Gli abiti nuovi di Alain Badiou (it/fr)

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Séverine Denieul
«Kant ha creato il linguaggio della modernità filosofica. E così come abbiamo iniziato a dire
che Derrida non era che una parentesi — geniale, ma una parentesi — fra Heidegger e Badiou;
così come abbiamo osato affermare che Heidegger non era che una parentesi
— cruciale, ma una parentesi — fra Hegel e Badiou; adesso possiamo arrivare alla temerarietà
di affermare che Hegel non è che una parentesi — grandiosa, ma una parentesi — fra Kant e Badiou».
(Mehdi Belhaj Kacem, L’Esprit du nihilisme: une ontologie de l’Histoire, Fayard, 2009)
«Uno dei tratti più caratteristici della nostra cultura è l’onnipresenza della chiacchiera. Ognuno di noi ne è consapevole — e ha la sua parte di responsabilità. Ma tendiamo a considerare naturale questa situazione.
La maggior parte delle persone hanno fiducia nella loro capacità di riconoscere la chiacchiera e di evitare di rimanerne ingannati. Così questo fenomeno solleva assai poche inquietudini e non ha suscitato studi approfonditi».
(Harry G. Frankfurt, De l’art de dire des conneries, 10/18, 2006)
Il minimo che si possa dire è che, coi tempi che corrono, è quasi impossibile non inciampare sull’ultima opera in ordine cronologico di Alain Badiou. Autore prolisso quanto mai, si vede affabulato da un numero incalcolabile di titoli o definizioni che alla lunga sembrano essere riusciti a convincere il grande pubblico dell’importanza della sua opera: «maître à penser», «pensatore radicale», quando non «chirurgo del concetto» (Rémy Bac), nessuno rinuncia a concedere al filosofo uno statuto d’eccezione. La sua volontà dichiarata di «rifondare la filosofia» lo porta a coprire tutti i campi del sapere: la politica, l’estetica, le matematiche, la letteratura attraverso il romanzo, la poesia o la scrittura di testi teatrali. Autore di opere su Beckett, ma anche su Platone, Wittgenstein e San Paolo, Badiou incarna nei media il pensatore «geniale» capace di mettere in parallelo nozioni complicate con opere molto differenti tra loro. Erede della filosofia “continentale” più astrusa (Heidegger, Lacan, Althusser), Badiou ha in effetti quella forma di spirito particolare, così caratteristica della nostra epoca, che consiste nell’incrociare nozioni e ambiti distanti le une dagli altri per farne una sintesi «personale» che, lungi dal chiarire i problemi, li rende ancora più oscuri. È il caso, ad esempio, dell’accostamento che opera fra il marxismo, la psicanalisi e la matematica.
Tutto ciò costituisce solo una parte delle sue attività, in quanto si considera anche un pensatore appartenente all’«ultra-gauche» (termine che non rinnega), nell’esatta linea staliniana e maoista dei maître à penser politici degli anni 60. Nel 1985 ha fondato, con Sylvain Lazarus e Natacha Michel, un gruppuscolo politico «postleninista e postmaoista» chiamato «l’Organizzazione Politica».

Ma quali rapporti intrattiene Badiou con la French Theory ed il postmodernismo? Badiou riproduce e prolunga il percorso intellettuale proprio dei «maestri» francesi, e ciò in diversi modi:
– riprendendone anzitutto i temi e i motivi filosofici, sebbene si sia sempre dichiarato ostile alle idee che ruotano attorno alla «morte della filosofia» (Derrida, Lyotard);
– posizionandosi come «intellettuale impegnato» alla maniera di Foucault;
– utilizzando lo stesso stile filosofico che favorisce il falso approfondimento a scapito della chiarezza.
Di recente Badiou ha anche adottato una tattica che consiste nel definirsi come l’ultimo rappresentante vivente della corrente filosofica uscita da Vincennes. Questa affermazione resta tuttavia da sfumare poiché, come vedremo, si distingue su vari punti: in particolare, la sua concezione della politica e della democrazia parlamentare sembra essere una nuova strategia messa in atto per recuperare il passato rivoluzionario della sua generazione allo scopo finale di posizionarsi come il pensatore più «radicale» del XX secolo.
Ci interesseremo quindi meno alla filosofia ontologica o matematica di Badiou — talmente inconsistente da non meritare nemmeno d’essere esaminata — quanto alla sua posizione politica. Benché sia assai difficile separare questi due ambiti dato che, per Badiou, la filosofia in sé è politica (il filosofo, per via del suo stesso statuto, è impegnato).
Ma torniamo brevemente sul suo percorso prima di studiare il suo ruolo all’interno dell’editoria, dei media, dell’istituzione, così come della politica e della filosofia francese contemporanea.
Breve sunto del percorso di Alain Badiou ad uso di coloro che hanno la fortuna di non conoscerlo ancora
Come ci ricorda la voce di Wikipedia, forse scritta da uno dei suoi discepoli giacché è al tempo stesso elogiativa e — a tratti — incomprensibile, sappiamo che Alain Badiou, nato nel 1937, è un «vecchio allievo della École Normale Supérieure, primo al concorso di ammissione alla facoltà di filosfia nel 1960. All’inizio insegna al liceo (collaborando puntualmente con l’ENS), poi alla facoltà di Lettere di Reims (collegio letterario universitario), dove fu al centro (sic!) degli “avvenimenti”, impegnandosi nel Partito socialista unificato (PSU) diretto allora da Michel Rocard, ma situandosi con altri militanti intellettuali come Emmanuel Terray all’interno di correnti che si richiamavano al marxismo-leninismo. Aderisce poi all’équipe del Centro universitario sperimentale di Vincennes fin dalla sua creazione (annata 1968-69). Contribuisce allo sviluppo di questa Università (ormai Paris VIII, spostata da Vincennes a Saint Denis) per una trentina d’anni. Diventa professore all’École Normale Supérieure della rue d’Ulm nel 1999, poi professore emerito in questa istituzione. È stato anche direttore del programma al Collegio internazionale di filosofia». Più noto in Francia come oscuro filosofo le cui preoccupazioni hanno sempre seguito le mode, poiché toccano sia la psicanalisi lacaniana che la filosofia heideggeriana o ancora le teorie di Althusser (di cui è stato allievo e discepolo), Badiou non prova tuttavia alcuna vergogna nel presentarsi come un romanziere e un drammaturgo di primissimo piano dal forte impegno politico.
Ricordiamo in effetti che è stato uno dei dirigenti del partito maoista francese in qualità di militante all’UCFML [Unione dei Comunisti di Francia Marxista Leninista], allo stesso titolo del resto del suo «amico» e discepolo François Wahl che egli pubblica oggi presso Fayard. Le sue attuali idee politiche si collocano nella linea dritta del suo maoismo come riporta un accorto osservatore dell’epoca: «Questo Badiou è in realtà un maoista (era ancora di recente il leader del “gruppo per la ricostruzione del partito comunista marxista-leninista di Francia”) scappato dallo zoo intellettuale di Vincennes. […] E quando nella sua auto-presentazione della Teoria del soggetto si tradisce, lo fa per insegnarci che Stalin, il “quinto grande maoista”, è “all’indice” perché i primi quattro, Mao compreso, sono di un “uso così permanente che la loro enumerazione sarebbe incongrua”!» (Jean-François Martos).
Oggi egli tenta più che mai di occupare il terreno politico e filosofico, avendo acquisito una fama universitaria e mediatica ancora insperata qualche anno fa. Come ha avuto accesso a questo status privilegiato?
Il culto dell’Essere supremo
Interessiamoci innanzitutto del suo ruolo più visibile: quello che occupa nei media. È soprattutto a partire dalla pubblicazione del suo libro Sarkozy: di che cosa è il nome? (2007) che Badiou si è fatto conoscere al grande pubblico in quanto «capofila» dell’anti-sarkozismo primario, attirandosi al tempo stesso il favore dei media.
Giudicate voi: nel 2008 Badiou è sttao successivamente l’invitato speciale di “Libération” (27 gennaio 2009), di “France Culture” per una serie di trasmissioni dedicate alla sua vita ed alla sua opera, di “Philosophie Magazine”, in cui beneficia di un’accoglienza assai favorevole, così come di altri organi della stampa dominante, senza dimenticare quella che egli dichiara essere il suo peggior nemico, ossia la televisione. Questa onnipresenza è tuttavia in netta contraddizione con le sue dichiarazioni su ciò che definisce, da buon discepolo di Althusser, gli «apparati ideologici dello Stato» di cui i media fanno parte. Lo dice in maniera molto esplicita nel primo capitolo di Sarkozy: di che cosa è il nome?: «[I media], innanzitutto la televisione ma, più subdolamente, anche la stampa — sono forze d’irragionevolezza e d’ignoranza davvero spettacolari. La loro funzione è, infatti, quella di propagare gli affetti dominanti» [Edizioni Cronopio, Napoli 2008, p.8]. Non sembra turbato oltre misura di trovarsi in palese contraddizione con le idee che difende pubblicamente allorché si tratta di rispondere alle interviste o di scrivere articoli per riviste appartenenti, per riprendere i suoi stessi termini, all’«ideologia ufficiale».
Nemmeno il settore editoriale è a riposo: nel 2008-2009, quattro opere pubblicate, ed ogni volta per case editrici diverse. Possiamo quindi rintracciare per il lettore questo percorso del combattente: Piccolo Pantheon portatile, Secondo Manifesto per la filosofia, L’Anti-philosophie de Wittgenstein, Circonstance 5: L’Hypothèse communiste, lasciando volontariamente da parte articoli, interviste ed altri testi di ogni genere che, immancabilmente, vengono ad aggiungersi a questa produzione già sovrabbondante. Badiou dà così l’impressione di coprire tutti i campi del sapere. Inoltre, intrattiene legami privilegiati con diversi editori, la maggior parte dei quali impegnati «alla sinistra della sinistra», come La Fabrique, Lignes, o Nous, ma è anche direttore della collana “Ouvertures” presso Fayard con Barbara Cassin dove si pubblica da sé. Questa collana di Fayard serve ugualmente a pubblicare, oltre ai suoi libri, quelli dei suoi discepoli.
