L’Internazionale Situazionista ed il Maggio ’68
Se La società dello spettacolo di Guy Debord è reputato il testo che meglio ha saputo esprimere in maniera compiuta la critica formulata dai situazionisti al mondo esistente, il movimento delle occupazioni del maggio ‘68 in Francia viene considerato l’apice della loro pratica, il loro ingresso nella Storia. Ad una storiografia accademica che ha intenzionalmente ignorato o minimizzato il ruolo svolto dall’IS nella genesi e nel successivo sviluppo di quella primavera di liberazione, preferendo puntare i suoi riflettori sul più presentabile “Movimento 22 marzo”, se n’è via via contrapposta una pro-situs che, invertendo la tendenza, si è prodigata per innalzare un monumento ai suoi beniamini.
Ma non è difficile accorgersi come la cattiva reputazione che i situazionisti si vantano di godere presso il pubblico ogni qualvolta vengono rievocate quelle giornate di maggio sia in gran parte costruita a tavolino, frutto di un banale sillogismo che a furia d’essere ripetuto si è consolidato in verità acquisita. Questi abili impresari di se stessi hanno potuto fare affidamento, oltre che sul loro indiscutibile talento, sull’ausilio dei loro concessionari interessati a cantare le lodi al marchio di fabbrica di cui si son fatti rappresentanti, nonché sull’involontario contributo dei mass-media, usi a distribuire ruoli fittizi fra i protagonisti di un evento al momento della sua ricostruzione mediatica. Dopo che al giovane studente Cohn-Bendit erano stati assegnati i panni di leader della protesta, mancava qualcuno un po’ più maturo che fosse credibile nella parte dell’anima nera della rivolta. L’IS era perfetta per recitare questo tenebroso ruolo e non chiedeva di meglio.
Se Bela Lugosi si era talmente identificato nel personaggio che lo aveva reso famoso al punto di farsi seppellire da morto con addosso il costume di Dracula, così i situazionisti non hanno più smesso di atteggiarsi a “cattivi maestri” anche quando la commedia era già finita da un pezzo e il pubblico aveva lasciato la sala. In ciò non si può dire che si siano distinti dagli altri “gruppuscoli” che all’epoca costituivano un abituale obiettivo delle loro contumelie, essendosi anch’essi affrettati a cavalcare la tigre della rivolta del maggio per trarre profitto della sua forza e bellezza ed aumentare la propria clientela. D’altronde l’entusiasmo sollevato in tutto il mondo da quei giorni di passione rappresentava un investimento troppo ghiotto per lasciarselo sfuggire. Ne nascerà una patetica competizione fra i situazionisti (secondo cui tutto era nato dall’agitazione iniziata nel gennaio 1968 a Nanterre da quattro o cinque “antistudenti”, gli Arrabbiati, influenzati dall’IS stessa), alcuni anarchici (che non tralasceranno mai di ricordare il clamore suscitato dalla lite avvenuta l’8 gennaio fra il ministro Missoffe e Cohn-Bendit e i provvedimenti poi decisi contro quest’ultimo) e i trotskisti (persuasi che nulla sarebbe accaduto senza il fervore attivista dei militanti della loro organizzazione giovanile, la Gioventù Comunista Rivoluzionaria). Una volta assaporate le luci della ribalta, le primedonne del maggio ‘68 metteranno in atto ogni trucco pur di ricevere l’applauso più fragoroso, nella consapevolezza che «per questo modo montò tanto sua nomea che catuno si facea suo accomandato».
Ma qual è il sillogismo che ha aiutato i situazionisti nella loro scalata alla gloria imperitura? Gli avvenimenti del maggio ‘68 in Francia — uno sciopero selvaggio esteso a tutta la società, la critica generalizzata dei ruoli e dell’alienazione, la scomparsa dello Stato per diversi giorni — costituiscono il più grande tentativo rivoluzionario mai avvenuto in un paese industriale avanzato. L’Internazionale Situazionista ha legato indissolubilmente il suo nome a quegli eventi. Quindi, l’IS è l’organizzazione rivoluzionaria più radicale che abbia mai operato in una democrazia moderna occidentale — la Storia ne è testimone.
Il ragionamento non lascia margini di dubbio. Peccato che come in tutti i sillogismi a furia di cercare conferme si finisca col forzare la realtà. Questo genere di concatenazioni logiche tornano utili a maggior ragione quando la loro impeccabilità si rivela solo apparente.
