Premesse metodologiche
Non occorre essere deterministi per considerare le crisi economiche come fenomeno endemico del capitalismo. I marxisti, partendo da uno schema deterministico (crisi del capitalismo ed avvento necessario della società socialista) hanno indagato le crisi economiche attuali indugiando nella distinzione gramsciana tra “guerra di trincea” e “guerra guerreggiata”.
I borghesi liberaleggianti e socialdemocratici sono partiti dallo stesso schema economico (necessità dell’avvento del socialismo di stato) e hanno tirato fuori le analisi illuminate di Galbraith e soci, in cui si vede con chiarezza il compito dello stato: fare da levatrice (senza i classici dolori previsti da Marx) alla nuova società. Ambedue: il terribile rivoluzionario e il pacifico borghese, hanno visto i dati del problema attraverso la lente deformante delle rispettive ideologie che, guarda caso, sono nate e si sono sviluppate nello stesso clima di “fiducia nella scienza” tipico dell’ottocento positivista. Anche quel tanto di volontarismo che dovrebbe uscir fuori dalla “guerra guerreggiata” o dal modello leninista, resta lo stesso legato – mettendo da parte adesso la faccenda autoritaria – allo schema dialettico e al mito del predominio della classe operaia. Gli anarchici, dal canto loro, hanno visto bene il problema: necessità delle analisi delle crisi economiche al di fuori di ogni schema rigidamente fissato in sede ideologica, ma spesso sono caduti in errori paralleli e altrettanto pericolosi. I più antichi di questi errori erano di due tipi: eccessivo spazio e persistente astrattezza di un soggettivismo di maniera che finiva per illuminare un’entità inesistente: l’uomo, preso al di fuori di una certa dimensione storica; determinismo classico (kropotkniano) legato ad una visione statica delle “forme” storiche e biologiche. Gli errori più moderni sono anch’essi di due tipi: utilizzazione insensata del pluralismo che sconfina nel qualunquismo e nell’eclettismo invece di portare ad una visione razionale e volontaristica; accettazione inconscia del modello dialettico marxista sia pure limitatamente all’aspetto metodologico. Spesse volte, in alcuni compagni, l’analisi del determinismo è giustamente andata in senso negativo e critico, utilizzando i risultati di quella corrente indeterminista che ormai ha finito per prevalere all’interno della metodologia scientifica; ma, collocata davanti al fatto storico, questa analisi nel rifiutare la “necessità” dello schema determinista ha imposto un’altrettanta assurda “necessità”, quella della “persistenza” dello schema attuale di sfruttamento capitalista. In altre parole: il capitalismo non solo non si evolverebbe nel socialismo necessariamente, ma resterebbe “per sempre” capitalismo, affermazione che, come ognun vede, è altrettanto dogmatica e assurda di quella relativa all’evoluzione delle “forme fisse”. Peraltro, l’affermazione della storicità dell’uomo non è affatto un riconoscimento della sua inevitabile struttura dialettica. Il materialismo storico non è una “combinazione” marxista, almeno nei termini in cui è possibile tenerlo in piedi come materialismo senza essere costretti a ridurlo ad un idealismo quanto mai ampio, figlio di Hegel, tanto ampio che Gentile e Marx possono pure starci insieme. L’uso della ragione, donde è possibile parlare di materialismo, può essere fatto in senso dogmatico (assolutista) e in senso critico (non dialettico). In quest’ultimo senso, che è poi quello che ci interessa, possiamo dirci razionalisti, non dialettici, critici, pluralisti, razionalisti; in quest’ultimo senso la volontà (irrazionale) coglie il momento positivo della ragione (razionale) e determina la forma storica (materiale), senza esservi costretta ad un modello prefissato (dialettico). Al contrario dei dogmatici dialettici (marxisti) dobbiamo cogliere l’aspetto