Badiou intrattiene anche numerosi legami con prestigiose istituzioni all’interno delle quali egli ha ogni libertà di parola, poiché tiene corsi alla ENS (École Normale Supérieure, rue d’Ulm) in quanto professore-invitato. Quest’anno, i suoi studenti hanno potuto seguire dei seminari su Platone il cui titolo che si voleva umoristico, «Per oggi: Platone!», non deve comunque ingannarci sugli obiettivi reali della sua pedagogia. Questa consiste non tanto nell’esaminare in maniera minuziosa e metodica dei testi platonici quanto a presentare le sue tesi personali. Questa autopromozione è visibile sui diversi siti internet dedicati alla trasmissione dei suoi corsi ed è interamente rivendicata in Sarkozy: di che cosa è il nome?, giacché numerosi capitoli di quest’opera non sono che la trascrizione pura e semplice, per il volgo, dei lunghi monologhi dei suoi seminari. Ecco, per esempio, il genere di considerazioni pseudofilosofiche che professa Badiou ai suoi allievi sotto il pretesto di un «corso» su Platone:
«La situazione planetaria del pensiero attesta oggi che tutte le forme di relativismo, specialmente il preteso “dialogo delle culture”, sono legate all’impresa del capitalismo globalizzato, delle mostruose ineguaglianze che produce, e delle forme politiche mediocri quanto violente che sono ad esso associate sotto il vago nome di “democrazia”. […] È perciò rigorosamente impossibile pensare una qualsiasi cesura nelle rappresentazioni dominanti senza attaccare il loro nocciolo, quel che ho chiamato il “materialismo democratico”, la cui unica proprietà consiste nel non possedere nulla di assoluto né di vero, ma solo l’ineguaglianza delle convinzioni personali e la finitudine animale delle identità. Perché la nostra guida, nel guardare questa situazione, è dall’anno scorso Platone? Il fatto è che Platone ha dato l’avvio alla convinzione che governarci nel mondo suppone che qualche accesso all’assoluto ci sia aperto, non perché un Dio verace ci sovrasta (Cartesio), né perché siamo noi stessi gli agenti del divenire-soggetto di questo Assoluto (Hegel come Heidegger), ma perché il sensibile che ci ordisce partecipa, al di là della corporeità individuale e della retorica collettiva, alla costruzione delle verità eterne» (introduzione al seminario trascritta da Daniel Fischer).
Badiou fa dunque dei suoi corsi degli strumenti di propaganda che giovani ingenui considerano tuttavia come brillanti elucubrazioni di un genio universale.
Alain Badiou non si considera nemmeno un militante comune sul piano politico: voi forse ancora non lo sapete, ma l’Organizzazione Politica che egli ha fondato costituisce l’azione politica più significativa del XX secolo! Autodefinendosi come un «animatore contemporaneo dell’ipotesi comunista» [«dello spettro del comunismo», nella traduzione italiana], (Sarkozy, p. 44), egli non esita infatti a porre la creazione de «l’OP» sullo stesso piano di ciò che definisce le «altre sequenze dell’Ipotesi Comunista»: «Tra le sequenze politiche, lunghe o brevi, che hanno contribuito, fin dalla metà degli anni 70, a ripristinare l’ipotesi comunista (anche quando il termine era bandito), cioè a trasformare, in controcorrente rispetto alla dominazione del capital-parlamentarismo, il rapporto tra la politica e lo Stato, si possono citare: i primi due anni della rivoluzione portoghese […] la prima fase dell’insurrezione contro lo Scià di Persia; la creazione in Francia dell’Organisation politique; il movimento zapatista in Messico» [Sarkozy, nota 21 p. 122]. Badiou, questo grande modesto, ha così l’impressione di «reincantare» il mondo politico per il solo fatto di averlo deciso, giocando unicamente sull’uso delle parole come ogni french-teorico che si rispetti. Ripetere in tutte le salse che la creazione de «l’OP» denota uno scandalo permanente contro lo Stato non è soltanto grottesco, ma indecente. La «radicalità» di Badiou non è che un imbroglio per rivoluzionari da salotto, a immagine delle stampe che da qualche tempo si trovano sui marciapiedi di rue d’Ulm e che, sotto l’effige di Karl Marx, proclamano: «arriva!». L’OP evidentemente non fa paura a nessuno, men che meno al potere in carica. Ciò non impedisce a Badiou di proseguire le sue imprese di recupero di ogni genere (come il recente movimento dei sans-papier), contendendosi di passaggio con qualche altro pensatore del calibro di Zizek il minuscolo orto della «radicalità» politica lasciato vuoto dalla sinistra. Le sue ambizioni sono in effetti abissali: «In politica, l’estensione (prevista da Marx) del mercato mondiale modifica il trascendentale (il mondo, la scena attiva) dell’azione emancipatrice, e forse solo oggi sono veramente riunite le condizioni per un’Internazionale comunista che non sia di Stato o burocratica. Già ora, comunque, esperienze politiche continue, portatrici di un bilancio della storia del secolo scorso e radicate nel reale operaio e popolare, mostrano due cose: innanzitutto, che è possibile svolgere una politica che si tenga a distanza dallo Stato […] e, in secondo luogo, che questa politica propone forme di autorganizzazione assai lontane dal modello del partito che ha dominato durante tutto il XX secolo» [Secondo manifesto per la filosofia, Edizioni Cronopio, Napoli 2010, p. 99]. Nel caso in cui non si sia capito bene, aggiunge in nota: «Sull’esperienza politica francese più importante in questa direzione rimando alle pubblicazioni dell’Organisation politique et du Ressemblement des Collectifs des Ouvriers Sans Papiers des Foyers» [Secondo manifesto…, nota 3, p. 99].
La collusione fra filosofia e politica
In Metapolitica Badiou nega di appartenere in qualche modo alla «filosofia politica» in modo da promuovere al tempo stesso una nuova teoria che si presuma opporvisi (la «metapolitica») e la sua concezione della filosofia come «azione», avvicinandosi sotto molti aspetti all’impegno sartriano e foucaultiano. Il primo capitolo della sua Metapolitica è del resto dedicato a ciò che egli chiama i «filosofi resistenti», sul modello di Cavaillès, e pone un principio di equivalenza fra la filosofia e il rischio: «Non resistere è non pensare. Non pensare è non rischiare di rischiare» (Metapolitica, Edizioni Cronopio, Napoli 2001, p. 24). Formula tipicamente badiouliana, vicina alla tautologia, e che affettando di svelare un pensiero brillante enuncia solo banalità affliggenti. Questo riferimento a Cavaillès, in realtà, ha una mira molto più pragmatica: serve ad emettere l’idea assai contestabile che essere un filosofo è per forza di cose essere un resistente. Essendo lo stesso Badiou un filosofo, il seguito del sillogismo va da sé…
Il proposito di Badiou è quello di dimostrare che la filosofia si confonde con l’impegno politico, ponendo così questa disciplina al di sopra di ogni sospetto. Ciò permette evidentemente di sottintendere che la filosofia sarebbe una istanza detta «critica» ed onnipotente, capace in sé di rimettere in causa il potere stabilito. Questa sopravalorizzazione della filosofia ci sembra fare parte di una forma d’impostura denunciata da Bouveresse in Le Philosophe chez les autophages: «il pensiero filosofico non è “critico” per definizione e una volta per tutte: anch’esso continua a generare le forme più caratteristiche e più tenaci della mitologia dell’errore che, al tempo stesso, dovrebbe avere come funzione di denunciare e combattere».
A sentire Badiou la filosofia, disciplina «critica» per eccellenza, farebbe parte di tutte le lotte, sarebbe al servizio di tutte le cause — soprattutto quando si tratta dei pallini personali de «l’Essere supremo». Questo termine è in realtà una specie di «guazzabuglio» che ricopre cose estremamente diverse: quando si attacca «l’ipotesi comunista» è la filosofia a finire nel mirino, quando certi giornalisti americani gratificano Badiou e Zizek del qualificativo «reckless» (che Badiou traduce con «sprovvisti di ogni prudenza») è ancora una volta la filosofia a venir derisa. Volta per volta brandita contro la doxa, la morale o la democrazia, la filosofia è lo stendardo di cui si serve Badiou per giustificare tutto: la sua posizione politica, il suo status, così come i punti ciechi della sua teoria. Confusa con «l’Idea comunista» quando si tratta di criticare la democrazia con tono grandiloquente e sentenzioso, la filosofia è anche un’arma contro la morale quando si tratta, per giocare al ribelle con poche spese, di insorgere contro i «nuovi filosofi» e «l’ideologia dei diritti dell’uomo». Bisogna dire che è una delle specialità di Badiou quella di denunciare «il dogma» o «l’ideologia» di tale o talaltra cosa fino a svuotare queste parole del loro significato intrinseco, per attribuirgliene uno tipicamente badiouliano. Non siamo affatto lontani dalla «neolingua» inventata da Orwell poiché lo scopo reale di queste manovre lessicali è distogliere il lettore dalle «ideologie» e dai «dogmi» reali.
Badiou ha fiancheggiato i filosofi detti di Vincennes (Foucault, Deleuze, Lyotard, Rancière) in quanto giovane confratello e, anche se non era sempre d’accordo con loro (come egli stesso rimpiangerà a proposito di Deleuze), non cessa di rendere loro omaggio. Piccolo Pantheon portatile è, a questo proposito, particolarmente rappresentativo del culto che Badiou cerca di alimentare nei loro confronti: questo libro è una compilazione di articoli scritti alla morte dei «maestri» della French Theory.
