvocati da trovare, dei soldi da raccogliere, delle manifestazioni sotto il carcere da organizzare, delle udienze a cui partecipare. Anche chi ricorre a pratiche di protesta più estreme, come l’invio di pacchi-bomba, non sfugge a questa logica: lo Stato contro il movimento, il movimento contro lo Stato, in un susseguirsi frenetico di arresti, proteste contro gli arresti che portano a nuovi arresti, che portano a nuove proteste che portano a nuovi arresti,… Sì, stiamo venendo tutti repressi. Ma possiamo dire per questo di essere pericolosi? O tutta questa repressione che si sta abbattendo sul movimento non è altro che un modo per impedirci di diventarlo veramente?

Forse è il caso di chiarire alcune questioni. Il sostegno materiale a chi finisce in carcere, triste eventualità che si sta facendo sempre più concreta per ciascuno e che meriterebbe maggiore considerazione, è e deve rimanere un problema tecnico. Di ben altra natura è invece la questione di cosa vogliamo fare contro questo mondo intollerabile. Per quanto possa sembrare crudele, bisogna respingere il ricatto morale che ci viene lanciato ogni qualvolta un compagno viene arrestato. Non esiste nessun dovere di solidarietà da rispettare. Nessuno finisce in galera al posto di chi è fuori, nessuno è fuori dalla galera per merito di chi è dentro. Anche se la sua liberazione è una delle nostre principali preoccupazioni non possiamo farla diventare il fine a cui tutto subordinare, non possiamo smettere di correre solo perché chi ci sta a fianco è stato fermato, bensì dobbiamo darci da fare per creare le condizioni per la sua liberazione e per quella degli altri, non fermando lo sguardo e l’attenzione a ciò che vediamo immediatamente davanti a noi, ma rendendoci imprevedibili, non fissandoci su scadenze precostituite ma stabilendo noi le nostre. La nostra agenda non può essere ricalcata né su quella del governo, né su quella della magistratura, né tanto meno su quella dei vari gruppetti politici che inseguono i riflettori della notorietà. Insomma, anziché fermarsi per ritrovarci di fronte alle mura di un carcere ad esigere il rilascio di chi vi si trova recluso, meglio sarebbe continuare a correre sempre più forte e in tutte le direzioni. Non solo perché questa è la maniera migliore per esprimergli la propria solidarietà, giacché la consapevolezza che c’è chi continua il cammino intrapreso è più confortante di ogni rumoroso saluto; ma soprattutto perché è anche la maniera migliore per mostrare l’inutilità di simili battute d’arresto a chi le ordina ed esegue.

Ecco perché pensiamo che il miglior modo per dibattere su cosa fare contro la repressione, a parte ogni possibile considerazione e accordo di tipo tecnico, consista in realtà nell’interrogarsi costantemente su cosa fare per nuocere a questa società nel suo insieme e nel trovare risposte nel corso dell’azione. Perché è vero che tira una brutta aria, inutile nasconderlo. Ma è pur vero che, se davvero desideriamo lo scatenamento della tempesta, quello dell’aria che tira non può che essere un falso problema.

[8 dicembre 2003]

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Opposing Repression: Conditioned Reflex or One’s Own Revolt?

A nasty wind is blowing, it’s useless to hide it. So nasty that a certain worry even spreads among the fine souls of the left, and the establishment of a “dictatorship” by the current government is denounced in an increasingly vehement manner. It is true, on the right they have never forgotten their traditional inclination for castor oil and the cudgel, but the fact remains that repression, censure and prohibition are the bread that every form of government administers to us, no matter what it is. In reality, beyond the political faction momentarily charged with administering it, it is this one-way world that requires a one-way life, made from a one-way thought and one-way behavior… in an authentic coherence of abjection. Up to the point of placing a ban on any critique, any dissent, any opposition, all of which are punctually isolated, circumscribed, slandered, suffocated, locked up, wherever they show themselves.