fecondo del pensiero nella sua azione sul reale, nella sua effettiva realizzazione come trasformazione degli schemi, ma questo è possibile solo se partiamo da una posizione sgombra di preconcetti e modelli precostituiti (materialismo dialettico). Quanto sia grave questo problema ognuno può vedere riflettendo su come molti compagni anarchici risultino condizionati dalle tesi marxiste anche nella scelta degli autori da leggere. Ad esempio, Sorel è messo al bando su condanna emessa dalla chiesa marxista, lo stesso dicasi per Stirner e per tutti gli altri pensatori che hanno inteso darci una visione volontaristica della realtà. Quello che non è ammissibile, per degli anarchici, è la condanna in blocco, il rifiuto in assoluto, per principio, specie quando questa condanna viene da parte marxista. Se non si fosse contrapposto storicamente in modo così netto a Marx in seno alla Prima Internazionale, la stessa sorte sarebbe toccata probabilmente anche a Bakunin. Simili pericoli oggi sono gravissimi, specie dopo il dilagare, all’interno delle istituzioni scolastiche italiane, della cultura marxista o ispirata al marxismo. Senza volerlo molti compagni ne escono condizionati al punto da ammettere chiaramente che la struttura dialettica è la realtà e basta e che non è possibile ragionare in termini non dialettici.
La crisi del capitalismo
Oggi il capitalismo viene considerato come una struttura economica che può cambiare non essendo per nulla connaturato al vivere in società. La vecchia concezione partiva dal presupposto che “capitale” fossero tutte le cose possedute dall’uomo, dall’arco e dalle frecce del selvaggio nostro progenitore, alla macchina dell’industria odierna. Questa concezione fu sviluppata in forma chiarissima da Böhm-Bawker che considerava capitale “tutto ciò che è prodotto per servire alla produzione ulteriore”. Oggi il “capitale” non è più considerato come un insieme di cose, ma un rapporto sociale, non lo strumento di produzione come tale, ma la proprietà privata di esso, e non soltanto questa (infatti anche in economie di tipo non capitalistico, ad esempio nell’economia medievale, si aveva proprietà privata di mezzi di produzione), ma questa proprietà in quanto trova sviluppo ed accrescimento attraverso l’impiego di salariati. In questo modo il capitale o “capitalismo” diventa un fenomeno storico, nato nel tempo e destinato a morire. In precedenza, la tesi dell’eternità del capitalismo, tipica del vecchio liberalismo, partiva da vecchi modelli di equilibrio, tanto amati dalla scienza positivista dell’ottocento, presi in prestito dalla gloria scientifica dell’epoca: la meccanica. Lasciando libero corso alle forze di mercato, eliminando le restrizioni di ogni genere alla libera iniziativa, si aveva la possibilità di uno sviluppo progressivo, indefinito, sempre più ampio, non solo dell’aspetto economico ma anche di tutti gli altri aspetti dell’uomo: eliminazione della miseria, della disoccupazione, della povertà, delle malattie ecc. Un sogno utopistico, caduto malamente col cadere del sogno imperiale inglese del periodo vittoriano. Non fu Marx il primo ad individuare e studiare il meccanismo della crisi economica del sistema capitalistico E’ addirittura Smith il primo che parla della crisi. In pratica si hanno in lui due idee contrastanti: da un lato l’idea della definitività dell’ordine capitalistico, dall’altro l’idea della caduta del saggio di profitto. Contraddizione logica che sarà superata da Ricardo con la dimostrazione che la caduta del saggio del profitto è funzione dell’accumulazione del capitale. Anche Maltus e Sismondi parlarono di questa contradditorietà del capitalismo sostenendo che la crisi sarà determinata dall’insufficienza della domanda: quindi una malattia di sovrapproduzione. Non solo, ma questi due scrittori hanno una visione della sovrapproduzione che non