Vi si trovano le «orazioni funebri» di Lyotard, Deleuze, Foucault e Derrida in salsa Badiou, vale a dire ricordando insidiosamente il legame personale o intellettuale che lo unisce a queste figure. Così, da semplice «seconda fila» della French Theory, Badiou ne è diventato la figura rappresentativa in quanto solo sopravvissuto di quel periodo. D’altronde non omette di ripeterlo, atteggiandosi ad autentico «guardiano del tempio» di questa corrente filosofica (certo disparata) così come di certi valori che possono essere ad essa associati.
La valorizzazione del «momento» filosofico degli anni sessanta serve quindi da trampolino di lancio alla teoria di Badiou così come a quella dei suoi discepoli. Man mano che Deleuze, Foucault e Lyotard sono recuperati da Badiou, sono inesorabilmente votati ad un «divenire-Badiou». Basta leggere l’opera di volgarizzazione di Badiou su Deleuze, intitolata Deleuze. «Il clamore dell’Essere», per rendersi conto di questo fenomeno. Badiou applica a Deleuze il proprio vocabolario, le proprie teorie filosofiche aggiungendogli le proprie figure tutelari: Heidegger, Badiou (non si è mai serviti meglio di quando ci si serve da sé) — e Dio sa se non valeva la pena d’aggiungere maggior oscurità e confusione all’opera di Deleuze! Tutto viene quindi visto attraverso il filtro del pensiero «Badiou» allo scopo di elevare questa maniera di fare filosofia al rango di metodo «supremo»: «Ho pubblicato il mio primo Manifesto per la filosofia nel 1989. Non erano anni fausti, credetemi! Il seppellimento dei cosiddetti “anni rossi” che seguirono al Maggio 68 ad opera di interminabili “anni-Mitterand”, l’arroganza dei “nouveaux philosophes” […] Conservare in tali condizioni l’ottimismo del pensiero, sperimentare nuove forme politiche in stretta connessione con i nuovi proletari venuti dall’Africa, reinventare la categoria di verità, impegnarsi nei sentieri dell’Assoluto secondo una dialettica interamente rinnovata fra la necessità delle strutture e la contingenza degli eventi, non cedere… Che storia! È di tutta questa fatica che testimoniava, in maniera succinta e vivace, il primo Manifesto per la filosofia. Libretto che era come una serie di memorie del pensiero scritte dal sottosuolo» (Secondo manifesto…, p. 9 e 10). Dinanzi a cotanto sforzo da titani non ci resta che inchinarci e augurare lunga vita al «grande timoniere» della filosofia, Alain Badiou!
La pretesa radicalità di Badiou. L’ipotesi comunista. Il maoismo di Badiou
In una conferenza data nel 2002 e pubblicata col titolo «La révolution culturelle: la dernière révolution?», Badiou si prende il lusso di tornare per l’ennesima volta sulla cronologia della Rivoluzione culturale al fine di sdoganare il suo personaggio storico preferito: Mao. Già non era glorioso essere maoisti negli anni settanta, ma che dire di qualcuno che lo è sempre nel 2002, se non nel 2009, e che per di più è un filosofo mediatizzato come Badiou? Per quest’ultimo il fatto di essere rimasto fedele allo spirito maoista non è affatto riconosciuto come una tara o un segno di idiozia e di infrollimento mentale, al contrario! È una qualità innegabile che testimonia una grande costanza morale e un impegno radicale senza difetto. Così, ad un giornalista che gli domanda di tornare sul suo successo mediatico in quanto «simbolo di una nuova radicalità [che critica] il liberalismo, il riformismo e anche la democrazia» (sic!), Badiou risponde: «Se gli intermediari mediatici hanno di recente scoperto la mia “radicalità” politica e intellettuale, è perché non sono cambiato dagli anni 70, un periodo in cui sotto l’aggettivo “rivoluzionaria” la radicalità politica si portava bene. Durante gli anni 80 molti hanno rinunciato mentre io sono rimasto fedele» (“Libération”, 27/1/2009). Essendo questa posa messa in avanti in numerose interviste per permettere a Badiou di fare la parte del leone nel circo mediatico, non si può fare a meno di pensare che vi sia qui connivenza o, per lo meno, convergenza di interessi. Si supera un livello supplementare di autocompiacimento e soddisfazione di sé con la recente intervista a Badiou realizzata da Frédéric Taddéi alla televisione, nel corso della trasmissione “Ce soir ou jamais” ( France 3, 9/4/2009):
«Frédéric Taddéi: Alain Badiou, buongiorno. Lei è filosofo, poco noto al grande pubblico, fugge alla televisione, la ringraziamo per l’onore che ci fa, a noi come ai telespettatori di “Ce soir ou jamais”, nell’accettare il nostro invito. Lei è quel che si dice un “maître à penser”. Ha insegnato a Paris VIII, al Collegio Internazionale di Filosofia, all’École Normale Supérieure dove anima un seminario di grande successo, come si dice, non solo in Francia perché è il caso anche in America, in Asia, fino in Australia, in tutta Europa ovviamente. I suoi seminari di filosofia sono estremamente frequentati dagli intellettuali, dagli studenti. Molto si deve al suo impegno politico: lei è considerato come l’ultimo pensatore francese radicale, per non dire rivoluzionario, in totale rottura con i valori della nostra società…
Alain Badiou: Non protesterò contro una descrizione così radicale in sé, davvero. Dopo tutto quando si costruisce una filosofia ed un pensiero di rottura con il sistema del mondo così com’è, si devono accettarne le conseguenze fra cui sono comprese le descrizioni che lei dà…».
Perché Badiou è corteggiato fino a tal punto dai giornalisti detti «di sinistra»? Perché volerne fare a tutti i costi il cantore della radicalità rivoluzionaria, simile a Davide che si oppone a Golia (Golia incarnato, lungo le pagine, sia da Sarkozy che dal capitalismo o dalla democrazia)? Tre fattori sembrano giocare un ruolo determinante in questa vicenda:
– la nostalgia, assai presente nell’ambito giornalistico sopra descritto, per la figura dell’«intellettuale impegnato» alla francese, del genere Sartre o Foucault, favorisce questa idolatria in favore di Badiou poiché, per l’appunto, egli si atteggia ad erede di quella corrente, come abbiamo già notato;
– lo stato deplorevole in cui si trovano sia la sinistra che l’estrema sinistra fa di lui un «radicale» poiché, in mezzo al deserto di idee, chi è abbastanza abile da ripetere a chiunque voglia ascoltarlo di incarnare «la sinistra della sinistra», senza mai definirla in maniera precisa e a costo di contorsioni reazionarie e falsificazioni storiche evidenti, diventa una specie di eroe capace di far andare in frantumi l’attuale «consenso». È significativo che Badiou venga sempre presentato, dai media, come un «ultra-gauchiste» senza che gli venga chiesto in precedenza quale sia il contenuto reale ed effettivo che egli associa questo termine. Che rappresenti la versione più dura della sinistra stalinista non sembra irritare nessuno. Dal momento che si trova dal lato buono e critica Sarkozy, inutile andare a cercare più lontano!
– l’assenza di spirito critico e di autentici dibattiti di qualità nell’ambito delle scienze umane e della stampa detta «intellettuale» favorisce l’emergere di figure come quella di Badiou che sviluppano una visione manichea e semplicistica delle cose.
Nelle interviste che concede in maniera regolare alla stampa, Badiou non cessa di tornare su ciò che definisce «l’ipotesi comunista». Ecco come descrive questa nozione in una intervista accordata al giornale “L’Humanité” in data 11 febbraio 2008: «maniera di vivere in comune non fondata sulla separazione». In un’edizione precedente dello stesso giornale (6 novembre 2007), Badiou risponde altrettanto vagamente alla domanda che gli viene posta e che riguarda la maniera in cui questa «ipotesi» potrebbe applicarsi concretamente: «vorrei poter dire di più. Per il momento sostengo che bisogna affermare senza paura che siamo nel mantenimento di questa ipotesi. Bisogna dire che l’ipotesi dell’emancipazione, fondamentalmente, resta l’ipotesi comunista. Questo primo punto può trovare forme di elaborazione. Bisogna comprendere in seguito che si tratta là di una idea in senso forte. Propongo di elaborarla in quanto tale. Il che significa che in una situazione concreta, conflittuale, dobbiamo utilizzarla come criterio per distinguere ciò che è omogeneo con questa ipotesi egualitaria e ciò che non lo è». Per meglio capire cosa ci sta dicendo qui Badiou, bisogna mettere questo passaggio accanto ad un altro: «Si tratta insomma di una Idea, per parlare come Kant, la cui funzione è regolatrice, e non di un programma». Queste dichiarazioni mettono in luce una serie di paradossi che bisogna spiegare. Innanzitutto l’espressione «Idea comunista» in sé è contraddittoria perché, se ci si attiene alla definizione kantiana dell’Idea, questa è assolutamente separata dall’esperienza e dalla realtà vissuta: non è quindi compatibile con la dottrina comunista che si basa sull’ambito politico e sociale. In effetti Kant chiama «Idee trascendentali» o «Idee della Ragione» ciò che «nel nostro pensiero non soltanto non deriva dai sensi, ma supera anche i concetti della comprensione, poiché non si può trovare nulla nell’esperienza che ne fornisca una illustrazione».
Così, la pseudo-teoria di Badiou non regge, poiché il comunismo non può essere al tempo stesso una «Idea» ed una «Ipotesi». Un’ipotesi è infatti una affermazione provvisoria in attesa di conferma o di smentita dai fatti, essa deve quindi in un determinato momento entrare in contatto con la realtà. Badiou utilizza in maniera fraudolenta il vocabolario scientifico e filosofico per dare al suo discorso una «vernice» che non resiste all’analisi. Aggrava ancora il suo caso in questo campo affermando: «È assurdo qualificare i principi comunisti (nel senso che voglio dire) come utopici, come spesso si fa. Sono schemi intellettuali, sempre attualizzati in maniera differente, e che servono a produrre linee di demarcazione fra diverse politiche». Anche qui l’uso del vocabolario kantiano imbroglia le piste e serve solo ad impressionare il lettore. Non si capisce bene in cosa lo schema kantiano avrebbe a che vedere con il comunismo. Inoltre, Badiou si contraddice ancora una volta: prima ci dice che il comunismo è una «maniera di vivere in comune non fondata sulla separazione» per poi spiegarci che i principi comunisti — i famosi «schemi» — «servono a produrre linee di demarcazione». Bisognerebbe scegliere fra queste due idee, a meno che Badiou non sia molto pronto nemmeno sulla definizione stessa della parola «separazione»!