Tralasciamo le acrobazie della logica e prendiamo in considerazione i fatti. Sebbene fin da allora un numero imprecisato di storici abbia cercato di addomesticare il maggio francese spacciandolo come il prototipo della “protesta studentesca”, si è trattato effettivamente del «più grande momento rivoluzionario che la Francia abbia conosciuto dopo la Comune di Parigi» (IS n. 12). Nulla da dire anche sul fatto che gli aderenti all’IS vi abbiano partecipato attivamente, contribuendo a soffiare sul fuoco. Ma, fatte queste premesse, sarebbe delirante concludere che la rivolta scoppiata in quella lontana primavera sia avvenuta per merito dei situazionisti, o che questi ne siano stati i trascinatori.
Anche prendendo per buona la versione situazionista dei fatti — cioè attribuire a quattro o cinque Arrabbiati la responsabilità dei disordini scoppiati a Nanterre, considerati il punto di partenza della rivolta — sarebbe come affermare che la rivoluzione del 1918 in Germania sia stata opera dei marinai che reclamavano miglior cibo, o che la rivolta di Los Angeles del 1992 sia stata provocata da Rodney King e dal suo pestaggio da parte della polizia. Gli esempi che si potrebbero fare seguendo questa logica tortuosa sono infiniti, ma ciò non toglie che in questa maniera non si fa altro, per mere ragioni di bottega, che confondere il pretesto da cui è scaturito un evento storico con la causa che l’ha prodotto. È innegabile l’apporto fornito dai situazionisti nel maggio ‘68 all’esplosione della rivolta, ma è altrettanto evidente che il loro contributo è stato artificiosamente ingigantito e trasformato in mito incantatorio, operazione proseguita da molti dei loro seguaci. Se ci si prendesse la briga di dare uno sguardo all’attività dei situazionisti più da vicino — dopo aver spento gli accecanti riflettori della leggenda — e se si facesse risalire la loro azione al contesto sociale dell’epoca, diventerebbe facile ridimensionare la parte da loro svolta nei fatti che li avrebbero resi celebri.
In questo senso nulla è più istruttivo della lettura comparata delle ricostruzioni realizzate dagli stessi situazionisti o dai loro simpatizzanti. Ci riferiamo al libro di René Viénet Arrabbiati e situazionisti nel movimento delle occupazioni, all’ultimo numero della rivista dell’IS, all’opera di Mario Lippolis Ben venga maggio e ’l gonfalon selvaggio! e alla storia dell’IS scritta da Jean-François Martos Rovesciare il mondo. I quesiti attorno ai quali ruotano le interpretazioni in chiave pro-situazionista di quei “cattivi giorni” sono fondamentalmente due. Cosa differenziava la rivolta francese dagli avvenimenti che in quello stesso periodo travagliavano il resto dell’Europa ed anche gli Stati Uniti: qual è cioè l’elemento che l’ha resa più radicale rispetto alle altre contestazioni dell’epoca? E a chi attribuire il merito di aver dato inizio alla rivolta, di averla meglio incarnata?
La risposta alla prima domanda è facile: solo in Francia il movimento non rimase circoscritto all’ambito universitario, ma si estese in modo significativo al resto della società. La svolta avvenne il 14 maggio, quando, secondo Viénet, «gli operai della Sud-Aviation di Nantes occuparono la fabbrica e vi si barricarono, dopo aver rinchiuso il direttore Duvochel e alcuni funzionari negli uffici, sbarrandone le porte». Questa occupazione «fu dappertutto considerata come un fatto di fondamentale importanza». Il giorno seguente, il 15, alla notizia di quanto avvenuto a Nantes «gli operai della Renault di Cléon (Seine-Maritime) entravano in sciopero e decidevano di occupare la fabbrica, sequestrandone anch’essi i dirigenti. Pure le fabbriche di Lockheed a Beauvais e Unulec a Orléans sospesero il lavoro. Sul finir della sera, a Parigi, all’ora di uscita degli spettatori, due o trecento persone si recarono all’Odéon-Théatre de France e vi si insediarono come occupanti».
E non è finita. «Il mattino del 16 maggio, alla notizia dell’occupazione della Renault-Cléon, una parte dei lavoratori delle Nuove Messaggerie della Stampa Parigina cominciò a sua volta uno sciopero selvaggio». È quello stesso giorno, il 16 maggio, a segnare «il momento in cui la classe operaia, in modo irreversibile, comincia a dichiararsi favorevole allo sviluppo del movimento. Alle 14 la fabbrica Renault di Flinis è già occupata. Tra le 15 e le 17 lo sciopero selvaggio dilaga alla Renault-Billancourt. Le occupazioni di fabbriche cominciano a diffondersi in tutta la provincia».
