Agustin Garcia Calvo
«Che cosa volete, bambini miei? Posti di lavoro? L’autonomia regionale? Un aumento di salario? Il voto a quindici anni? La pensione a quarantacinque? L’uguaglianza dei sessi? Continuate a chiedere in ordine e tutti i vostri reclami saranno ben trattati con la dovuta forma».
Ogni favore che il Signore concede lo consolida, in quanto egli è il Signore. Ma il fatto è che i soggetti ottengono anche quello che vogliono. Quello che vogliono? Sì, e cammin facendo imparano a volere ciò che vien loro ordinato.
Chiedo al Signore il permesso di innamorarmi di mia zia?
Vecchio mio, che idee hai! Questo non lo si domanda al Signore.
Perché? È prematuro: non è stato ancora creato un ministero delle Relazioni erotiche. Ma lo si sta per creare? Senza dubbio, e allora potrai reclamare il diritto di innamorarti di chi vorrai. Per il momento, abbi pazienza; e dimmi, intanto, perché non reclami il diritto di importare liberamente automobili australiane? Non è una vergogna aver voglia di un’automobile australiana (giacché è tuo diritto averne voglia. Non si è forse padroni della propria volontà? Perché allora si vuole il denaro che si guadagna, se non si può spenderlo per ciò che si vuole?). Non è insopportabile che il ministero delle Finanze e quello degli Affari esteri ti mettano così tanti bastoni tra le ruote che non puoi fare di testa tua? Andiamo! Uniamoci — tutti i partigiani della libera importazione di automobili — e rivendichiamo. Petizioni! Scioperi! Manifestazioni nella pubblica via! Presentazione di emendamenti da parte dei nostri rappresentanti alle Camere! Rivendichiamo!
Bene, ma bisognerà riconoscere che il caso dei posti di lavoro, delle autonomie, dei voti, dei salari e delle pensioni, o quello dell’uguaglianza di diritti tra i sessi, è più importante e serio delle automobili australiane.
Vuoi dire che queste rivendicazioni sono più prossime ai desideri delle persone di quanto lo siano le automobili australiane oppure la relazione amorosa con mia zia? Bisognerà rifletterci.
Che rapporto c’è tra la creazione di posti di lavoro e il desiderio di non lavorare? Che rapporto c’è tra l’avanzamento della pensione, la settimana di quattro giorni, i trentatré giorni all’anno di vacanza e il desiderio di non avere orari né di sabato né di lunedì e di poter passare una notte in bianco quando la luna ci gira o di andare a raccogliere more quando i tuoi amici e le more te lo chiedono? Che rapporto c’è tra le autonomie regionali (o, pardon, nazionali o in qualsiasi modo si vogliano chiamare) e il desiderio delle persone di non dover obbedire a decisioni provenienti dall’alto, o di non tollerare imposte di cui non conoscono la destinazione e organizzazioni di cui non comprendono l’utilità? In cosa le autonomie, accordate o da accordare, si avvicinano al desiderio degli individui di mettersi d’accordo tra quelli del paese e quelli della città e i suoi dintorni in tutte le circostanze che si presentano comunemente? Che rapporto c’è tra il voto di un adolescente e il desiderio di non diventare mai adulti? Tra il diritto delle donne di occupare i posti degli uomini e il desiderio che cessi il dominio degli uomini? Tra il diritto per una donna di avere i bambini che vuole, con chi e quando lo vuole, e il desiderio urgente che non continuino a nascere ogni anno altri futuri acquirenti di automobili?
Infine, può darsi che quello non abbia nulla a che fare con questo; ma bisogna essere realisti, amico mio, ed è certo che queste rivendicazioni sono un passo in là, verso scopi più avanzati nel senso di questi ultimi desideri di cui parli tanto ingenuamente: le autonomie, così come il nazionalismo delle imprese, vanno verso il fine di un’autentica liberazione dal Capitale e dallo Stato. Il voto degli adolescenti è un mezzo perché si impongano leggi sempre meno dettate dai criteri degli adulti, leggi più giovani; l’aumento del salario serve agli operai e agli impiegati, almeno fino all’aumento dei prezzi e fino a una nuova rivendicazione, perché essi si sentano più padroni di se stessi e si trovino in condizioni migliori per imporre i propri interessi di classe agli organismi che li sfruttano; la settimana di quattro giorni o la giornata di sei ore lavorative rappresentano un passo in avanti verso la liberazione progressiva dal lavoro forzato e per godere del proprio tempo libero; l’uguaglianza delle donne nella società e nel lavoro è un passo… beh, per quello che vorranno.
Sì… Se ancora oggi si continua a credere che le cose funzionino in questa maniera, se non si è percepita la qualità del risultato positivo delle rivendicazioni, se non si è compreso un poco come funziona l’apparato, e che le rivendicazioni che trionfano si rivelano sempre un inganno, oltre che un rinnovamento e un rafforzamento dei poteri, allora significa che si è dovuto studiare il realismo al Politecnico del Sogno-a-Colori.