Questo gioco concettuale serve essenzialmente a due cose: anzitutto a mascherare il proprio vuoto teorico (non avendo nessuna idea nuova e concreta da proporre per costruire un qualcosa, è costretto a porre «l’ipotesi comunista» come una sorta di paradigma essenzialmente astratto, un assoluto che non si basa su nulla ma che egli agita come uno stendardo per dare l’impressione di una radicalità estrema), e poi ad evitare di parlare delle esperienze concrete del comunismo (che furono tutte senza eccezione dei fallimenti lamentevoli) se non per allusione, il che comporterebbe di tornare su regimi burocratici totalitari, cosa che ripugna a Badiou.
In Sarkozy: di che cosa è il nome? dedica un passaggio intero all’evoluzione dell’ipotesi comunista, sotto forma di ciò che chiama «sequenze» che si succederebbero sempre secondo lo stesso schema come viene spiegato in Metapolitica: «Sylvain Lazarus ha stabilito che tra Marx e Lenin non c’è continuità e sviluppo ma rottura e fondazione. C’è rottura anche tra Stalin e Lenin, poi tra Mao e Stalin» (Metapolitica, p. 73). Badiou arriva quindi a negare l’esistenza di una ideologia marxista («il marxismo non esiste») in nome dello spiegamento del paradigma ideale dell’«ipotesi comunista» che si incarnerebbe in diversi «eroi rivoluzionari» nel corso degli anni. A partire da questa affermazione si sarebbe in diritto di attendersi da parte di un primo arrivato al corso di ammissione il dispiegamento rigoroso di una prospettiva storica che spieghi le origini del comunismo e che ci permetta almeno di percepirne le articolazioni logiche; ma sarebbe conoscere male Badiou, sempre pronto a privilegiare le allusioni alle affermazioni fondate su fatti precisi. L’analisi presente in Sarkozy: di che cosa è il nome? non ha del resto nulla da invidiare ad una cattiva copia da computer quando si vedono le banalità e le approssimazioni che vi si trovano mescolate.
L’argomentazione inconsistente di Badiou è uno dei tratti del suo «stile». Egli considera infatti la storia come una specie di «riserva» di fatti in cui pesca gli elementi utili alla sua dimostrazione, quando ciò sostiene la sua tesi, senza mai curarsi della continuità storica né dell’esattezza delle sue affermazioni. D’altronde si tratta di un «metodo» che egli riconosce in pieno e che rivendica in quanto tale.
Un poco oltre nel libro, facendo finta di precisare cosa intende per «comunismo», Badiou avanza idee altrettanto contestabili: «Ma che cosa vuol dire “comunismo”? Come spiega Marx nei Manoscritti del 1844, il comunismo è un’idea sul destino dell’umanità generica. Occorre assolutamente distinguere questo uso della parola dal senso, oggi completamente trito, dell’aggettivo “comunista” in espressioni come “partiti comunisti”, “mondo comunista”, per non parlare di “Stato comunista”, che è un ossimoro al quale si è prudentemente e logicamente preferito l’oscuro sintagma “Stato socialista” Anche se […] tali usi della parola fanno parte del divenire storico, a tappe, dell’ipotesi» (Sarkozy, p. 108). Tutto questo sviluppo ripetitivo non mira in realtà che a far ammettere una sola idea al lettore: ovvero che le esperienze concrete del comunismo non invalidano in niente «l’ipotesi», e che bisogna quindi proseguirla. Questa idea ritorna ancora una volta a separare l’ideologia dalla sua applicazione concreta, cosa che ci sembra un atteggiamento insostenibile e che è stato mille volte rifiutato, compreso da Marx stesso. Badiou riesce nell’impresa notevole di fare del marxismo contro Marx poiché trasforma la teoria comunista in un puro idealismo che consiste precisamente nel considerare «che il mondo è dominato dalle idee, che le idee e i concetti sono principi determinanti, che idee determinate costituiscono il mistero del mondo materiale accessibile ai filosofi» (Marx).
Questa concezione idealista del comunismo va di pari passo non solo con il rifiuto di prendere in considerazione il suo passato totalitario, ma anche con una valorizzazione appena velata del bilancio stalinista. In Sarkozy: di che cosa è il nome? procede addirittura ad una riabilitazione in buona e dovuta forma del passato stalinista dell’Urss per mezzo di diversi argomenti:
– afferma innanzitutto che Stalin, malgrado tutti i suoi crimini, sarebbe stato un baluardo efficace per frenare l’avanzata del capitalismo: «Va detto, infatti, che all’epoca di Stalin le organizzazioni politiche operaie e popolari erano infinitamente più forti, e il capitalismo meno arrogante. Non c’è neanche da fare il paragone» (Sarkozy, p 29). Questa falsa opposizione fra «capitalismo» e «sistema sovietico» — che ha alimentato tutto il periodo della «guerra fredda» da parte della propaganda comunista — viene ripetuta a sazietà nella stampa da Badiou: «Facendo paura al capitalismo [gli Stati socialisti] permettevano alle organizzazioni operaie dei paesi occidentali di ottenere importanti concessioni. Sarà il mio solo riconoscimento a Stalin: faceva paura al capitalismo» (“Libération”, 27/1/2009). È evidente che i rapporti fra sistema sovietico e sistema capitalista non erano così semplici; dietro l’opposizione spettacolare fra questi due campi fittizi si era installata una specie di connivenza. Come nota Karl Korsch, in Russia fin dall’inizio il marxismo non fu che uno «schermo ideologico» che di comunista aveva solo il nome.
– Badiou cerca poi di minimizzare il «bilancio stalinista» paragonandolo alla nostra situazione attuale: «Il mio amico Slavoj Zizek, filosofo sloveno, ha detto da qualche parte che quel che non abbiamo capito, quando abbiamo messo in scena la contrapposizione tra stalinismo e democrazia parlamentare, è che lo stalinismo è il destino della democrazia parlamentare. Ci stiamo arrivando, lentamente, tortuosamente. […] Dopotutto, i mezzi tecnici per il controllo delle popolazioni sono ormai tali che Stalin, con i suoi infiniti schedari compilati a mano, le sue fucilazioni di massa, le sue spie in uniforme, i suoi giganteschi campi pidocchiosi e le torture bestiali, fa la figura di un dilettante di un’altra epoca» (Sarkozy, p. 31-32).
– Infine se Badiou mette in atto di tutto per evitare di considerare il passato «totalitario» dell’Urss, è in funzione di un obiettivo preciso: si tratta a qualsiasi costo di separare la teoria dalla sua realtà pratica per preservarne il carattere ideale (questa illusione ha almeno due nomi: «l’ipotesi comunista» e il «comunismo dell’Idea»). Badiou non vuole correre il rischio di usare la nozione di «totalitarismo» e preferisce allineare gli «antitotalitari» nei ranghi degli ideologhi liberali per non doverli affrontare. È sintomatico che Badiou indichi di solito con il vocabolo «antitotalitari» quei buffoni dei «nuovi filosofi», invece di prendersela con gli innumerevoli teorici e romanzieri che hanno messo in luce i difetti del comunismo come George Orwell, Arthur Koestler, Hannah Arendt, Simone Weil, i rappresentanti del «marxismo critico», e questo in nome di una critica del totalitarismo che non può essere ridotta ad una cieca adesione ai dogmi del liberalismo.
Nella sua conferenza su «La Révolution culturelle: la dernière révolution?», Badiou fornisce tre ragioni per vederci un modello per l’azione politica nel mondo attuale:
– prima di tutto, la Rivoluzione culturale ha fondato l’esistenza della corrente maoista, «sola autentica creazione degli anni 60 e 70», ed il Libretto Rosso di Mao, che ne è la piattaforma teorica, è stato la «guida» di questa corrente, «niente affatto, come dicono gli imbecilli, a fini di catechizzazione dogmatica, ma al contrario per illuminarci ed inventare vie nuove in ogni genere di situazioni disparate»;
– poi, la Rivoluzione culturale sarebbe «l’esempio tipo di una esperienza politica che satura la forma del partito-Stato», e in ciò avrebbe molto da insegnarci sulla realizzazione di una «nuova sequenza» dell’«Ipotesi comunista»;
– infine, la Rivoluzione culturale è «una grande lezione sulla storia e la politica, sulla storia pensata a partire dalla politica». Questa medesima idea viene ripetuta in maniera più incisiva nella sua “Lettera a Slavoj Zizek”: «Bisogna rendere giustizia a ciò che il terribile fallimento della Rivoluzione culturale contiene di universalità» (in Mao: de la pratique et de la contradiction, La Fabrique, 2008).
Riprendiamo di seguito questi tre punti in modo di mettere in evidenza le contraddizioni e altre aberrazioni ad essi collegati:
– il maoismo è lungi dall’essere stata la corrente politica dominante degli anni 60 e 70, e ancor meno la loro «sola autentica creazione». Inoltre i rapporti fra il «maoismo francese» e la rivoluzione culturale cinese rivelavano assai più «una visione largamente immaginaria della Cina» che una analisi seria della situazione reale della Cina dell’epoca. Quanto al Libretto Rosso metamorfizzato in una «guida» di saggezza millenaria e di strategia pratica degna dei grandi classici del pensiero cinese, si tratta ancora di una nuova falsificazione. Bastano alcuni aforismi per rendersene conto: «Grande non è sinonimo di temibile. Il grande sarà rovesciato dal piccolo, ed il piccolo diventerà grande». Davanti alla profondità di pensiero che esprime, non è affatto sorprendente che sia stato il libro di «cucina» intellettuale preferito di Badiou!