è una conseguenza finale e periodica del capitalismo, ma una premessa iniziale, donde se ne ricava che il capitalismo ha un errore di partenza che ne impedisce un regolare funzionamento. L’analisi di Marx è troppo nota per esporla anche in breve in questa sede, ci basta sapere che secondo lui – entusiasta elogiatore del capitalismo – non ci sarebbe stata soluzione migliore per l’umanità se questa forma economica oltre a garantire gli equilibri parziali (consumatore-produttore) garantisse anche l’equilibrio generale del sistema. E’ nella impossibilità di quest’ultima condizione che il capitalismo, ammalato, manifesta le sue crisi periodiche che lo porteranno alla morte. Tra gli economisti “ufficiali” più recenti Keynes, Schumpeter e Galbraith sostengono tutti la ineluttabilità della crisi capitalista. Secondo Keynes il capitalismo assicura un rapido sviluppo della produttività e una soddisfazione dei bisogni; ma la trasformazione del risparmio in capitale, con cui si attua l’incremento della produttività, dovrebbe assumere un’ampiezza via via minore man mano che ci si avvicina al punto finale della soddisfazione dei bisogni. Al contrario, le istituzioni capitaliste, la diversa distribuzione della proprietà e quindi del reddito, insistono per una continuata formazione di risparmio indipendentemente dalla necessità oggettiva, da qui uno squilibrio e la crisi. Per Schumpeter base dell’economia capitalista è l’attività innovatrice dell’imprenditore, attività che si va esaurendo man mano che si verifica quel progressivo soddisfacimento dei bisogni, per cui ci si avvia ad una profonda trasformazione della dimensione aziendale che è poi una trasformazione dell’intero sistema capitalistico. Con Galbraith sono i processi di redistribuzione del reddito che determinano lo squilibrio dell’economia di mercato. I salari bengono elevati al di sopra del limite della sussistenza, in questo modo si alza la domanda ottenendo due risultati: la classe dominante passa da un profitto molto alto ad uno più piccolo, viene eliminato l’ostacolo alla realizzazione del profitto in generale. Si tratta della “civiltà dei consumi”. Ma Galbraith si chiede in che modo si potrà frenare la corsa alla produttività: la forma risolutiva è quanto mai inconsistente: “non bisogna spingere la produzione al di là del sensato”. Non bisogna dimenticare che queste teorie non hanno trovato la loro origine nel vano dialogare degli studiosi, ma si riflettono sulla realtà politica e sociale e da quest’ultima trovano a loro volta giustificazione. Keynes pensava alla grande crisi americana quando rifletteva sui destini del capitalismo, Galbraith guarda oggi all’imperialismo consumistico degli Stati Uniti quando parla dei disturbi endemici di una società opulenta. Uno degli elementi meno presi in considerazione nello studio delle crisi e del futuro dell’assetto capitalistico dell’economia, da parte degli economisti borghesi, è l’influenza delle lotte dei lavoratori. A sua volta questa influenza andrebbe studiata nei suoi aspetti intimi: forze che la determinano o la frenano, prospettive, metodi e così via. Per definizione non ci interessa qui la vicenda rivendicativa che ha costretto il capitalismo contemporaneo a passare dal vecchio concetto del salario di sussistenza alle nuove forme relative alle fasi di “ristagno” prima e di “opulenza” dopo; al contrario, ci interessano le possibilità rivoluzionarie che queste lotte hanno determinato, i motivi del fallimento di certe possibilità, il ruolo giocato dalle organizzazioni politiche. Particolarmente interessante sarebbe l’applicazione di questa analisi alla situazione italiana attuale e allo squilibrio tradizionale determinato dalla frattura Nord-Sud nell’economia capitalista del nostro paese. Vediamo di tracciare, per grandi linee, le condizioni più importanti di questo grosso problema.
