Rafael Barrett
Ho sentito parlare di un furto recente.
Senza preavviso, i ladri sono entrati in casa, hanno aperto il baule e hanno arraffato alcuni gioielli, lasciando intatte delle carte manoscritte, appunti, bozze di letteratura e matematica, insomma, il frutto di due o tre anni di vita intellettuale.
Il fatto in sé non avrebbe nulla di particolare né sarebbe giusto rinfacciare ai ladruncoli la loro scarsa propensione allo sviluppo dell’ideale puro.
Ad ognuno il suo ruolo.
Ma è proprio l’aspetto volgare di un fatto che ci deve indurre alla riflessione. Non è il caso, ma è la sistematicità a doverci meravigliare.
Non è miracoloso ciò che accade qualche volta, ma ciò che succede sempre. Se dovessi filosofeggiare con il proprietario sul fatto che gli hanno rubato i gioielli e lasciato i suoi fogli di carta, lo farei più o meno in questi termini:
«Se ti avessero rubato le tue care carte, consumate dalla tua mano febbrile e vacillante, solcate da segni neri, cancellature – ricordi? gesti di rabbia e di tripudio –; se ti avessero sottratto le compagne della tua agitata solitudine, le figlie ed eredi del tuo pensiero, per riscattarle daresti i tuoi gioielli, i tuoi abiti e il letto su cui riposi.
Vedi, non ti hanno fatto soffrire tanto quanto avrebbero potuto, dato che non è necessaria la sofferenza dei buoni alla felicità di coloro che reputiamo cattivi.
Sei consapevole che quei manoscritti, radicati in te, sono veramente tuoi, molto più che i tuoi gioielli e i tuoi mobili. Ti starai accorgendo che i ladri rubano ciò che meno ti appartiene, lasciando stare proprio ciò che è tuo, e cioè tutto ciò che perde valore e peculiarità appena non è più sotto il tuo possesso e la tua volontà. Comprenderai anche che i gioielli non sono di tua legittima proprietà, ma di chi li ha realizzati, come sono di chi li ha vergati quei fogli che sono sotto i tuoi occhi.
Il palazzo è dell’architetto, e la terra di chi la feconda e abbellisce.
È nostro solo ciò che generiamo, ciò che grazie a noi vive, ciò che in quanto genitori non ripudieremo mai. È nostro solo ciò che grazie a noi risplende e funziona. È così che l’oro, inerte, anonimo, lo schiavo di cui tutti hanno bisogno, non è di nessuno, o di tutti.
L’oro, l’aria, l’acqua, il cielo non sono di nessuno, perché non sono umani; i tuoi gioielli hanno un valore, non in quanto d’oro, ma perché sono gioielli, perché un uomo nell’inciderli ha impresso in essi l’immagine sfuggente del suo spirito.
Rubare l’oro è un atto distaccato.
Noi lo puniamo, lo chiamiamo delitto. Tutto ciò è una mostruosità, una pazzia.
Siamo diventati folli il giorno in cui abbiamo pagato con l’oro chi fa gioielli e chi scrive un libro.
Non capisci che non è possibile equiparare un pezzo di metallo e un pezzo di anima?
La società si basa su una grande menzogna, uno scambio illusorio tra cose non scambiabili. Niente che ci appartenga profondamente potrà mai cessare di essere nostro.
Vendi le tue scartoffie, conta le tue monete, ma non credere che ciò che hai creato possa cessare di essere tuo, né che quel denaro lo sia mai stato.
I ladri non ti hanno rubato nulla, come nulla ti dà chi ti concede un salario.
I ladri, quindi, non sono colpevoli. Se ti avessero lasciato uno calco in gesso dei gioielli e se ne fossero andati con tutto l’oro, avrebbero forse fatto la cosa più giusta. Il furto restituisce. Comunque, metteteli pure in galera questi ladruncoli. È giusto che soffrano, e come loro però è giusto che soffrano anche altri infelici: i carcerieri.
È giusto che l’assurda pena smuova il fondo delle coscienze e che monti l’onda vendicatrice»
(Los Sucesos, 5/1/1907)