– usurpazione di massima portata questa volta, Badiou vuole farci credere che la Rivoluzione culturale sarebbe stata una maniera di far esplodere dall’interno il partito-Stato, allorché non è stata che un processo di rafforzamento del potere statale tramite il personaggio di Mao e attraverso l’eliminazione di tutti i suoi rivali! Quello che Badiou cerca di fare in realtà è di dimostrare che la Rivoluzione culturale è stata un fallimento, non in ragione della personalità di Mao, ma in qualche misura nonostante essa. Ecco cosa risponde a Nicolas Truong a questo proposito: «Mao ha constatato […] che il partito accaparrava lo Stato e organizzava la perpetuazione del suo potere», ed ha voluto rimettere in causa questo stato di fatto per «rettificare il corso del socialismo di Stato» (“Philosophie magazine”, 29/5/2008). Deridendo la verità storica, queste affermazioni lasciano capire chiaramente che Mao si sarebbe battuto contro le istanze del Partito in nome della preoccupazione di «de-burocratizzazione», di eguaglianza e di equità! Ora, Mao ha cercato di destabilizzare il potere burocratico non per rendere un servizio al popolo o per ristabilire «l’Idea» egualitaria comunista, ma per riprenderne la testa, essendo stato per un periodo scartato dal potere (dal 1958 al 1965, circa);
– la Rivoluzione culturale può essere considerata una «grande lezione sulla storia e la politica» solo se si scordano i massacri perpetrati in suo nome e la natura stessa del regime di Mao. Ed è proprio quello che tenta di fare Badiou che ha l’audacia di sottendere che, infine, non siamo andati fino in fondo a questa esperienza: «Ricordiamo a questo proposito che il fallimento sanguinoso di una impresa non è il suo giudizio finale. Anche qui [si rivolge a Zizek], sostieni troppo facilmente il fallimento della Rivoluzione culturale per cancellarne l’importanza e l’attualità (ricordiamo qui che Mao sosteneva che occorrevano ancora dieci o venti rivoluzioni culturali per spingere la società verso il comunismo)» (in Mao: de la pratique et de la contradiction, La Fabrique, 2008). Dinanzi a simili enormità, conviene ristabilire i fatti: «La “Rivoluzione culturale”, che di rivoluzionario non ebbe che il nome e di culturale che il pretesto tattico iniziale, fu una lotta per il potere, condotta al vertice da un gruppetto di individui e dietro la cortina fumogena d’un fittizio movimento di massa (in seguito, favorita dal caos generato da questa lotta, una corrente di massa, autenticamente rivoluzionaria, si sviluppò spontaneamente alla base, traducendosi in insubordinazioni militari e in vasti scioperi operai: quest’ultimi, che non rientravano nei programmi previsti, vennero schiacciati senza pietà)» (Simon Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, Edizioni Antistato, Milano 1977, p. 18). Badiou vuole ad ogni costo ridare lustro ad un maosimo da molto tempo screditato, e che ritorna in auge grazie alla moda retrò degli anni settanta.
Così, lungi dall’aver imparato gli insegnamenti della storia, da buon althusseriano egli dichiara che «la filosofia autorizza una percezione non storicista della politica». E continua a cantare le virtù del Mao-pensiero spingendo l’indecenza, con la complicità del suo editore ed «amico» Éric Hazan, fino a farne una «vittima» del nostro tempo: «Mao, di cui va di moda parlare più male possibile, resta una grande figura marxista rivoluzionaria». Bisognava pensarci, Badiou e i suoi amici lo hanno fatto: la presentazione negativa della Rivoluzione culturale non è che una tigre di carta fabbricata dal mondo occidentale e mediatico per disinnescare la carica sovversiva del maoismo e trascinare nel fango la figura della guida Suprema della Rivoluzione!
Conclusione
L’«opera» di Badiou non è che una illustrazione supplementare di questa «confusione mentale» che ha libero corso nel post-modernismo filosofico: «La confusione filosofica ha questo di diabolico, che attira. La retorica filosofica ha molti mezzi per riuscire. Uno dei principali è di dare la sensazione di appartenere ad un piccolo gruppo di persone illuminate che combattono coraggiosamente le superstizioni delle masse. In mezzo alla peggior confusione, questa sensazione è spesso decuplicata. La confusione intellettuale è generalmente arrogante. La volontà di sorprendere, di essere originali, brillanti, ossia di scioccare, gioca un ruolo determinante in filosofia. Ma talvolta è anche il desiderio di scivolare nel pensiero ambientale, pur presentandosi come sovversivo, che incoraggia ad adottare certe tesi. […] Il piacere ricavato nel deridere coloro che non sono riusciti a innalzarsi ad un livello di pensiero ritenuto superiore non avviene senza incoraggiare atteggiamenti nei quali il desiderio di verità gioca solo un ruolo minore» (Roger Pouivet). Per finire, è allettante rivoltare una icona badiouliana contro Badiou stesso: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia» (San Paolo, Lettera ai Colossesi, 2,8).
[tratto da L’autre côté, n. 1 – La French Theory et ses avatars, settembre 2009.
La versione originale del testo, nella sua versione integrale accompagnata da numerose note esplicative, può essere letta qui]
http://finimondo.org/node/1163

Les habits neufs d’Alain Badiou

 

Séverine Denieul
« Kant a créé le langage de la modernité philosophique. Et de même que nous avons commencé par dire que Derrida n’était qu’une parenthèse, géniale, mais une parenthèse, entre Heidegger et Badiou ; de même que nous avons osé affirmer que Heidegger n’était qu’une parenthèse, cruciale, mais une parenthèse, entre Badiou et Hegel ; nous pouvons maintenant aller jusqu’à la témérité d’affirmer que Hegel n’est qu’une parenthèse, grandiose, mais une parenthèse, entre Kant et Badiou. » (1)
«  L’un des traits les plus caractéristiques de notre culture est l’omniprésence du baratin. Chacun d’entre nous en est conscient – et y a sa part de responsabilité. Mais nous avons tendance à considérer cette situation comme naturelle. La plupart des gens ont confiance dans leur aptitude à repérer le baratin et à éviter d’en être dupes. Aussi ce phénomène soulève-t-il fort peu d’inquiétudes et n’a-t-il guère suscité d’études approfondies. » (2)
Le moins que l’on puisse dire, c’est qu’il est presque impossible, par les temps qui courent, de ne pas tomber sur le dernier ouvrage en date d’Alain Badiou. Auteur prolixe s’il en est, il se voit affublé d’un nombre incalculable de titres ou de qualificatifs qui semblent avoir fini, à la longue, par convaincre le grand public de l’importance de son oeuvre : « maître à penser », « penseur radical », voire « chirurgien du concept » (Rémy Bac), nul ne renonce à accorder au philosophe un statut d’exception. Sa volonté déclarée de « refonder la philosophie » l’amène à couvrir tous les champs du savoir : la politique, l’esthétique, les mathématiques, voire la littérature via le roman, la poésie ou l’écriture de pièces de théâtre. Auteur d’ouvrages sur Beckett, mais aussi sur Platon, Wittgenstein ou saint Paul, Badiou incarne, dans les médias, le penseur « génial » capable de mettre en parallèle des notions compliquées avec des oeuvres très différentes entre elles. Héritier de la philosophie « continentale » la plus absconse (Heidegger, Lacan, Althusser), Badiou a en effet cette tournure d’esprit particulière, si caractéristique de notre époque, qui consiste à croiser des notions et des domaines éloignés les uns des autres pour en faire une synthèse « personnelle » qui, loin de clarifier les problèmes, les rend encore plus obscurs. C’est le cas du rapprochement qu’il fait entre marxisme, psychanalyse et mathématique, par exemple.
Tout ceci ne représente encore qu’une part de ses activités, car il se considère également comme un penseur appartenant à « l’ultra-gauche » (terme qu’il ne renie pas), dans l’exacte lignée stalinienne et maoïste des maîtres à penser politiques des années 60. Il a même fondé, en 1985, avec Sylvain Lazarus et Natacha Michel, un groupuscule politique « postléniniste et postmaoïste » appelé « l’Organisation Politique ». (3)
Mais quels rapports Badiou entretient-il avec la French Theory et le postmodernisme ? Badiou reproduit et prolonge la démarche intellectuelle propre aux « maîtres » français, et cela de plusieurs manières :
– en en reprenant d’abord les thèmes et les motifs philosophiques, même s’il s’est toujours déclaré hostile aux idées tournant autour de la « mort de la philosophie » (Derrida, LDerridayotard)
– en se positionnant comme « intellectuel engagé » à la manière de Foucault
– en utilisant le même style philosophique qui favorise la fausse profondeur au détriment de la clarté.
Badiou a aussi adopté, récemment, une tactique consistant à se définir comme le dernier représentant vivant du courant philosophique issu de Vincennes. Cette affirmation reste cependant à nuancer puisque, comme nous le verrons, il s’en distingue sur plusieurs points : en particulier, sa conception de la politique et de la démocratie parlementaire semble être une nouvelle stratégie mise en place pour récupérer le passé révolutionnaire de sa génération dans le but ultime de se positionner comme le penseur le plus « radical » du XXe siècle.
Nous nous intéresserons donc moins à la philosophie ontologique ou mathématique de Badiou – si inconsistante qu’elle ne mérite même pas d’être examinée (4) – qu’à son positionnement politique. Cependant, il est très difficile de séparer ces deux domaines, puisque, pour Badiou, la philosophie en elle-même est politique (le philosophe, par le fait même de son statut, est engagé).
Mais revenons d’abord brièvement sur son parcours avant d’étudier son positionnement au sein de l’édition, des médias, de l’institution, ainsi que de la politique et de la philosophie française contemporaines.