Ed è in questo contesto di euforia, quando il movimento delle occupazioni aveva già cominciato ad estendersi ai posti di lavoro, che il Comitato di occupazione della Sorbona, sostenuto dai situazionisti, diramerà alle 15.30 del 16 maggio il famoso comunicato che esortava «all’occupazione immediata di tutte le fabbriche in Francia e alla formazione di Consigli Operai». Questa è la ricostruzione fatta a caldo da Viénet nel luglio di quello stesso anno, quando il ricordo di quegli eventi era ancora fresco nella memoria di chi li aveva vissuti.
Passiamo ora alla versione dei medesimi fatti presentata nel 1989 da Martos in un libro pubblicato in Francia non da una casa editrice commerciale, ma dalle edizioni Lebovici che in qualche misura sono state per lunghi anni le edizioni “portavoce” di ciò che restava dell’IS. Ebbene, così Martos ricostruisce quei giorni: «14 maggio: a Nantes, gli operai della Sud-Aviation occupano la fabbrica e vi si barricano. Dal canto loro i situazionisti si fondono con l’élite degli estremisti di Nanterre e formano il Comitato Arrabbiati-Internazionale Situazionista che già l’indomani controllerà il Comitato di occupazione della Sorbona. – 16 maggio, ore 15: il Comitato Arrabbiati-Internazionale situazionista, in nome della Sorbona occupata, chiama “all’occupazione immediata di tutte le fabbriche in Francia e alla formazione di Consigli operai”… Lo stesso giorno, alla Renault-Billancourt, la base impone lo sciopero. Lo sciopero selvaggio si estende poi all’insieme del paese e mobilita undici milioni di lavoratori».
Ecco come si costruisce una leggenda. Nella sua cronologia Martos tralascia la data del 15, giorno in cui l’occupazione si estese a tre fabbriche ed un teatro, così come dimentica di dire che il 16 maggio, prima che il comunicato della Sorbona fosse reso pubblico, erano già state occupate le Nuove Messaggerie e una fabbrica Renault. Quanto alla fabbrica più grande di Francia, la Renault-Billancourt, è ridicolo il tentativo di Martos di far passare la sua occupazione come una conseguenza diretta di quel comunicato diffuso dalla Sorbona.
È invece evidente, come sostiene anche Lippolis, che l’agitazione in quella fabbrica si sia manifestata «tra le 14 e le 17.30, sotto l’effetto delle notizie di Nantes, Cléon, Flinis». In poche parole, i situazionisti incitarono all’occupazione delle fabbriche solo dopo che questa era già cominciata ed era ormai un dato acquisito.
Ma allora, quando e dove avviene lo storico incontro fra studenti e operai? Non a Parigi, né a Nanterre — sedi dell’attività situazionista — bensì in provincia, a Nantes e a Lione. È lì che il movimento delle occupazioni si manifesta compiutamente per la prima volta. L’occupazione della Sud-Aviation a Nantes avvenne dopo che il giorno precedente, lunedì 13, studenti ed operai si erano battuti assieme contro la polizia. Il giorno seguente, alcuni lavoratori fecero tesoro dell’esperienza e occuparono la fabbrica, ricevendo subito l’attiva solidarietà degli studenti. Pare che successivamente Nantes sia stata l’unica città della Francia dove gli scioperanti, invece di limitarsi ad occupare il proprio posto di lavoro, hanno cercato di dare vita a una nuova forma di organizzazione sociale. Nel suo libro Lippolis sostiene addirittura che non è stata affatto la Sud-Aviation di Nantes la prima fabbrica francese ad essere occupata, martedì 14 maggio, poiché già il giorno precedente «a Lione gruppi di operai e di studenti, dopo una lunga agitazione comune, invadono insieme la Rhodiaceta e proclamano autonomamente la prosecuzione dell’astensione dal lavoro». Nella stessa città, aggiunge Lippolis, studenti e operai si erano scontrati con la polizia già il 9 maggio, attaccando le sedi di due giornali. E quando i situazionisti affermano di aver «approvato la condotta di alcuni gruppi rivoluzionari che abbiamo potuto conoscere, a Nantes e a Lione», non fanno che sottolineare la loro estraneità all’azione svolta dagli insorti in quelle province.
