Durante i cinque mesi trascorsi dalla retata del 3 giugno abbiamo visto emergere alcuni elementi della strategia della Procura di Torino che inizialmente erano invisibili o semplicemente accennati e che ‒ carta dopo carta, notifica dopo notifica ‒ disegnano una strategia giudiziaria ben più complessa e articolata della semplice equivalenza “picchetti antisfratto = violenza a pubblico ufficiale” sulla quale si fonda l’inchiesta e della quale vi abbiamo già parlato.
Ovviamente non possiamo accedere alle disposizioni di servizio impartite dalla Procura all’Ufficio del Gip o ai Giudici del Riesame, ma è chiaro che la semplice contestazione di reati specifici numerosi ma, singolarmente presi, tutto sommato di lieve entità non le poteva bastare; aggiungervi un reato associativo sarebbe stata una strada impervia che, a Torino come altrove, ha fruttato quasi solo brutte figure agli inquirenti negli anni passati. Attenzione però: ciò che si fa uscire dalla porta in sede di mandato di cattura non è detto che non lo si possa far rientrare dalla finestra in seguito con gli aggiustamenti del caso.
A giugno, infatti, il Gip si dilungava molto poco sul contesto organizzativo della lotta contro gli sfratti, a parte qualche richiamo abbastanza generico e impreciso ai “nuclei di base” e ad alcune riflessioni teoriche apparse a suo tempo sull’argomento, come abbiamo già avuto modo di raccontarvi. Anche quando si trattava di pesar le responsabilità dei singoli indagati e di graduar la pesantezza delle misure cautelari, in primo piano rimanevano i fatti specifici contestati e i precedenti di ciascuno: anche la divisione, importante nella costruzione dei processi per reati associativi, tra presunti capi e altrettanto presunti gregari è sorprendentemente sfumata, quasi buttata lì, lasciata in un angolo. Solo una volta che gli arresti sono stati effettuati i giudici iniziano ad occuparsi delle relazioni degli imputati tra di loro e con il contesto organizzativo della lotta, e lo fanno con finalità precise.
Nel confermare le misure cautelari per gli arrestati venti giorni dopo la retata, il Tribunale del Riesame non ha lamentato pericoli di fuga né pericoli di inquinamento delle prove ma il rischio che questi reiterino, cioè compiano nuovamente, i reati che vengono loro addebitati: una volta a piede libero, si dice, questi tornerebbero a far picchetti o, comunque, ad ostacolare il lavoro dei pubblici ufficiali.
A questo punto, però, ciò che inizialmente era stato lasciato in un angolo diventa centrale: fatti salvi gli imputati già in carcere per la retata del 9 dicembre precedente per i quali si fan ragionamenti differenti, i “gregari” vengon messi ai domiciliari, mentre quelli che gli inquirenti definiscono «indubbie guide» rimangono in carcere.
Chiusi in casa è impossibile partecipare a un picchetto antisfratto e, in generale, si incrociano così pochi pubblici ufficiali che risulterebbe molto difficile far loro violenza o minacciarli; a rigor di logica, la possibilità pratica di reiterare quei reati è infinitamente più grande in carcere, dove i pubblici ufficiali ti circondano da mattina a sera e dove persino per aver cambiata la lampadina del cesso devi ingaggiare discussioni con qualcuno di loro. Il rischio di “recidivanza” che i giudici attribuiscono ai capi ma non ai gregari non sta dunque nella possibilità, remotissima ai domiciliari, di prendere a pesci in faccia un ufficiale giudiziario, ma nel fatto che pure chiusi in casa e con tutti i divieti del caso questi non recidano, come dicono i giudici, «i contatti con gli ambienti antagonisti, per i quali costituiscono una indubbia guida». Ma se essere “indubbie guide degli ambienti antagonisti” può essere effettivamente disdicevole per gli imputati, che sappiamo non amano né guidare né essere guidati, non è certo un reato, a meno che in quegli stessi “ambienti antagonisti” non siano quell’associazione (a delinquere o sovversiva) che gli inquirenti non han però avuto il coraggio di contestare apertamente.
L’insistenza della Procura e del Gip nel disporre il divieto di incontro tra gli imputati e di mantenerlo anche ad indagine chiusa ‒ anche quando, dunque, il pericolo di un eventuale “inquinamento delle prove” ormai era nullo ‒ ha solo questa stessa chiave di lettura: nella testa dei giudici gli imputati sono membri di una “associazione” cui continuano a partecipare nonostante siano agli arresti.
Illuminante, in questo senso, è la vicenda di quell’arrestato di giugno andato ai domiciliari con tre mesi e mezzo di ritardo rispetto a quanto avrebbe potuto solo perché Pm e Gip si eran convinti che casa sua fosse una specie di “covo” del movimento: preoccupazione non solo balzana nel merito, ma del tutto irrilevante se davvero i giudici fossero stati interessati solamente alla sua possibilità di reiterare i reati per i quali è indagato e non invece ai suoi rapporti, al suo partecipare ad una lotta che è più ampia e articolata dei picchetti in via di clandestinizzazione.
Figuratevi che il Gip ha disposto l’ascolto in diretta e la registrazione delle telefonate dal carcere di uno degli arrestati con i suoi figli perché teme… che i bambini gli passino i coimputati o che comunque tramite loro possa tenersi in contatto con i famigerati “ambienti antagonisti”. Qualche settimana prima, sempre il Gip gli aveva negato misure più leggere perché nei primi mesi passati in prigione non aveva maturato sufficiente “rispetto per le autorità”, riferendosi probabilmente a qualche rapporto disciplinare guadagnato in carcere e alle sue prese di posizione pubbliche in merito all’inchiesta. Anche qui, niente a che fare con reati contestati e reiterabili, il centro dell’attenzione inquisitoriale sono le idee degli imputati, le relazioni che intrattengono tra di loro e con le lotte.