It would be sufficient to take a quick look at what is happening in the latest period pretty much all over Italy. Within the “movement”, investigations, arrests, detentions, searches, beatings and intimidation are spreading farther and farther and reaching practically everyone, from the hot heads to the coldest passing through the tepid. The prison doors open to all: it is enough to be accused of an attack, or of having formed yet another subversive association, or of having hindered an identification or a police roundup, or of having removed an infiltrator from a demonstration, or of having participated in a vigil, or of having occupied a building; and soon even the mere accusation of coloring shop windows that overflow with commodities will be reason enough for ending up behind bars. At the same time, the authorities run through the thousands of possibilities furnished by the penal code in order to block every form of activity, freely dealing out expulsion orders and prohibiting entrance into cities to comrades residing in small neighboring villages (charming modern version sweetened from the old forced residence). Easy to foresee the increase of such repressive practices.

But more importantly, it is not only the movement – in its multiple shades – that the repression is aimed at, but rather it is society in its totality that is suffering a tight turn of the screw. The prohibition of criticism to the presence of Italian troops in Iraq has reached staggering levels: a soccer field was disqualified because the fans of the team that played there did not show the proper sorrow for the soldiers who died at Nassiriya; some underage students, guilty of having hung banners against the war, were dragged into a barracks and interrogated; other students who distributed a flyer had their houses searched; the shutting down of an information site like Indymedia was requested in parliament because it has hosted voices outside of the nationalist chorus. More generally, entire schools are passed through the sieve in search of drugs; foreigners possibly suspected of anything are expelled from the country in a few hours; hundreds of them are thrown out of their home in the middle of winter; satirical television shows are censored for being too satirical… and one could go on. Unfortunately, the examples are not lacking. On the contrary, they are increasing with a certain progression, like the furious reaction to the transit strike in Milan that left the city on foot for a day: if on the right a harsh punishment was invoked for the strikers, on the left there are those who call for the intervention of the army [to operate the streetcars] in the case of a new interruption of service. And it is easy to imagine what will happen as the new laws on drugs begin to be applied.

In the face of this, public discussion seems truly urgent to us, before every space for talk or action is forbidden to us.

Let’s start with a premise. The fact that today everyone who is not quick to spring to attention ends up in the sights of repression means that the division between the “good” to comfort and the “bad” to beat up has had its day. This will certainly not serve to unite the different spirits of the movement – with the permission of so many ecumenicists – divided by something quite different than the grade in conduct on the report card of the state, but it could contribute to the sweeping away of an old and insipid commonplace that is unfortunately widespread, the one according to which repression would be equivalent to a certificate of radicality: “I am repressed, therefore I am”. The conviction that leads some people to believe that the more one is repressed the more one is, in a delirium of self-congratulations that in any case overflows in sacrifice. It is obvious that, at the moment in which repression is extending itself to every sector of society, it becomes ridiculous to think that it only strikes those who attack the security of the state. This means that, contrary to what the mob leaders of the various militant rackets think, the increase in repression does not, in fact, correspond to the growth of the revolutionary threat of the movement or any of its components. To be honest, it seems to us that the movement, meant in its broadest sense, is reaching one of its lowest points, everyone busy on the one hand with getting their share of the media and institutional pie and on the other hand with thrashing about in a chronic lack of perspective. The explosion of Genoa itself, which happened over two years ago, seems to us to be more due to an ensemble of circumstances, realized above all at the international level, than to a supposed maturity reached by the movement here in Italy (the flow that immediately followed from it give evidence of this).

But then, if the movement in itself is not really so strong, so dangerous for the sleep of their lordships, why are we witnessing this continual repetition of arrests and intimidations? In our opinion, it is because the social situation in its totality is now so weak and fragile as to not allow the ruling class to run too many risks. The edifice is still standing in all its monumental grandeur, but its foundations become more and more putrescent and the creaking gets louder and louder. As if to say that that we are not repressed because we are strong, decidedly not, but rather because they are weak. To be clear, we are not saying that this social order is not able to impose its will or that it is militarily vulnerable or any other such thing. Only that it advances more due to a motion of inertia than a propulsive action, resting more on a passive resignation than on an active consensus, in a context so lacerated that it is unable to guarantee any enduring stability whatsoever. In short, precariousness is even afflicting the ruling order. Aware of its own weakness, it finds itself constrained to raise its voice and intimidate its enemies, real or presumed as they may be; it does it now, because it can still take the liberty to do so. This leads it to exaggerate every event with the aim of creating alarmism capable of publicly justifying measures that would otherwise not be able to be proposed, and also of provoking the panic necessary for a shred of security capable of encouraging it.