Pur consapevoli di essere stati solo una goccia in mezzo all’oceano in burrasca, i situazionisti non rinunceranno comunque a rivendicare la paternità di quell’ondata che, per un istante, ha minacciato di travolgere il vecchio mondo. Per riuscirci presenteranno i fatti che hanno preceduto il maggio seguendo la solita logica riduzionista di stampo pubblicitario, prendendo come punto di riferimento il proprio microcosmo. Dunque, essendo l’occupazione delle fabbriche provocata dall’occupazione delle università, essendo l’occupazione delle università nata dall’agitazione diffusasi fra gli studenti, essendo l’agitazione fra gli studenti iniziata col celebre scandalo di Strasburgo nel 1966, ed essendo impossibile parlare dello scandalo di Strasburgo senza il contributo dell’IS, ne consegue che il maggio francese debba tutto all’IS.
Ebbene, il 1966 era stato l’anno dello scandalo di Strasburgo, in seguito alla pubblicazione del famoso Della miseria nell’ambiente studentesco, edito a spese della locale sezione dell’Unione Nazionale degli Studenti di Francia. Nel ripercorrere i fatti accaduti, vantandosi del ruolo svolto, i situazionisti annunciarono che tutte le rivolte a venire, ovunque fossero apparse, avrebbero costituito solo una conferma delle loro tesi. Va da sé che gli studenti che in quel periodo erano scesi in piazza in tutto il mondo non erano stati affatto fulminati sulla via della rivoluzione dal Verbo dell’IS, ma questo dubbio non turbò mai la mente dei situazionisti i quali erano invece persuasi che «le nostre idee sono in tutte le teste — è ben noto —».
Eppure fu lo stesso Viénet a sostenere che «il nuovo sviluppo rivoluzionario nei paesi industrializzati… può essere datato dall’insurrezione operaia del 1953 a Berlino Est», cui seguì «la rivoluzione ungherese dell’ottobre 1956». Senza contare che «alla fine del 1964 lo scatenamento dell’agitazione degli studenti di Berkeley stava mettendo in discussione l’organizzazione della vita nel più sviluppato paese capitalistico», dando il via ad un movimento che si sarebbe esteso anche in Europa, soprattutto in Germania, in Italia e in Francia. E ci sia permesso di dubitare che gli studenti di Berkeley fossero influenzati dall’IS allorché iniziarono le loro proteste, dopo che l’amministrazione universitaria aveva negato l’uso di una ristretta zona pubblica dove i vari gruppi studenteschi politicizzati erano soliti svolgere attività di volantinaggio e propaganda. Gli studenti di Strasburgo non avrebbero mai preso contatti con l’IS se non fossero stati eccitati da quanto avveniva altrove all’interno delle università. A loro volta gli Arrabbiati di Nanterre avevano già iniziato le loro azioni di disturbo prima del loro incontro con i situazionisti, avvenuto secondo Viénet dopo il 21 febbraio. Va anche ricordato che gli Arrabbiati non presero affatto il proprio nome dalla corrente più estremista espressa dalla Rivoluzione francese del 1789. Enragés era in realtà la definizione con cui la stampa sensazionalistica dell’epoca bollava tutti gli studenti che partecipavano alle manifestazioni di protesta a Nanterre. E fu sempre Viénet a precisare come in rue Gay-Lussac, la notte di quel famoso venerdì 10 maggio, fra gli insorti che per più di tre ore si scontrarono con la polizia fossero presenti studenti, liceali, blouson-noir, operai, stranieri, ragazze, nonché «elementi rivoluzionari di quasi tutti i gruppi estremisti».
Che dire poi dell’involontario contributo dato dalle autorità universitarie e dalla brutalità poliziesca nel far precipitare la situazione?
Insomma, di fronte all’immane opera collettiva che è sempre stato ogni tentativo rivoluzionario — momento di rottura generato dall’intreccio di innumerevoli elementi, fattori e circostanze — cercare di stabilire a chi spetti il merito di averlo scatenato è un’operazione del tutto vana, che può rivestire qualche interesse solo agli occhi di politicanti in cerca di reclute, di procacciatori di medaglie, di fabbricanti di santini.