I. Bref résumé du parcours d’Alain Badiou à l’usage de ceux qui auraient la chance de ne pas le connaître encore
Comme nous le rappelle la notice de Wikipédia, sans doute écrite par l’un de ses disciples puisqu’elle est à la fois élogieuse et – par moments – incompréhensible, on sait qu’Alain Badiou, né en 1937, est un « ancien élève de l’École normale supérieure, cacique de l’agrégation de philosophie en 1960. Il enseigne d’abord en lycée (tout en collaborant ponctuellement avec l’ENS), puis à la faculté de Lettres de Reims (collège littéraire universitaire), où il fut au centre (sic) des “événements”, en s’engageant au Parti socialiste unifié (PSU), dirigé alors par Michel Rocard, mais en se situant avec d’autres militants intellectuels comme Emmanuel Terray au sein de courants se réclamant du Marxisme-léninisme. Il intègre ensuite l’équipe du Centre universitaire expérimental de Vincennes dès sa création (année 1968-1969). Il contribue au développement de cette Université (désormais Paris VIII, déplacée de Vincennes à Saint Denis) durant une trentaine d’années. Il devient professeur à l’École normale supérieure de la rue d’Ulm en 1999, puis professeur émérite dans cette institution. Il a également été directeur de programme au Collège international de philosophie. » Plus connu en France comme philosophe obscur dont les préoccupations ont toujours suivi les modes puisqu’elles touchent aussi bien la psychanalyse lacanienne que la philosophie heideggerienne ou encore les théories d’Althusser (dont il a été l’élève et le disciple), Badiou n’éprouve cependant aucune honte à se présenter comme un romancier et un dramaturge de tout premier plan ayant un engagement politique fort. Rappelons en effet qu’il a été l’un des dirigeants du parti maoïste français en qualité de militant à l’UCFML, au même titre d’ailleurs que son « ami » et disciple François Wahl qu’il édite aujourd’hui chez Fayard. Ses idées politiques actuelles se situent dans la droite ligne de son maoïsme comme le rapporte un observateur avisé de l’époque : « Ce Badiou est en réalité un maoïste (il était encore récemment le leader du “groupe pour la reconstruction du parti communiste marxiste-léniniste de France”) échappé du zoo intellectuel de Vincennes. […] Et quand, dans son auto-présentation de la Théorie du sujet, il montre le bout de l’oreille, c’est donc pour nous apprendre que Staline, le “cinquième grand maoïste”, est “à l’index” car les quatre premiers, y compris Mao, sont d’un “usage si permanent que leur numérotation serait incongrue” ! » (5)
Aujourd’hui, il tente plus que jamais d’occuper le terrain politique et philosophique car il a acquis une renommée universitaire et médiatique qui était encore inespérée pour lui il y a quelques années. Comment a-t-il accédé à ce statut privilégié ?
II. Le culte de l’Être suprême
1. Le secteur médiatique
Intéressons-nous d’abord à sa position la plus visible : celle qu’il occupe dans les médias. C’est surtout à partir de la publication de son livre De quoi Sarkozy est-il le nom ? (6) (2007) que Badiou s’est fait connaître du grand public en tant que « chef de file » de l’anti-sarkozysme primaire et qu’il s’est du même coup attiré les faveurs des médias. Qu’on en juge : en 2008, Badiou a été successivement l’invité spécial de Libération (27 janvier 2009), de France Culture pour une série d’émissions consacrées à sa vie et à son oeuvre, de Philosophie Magazine, où il bénéficie d’un accueil toujours favorable, ainsi que d’autres organes de la presse dominante, sans oublier ce qu’il déclare être son pire ennemi, à savoir la télévision (7). Cette omniprésence est pourtant en nette contradiction avec ses déclarations sur ce qu’il appelle, en bon disciple d’Althusser, les « appareils idéologiques d’État » dont les médias font partie. Il le dit de manière très explicite dans le chapitre I de De quoi Sarkozy est-il le nom ? : « [Les médias], évidemment la télévision, mais plus sournoisement la presse écrite, sont des puissances de déraison et d’ignorance tout à fait spectaculaires. Leur fonction est justement de propager les affects dominants » (8). Il ne paraît pas gêné outre mesure de se trouver en porte à faux avec les idées qu’il défend publiquement quand il s’agit de répondre aux interviews ou d’écrire des articles pour des magazines appartenant, pour reprendre ses propres termes, à « l’idéologie officielle ».
2. Le secteur éditorial
Le secteur éditorial n’est, lui non plus, pas en reste : en 2008-2009, quatre ouvrages publiés, et à chaque fois par des maisons d’édition différentes. Nous pouvons ainsi retracer, pour le lecteur, ce parcours du combattant : Petit Panthéon portatif, Second Manifeste de la philosophie, L’Anti-philosophie de Wittgenstein, Circonstances 5 : L’Hypothèse communiste, en laissant volontairement de côté les articles, interviews et autres textes en tous genres qui, immanquablement, viennent s’ajouter à cette production déjà surabondante. Badiou donne ainsi l’impression de couvrir tous les champs du savoir. De plus, il entretient des liens privilégiés avec différents éditeurs, la plupart engagés « à gauche de la gauche » comme La Fabrique, Lignes, ou Nous, mais il est aussi directeur de la collection « Ouvertures » chez Fayard avec Barbara Cassin (continuation de la collection « L’ordre philosophique » au Seuil) où il s’édite lui-même. Cette collection chez Fayard sert également à publier, outre ses propres livres, ceux de ses disciples. Le lecteur pourra juger de la diversité des titres en voyant la liste des ouvrages publiés : Le Concept de modèle, Alain Badiou (2007), Avec le plus petit et inapparent des corps, Barbara Cassin. (2007), Le Perçu, François Wahl (2007), La Parallaxe, Slavoj Ziziek (2008), Second Manifeste pour la philosophie, Alain Badiou (2009) et L’Esprit du nihilisme : une ontologie de l’Histoire, Mehdi Belhaj Kacem (2009), d’où est tiré l’éloge qui figure en exergue du présent article.
3. Le secteur institutionnel et universitaire
Badiou entretient aussi de nombreux liens avec des institutions prestigieuses à l’intérieur desquelles il a toute liberté de parole puisqu’il donne des cours à l’ENS (École normale supérieure, rue d’Ulm) en tant que professeur-invité. Cette année, ses étudiants ont pu suivre des séminaires sur Platon dont le titre se voulant humoristique, « Pour aujourd’hui : Platon ! », ne doit pas pour autant nous tromper sur les objectifs réels de sa pédagogie. Celle-ci consiste moins à examiner de façon minutieuse et méthodique des textes platoniciens qu’à présenter ses thèses personnelles. Cette auto-promotion est visible sur les différents sites internet consacrés à la transmission de ses cours et elle est entièrement assumée dans De quoi Sarkozy est-il le nom ? puisque de nombreux chapitres de cet ouvrage ne sont que la retranscription pure et simple, pour le vulgaire, des longs monologues de ses séminaires. Voici, par exemple, le genre de considérations pseudo-philosophiques que professe Badiou à ses élèves sous couvert d’un « cours » sur Platon :
La situation planétaire de la pensée atteste aujourd’hui que toutes les formes du relativisme, notamment le prétendu « dialogue des cultures », sont liées à l’emprise du capitalisme mondialisé, des inégalités monstrueuses qu’il engendre, et des formes politiques aussi hypocrites que violentes qui lui sont associées sous le nom vague de « démocratie ». […] Il est donc rigoureusement impossible de penser une césure quelconque dans les représentations dominantes sans s’en prendre à leur noyau, qui est ce que j’ai appelé le « matérialisme démocratique », et dont tout le ressort est qu’il n’y a rien d’absolu ni de vrai, mais seulement l’égalité des convictions personnelles et la finitude animale des identités. Pourquoi notre guide, au regard de cette situation, est-il, depuis l’année dernière, Platon ? C’est que Platon a donné l’envoi à la conviction que nous gouverner dans le monde suppose que quelque accès à l’absolu nous soit ouvert, non parce qu’un Dieu vérace nous surplombe (Descartes), ni parce que nous sommes nous-mêmes les agents du devenir-sujet de cet Absolu (Hegel comme Heidegger), mais parce que le sensible qui nous tisse participe, au-delà de la corporéité individuelle et de la rhétorique collective, de la construction des vérités éternelles. (9)
Badiou fait donc de ses cours des outils de propagande que des jeunes gens naïfs considèrent pourtant comme les élucubrations brillantes d’un génie universel.