As we have already said, this great barking of the guard dogs of power indeed strikes fear, but it also denotes a certain fragility. This should make us reflect on the possibilities that open before us, on how to outwit these mastiffs with the aim of laying hands on what they protect. Instead, it seems to us that the barking is becoming an obsession for too many comrades, leading some people to occupy themselves with exclusively with healing the wounds inflicted by their bites, and some people to challenge them for the pleasure of the conflict or because they aren’t able to see beyond this. We want to point out how in both cases, a decline in our objectives takes place, and thus also in our practice, as our aim is modified, changing from the struggle against the existent to the struggle against the forces that defend it. Is it the same thing? No, it is not without confusing cause and effect. Fighting and defending oneself against the forces of order does not in itself and for itself mean subverting the dominant social relationships. And at a time when these social relationships are particularly unstable, this is where we need to focus our attention, our theoretical and practical critique, avoiding as much as possible being driven by the conditioned reflex provoked by repression. Because otherwise we end up abandoning the fertile but unknown terrain of social conflict in order to take up a defensive position in the sterile but well-known terrain of opposition between us and them, between comrades and cops, in a conflict rich in spectators but poor in accomplices.

Now, with the mere act of investigating and arresting, the state manages to give someone who is repressed the illusion of being dangerous, of already doing something concrete, for this very reason. It gives all of us the fatal illusion of being strong , the illusion that our struggling is meaningful, whereas, in reality it is extremely weak (even if potentially harmful for the ruling order). In this way, we can claim to be satisfied with our activity, however lacking it may be, without asking ourselves how to improve it, dismissing every critical debate, because often they are considered a waste of time. Besides, as is well-known, repression puts the movement on the defensive; it leads us all to have to occupy ourselves with arrested comrades, finding lawyers, collecting money, organizing demonstrations in front of prisons, attending hearings. Even those who have recourse to the most extreme practices of protest, like the sending of mail bombs, don’t escape this logic: the state against the movement, the movement against the state in a frantic succession of arrests, protests against the arrests that lead to new arrests, that lead to new protests that lead to new arrests,… Yes, they are repressing us all. But can we claim that we are dangerous because of this? Or is all the repression that is coming down on the movement nothing but a way of preventing us from truly becoming so?

Perhaps there is a need to clarify some questions. The material support for those who end up in prison, a sad eventuality that is becoming more and more concrete for everyone and that would merit greater consideration, is and must remain a technical problem. The question of what we desire to do against this intolerable world is of quite another nature. As cruel as it may seem, it is necessary to reject the moral blackmail that is launched every time a comrade is arrested. There is no obligation of solidarity with which one must comply. No one ends up in prison in place of those who are outside, and no one is outside of prison thanks to those who are inside. Even though their liberation is one of our principle preoccupations, we should not let it become the end to which everything is subordinated, we should not give up running because someone who stands with us has been stopped. Rather we should dedicate ourselves to acting to create the conditions for their liberation and for that of others, not fixing our gaze and attention on what we see immediately before us, but making ourselves unpredictable, not being obsessed with the dates established in advance, but establishing our own for ourselves. Our agenda should not be traced either on that of the government, or that of the judicial system, or even less that of the various political grouplets that chase after the spotlight of notoriety. In short, rather than stopping to find ourselves before the walls of a prison to demand the release of those who are locked up there, it would be better to go on ever stronger and in all directions. Not only because this is the best way for expressing our solidarity with them, since the awareness that there are those who continue along the path that has been undertaken is more comforting than a noisy greeting; but above all because it is the way to show the uselessness of such arrests to those who order and execute them.

This is why we think that the best way to discuss what to do against repression, aside from any possible consideration and agreement of a technical type, really consists in constantly questioning ourselves about what to do in order to damage this society in its totality and in finding answers in the course of action. Because it is true that a nasty wind is blowing, there is no use in hiding it. But it is also true that if we truly desire the unleashing of the tempest, the problem of the wind that blows can only be a false problem.

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S’opposer à la répression : Réflexe conditionné ou mouvement volontaire ?

