Prigionieri di un unico mondo (1996) it/en

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Gruppo anarchico Insurrezionalista “E. Malatesta”

«Il fatto è che lo Stato non sarebbe tanto malefico se chi vuole potesse ignorarlo e vivere a suo modo la propria vita insieme a quelli con cui va d’accordo. Ma esso ha invaso tutte le funzioni della vita sociale, soprastà a tutti gli atti della nostra vita e c’impedisce perfino di difenderci se siamo attaccati.
Bisogna subirlo o abbatterlo».
Errico Malatesta

Se non fossimo profondamente insoddisfatti di questo mondo, noi non scriveremmo su questo giornale e voi non leggereste questo articolo. È inutile quindi spendere ulteriori parole per ribadire la nostra avversione al potere e alle sue manifestazioni. Ciò che invece non ci sembra inutile è cercare di capire se sia possibile una rivolta che non si ponga apertamente, risolutamente, contro lo Stato e il potere.
La domanda non deve sembrare peregrina. C’è infatti chi nella lotta contro lo Stato non vede che una ulteriore conferma di quanto esso sia entrato dentro di noi, riuscendo a determinare — seppure in negativo — le nostre azioni. Con la sua ingombrante presenza lo Stato ci distrarrebbe da quello che dovrebbe costituire il nostro vero obiettivo: vivere la vita a modo nostro. Se pensiamo di abbattere lo Stato, di ostacolarlo, di combatterlo, non abbiamo il tempo di riflettere su cosa vogliamo fare noi. Anziché tentare di realizzare i nostri desideri e i nostri sogni qui ed ora, seguiamo lo Stato ovunque vada, diventandone l’ombra e procrastinando all’infinito la concretizzazione dei nostri progetti. A furia di essere antagonisti, di essere contro, finiamo col non essere più protagonisti, a favore di qualcosa. Se vogliamo quindi essere noi stessi, dobbiamo cessare di contrapporci allo Stato ed iniziare a considerarlo non più con ostilità, ma con indifferenza. Piuttosto che darci da fare per distruggere il suo mondo — il mondo dell’autorità — è meglio costruire il nostro, quello della libertà. Bisogna smettere di pensare al nemico, a cosa fa, a dove si trova, a come fare per colpirlo, e dedicarci a noi, al nostro “vissuto quotidiano”, ai nostri rapporti, ai nostri spazi che bisogna estendere e migliorare sempre di più . Altrimenti non faremo mai altro che seguire le scadenze del potere.
Di questi ragionamenti è oggi pieno il movimento anarchico, alla continua ricerca di motivazioni travestite da analisi teoriche che giustifichino la propria assoluta inazione. C’è chi vuole far nulla perché è scettico, chi perché non vuole imporre qualcosa a qualcuno, chi perché ritiene il potere troppo forte per lui e chi perché non vuole seguirne i ritmi e i tempi; ogni pretesto è buono. Ma questi anarchici, avranno un sogno capace di incendiare il loro cuore?
Per sbarazzare il campo da quelle miserabili scuse, vale la pena ricordare un paio di cose. Non esistono due mondi, il loro e il nostro, e anche se per assurdo esistessero, come farebbero a convivere? Esiste un solo mondo, il modo dell’autorità e del denaro, dello sfruttamento e dell’obbedienza: il mondo dove siamo costretti a vivere. Non è possibile chiamarci fuori. Ecco perché non ci possiamo permettere l’indifferenza, ecco perché non riusciamo a ignorarlo. Se ci opponiamo allo Stato, se siamo sempre pronti a cogliere l’occasione per attaccarlo, non è perché ne siamo indirettamente plasmati, non è perché abbiamo sacrificato i nostri desideri sull’altare della rivoluzione, ma perché i nostri desideri sono irrealizzabili finché esiste lo Stato, finché esisterà un potere. La rivoluzione non ci distoglie dai nostri sogni, ma al contrario è la sola possibilità che consenta le condizioni della loro realizzazione. Noi vogliamo sovvertire questo mondo, al più presto, qui ed ora, perché qui ed ora ci sono solo caserme, tribunali, banche, cemento, supermercati, galere. Qui ed ora, c’è solo lo sfruttamento. Mentre la libertà, ciò che noi intendiamo per libertà, quella non esiste proprio.
Questo non vuol dire che dobbiamo tralasciare di crearci spazi che siano nostri in cui sperimentare i rapporti che preferiamo. Significa solo che questi spazi, questi rapporti, non rappresentano la libertà assoluta che vogliamo, per noi come per tutti. Sono un passo, un primo passo, ma non l’ultimo, tanto meno il definitivo. Una libertà che finisce sulla soglia della nostra casa occupata, della nostra comune “libera”, non ci basta, non ci soddisfa. Una simile libertà è illusoria perché ci renderebbe liberi soltanto di starcene a casa, di non uscire dai confini che ci siamo imposti. Se non consideriamo la necessità di attaccare lo Stato (e su questo concetto di “attacco” molto ci sarebbe da dire), in definitiva non facciamo che permettergli di fare il comodo suo in eterno, limitandoci a sopravvivere nella piccola “isola felice” che ci saremo costruiti. Tenersi distanti dallo Stato significa conservare la vita, affrontarlo significa vivere.
Nell’indifferenza verso lo Stato è implicita la nostra capitolazione. È come se ammettessimo che lo Stato è il più forte, è invincibile, è incontrastabile, quindi tanto vale deporre le armi e pensare a coltivare il proprio orticello. È possibile chiamare ciò rivolta? A noi sembra piuttosto un atteggiamento tutto interiore, circoscritto ad una sorta di diffidenza, di incompatibilità e di disinteresse per ciò che ci circonda. Ma in un simile atteggiamento rimane implicita la rassegnazione. Una rassegnazione sprezzante, se si vuole, ma pur sempre di rassegnazione si tratta.
Come un pugile ormai suonato che si limita a parare i colpi, senza nemmeno tentare di abbattere l’avversario che pure odia. Ma il nostro avversario non ci dà tregua. Noi non possiamo scendere da quel ring e continuiamo a fargli da bersaglio. Bisogna subire o abbattere l’avversario: scansarlo ed esprimergli il nostro disappunto non è sufficiente.