4. Le secteur politique
Alain Badiou ne se prend pas non plus pour un militant ordinaire sur le plan politique : vous ne le savez peut-être pas encore, mais l’Organisation Politique qu’il a fondée constitue l’action politique la plus significative du XXe siècle ! Se définissant lui-même comme un « animateur contemporain de l’hypothèse communiste » (10), il n’hésite pas, en effet, à placer la création de « l’OP » sur le même plan que ce qu’il appelle les « autres séquences de l’Hypothèse Communiste » : « Parmi les séquences politiques, longues ou brèves, identifiées comme travaillant, dès le milieu des années soixante-dix, à réinstaller l’hypothèse communiste (même si le mot était souvent honni), c’est-à-dire transformer, à contre-courant de la domination du capitalo-parlementarisme, le rapport entre la politique et l’État, on peut citer : les deux premières années de la révolution portugaise […] la première phase de l’insurrection contre le Shah d’Iran ; la création en France de l’Organisation politique ; le mouvement Zapatiste au Mexique. » (11) Badiou, ce grand modeste, a ainsi l’impression de « réenchanter » le monde politique du seul fait qu’il l’a décidé et en jouant uniquement sur l’emploi des mots, comme tout french-théoricien qui se respecte. Répéter sur tous les tons que la création de « l’OP » relève du scandale permanent contre l’État est non seulement grotesque, mais indécent. La « radicalité » de Badiou n’est qu’un jeu de dupe pour révolutionnaires en chambre, à l’image des pochoirs que l’on trouve depuis quelques temps sur les trottoirs de la rue d’ Ulm et qui, sous l’effigie de Karl Marx, proclament : « ça arrive » ! L’OP ne fait évidemment peur à personne, et surtout pas au pouvoir en place. Cela n’empêche pas Badiou de poursuivre ses entreprises de récupération en tout genre (comme avec le mouvement récent des sans-papiers), se disputant au passage, avec quelques autres penseurs de l’acabit d’un Zizek, le minuscule pré-carré de la « radicalité » politique laissé vide par la gauche. Ses ambitions sont en effet proprement abyssales : « En politique, l’extension (prévue par Marx) du marché mondial modifie le transcendantal (le monde, la scène active) de l’action émancipatrice, et c’est peut-être aujourd’hui seulement que sont rassemblées les conditions d’une Internationale communiste qui ne soit pas étatique ou bureaucratique. Déjà, en tout cas, des expériences politiques continues, portant le bilan de l’histoire politique du siècle passé, et enracinées dans le réel ouvrier et populaire, montrent deux choses : d’abord, il est possible de déployer une politique qui se tient à distance de l’État […] ensuite, cette politique propose des formes d’organisation très éloignées du modèle du parti qui a dominé tout le XXe siècle. » (12) Au cas où on l’aurait mal compris, il ajoute en note : « Sur l’expérience politique la plus importante en France dans cette direction, on se rapportera aux publications de l’Organisation politique et du Rassemblement des Collectifs des Ouvriers Sans Papiers des Foyers. » (13)
Badiou se débrouille toujours pour présenter l’une de ses inventions verbales personnelles comme la « nouvelle théorie politique » du moment, ignorant à la fois la réalité historique, voire la contredisant : en quoi la Révolution culturelle et la création de l’OP peuvent-elles être mises sur le même plan ? C’est ainsi qu’il passe volontairement sous silence les événements politiques qui ne « cadrent » pas avec sa théorie, soit, par exemple, toutes les formes de démocratie directe (comme les conseils ouvriers) expérimentées au xr siècle en opposition au pouvoir bureaucratique (dont le modèle est la révolte des marins de Cronstadt corre le pouvoir bolchévique en 1921) et qui ont été décrites par Anton Pannekoek, Karl Korsch et Paul Mattick dans l’ouvrage collectif La Contre-révolution bureaucratique (14).
Badiou a ainsi eu l’habileté de se constituer, au sein de l’institution, et dans ses marges, un réseau solide de disciples qui, tout en assurant sa succession, relaient impertubablement ses théories et ses prises de position. Il pense d’ailleurs toujours à remercier, au passage, ses fidèles chiens de garde sur un ton des plus assurés : « mon ami Frédéric Worms », « mon ami Michel Surya », « mon ami Éric Hazan », « mon ami Benoît Casas » (15), etc. Par une analyse plus approfondie et argumentée de ses propos, nous allons voir que, sous couvert d’une critique radicale de la société, Badiou a su se créer un petit empire à son image sur lequel il règne sans partage.
III. La collusion entre philosophie et politique
1. Critique de la philosophie politique et éloge de la philosophie comme engagement
Dans Abrégé de métapolitique, Badiou se défend d’appartenir en aucune façon à la « philosophie politique » de manière à promouvoir à la fois une nouvelle théorie censée s’y opposer (la « métapolitique » (16)) et sa propre conception de la philosophie comme « action », se rapprochant à plusieurs égards de l’engagement sartrien ou foucaldien (17). Le premier chapitre de son Abrégé est d’ailleurs consacré à ce qu’il appelle les « philosophes résistants », sur le modèle de Cavaillès, et pose un principe d’équivalence entre la philosophie et le risque : « Ne pas résister, c’est ne pas penser. Ne pas penser, c’est ne pas risquer de risquer. » Formule typiquement badioulienne, proche de la tautologie, et qui, en affectant de dévoiler une pensée brillante, n’énonce que des banalités affligeantes. Ce détour par Cavaillès a, en réalité, une visée beaucoup plus pragmatique : elle sert à émettre l’idée fort contestable qu’être un philosophe, c’est forcément être un résistant. Badiou étant lui-même philosophe, la suite du syllogisme va de soi…
Le propos de Badiou va donc consister à démontrer que la philosophie se confond avec l’engagement politique, plaçant ainsi cette discipline au-dessus de tout soupçon. Cela permet évidemment de sous-entendre que la philosophie serait une instance dite « critique » et toute-puissante, capable de remettre en cause, en elle-même, le pouvoir établi (18). Cette survalorisation de la philosophie nous semble bien faire partie d’une forme d’imposture dénoncée par Bouveresse dans Le Philosophe chez les autophages : « la pensée philosophique n’est pas “critique” par définition et une fois pour toutes : elle continue, elle aussi, à engendrer les formes les plus caractéristiques et les plus tenaces de la mythologie de l’erreur qu’elle devrait avoir en même temps pour fonction de dénoncer et de combattre. » (19) En effet, affirmer, comme le fait Badiou, l’idée selon laquelle tout, dans la philosophie, serait politique pose de nombreux problèmes :
 c’est d’abord une solution proprement démagogique. Comme le dit encore Bouveresse : « Puisque les questions politiques sont, par définition, des questions qui concernent tout le monde, dire que tout, dans la philosophie, est politique, [est] évidemment une manière très commode de décréter a priori, sans avoir à le démontrer autrement que sur quelques exemples très privilégiés, que toutes les questions philosophiques intéressent, directement ou indirectement, tout un chacun. » (20)
 cela revient aussi à inféoder la philosophie à une idéologie : « En fait, ce qui nous est imparti comme tâche, disons même comme devoir philosophique, c’est d’aider à ce que se dégage un nouveau mode d’existence de l’hypothèse. » (21) En quoi la définition que donne Badiou du philosophe est-elle si éloignée de ce que l’on appelait jadis les « compagnons de route » du parti communiste ? En quoi est-elle différente du militant ?
 Badiou va même plus loin en liant intrinsèquement la philosophie et la doctrine communiste ; il affirme en effet que « sans l’horizon du communisme, sans cette Idée, rien dans le devenir historique et politique n’est de nature à intéresser le philosophe. Que chacun s’occupe de ses affaires, et n’en parlons plus. » (22) C’est une restriction considérable apportée ici par Badiou qui, sous couvert d’un pari sur l’avenir (« l’hypothèse communiste »), procède à un « verrouillage » en bonne et due forme de toutes les alternatives politiques possibles, et ce, en se servant de la figure du philosophe comme caution de son système. C’est une manière de dire : sans la possibilité du communisme, le philosophe se détournera de l’histoire et de la politique et la philosophie (discipline critique par excellence, c’est dire !) n’aura plus lieu d’être.
On le voit, Badiou n’hésite pas à faire de la philosophie un simple outil de propagande.
2 – La philosophie au service de toutes les causes
À entendre Badiou, la philosophie, discipline « critique » par excellence, ferait partie de tous les combats, serait au service de toutes les causes- —urtout quand il s’agit des marottes personnelles de « l’Être suprême ». Ce terme est en réalité une sorte de concept « fourre-tout » qui recouvre des choses extrêmement diverses : quand on s’attaque à « l’hypothèse communiste », c’est à la philosophie qu’on s’en prend, quand certains journalistes américains gratifient Badiou et Zizek du qualificatif de « recHess » (que Badiou traduit par « dépourvus de toute prudence »), c’est encore une fois la philosophie qu’on bafoue. C’était déjà l’axe de défense choisi par Kristeva dans « l’affaire Sokal-Bricmont », et Badiou en reprend le principe dans son Second Manifeste : « Par définition, la philosophie, quand elle apparaît vraiment, est reckless ou n’est rien. Puissance de déstabilisation des opinions dominantes, elle convoque la jeunesse sur quelques points où se décide la création continue d’une vérité neuve. C’est bien pourquoi son Manifeste traite aujourd’hui du mouvement, typiquement platonicien, qui conduit des formes de l’apparaître à l’éternité des vérités. » (23) Tour à tour brandie contre la doxa, la morale ou la démocratie, la philosophie est l’étendard dont se sert Badiou pour tout justifier : son positionnement politique, son statut, ainsi que les points aveugles de sa théorie. Confondue avec « l’Idée communiste » quand il s’agit de critiquer la démocratie sur un ton grandiloquent et sentencieux (« Le philosophe oppose au démocrate l’exception des vérités comme changement d’échelle de la pensée » ou encore « si la norme démocratique des opinions est la liberté dans l’arène de sa limitation, la norme pensante et philosophante des vérités est l’égalité dans l’arène de l’illimitation » (24)), la philosophie est aussi une arme contre la morale quand il s’agit, pour jouer au rebelle à peu de frais, de s’insurger contre les « nouveaux philosophes » et « l’idéologie des droits de l’homme » : « Disons qu’il n’est possible d’exister comme “philosophe” que pour autant qu’on adopte sans la moindre critique, au nom du dogme “démocratique”, de la rengaine des droits de l’homme et de diverses coutumes de notre société concernant les femmes, les punitions ou la défense de la nature, la thèse typiquement yankee de la supériorité morale de l’occident. » (25) Il faut dire que c’est l’une des spécialités de Badiou (il n’est, hélas, pas le seul à le faire) que de dénoncer « le dogme » ou « l’idéologie » de telle ou telle chose jusqu’à vider ces mots de leur sens propre pour leur en réattribuer un, typiquement badioulien. Nous ne sommes guère éloignés de la « novlangue » inventée par Orwell puisque le but réel de ces manoeuvres lexicales est de détourner le lecteur des « idéologies » et des « dogmes » réels, qu’on pense par exemple à ceux liés au seul mouvement communiste et que Kostas Papaïoannou a rassemblés sous le nom d’ « idéologie froide ».