Il souffle un vent mauvais, inutile de se le cacher. Tellement mauvais que même parmi les belles âmes de la gauche serpente une certaine inquiétude. On dénonce avec toujours plus de véhémence l’instauration d’un “régime” fasciste de la part du gouvernement actuel. C’est vrai qu’à droite ils n’ont jamais oublié leur penchant traditionnel pour l’huile de ricin et la matraque. Mais reste le fait que répressions, censure et interdictions forment le pain quotidien que nous administrent tous les gouvernements, quels qu’ils soient. En réalité, au-delà de la faction politique momentanément chargée de l’administrer, c’est ce monde à sens unique qui exige une vie à sens unique, fait d’une pensée à sens unique et d’un comportement à sens unique… dans une authentique cohérence de l’abjection. Jusqu’à la mise au ban de toute critique, de tout désaccord, de toute opposition, qui là où ils s’expriment sont ponctuellement isolés, circonscrits, calomniés, étouffés, enfermés.

Il suffit de jeter un coup d’œil sur ce qu’il se passe un peu partout en Italie au cours de cette dernière période. A l’intérieur du “mouvement”, enquêtes, arrestations, perquisitions, coups et mises en garde se succèdent et sont en train d’atteindre tout le monde, des têtes chaudes aux plus froides, en passant par les tièdes. Les portes des prisons se referment sur tous : il suffit d’être accusé d’avoir commis un attentat, constitué l’énième association subversive, fait obstacle à un contrôle d’identité ou à une arrestation, éloigné un infiltré d’une manifestation, participé à un rassemblement, occupé un immeuble et bientôt la simple accusation d’avoir repeint des vitrines débordantes de marchandises deviendra un motif suffisant pour finir derrière les barreaux En même temps, ils utilisent à fond les mille possibilités données par le code pénal pour faire obstacle de façon veloutée à toute forme d’activité, prodiguant des feuilles d’expulsion et interdisant l’accès aux villes à des compagnons résidant dans les villages alentours (gracieuse version moderne et édulcorée du vieux bannissement). Il est facile de prévoir l’accroissement de telles pratiques répressives.

Mais ce qui importe le plus, ce n’est pas seulement que le mouvement —dans ses multiples nuances— soit dans le viseur de la répression, mais bien que la société toute entière subisse un étroit serrage de vis. L’interdiction de critiquer la présence des troupes italiennes en Irak a atteint des niveaux incroyables : un club de foot [1] disqualifié parce que ses supporters n’ont pas manifesté leur deuil pour les militaires morts à Nassiriya [2] ; des lycéens amenés au commissariat pour interrogatoire après avoir accroché des banderoles contre la guerre ; des étudiants perquisitionnés à leur domicile pour avoir diffusé des tracts ; le brouillage d’un site d’information comme Indymedia demandé au parlement parce qu’il a hébergé des voix hors du chœur national. Plus généralement, on passe au peigne fin des écoles entières à la recherche de drogues, on expulse du pays des étrangers en quelques heures parce qu’ils sont suspectés de qui sait quoi, on les expulse de leurs maisons par centaines au cœur de l’hiver, on censure des émissions satiriques parce que trop satiriques… on pourrait continuer davantage. Les exemples ne manquent pas. Au contraire, ils vont aller en augmentant, tout comme la réaction délirante à la grève de l’ATM [3] à Milan qui a obligé la ville à marcher à pied toute la journée : si à droite on évoque de dures punitions pour les grévistes, à gauche certains demandent la réquisition de l’armée en cas de nouvel arrêt du service des transports. Il est également facile d’imaginer ce qui va se passer lorsque la nouvelle loi sur les drogues sera appliquée [4].
Face à ça, il semble urgent d’avoir un débat public, avant que tout espace de parole et d’action ne nous devienne totalement interdit.
Commençons par un préliminaire. Le fait qu’aujourd’hui quiconque n’est pas prêt à bondir au garde-à-vous finisse dans le viseur de la répression, signifie que la division entre “les bons” à dorloter et les “méchants” à punir a fait son temps. Tout ça ne servira certainement pas à unir les différents esprits du mouvement —en bonne paix avec tous ceux qui prônent l’œucuménisme— divisés par bien d’autres choses que la note de bonne conduite à obtenir sur le bulletin de l’Etat, mais pourrait contribuer à balayer un vieux lieu commun, stupide et par trop diffusé, selon lequel la répression équivaudrait à un certificat de radicalité : “Je suis réprimé, donc je suis”. Conviction qui porte certains à croire que plus on est réprimé et plus on est, dans un délire d’autosatisfaction qui chaque fois touche au sacrifice. Il est évident qu’au moment où la répression s’étend à tous les secteurs de la société, il devient ridicule de penser qu’elle touche seulement ceux qui portent atteinte à la sûreté de l’Etat. Cela signifie, contrairement à ce que pensent les chefs mafieux des différents rackets militants, que l’augmentation de la répression ne correspond en rien à l’accroissement de la menace révolutionnaire du mouvement ou de l’une de ses composantes. Pour être sincère, il nous semble que le mouvement, entendu en son sens le plus large, est en train d’atteindre un de ses points les plus bas, d’un côté totalement occupé à conquérir les rivages médiatiques et institutionnels et, de l’autre, à se débattre dans une carence de perspectives chronique. Même l’explosion de Gênes il y a quelques années semble plus liée à un ensemble de circonstances, produites essentiellement à un niveau international, qu’à une hypothétique maturité que le mouvement ici en Italie aurait atteinte (le reflux qui a immédiatement suivi en est la preuve).