(Cane Nero, n. 37, 1 novembre 1996)

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Prisoners of a Single World

Gruppo Anarchico Insurrezionalista “E. Malatesta”

“The fact is that the state would not be so pernicious if those who wanted to were able to ignore it and live their lives in their own way together with those with whom they get along. But it has invaded every function of social life, standing over all the activities of our lives and we are even prevented from defending ourselves when we are attacked.
“It is necessary to submit to it or bring it down.”
— Errico Malatesta
If we were not deeply dissatisfied with this world, we would not write on this paper and you would not read this article. It is therefore useless to waste further words to confirm our aversion to Power and its manifestations. Rather, what seems useful to us is the attempt to determine whether a revolt that is not openly and resolutely against the state and power is possible.
The question should not seem odd. In fact, there are those who see in the struggle against the state nothing but a further confirmation of the extent to which it has penetrated into us, managing to determine our actions — even if only in the negative. With its cumbersome presence, the state would distract us from that which should be our true objective: living life our way. If we think of taking down the state, of obstructing it, of fighting it, we don’t have the time to reflect on what we want to do ourselves. Rather than trying to realize our dreams here and now, we follow the state wherever it goes, becoming its shadow and putting off the realization of our projects to infinity. In a frenzy to be antagonist, to be against, we end up no longer being protagonist, in favor of something. Thus, if we want to be ourselves, we should cease to oppose ourselves to the state and start to consider it not with hostility, but with indifference. Rather than giving ourselves to trying to destroy its world — the world of authority — it is better to build our own, that of freedom. It is necessary to stop thinking about the enemy, what it does, where it is found, what to do to strike it, and dedicate ourselves to ourselves, to our “daily life”, to our relationships, to our spaces that need to expand and improve more and more. Otherwise, we will never do anything but follow the inclinations of power.
The anarchist movement today is full of this sort of reasoning, the continual search for justifications disguised as theoretical analyses that excuse one’s absolute inaction. There are those who want to do nothing because they are skeptical, those who do not want to impose anything on anyone, those who consider power too strong for them and those who don’t want to follow its rhythms and times; every one of these excuses is good. But these anarchists, do they have a dream capable of setting their hearts aflame?
In order to clear the field of these miserable excuses, it is worth the effort to remember a few things. There are not two worlds, ours and theirs, and even if, to be absurd, they did exist, how could they be made to co-exist? There is a single world, the world of authority and money, of exploitation and obedience: the world in which we are all forced to live. It is impossible to pretend that we are outside. This is why we cannot allow ourselves to be indifferent, this is why we cannot manage to ignore it. If we oppose ourselves to the state, if we are always quick to seize the occasion to attack it, it is not because we are indirectly molded by it, it is not because we have sacrificed our desires on the altar of revolution, but because our desires cannot be realized as long as the state exists, as long as any Power exists. The revolution does not distract us from our dreams, but rather is the only possibility that allows the conditions for their realization. We want to overturn this world as quickly as possible here and now, because here and now there are only barracks, courts, banks, concrete, supermarkets, prisons. Here and now there is only exploitation, while freedom, as we understand it, does not really exist.
This does not mean that we give up on creating spaces of our own in which to experiment with the relationships that we prefer. It only means that these spaces, these relationships, do not represent the complete freedom that we desire for ourselves and for everyone. They are a step, but not the final one, much less the definitive one. A freedom that ends on the threshold of our occupied house, of our “free” commune, is not enough, it does not satisfy us. Such freedom is illusory, because it frees only as long as we stay at home and don’t leave the confines that are imposed on us. If we don’t consider the necessity of attacking the state (and there is much that we could say about this concept of “attack”), then, by definition, we can only do what it allows us to do at its convenience, forever, limiting ourselves to surviving in the little “happy isle” that we will build ourselves. Keeping our distance from the state means conserving life, confronting it means living.
Our capitulation is implicit in indifference toward the state. It is as if we were admitting that the state is stronger, is invincible, is beyond contestation, one might as well lay down one’s arms and consider cultivating one’s kitchen garden. Is it possible to call this revolt? It seems to us rather to be a completely inner attitude, circumscribed by a kind of diffidence, incompatibility with and disinterest in that which surrounds us. But resignation remains implicit in such an attitude. Contemptuous resignation if you will, but resignation nonetheless.
It is like throwing punches that are limited to warding off blows without ever trying to bring the adversary that one hates down. But our adversary does not give us any respite. We cannot merely leave the ring and go on making a laughing-stock of it. It is necessary to bring our adversary down; dodging and expressing our disappointment in it is not sufficient.

transl. Canenero n. 37, November 1st, 1996