La questione meridionale
Diversi punti di vista coinvolgono diverse considerazioni della cosiddetta “questione meridionale”, riferimento costante di ogni politico riformista e di non pochi teorici rivoluzionari. Oggi ci si potrebbe chiedere: esiste una “questione meridionale”? Di certo, in Italia, esiste un problema di scompenso nello sviluppo economico nazionale, un problema che determina fortemente la crisi economica e che si potrebbe anche ricondurre alla dimensione geografica di un Sud agricolo, sottosviluppato e scarsamente industrializzato, e di un Nord fortemente industrializzato, omogeneamente rappresentato dalle lotte della classe operaia. Ma uno schema del genere sarebbe falso per svariati motivi. E’ lo schema marxista, con la caratteristica di guida rivoluzionaria data agli operai, che ha dato l’assetto definitivo a questa ripartizione, voluta per altri motivi dai teorici borghesi da più di cento anni. Ma, anche in teorici ortodossi come Lenin o Gramsci, è presente con chiarezza il ruolo rivoluzionario che possono svolgere i contadini. Se gli operai fanno la rivoluzione nelle fabbriche i contadini la fanno nelle campagne e, tenendo impegnato l’esercito su vaste zone, possono consentire la vittoria rivoluzionaria. I contadini schierati in funzione controrivoluzionaria impediscono la vittoria delle forze del lavoro. Ma tutto ciò non scioglie l’ombra di un sospetto: i contadini restano, per i marxisti, una massa di manovra strumentalizzabile sulla base di certe parole d’ordine a favore della rivoluzione, ma intrinsecamente refrattari a ogni trasformazione radicale, conservatori se non reazionari. Il motivo di questo giudizio: la loro instabilità, la tendenza a rifiutare ogni tipo di associazione politica. In effetti, guardando la situazione italiana oggi, le prospettive rivoluzionarie sono legate esclusivamente a certe condizioni di arretratezza e di sottosviluppo che non possono essere individuate su base geografica in modo netto. Se nel Sud esistono obiettive condizioni di arretratezza esiste anche una struttura clientelare che si è trasferita dalla vecchia classe politica basata sul baronato alla nuova basata sulla burocratizzazione delle strutture; se nel Nord esistono situazioni di sviluppo industriale esistono anche, e sono notevolissime, fasce di sottosviluppo determinate da un tumultuoso fenomeno migratorio e da uno sfruttamento intensivo tipico delle industrie collaterali. La classe operaia, specie quella dei grossi centri industriali, resta legata alle organizzazioni politiche riformiste attraverso la burocrazia sindacale. Questa situazione di fatto può essere ovviamente sempre capovolta, può cioè verificarsi un moto spontaneo di rottura che ponga gli operai al di là degli obiettivi sindacali e costringa i sindacati a recuperi affannosi. Questa eventualità si è verificata in passato, si sta verificando in questi giorni a proposito della “disobbedienza civile” di quei gruppi di lavoratori che si sono rifiutati in varie città italiane di pagare gli aumenti nelle tariffe dei trasporti urbani, si verificherà sicuramente in futuro. Resta comunque il fatto che la politica dei partiti riformisti della sinistra italiana, ed in particolare del PCI, è quella di uno sviluppo coordinato delle strutture produttive, in modo da eliminare ogni istanza rivoluzionaria. La vecchia “alleanza” derivabile dalla tesi gramsciana si è talmente allargata da includere anche la piccola borghesia e i gruppi più reazionari della media borghesia. La distinzione fittizia tra rivoluzione democratico-borghese e rivoluzione proletaria ha svolto il ruolo di paravento della sostanziale azione di freno delle istanze di rivolta. Tutto ciò comporta una effettiva difficoltà per la classe operaia di collocarsi in posizione rivoluzionaria anche di fronte a fatti oggettivamente determinanti in tal senso. L’occupazione delle fabbriche è un segno tangibile. Oggi non sempre è possibile parlare di occupazione e autogestione delle fabbriche in seno ai grandi organismi di massa, in seno