Nel suo libro Martos si premura di riportare che «quando nel 1975 la ricerca universitaria si dedicò al linguaggio scritto del maggio 1968, approdò grazie ad un uso pertinente dei computer ad alcune verità — che una corte di specialisti informati tentano ancora di tener nascoste. Des Tracts en mai 68 (Volantini nel maggio ‘68) riesce così a definire qualitativamente la produzione scritta di tutti i gruppi che agivano all’epoca, a partire da precisi criteri quantitativi che permettono di misurarne il vocabolario e il contenuto. Assistito da computer, questo avanzato metodo comparato ottenne risultati incontestabili: per la diversificazione ad oltranza delle forme lessicali, per l’estensione e la ricchezza del vocabolario, l’Internazionale situazionista usò nel maggio 1968 un linguaggio più originale di tutti gli altri».
E va bene. Ci inchiniamo davanti ai «risultati incontestabili» ottenuti mediante «un uso pertinente dei computer». Ma, una volta assegnato ai situazionisti il premio letterario “Maggio ‘68”, bisognerebbe esaminare anche il contenuto oltre allo stile con cui espressero le loro idee. Chi si fosse preso la briga di scorrere la montagna di volantini prodotti in quei giorni dal movimento nel suo insieme avrà notato come, al di là dello stile letterario, gli interventi situazionisti non si siano affatto contraddistinti da quelli di molti altri gruppi allora attivi. Basterebbe leggere i testi diffusi dal Comitato d’Azione Lavoratori-Studenti Censier che, se da un lato era ancora legato alla vecchia retorica operaista, dall’altro ha dimostrato di avere una capacità di collegamento e coordinamento all’interno delle fabbriche occupate — cioè laddove anche per l’IS si stava svolgendo la partita decisiva — indiscutibilmente superiore a quella del Comitato per il Mantenimento Delle Occupazioni. Fra i rivoluzionari più radicali, tutti indicarono nell’abolizione della società di classe lo scopo ultimo del movimento, tutti denunciarono il ruolo apertamente controrivoluzionario degli stalinisti e dei sindacalisti, tutti si resero conto verso la fine di maggio dell’impasse in cui si stava arenando il movimento e ne mostrarono alcune possibili prospettive. E tutti si accontentarono più che altro di denunciare la gravità della situazione.
È questo in effetti l’aspetto che più colpisce chi oggi si addentrasse in quei fatti lontani nel tempo. Il maggio ‘68 sembra essere stato una rivendicazione d’essere che, in assenza di una rottura sociale fattiva, si è manifestata più come espressione che come azione. Tutti volevano comunicare e parlare. Ma il rifiuto del passato non riuscì mai a darsi un contenuto e dunque un presente. Slogan meravigliosi allora coniati, come «Sotto il pavè, la spiaggia», indicavano esplicitamente un’altra esistenza possibile. Ma questa, per realizzarsi, richiedeva una rivoluzione nei fatti oltre che nelle parole. Invece, sia i contestatori che lo Stato agirono come se ci fosse un patto implicito che proibiva a ciascuna delle due parti di spingersi troppo oltre. Se il movimento ebbe la forza di rifiutare il gioco politico di una falsa rivoluzione, ebbe anche la debolezza di non tentarne in tutti i modi una autentica. Era come se si fosse avvertito che stava accadendo qualcosa che avrebbe potuto condurre lontano, ma nessuno osava oltrepassare quella soglia. Molti teorizzarono il “punto di non ritorno”, tutti ne erano terrorizzati. Di fronte alla forza dei contestatori, lo Stato si era rivelato impotente. Ma il movimento, rimasto per due settimane padrone della situazione, cosa fece?
Purtroppo il movimento delle occupazioni del 1968 ripeté il medesimo errore della Comune del 1871. Anche allora, chi si era ritrovato inaspettatamente con Parigi in pugno «perse in poche ore tutti i vantaggi conquistati il mattino» — come ebbe a ricordare amaramente Lissagaray. Capitò lo stesso agli insorti del maggio ‘68, troppo soddisfatti della libertà acquisita e persuasi com’erano che la trasformazione radicale della società fosse realizzabile senza la distruzione dello Stato. Ed è davvero incredibile che proprio ciò che ha costituito uno dei maggiori limiti del movimento delle occupazioni, l’indifferenza nei confronti delle istituzioni, sia stato salutato dai situazionisti, occupati a congratularsi vicendevolmente per l’acume del proprio «senso storico», come uno dei suoi punti di forza. Viénet diede il tono compiacendosi del fatto che «per la prima volta in Francia, si è ignorato lo Stato: doveva essere questa la prima critica in atto del giacobinismo che per sì lungo tempo ha costituito l’incubo dei movimenti rivoluzionari francesi, compresa la Comune».