Mais alors, si le mouvement n’est en fait pas aussi fort, pas aussi dangereux pour le sommeil des riches, pourquoi assistons-nous à cette succession d’arrestations et d’intimidations ? De notre point de vue, c’est la situation sociale dans son ensemble qui est désormais tellement faible qu’elle ne permet pas de courir le moindre risque. L’édifice est encore debout dans toute sa monumentale majesté, mais ses fondations sont pourries et les craquements se font de plus en plus bruyants. Nous ne sommes pas plus réprimés parce que nous sommes plus forts, décidément non, mais parce qu’eux sont plus faibles. Soyons clairs, nous ne disons pas que cet ordre social ne serait pas en mesure d’imposer son vouloir, qu’il serait vulnérable militairement ou d’autres choses. Seulement qu’il avance plus par mouvement d’inertie que par une action propulsive, en s’appuyant plus sur une résignation passive que sur un consensus actif, dans un contexte totalement déchiré qui ne garantit plus aucune stabilité durable. En somme, la précarité est en train d’affliger également la domination. Consciente de sa faiblesse, elle est obligée de crier fort et d’intimider ses ennemis, qu’ils soient vrais ou présumés : elle le fait maintenant parce qu’elle peut encore se le permettre. Ceci l’amène aussi à exagérer tous les événements pour créer l’inquiétude capable de justifier publiquement des mesures autrement improposables, mais aussi pour provoquer cette panique qui nécessite une dose de sécurité capable de l’encourager.

Comme nous l’avons déjà dit, ce grognement des chiens de garde du pouvoir inspire certes la peur, mais révèle aussi une certaine fragilité. Ceci devrait nous faire réfléchir quant aux possibilités qui s’ouvrent à nous, sur la manière de contourner les bulldogs pour étendre nos mains sur ce qu’ils protègent. A l’inverse, il semble que leurs aboiements soient devenus obsessionnels pour beaucoup de compagnons, faisant que certains s’occupent exclusivement de soigner leurs blessures infectées par ces morsures et que d’autres les défient pour le seul plaisir de l’affrontement ou parce qu’incapables de voir plus loin. Nous voulons faire observer comment, dans ces deux cas, un glissement de nos objectifs et donc aussi de nos pratiques a lieu, comment notre fin change, puisque de la lutte contre l’existant on passe à la lutte contre les forces qui le défendent. C’est la même chose ? Non, ça ne l’est pas, à moins de confondre cause et effet. Combattre et se défendre contre les forces de police ne signifie pas en soi subvertir les rapports sociaux de domination. Et dans une période où les rapports sociaux sont particulièrement instables, c’est là qu’il faut porter notre attention, notre critique théorique et pratique, en évitant le plus possible d’être poussé uniquement par un réflexe conditionné provoqué par la répression. Parce que, sinon, on finit par abandonner le terrain fertile mais inconnu des conflits sociaux pour rester dans celui stérile, mais connu, de l’opposition entre nous et eux, entre compagnons et flics, dans un affrontement riche en spectateurs mais pauvre en complices.