alle burocrazie sindacali. Il più delle volte si ha l’impressione che questo discorso venga mitizzato, come faceva Sorel con lo sciopero generale. Un fatto spinto all’infinito, nel campo probabile ma sconosciuto del futuro, comunque un fatto che bisogna sempre minacciare ma difficilmente attuare. Da non trascurare l’eventualità che l’occupazione delle fabbriche, priva di un tessuto connettivo di base, annegata nella melma della burocrazia sindacale, si trasformi in un’arma di facile uso per i padroni, aiutandoli nel passaggio ormai non troppo lontano da un’economia dei consumi ad un’economia fondata sui consumi sociali ma sempre centralizzata e basata sullo sfruttamento: meno automobili, più mezzi pubblici di trasporto, meno Coca Cola , mare più pulito; ma tutto sempre sulla base dello sfruttamento fisico e intellettuale dei lavoratori, sull’accumulazione capitalista, sulla centralizzazione statale. Date queste premesse la questione meridionale non può essere risolta sulla base di un “rinnovamento delle strutture” . Il PCI condusse in passato la lotta per la terra e determinò , con certe limitazioni di fondo, la nascita di un movimento contadino che poteva condurre anche ad uno sbocco rivoluzionario, ma gli errori di fronte alla riforma agraria voluta dal governo, le incertezze sulla via da prendere, la contraddittorietà tra linea togliattiana e visione rivoluzionaria, distrussero queste premesse, uccidendo la spontaneità delle iniziative locali con provvedimenti burocratici di partito, con trasferimenti di dirigenti non proprio ortodossi, con azioni mafiose che ancora oggi vengono ricordate con stizza da quegli uomini che si erano illusi in quegli anni sulla vera realtà del PCI. Oggi il senso della parola “la terra a chi lavora” è del tutto diverso. Allo stesso modo che al Nord, nelle industrie, al Sud, nelle campagne il discorso del PCI è fondato sulla necessità di un processo di trasformazione e di riforma dell’agricoltura, sulla decisione politica dei governi e delle forze politiche di attuare questo processo, sulla adesione elettorale del più gran numero di contadini e braccianti. La realtà invece è assai diversa. L’esodo dei contadini è pauroso. Nel decennio 1959-69 è diminuito di 2.636.000 unità, passando da 6.833.000 a 4.227.000. In questi ultimi anni è continuato a ritmo ancora più sostenuto. Circa un altro mezzo milione di persone è passato ad altri settori. Questo fenomeno ha significati diversi. Per prima cosa la mancanza totale dell’esodo significherebbe una cristallizzazione delle strutture produttive, cosa senz’altro negativa: non è giusto che chi è nato nelle campagne debba morirvi se preferisce andare a lavorare in città, solo per il semplice fatto che il padre era contadino. Ma queste cifre e la caoticità di questo fenomeno hanno significati patologici. Essi sono: emigrazione, passaggio irrazionale a pseudo settori industriali (come quello dell’edilizia) che poi sono settori di piena sottoccupazione, accettazione passiva dei valori della società consumista con tutte le conseguenze, formazione di ghetti di sottosviluppo attorno alle grandi città industriali del Nord, e così via. Di fronte a questa realtà non è possibile utilizzare schemi prefissati, tanto meno schemi dialettici che impongono un comportamento rigido e obbligatorio. Non è possibile ragionare come faceva Gramsci ai suoi tempi. Non dobbiamo dimenticare che il Sud, oggi, non è soltanto geograficamente limitato al Mezzogiorno, il Sud, inteso in termini di sottosviluppo, di miseria, di arretratezza e di violenza rivoluzionaria è dovunque, a Milano, a Torino, a Genova. Se insistiamo nell’immagine modellistica della classe operaia “guida” rivoluzionaria, dobbiamo fare i conti con gravissimi problemi come quello che deriva dall’afflusso incondizionato dei lavoratori agricoli del Sud che si trasferiscono al Nord ingrossando l’esercito industriale di riserva e rendendo non solo precarie le conquiste parziali ottenute, ma facendo diventare illusorio ogni discorso di “guida” rivoluzionaria.