Non contestare il reato associativo ha risparmiato alla Procura la brutta figura del 2010, comportarsi come se fosse stato contestato le consente di allungare impunemente le misure cautelari, appesantirne le modalità d’esecuzione, colpire gli arrestati cercando di isolarli tra di loro e dal contesto di lotta cui sono legati. E quindi minacciar le lotte in quanto tali, smentendo per l’ennesima volta l’assunto che Caselli e i suoi soldatini han ripetuto come un mantra, assunto secondo il quale la Procura torinese miri esclusivamente a perseguir fatti delittuosi e non a giudicare idee e movimenti.
La torsione del diritto ordinario determinata da questa strategia della Procura, fatta propria obbedientemente da Gip e giudici del Riesame, può dare frutti certi nello spazio limitato di tempo che va dagli arresti all’apertura del processo; poi il Gip sarà fuori gioco e il ruolo stesso del Pm ridimensionato. Nel caso in cui la Corte, aperto il processo, non sia troppo ligia ai suoi ordini, però, di nuovo la Procura non si farà trovare impreparata: è dal giorno degli arresti, difatti, che prepara le contromosse. Da giugno in poi ha preso in mano tutte le inchieste aperte che coinvolgessero i nostri, anche per gli episodi più marginali, e ne ha chiuse in fretta e furia il più possibile; dopo di che ‒ forte dei processi in corso, dei precedenti di ciascuno e di questo bel mucchio di inchieste chiuse oramai pronte a trasformarsi in richieste di rinvio a giudizio ‒ ha proposto quattro degli arrestati per la misura di prevenzione della Sorveglianza speciale con obbligo di dimora a Torino per 4 anni.
Se nel 2009 era stata la Questura a candidare due redattori di Macerie alla Sorveglianza speciale, e con risultati tutto sommato scarsi, questa volta è affare tutto interno al Tribunale, organico alla strategia della Procura, e ha quindi ottime possibilità di andare in porto. Se questo dovesse succedere, una volta usciti dal carcere e poi dai domiciliari, ai nostri sarebbe vietata non solo ogni partecipazione alle lotte ma pure la frequentazione dei compagni e, in generale, di una parte consistente della gente dei quartieri dove vivono.
Come sapete, la Sorveglianza speciale non mira a punire reati già compiuti ma a prevenirne di nuovi, per cui chi vi è sottoposto deve rispettare una lunga lista di prescrizioni studiate per allontanarlo da ogni tentazione. Non può uscir di casa la notte o uscire di città; non può partecipare a pubblici assembramenti o frequentar locali di dubbia fama; non può frequentar pregiudicati o altri sorvegliati, cosa non sempre semplice a Porta Palazzo o in Barriera di Milano. Per render l’idea: durante la loro breve esperienza di Sorvegliati speciali nel 2009, i redattori di Macerie eran stati denunciati uno per essersi fermato in strada a guardar passare un corteo, e l’altro per aver assistito ad un processo altrui. Se la violazione di queste prescrizioni comporta sempre denunce e processi, in alcuni casi è consentito l’arresto preventivo. In più c’è una lunga lista di reati ‒ che si apre, ironia della sorte, proprio con la violenza a pubblico ufficiale ‒ che, se commessi da sorvegliati, comportano pene fortemente aumentate e soprattutto permettono alla polizia arresti fuori flagranza altrimenti non consentiti. Per controllare che i sorvegliati righino diritto, poi, la Procura può disporre di intercettarne le telefonate e le mail.
Ciliegina sulla torta: la normativa sulle misure di prevenzione, completamente riformata nel 2011, quando si tratta di punire la violazione delle prescrizioni della Sorveglianza speciale o di perseguire i delitti commessi dai sorvegliati prevede pure che si aggiunga alla denuncia o all’arresto una qualche misura di sicurezza, la Libertà vigilata quando va bene, la Casa di lavoro o la Colonia agricola quando va male.
Tanto per esser chiari: se sei sotto sorveglianza, e pure se lo eri fino a meno di tre anni prima, partecipare a un picchetto antisfratto potrebbe costarti… i lavori forzati.
Tentiamo un riassunto allora. Oltre alla messa fuorilegge dei picchetti antisfratto, la Procura ha disposto una gestione delle misure cautelari che simuli, per quanto possibile, quella prevista nei reati associativi e che divida, di fatto, gli imputati in supposti leader e in gregari; quindi sulla base di questa divisione, alcuni vengono candidati alla Sorveglianza speciale per interrompere drasticamente la loro partecipazione alle lotte, indipendentemente dall’esito del processo e facendo forza sulla minaccia di applicare le peggiori misure di sicurezza, e spaventare tutti gli altri. Il quadro si completa con la pratica del “bando”, che l’anno passato aveva colpito molti compagni costringendoli fuori Torino e che non sappiamo se e come verrà riproposta.
Da questa prospettiva, è il “bando” ad essere una misura veramente preventiva, mentre la Sorveglianza speciale di preventivo non ha che il nome: è la pena accessoria, in realtà, per chi è sospettato di partecipare ad una “associazione” che, non trovando un riscontro adeguato nel codice penale, non può essere contestata. È la risposta ‒ approssimativa, sperimentale e tutta torinese ‒ alla assenza di un reato associativo che fotografi in maniera soddisfacente i modi di organizzarsi e di partecipare alle lotte sociali degli anarchici.
Questo è quanto ci è parso di poter leggere in questi cinque mesi della strategia della Procura; nei mesi che verranno vedremo se ci è sfuggito qualcosa, e ve ne diremo di più.
macerie @ Novembre 17, 2014