Oh, rivendicazione! Le parole hanno il loro destino. Questo noto vocabolo giuridico è già di cattivo augurio, dal cattivo latino d’avvocatucolo: rei vindicatio: reclamo di qualcosa che si considera di propria proprietà; è su ciò, suppongo, che l’imbroglio è stato fondato. Sembra che inizialmente l’operazione consistesse in questo: colui che reclamava il diritto a una cosa insieme all’altro che lo controreclamava — un pezzo di terreno, per esempio — si presentavano davanti al pretore o al giudice e ponevano la mano sulla cosa in questione — una zolla della terra disputata, ad esempio — così che, venendo informato in tal modo che entrambi i due sostenevano di possedere un proprio diritto sulla cosa, il magistrato decideva e concedeva all’uno o all’altro la cosa rivendicata. Si vede che, col tempo, in questo triangolo formato dai due rivali e dal rappresentante della legge, con la povera cosa nel centro, le relazioni tra i termini sono cambiate in modo significativo. In effetti, se in questo schema originario le mani dei rivendicatori si dirigevano ancora da una parte e dall’altra verso la cosa, e se l’autorità pareva rimanere al di fuori e al di sopra del conflitto — in quanto testimone imparziale e soprattutto giudice tra le mani di disporre la cosa al posto giusto (a fianco dell’uno, oppure a fianco dell’altro o, infine, come Salomone, a metà della cosa) —, oggi a forza di rivendicazioni tra le altre cose la trama è progredita a tal punto che le mani, le due, tutte, si dirigono verso l’alto, verso la sommità su cui sta il pretore, mentre dal basso gli domandano la concessione o la distribuzione gratuita della cosa rivendicata; la quale, di conseguenza — e questo è ovvio — è diventata in primo luogo proprietà del pretore, che può così, cedendo alle richieste e alle pressioni, rimetterla a quelli i cui reclami ritiene giusti.
Che questo processo abbia costituito e costituisca ancora un modo di cautelare e di fortificare il Potere, su questo non c’è bisogno di insistere. Ma nel contempo tale processo non può essere portato a termine senza una concomitante trasformazione della stessa cosa. Nello schema originario, questa poteva essere anche un po’ di terra, persino una schiava, una cosa, insomma, la cui utilità e il valore d’uso fossero evidenti per coloro che la reclamavano. Ma quando le cose sono diventate concessioni del Signore, sono diventate altro, diritti in astratto, cifre di tempo e di denaro, disposizioni per il miglioramento futuro delle condizioni di lavoro o della posizione giuridica del reclamante e, al punto estremo del progresso burocratico dello Stato e dell’impresa, un cambiamento nella redazione di un articolo d’un regolamento, la creazione di un nuovo ufficio per l’amministrazione delle rivendicazioni soddisfatte, la comparsa di qualche sigla del genere “Smug 3-m-25”, di cui anche i reclamanti non comprendono la portata, e i loro rappresentanti ufficiali o tecnici in materia sono là per fare finta che loro, sì, loro sanno comprendere.
E un’altra trasformazione accompagna quella presso i rivendicatori. In misura che questi si abituano a modulare le proprie grida secondo le sigle e le cifre che l’ordine impone loro, reclamano nel linguaggio dell’ordine, in modo che l’ordine possa capire le loro richieste e agire di conseguenza; nello stesso tempo non possono evitare a poco a poco di convincersi da soli che ciò che desideravano era proprio quello — automobili alla portata di tutti, trentatré giorni di vacanza all’anno, la pensione a quarantacinque anni, il televisore a colori, un salario minimo omologato, una nicchia pulita in un blocco di appartamenti protetti, uguaglianza di diritti, una Costituzione democratica, sindacati orizzontali e duecento chilometri di autostrade —; in maniera che, alla fine, le loro volontà vengano a coincidere con i progetti di sviluppo dello Stato e dell’impresa. E queste brave persone, da cui si suppone provenisse il desiderio delle cose e quello di poterne godere, costituiscono solo un piccolo motore domestico che, mentre continua a produrre lavoro, produce le petizioni di cui il potere e il denaro hanno bisogno per cambiare e continuare a perpetuarsi.
Ma, oh! cuore mio, smetti di ragionare, e limitati a proporre ai tuoi compagni di pena il seguente grido: «Cittadini, non rivendicate!» Non rivendichiamo più. Lasciamoli arrangiarsi da soli ad organizzarsi e organizzarci (nella misura in cui lasciamo fare), e progredire verso il fine che regge tutte le loro funzioni, verso la morte. Senza dubbio essi continueranno a fare molto male alle persone, ma sempre meno di quanto ne farebbero se noi, quelli del basso, collaborassimo per di più con loro attraverso le nostre rivendicazioni.
Certo! e, nel frattempo, ciascuno tenga conto dei diritti che gli sembrano buoni, e per non rivendicare e non reclamare al Signore ciò che è giustizia, ciascuno metta mano direttamente alla cosa. Ma, vecchio mio, dove vuoi arrivare? All’anarchia? Al caos?
Non ti strozzare, compagno. Un altro giorno ti parlerò del caos.
–preso da: Diavolo in Corpo n. 1, dicembre 1999