Fedele alla linea e senza nemmeno la parziale giustificazione di commentare quei fatti a caldo, nel descrivere la grande manifestazione del 24 maggio Mario Lippolis, dopo aver denunciato come «fantasmi leninisti» le ambizioni dei gruppuscoli che avrebbero voluto occupare i Ministeri lasciati incustoditi, gioisce nel ricordare come il Parlamento fosse stato «sovranamente ignorato».
C’è da restare sbalorditi. In quei giorni tutta Parigi era nelle mani del movimento. Lo Stato era assente. La classe dirigente si preparava a fuggire. La borghesia era «ammutolita dal terrore». Fra lo stesso esercito si notavano tentennamenti. Ma, anziché sfruttare quell’occasione per cercare di creare una situazione di non ritorno, il movimento si fermò dando al governo il tempo di riorganizzarsi e contrattaccare (le armerie non furono assaltate, i palazzi del potere non vennero dinamitati, le prigioni non furono abbattute, i tribunali non vennero incendiati…). In quel 24 maggio soltanto la Borsa fu data alle fiamme («solo superficialmente», ci tiene a precisare Viénet). L’idea preponderante sembra essere stata quella secondo cui il potere, se non lo si vuole conquistare, lo si deve ignorare. Di distruggerlo, non se ne parlò proprio.
Le immortali parole di Sade, con cui il Comitato Arrabbiati-Internazionale Situazionista aveva aperto il comunicato del 14 maggio che esortava alla vigilanza, non furono che una dotta citazione letteraria. «Annientate dunque definitivamente tutto ciò che potrebbe distruggere un giorno la vostra opera» — ben lo sapeva l’antico detenuto alla Bastiglia. Peccato che nessuno abbia raccolto il suo monito, nemmeno chi l’aveva riproposto.
L’IS ha mostrato bene come la riappropriazione dell’esistenza non debba riguardare l’ambito produttivo, ma toccare tutti gli aspetti della vita. Pur avvedendosi dei limiti della sinistra consiliarista, ricade però nel medesimo errore: riduce la libertà ad una mera questione di gestione. Se i consiliaristi pensavano a come autorganizzare la produzione, i situazionisti pensavano a come auto-organizzare la vita quotidiana. Ma un cambiamento sociale non sarà mai radicale finché si limiterà a dare nuove risposte a vecchie domande.
Deludendo le aspettative di tutti gli ideologi consiliaristi, situazionisti compresi, la stragrande maggioranza degli undici milioni di lavoratori francesi che nel maggio del 1968 entrarono in sciopero non occuparono affatto le loro fabbriche, ma le disertarono. Gli appelli lanciati verso la fine di maggio dai rivoluzionari, che invitavano a rimettere in moto l’industria a favore del movimento, rimasero giustamente inascoltati. Non erano mica i rivoluzionari a dover lavorare in fabbrica, loro occupavano antichi palazzi carichi d’atmosfera e trascorrevano il tempo deliberando. Ma, a differenza degli intellettuali che pretendono di educare alla rivoluzione e che pensano che il rifiuto del lavoro consista nel far sgobbare gli altri, i lavoratori francesi sapevano bene di non avere alcun interesse ad occupare volontariamente l’osceno angolo in cui il capitalismo li aveva parcheggiati. Se è vero che chi sta in basso non ha bisogno di chi sta in alto perché può benissimo autorganizzarsi da solo, è anche vero che nel mondo creato da chi sta in alto quelli che stanno in basso non hanno nulla di proprio da organizzare.
Un movimento sociale radicale non può fare a meno della sua parte distruttiva. Il sovvertimento dell’ordine sociale non presuppone solamente la soppressione della minoranza dominante, ma anche la distruzione del mondo da questa creato. Necessità della distruzione, quindi. Non come omaggio ad una tradizione romantica, non come riesumazione di un fantasma ottocentesco, non come soluzione ad ogni problema, bensì come condizione indispensabile per dare avvio concretamente all’autodeterminazione della propria esistenza. Purtroppo in quei giorni, da quanto è dato sapere, nessun rivoluzionario riuscì a distribuire agli insorti l’antica arma del sabotaggio e vincere la paura delle macerie.
[Da Machete n. 2, maggio 2008]