L’effettiva potenzialità rivoluzionaria
Nel giuoco del capitale gli strumenti usati per portare avanti la lotta di classe sono quanto mai vari e di difficile individuazione. Lo stato e le sue forze repressive, i fascisti, l’abbassamento del salario reale, sono gli elementi più appariscenti, quelli meno appariscenti, ma lo stesso utilizzati nel senso favorevole al capitalismo, sono i sindacati e i partiti cosiddetti dei lavoratori. Che la classe operaia tradizionale esca indebolita dal punto di vista rivoluzionario dall’azione combinata del sindacato e del PCI, è un fatto che non si può negare. La sua conseguenza logica, invece, non è per niente una naturale stasi della lotta di classe e un indebolimento dello strumento fascista. Meno paura fanno gli operai come organizzazione rivoluzionaria, più la borghesia si rammarica dell’abbattimento del tasso di profitto prodotto dalle rivendicazioni immancabili, più lo strumento fascista può tornare utile per ripristinare situazioni di fabbrica compromessi dal punto di vista del guadagno. Al contrario, di fronte ad una situazione rivendicativa ma contemporaneamente rivoluzionaria, di fronte a risultati “strappati” con la forza dalla classe operaia, i padroni accettano volentieri il male minore, ridistribuendo il reddito secondo l’analisi di Galbraith o secondo altre alchimie che non mancano mai di trovare, utilizzando lo strumento fascista come elemento di raccordo con l’eventuale soluzione militare finale. In ambedue i casi, sia in fase di stabilizzazione che in fase di recrudescenza, il capitalismo si difende utilizzando i fascisti. Attirare, come fa il PCI, l’organizzazione produttiva all’interno di una “logica di sviluppo democratico”, costringendola a cedere sul piano delle scelte dei consumi, e denunciare contemporaneamente le mire antidemocratiche dei fascisti, non è affatto una garanzia, una volta che la classe operaia viene evirata all’unica forza di difesa: l’organizzazione rivoluzionaria e la volontà di ribellione. Entrati nel giuoco del potere i partiti della sinistra e i sindacati hanno sostanzialmente venduto i lavoratori in cambio di quella libertà di azione che dovrebbe consentire loro il raggiungimento del potere e la gestione dell’economia in forma lievemente mutata ma sempre basata sullo sfruttamento: E’ in questo senso che dobbiamo vedere l’attuale lotta antifascista, l’attuale caccia al fascista. Colpire Ordine Nuovo è stato un fatto utile a tutti ma in particolare è stato utile ai padroni, indirizzando l’attenzione “democratica” sulla fascia estrema dello strumento repressivo che, a stretto rigore di termine, proprio perchè strumento e perchè repressivo andrebbe definito in blocco “fascista”. E’ una conclusione amara la nostra, ma il fascismo non è più quello delle adunate oceaniche, delle sfilate e delle pagliacciate in costume, il fascismo è cresciuto intellettualmente e si è annidato con accuratezza dentro organismi e strutture che sono, per tradizione, la sua antitesi. E quando un’organizzazione antifascista, una organizzazione che dovrebbe fare gli interessi dei lavoratori, diventa oggetto e strumento del capitale, vende la propria rigidezza morale sul banco di un possibilismo politico, accetta strutture clientelari che sono quantomeno borboniche, concede spazio nelle proprie gerarchie a elementi di mentalità e preparazione fasciste; la dolorosa conclusione è molto facile. Boia non è soltanto chi tiene in mano la scure, ma anche chi accompagna il condannato sul patibolo, sia esso prete confessore, incaricato di giustizia, magistrato o semplice aguzzino. Certo noi abbiamo una grande fiducia nella massa dei lavoratori, una fiducia che non è solo legata all’esperienza storica ma ci viene dal modo stesso con cui impostiamo il nostro rapporto con le masse. La creatività, la spontaneità, la genuinità rivoluzionaria delle