Quello che segue è uno scritto a 34 mani. È stato redatto da alcuni arrestati del 3 giugno e propone una lettura complessiva dell’inchiesta, delle sue implicazioni e cerca anche di raccontare, ancora una volta, due anni di resistenza e lotta nelle strade di Torino.
Proprio come i migliori romanzi d’avventura verrà pubblicato a puntate, e ognuna di queste affronterà un aspetto differente della storia che ci interessa.
Ne immaginerete certamente la difficoltà di redazione, con gli autori dispersi in celle o case di città differenti; qualcuno sottoposto a censura; con i ritardi e i disguidi propri della corrispondenza carceraria. Ne perdonerete dunque la disomogeneità di stile e pure certe contraddizioni di punti di vista e contenuti. Puntata dopo puntata avrete tra le mani un testo collettivo, sì, ma nel senso della pluralità delle voci, della coralità: non c’era a disposizione alcun direttore d’orchestra che potesse dettar la partitura e, del resto, nessuno l’avrebbe voluto avere.
Al bando.
La messa al bando dei picchetti antisfratto: questa potrebbe essere la finalità ultima degli arresti torinesi del 3 di Giugno passato. Non l’unica, per carità, ma quella che veramente trascende le vicende del conflitto sociale in città e che più potrebbe ipotecare lo sviluppo di alcune lotte importanti in tutta Italia, quasi fosse un codicillo – introdotto per via giurisdizionale anziché legislativa – del “piano-casa” del governo Renzi. Non che questo sia il primo attacco frontale contro l’efficacia mostrata dai picchetti, già la primavera scorsa gli uomini di Tribunale torinesi avevano tirato fuori dal cilindro l’art. 610, l’incidente d’esecuzione, che, utilizzato probabilmente per la prima volta in maniera sistematica contro una lotta, consente di sospendere lo sfratto in caso di problemi di ordine pubblico e rimettere la procedura nelle mani di un giudice che stabilisce una nuova data senza più comunicarla allo sfrattando ma solo alle altre parti in causa. Lo sfratto diventa uno sgombero e la pratica del picchetto va a farsi benedire.
Nelle carte dell’accusa, invece, i Pm torinesi arrivano a proporre l’equivalenza “picchetto antisfratto = violenza aggravata a pubblico ufficiale” che, per quanto possa sembrare ardita, è stata accolta senza battere ciglio dal Gip nel convalidare gli arresti preventivi e dai magistrati del riesame nel confermarli. E si parla dei picchetti in quanto tali, proprio in virtù del loro meccanismo di funzionamento, non solo di quelli conditi con episodi particolarmente “vivaci”.
Scorrendo la lunghissima lista dei capi di imputazione, difatti, si trova che ci vengono rinfacciati non solo picchetti nei quali l’ufficiale giudiziario si sarebbe trovato più o meno circondato dai membri della famiglia sotto sfratto, dai loro parenti ed amici e dai solidali organizzati nelle periodiche assemblee di quartiere, tanto da sentirsi “minacciato” e quindi forzato ad «omettere un atto dell’ufficio» (eseguir lo sfratto) e a compierne un altro (firmare la proroga). Vi sono anche episodi nei quali l’ufficiale giudiziario neanche si avvicina al picchetto, se non per consegnare la proroga già compilata e nei quali la “minaccia” nei suoi confronti consiste solo nelle «fortificazioni di fortuna ma sapientemente congegnate», cioè nelle barricate di cassonetti. C’è una richiesta di arresti, addirittura per tre differenti accessi di un’unica famiglia di Borgo San Paolo, nei quali l’elemento di “minaccia” è costituito solo dalla «catena umana» di fronte al portone, richiesta respinta esclusivamente perché gli aspiranti galeotti non sono stati identificati con certezza. E quando la polizia riesce a spazzar via un picchetto, con l’ufficiale giudiziario che arriva sul campo a battaglia finita solo per piantar la bandierina dello sfratto eseguito, ci si ritrova comunque accusati di “tentata violenza a pubblico ufficiale”.
Se è indubbiamente vero che il livello di conflittualità toccato sopratutto nella Barriera dalla lotta contro gli sfratti è stato abbastanza alto, e socialmente allargato, con picchetti numerosissimi e ben difesi, è vero pure che, scava scava, questa inchiesta vuol colpire la forma picchetto in quanto tale, rendendola sostanzialmente illegale e quindi sanzionabile con l’arresto. Un 270 sexies a bassa intensità che non tenta di rendere, come nel caso dei compagni arrestati per la lotta contro il Tav, terroristico il sabotaggio – perché in grado di impedire alle istituzioni di rispettare gli impegni presi – ma piuttosto di rendere arrestabile chiunque intralcia in qualche modo la strada di un ufficiale giudiziario – perché così facendo gli impedisce di svolgere il suo dovere. E questo non è un problema, dunque, dei soli compagni arrestati o di quei proletari che ancora volessero resistere agli sfratti a Porta Palazzo o nella Barriera di Milano. Se questa imputazione passasse sarebbe un problema enorme per tutte le realtà di lotta contro gli sfratti e per la casa, qualunque sia lo sfondo progettuale o il loro percorso organizzativo, in tutta Italia. Sempre che il picchetto non sia utilizzato come un semplice orpello scenico per mascherare accordi già siglati in altra sede, ma questo è un altro discorso. E al di fuori dello specifico di questa lotta, poi, identico ragionamento dei giudici torinesi potrà fare il Pm che, in un prossimo futuro, si troverà alle prese con chi cerca di impedire, per esempio, l’esproprio dei terreni dove si dovrà costruire una qualsiasi “grande opera”.
I proletari di oggi come quelli di ieri, per difendersi dalla violenza legale e quotidiana dell’economia, non hanno altri strumenti che le proprie braccia, magari adeguatamente equipaggiate, la propria determinazione e la propria capacità di organizzazione autonoma. E il lavoro d’avanguardia della Procura torinese si conferma ancora per quello che è, proprio come nel caso dell’uso dell’aggravante di terrorismo per i quattro del 9 Dicembre: fornire ai padroni strumenti nuovi per la repressione dei conflitti sociali e, nel contempo, toglierne a chi lotta.
macerie @ Settembre 4, 2014