Désormais, par le simple fait d’enquêter et d’arrêter, l’Etat réussit souvent à donner à qui est réprimé l’illusion d’être de ce fait dangereux, d’être déjà en train de faire quelque chose de concret. Il nous donne à tous l’illusion mortelle d’être forts, que notre agitation est significative, là où en réalité nous sommes très faibles (bien que nuisibles pour la domination). De cette manière, nous pouvons nous dire satisfaits de notre activité, si limitée soit-elle, sans nous demander comment la perfectionner, en repoussant tous les débats critiques, souvent perçus comme une perte de temps. En outre, comme on le sait bien, la répression pousse le mouvement à la défensive, nous pousse tous à nous occuper des camarades arrêtés, des avocats à trouver, des sous à ramasser, des manifestations devant les prisons à organiser, des audiences auxquelles participer. Même ceux qui ont recours à des pratiques de protestations plus extrêmes, comme l’envoi de colis piégés, n’échappent pas à cette logique : l’Etat contre le mouvement, le mouvement contre l’Etat, dans une suite frénétique d’arrestations, de protestations contre les arrestations qui portent à de nouvelles arrestations, qui portent à de nouvelles arrestations… Oui, nous sommes tous réprimés. Mais pouvons-nous dire pour cela que nous sommes dangereux ? Ou bien que toute cette répression qui s’abat sur le mouvement n’est rien d’autre qu’une manière de nous empêcher de le devenir vraiment ?

C’est peut-être le moment d’éclaircir certaines questions. Le soutien matériel à celui qui finit en prison, triste éventualité qui est en train de devenir toujours plus concrète pour chacun et mériterait une meilleure considération, est et doit rester un problème technique. D’une bien autre nature est la question de ce que nous voulons faire contre ce monde intolérable. Bien que cela puisse sembler cruel, il faut repousser le chantage moral qui est exercé chaque fois qu’un compagnon est arrêté. Il n’existe aucun devoir de solidarité à respecter. Personne ne finit en prison à la place de celui qui est dehors, personne n’est hors de la prison grâce à celui qui est enfermé. Même si sa libération est une de nos principales préoccupations, elle ne peut devenir le but auquel nous devons tout subordonner. Nous ne pouvons nous arrêter de courir uniquement parce que celui qui est à côté de nous a été arrêté. Mais plutôt nous devons nous donner les moyens pour créer les conditions de sa libération et de celle des autres, n’arrêtant pas d’observer et de nous concentrer sur ce que nous voyons devant nous, mais en nous rendant imprévisibles, ne nous fixant pas sur des échéances préétablies, mais en établissant les nôtres. Notre agenda ne peut être calqué ni sur celui du gouvernement, ni sur celui de la justice, et encore moins sur celui des différents groupuscules politiques qui recherchent les projecteurs de la notoriété. En somme, plutôt que de se renfermer pour se retrouver face aux murs d’une prison à exiger la libération de qui y est enfermé, il serait mieux de continuer à courir, toujours plus forts, dans toutes les directions. Pas uniquement parce que c’est la meilleure manière d’exprimer sa solidarité, puisque la conscience qu’il y en a qui continuent le chemin entrepris est plus agréable que tous les saluts bruyants ; mais surtout parce que c’est aussi la meilleure manière de montrer l’inutilité de telles séries d’arrestations à ceux qui les ordonnent et les exécutent.

Voilà pourquoi nous pensons que la meilleure manière de débattre de ce qu’il faut faire face à la répression (à part chaque considération et accord de type technique) consiste en réalité à s’interroger constamment sur quoi faire pour nuire à cette société dans son ensemble et à trouver les réponses au cours de l’action. Parce qu’il est vrai qu’il souffle un vent mauvais, inutile de se le cacher. Mais il est aussi bien vrai que, si nous désirons vraiment le déchaînement de la tempête, ce vent qui souffle ne peut qu’être un faux problème.

Notes

[1] Quelques clubs de supporters italiens s’affirment politiquement (et pas seulement à droite).

[2] En Irak, à Nassiriya, 19 carabiniers ont été tués et une dizaine blessés lors d’une attaque le 10 novembre 2003. Cet événement a été traité comme un drame national par le gouvernement.

[3] Société de transport publique. Les grèves légales en Italie doivent s’adapter aux horaires de travail pour ne pas gêner la production.

[4] TIG et peines de prison pour la possession de quelques grammes.

[texte traduit de l’italien Contrastare la repressione: riflesso condizionato o moto proprio? 4 pages paru fin décembre 2003 en Italie. Dans NonFides]