masse è un fatto che può sempre travolgere qualsiasi struttura repressiva e qualsiasi falso profeta, ma non bisogna lasciarsi andare sulle onde dell’ottimismo. La situazione determinata dall’appoggio dato ai padroni dalle organizzazioni di sinistra, oggi in Italia, è estremamente grave. L’effettiva disponibilità rivoluzionaria delle masse, disponibilità legata a situazioni di indigenza e di arretratezza, di miseria e di sottosviluppo, potrebbe non bastare, da sola, a determinare le condizioni necessarie per il fatto rivoluzionario, se l’altra parte dei lavoratori, con in testa gli operai dell’industria, restasse supinamente legata alla direzione riformista. Potremmo, a questo punto, stranamente concludere capovolgendo l’analisi marxista e collocando gli operai in una curiosa posizione controrivoluzionaria, guardando invece verso i contadini e verso la classe dei sottoccupati, come verso l’unica possibilità di soluzione rivoluzionaria. Ma sarebbe cosa errata e parziale. La disponibilità rivoluzionaria non corrisponde mai al potenziale rivoluzionario di una classe. La prima è legata a fatti che si collocano sempre a “breve termine”, la seconda a fatti a “lungo termine”. La disponibilità rivoluzionaria operaia è fortemente intaccata dall’azione dei riformisti, ma la sua potenzialità rivoluzionaria resta legata a fatti che non possono essere intaccati dalla corrosione della cricca di potere. Questi fatti sono in primo luogo legati alla struttura stessa della crisi economica che ha ritmi propri che non sempre corrispondono ai ritmi graditi alle organizzazioni vendute al capitale. I fatti del 1969 sono un esempio molto evidente di questo scompenso. Non bisogna dimenticare che , in definitiva, per quanto ricorrano a procedimenti degni di un funambolo, i capitalisti non possono mai annullare la contrapposizione di classe perchè annullerebbero lo sfruttamento e con questo ridurrebbero a zero il tasso di profitto. Questa realtà può essere camuffata da una “ideologia collaborazionista”, ma non può essere del tutto fatta scomparire. E’ in questo senso che bisogna guardare alla nostra azione rivoluzionaria. Partire dalla classe più diseredata, contadini poveri, braccianti, emigranti, sottoccupati, disponibile per una strategia rivoluzionaria anche a breve termine, senza guardare alla classe operaia come a un nemico da combattere solo perchè adesso risulta facilmente strumentabile dalla cricca dei venduti al potere capitalistico. Ogni modello dialettico di processo rivoluzionario deve essere messo da parte, perchè legato a strutture autoritarie di pensiero che trovano riscontro solo in strutture autoritarie dell’azione. E la nostra azione rivoluzionaria, improntata alla metodologia libertaria non può utilizzare un processo di pensiero a lei del tutto estraneo. In una prospettiva rivoluzionaria come quella che abbiamo delineato il fatto di base, di partenza, collocandosi in realtà in cui esiste ancora quello che alcuni ottusi analisti definiscono un “mito”, cioè la miseria e la fame, può essere ancora il fatto insurrezionale, la spinta della base che mette in moto un meccanismo molto più complesso e imprecisabile. Non è illusorio, a nostro avviso, insistere su questo, non è illusorio considerare situazioni esplosive le situazioni che gli emigranti vivono nei posti di lavoro al Nord e le situazioni che ritrovano tornando per le ferie al Sud. Certo il problema andrebbe approfondito, sostenuto con una opportuna raccolta di dati e con un’analisi della situazione attuale, ma, per grandi linee resta quello che abbiamo descritto: una grossa potenzialità rivoluzionaria industriale in prospettiva a una altrettanto grossa disponibilità rivoluzionaria del sottosviluppo al presente. Il nostro lavoro dovrebbe essere quello di mantenere viva la seconda tentando il collegamento con la prima.
ALFREDO M. BONANNO