Si on les examine lucidement, ces prises de position de Badiou sont en réalité tout à fait paradoxales, car, comme le dit Bouveresse, elles reviennent à critiquer ce sur quoi elles prospèrent : « Dans une société où les règles de la démocratie sont en principe respectées, le type d’organisation sociale qui est visé par la contestation philosophique est, en même temps, celui qui la rend possible (et qui est, en outre, le seul à la considérer comme plus ou moins “normale”). Mais la fonction critique que le philosophe entend exercer par profession ne peut accéder à la normalité reconnue sans perdre une bonne partie de l’avantage moral que confère la dissidence réelle. À cet égard, la manière dont certains intellectuels éminents, que le profane ne peut considérer autrement que comme des privilégiés du système, s’évertuent parfois à nier toute espèce de complicité ou de compromission avec “l’ordre” ou le “pouvoir” en général, est tout simplement une insulte à l’intelligence et à la morale communes. Ce genre de rhétorique apologétique ne persuadera jamais que des gens qui ont à la fois des avantages du même type et des raisons d’entretenir le même genre de mauvaise conscience que ceux qui l’utilisent. » (26)
3. La stratégie de Vincennes
Badiou a côtoyé les philosophes dits de Vincennes (Foucault, Deleuze, Lyotard, Rancière) en tant que jeune confrère et, même s’il n’était pas toujours d’accord avec eux (comme il le regrettera d’ailleurs à propos de Deleuze (27)), il ne cesse de leur rendre hommage. Petit Panthéon portatif est, à cet égard, particulièrement représentatif du culte que Badiou essaie d’alimenter à leur propos : ce livre est une compilation d’articles écrits à la mort des « maîtres » de la French Theory.
On y trouve donc les « oraisons funèbres » de Lyotard, Deleuze, Foucault et Derrida à la sauce Badiou, c’est-à-dire en rappelant insidieusement le lien personnel ou intellectuel qui le rattache à ses figures. Ainsi, au départ simple « second couteau » de la French Theory, Badiou en est devenu la figure représentative, puisque seul survivant de cette période (28). Il ne se prive d’ailleurs pas de le répéter, tout en se posant en véritable « gardien du temple » de ce courant philosophique (certes disparate) ainsi que de certaines des valeurs qui peuvent lui être associées. La présence de ce registre judiciaire est constant dans de nombreux autres ouvrages où il se fait le fervent défenseur de la cause de la philosophie française des années 60, comme ici, dans l’introduction au Second Manifeste pour la philosophie : « Il faut accorder sans hésitation à mon ami Frédéric Worms qu’il y a eu en France, entre les années soixante et les années quatre-vingt – des derniers grands travaux de Sartre aux oeuvres capitales d’Althusser, Deleuze, Derrida, Foucault, Lacan, Lacoue-Labarthe ou Lyotard, pour ne citer que les morts un fort “moment” philosophique. La preuve de ce point “par l’exemple négatif”, comme disent les chinois, est l’acharnement mis par la coalition de quelques vedettes médiatiques et de sorbonnards en goguette à nier qu’il se soit passé, dans ces années lointaines, quoi que ce soit de grand ou même d’acceptable. » (29) Badiou se crée ici des ennemis à sa mesure, faciles à canaliser et à anéantir, car qui vise-t-il en réalité ? Principalement Luc Ferry et Alain Renaut pour leur médiocre livre sur « la pensée 68 » (déjà maintes et maintes fois passé au crible et de façon plus pertinente que ne le fait ici Badiou, notamment par Cornelius Castoriadis (30)), tout en égratignant, au passage, les « nouveaux philosophes » – cible facile – qui se sont ralliés à cette interprétation. Cette coalition prend d’ailleurs des proportions plus importantes à la fin du Second Manifeste puisque, élargie à d’autres courants, elle finit par désigner rien de moins que la « réaction intellectuelle », c’est-à-dire « quelque chose comme un pauvre dogmatisme via la philosophie analytique, le cognitivisme et l’idéologie de la démocratie et des droits de l’homme. A savoir une sorte de scientisme […] doublé, commé’ toujours, d’un moralisme niais à teinture religieuse (en substance : il faut être gentil et démocrate plutôt que méchant et totalitaire). » (31) Tous les ennemis personnels de Badiou sont ici convoqués en vertu de plusieurs principes bien connus des amateurs de sophistique (32) :
 le fait de répéter des préjugés et des lieux communs déjà entendus dans les médias (le scientisme pour la philosophie analytique, le moralisme en lien avec « les droits de l’homme ») permet de leur donner une assise et une légitimité supplémentaires sans avoir à se justifier.
 l’invention d’un ennemi imaginaire à plusieurs têtes, la susdite « réaction intellectuelle », permet de positionner les philosophes de Vincennes comme de véritables « révolutionnaires » dont la mémoire serait attaquée ou salie. Badiou se donne ainsi le beau rôle de les défendre contre toutes ces attaques indécentes et venues de plusieurs côtés : « philosophie analytique, cognitivisme, idéologie des droits de l’homme ».
 l’utilisation de termes très généraux appliqués à des choses très différentes (cognitivisme, idéologie des droits de l’homme) facilite l’amalgame. Cela permet de ne pas avoir à donner de véritables arguments contre ces courants philosophiques, de ne pas citer les textes et encore moins les philosophes incriminés ; toutes choses contraignantes qui sont bien en-dessous du génie métaphysique de Badiou !
 Enfin, dernier ressort bien connu de la rhétorique badioulienne : l’argument d’autorité. En effet, pour montrer que ses ennemis personnels sont, après tout, les mêmes que ceux des philosophes de Vincennes, Badiou avait pris ses précautions en amont de l’attaque en plaçant ses propos sous la haute autorité de Jacques Derrida : « Lors d’une de mes dernières rencontres avec Derrida – nous nous étions réconciliés -, il m’avait dit : “En tout cas, aujourd’hui, nous avons les mêmes enne- mis.” » Observez ici le mélange entre la dimension affective, biographique (« nous nous étions réconciliés ») et la posture théorique (« nous avons les mêmes ennemis ») qui sert à légitimer Badiou (à « l’adouber » en quelque sorte) en le posant comme le seul véritable successeur de la French Theory. Il reprend cette stratégie à la fois défensive et offensive dans Petit Panthéon portatif, toujours à propos de Derrida, et toujours pour pourfendre ce démon venu d’outre-Atlantique, à savoir la philosophie analytique jadis conspuée par Deleuze (33) : « Il y avait, juste en dessous de l’étonnante fluidité volatile de son écriture, une authentique simplicité de Derrida […]. C’est une des nombreuses raisons pour lesquelles la violence des attaques contre lui (après sa mort), et en particulier dans la presse américaine, attaques qui s’en prenaient au “penseur abstrus”, à “l’écrivain incompréhensible”, ne relevaient que de la plus banale injure anti-intellectuelle. » Plus loin, il ajoute : « Disons-les “texanes”, ces injures, et n’en parlons plus. » (34) On se croirait revenu aux temps pas si éloignés de la querelle Sokal-Bricmont ! L’argument d’anti-intellectualisme ne tient tout simplement pas, comme l’ont déjà montré à plusieurs reprises Bouveresse et Bricmont (entre autres), mais il continue tout de même à nourrir le débat en le réduisant à un manichéisme simpliste : la philosophie analytique = hégémonie capitaliste américaine. Ici, Badiou va même plus loin dans l’amalgame et la falsification puisque, tout en associant les américains à des texans incultes (les rednecks), il prend le lecteur français par les sentiments et alimente l’antiaméricanisme primaire, tout en prenant soin de ne pas répondre de manière précise aux attaques des journalistes.
La valorisation du « moment » philosophique des années soixante sert donc, au final, de tremplin à la théorie de Badiou ainsi qu’à celle de ses disciples. Au fur et à mesure que Deleuze, Foucault et Lyotard sont récupérés par Badiou, ils sont inexorablement voués à un « devenir-Badiou ». Il suffit de lire l’ouvrage de vulgarisation de Badiou sur Deleuze, intitulé Deleuze : la clameur de l’Être, pour se rendre compte de ce phénomène (35). Badiou applique à Deleuze son propre vocabulaire, ses théories philosophiques et lui adjoint ses figures tutélaires : Heidegger, Badiou (on n’est jamais aussi bien servi que par soi-même) – et Dieu sait qu’il n’est pas la peine de rajouter davantage d’obscurité et de confusion à l’oeuvre de Deleuze ! Tout est donc vu à travers le filtre de la pensée « Badiou » dans le but d’élever cette manière de faire de la philosophie au rang de méthode « suprême » « J’ai publié mon premier Manifeste pour la philosophie en 1989. Ce n’était pas la joie, je vous prie de le croire ! L’enterrement des “années rouges” qui suivirent Mai 68 par d’interminables années Mitterrand, la morgue des nouveaux philosophes […]. Maintenir dans ces conditions l’optimisme de la pensée, expérimenter, en liaison étroite avec les prolétaires venus d’Afrique, de nouvelles formules politiques, réinventer la catégorie de vérité, s’engager dans les sentiers de l’Absolu selon une dialectique entièrement refaite de la nécessité des structures et de la contingence des événements, ne rien céder… Quelle affaire ! C’est de ce labeur que témoignait, de façon succinte et allègre à la fois, ce premier Manifeste pour la philosophie. Il était, ce petit livre, comme des mémoires de la pensée écrits dans un souterrain (36). » Face à un tel travail de titan, nous n’avons plus qu’à nous incliner et à souhaiter une longue vie au « grand timonier » de la philosophie, Alain Badiou !
IV. La prétendue radicalité de Badiou. L’hypothèse communiste. Le maoïsme de Badiou.
1. La mise en avant de la prétendue radicalité politique de Badiou par les médias
Dans une conférence donnée en 2002 et publiée sous le titre « La révolution culturelle : la dernière révolution ? » (37), Badiou se paie le luxe de revenir une énième fois sur la chronologie de la Révolution culturelle afin de dédouaner son personnage historique préféré : Mao. Il n’était déjà pas glorieux d’être maoïste dans les années 1970, mais que dire de quelqu’un qui l’est toujours en 2002, voire en 2009, qui plus est quand il s’agit d’un philosophe aussi médiatisé que Badiou ? Pour ce dernier, le fait d’être resté fidèle à l’esprit maoïste n’est pas du tout reconnu comme une tare ou un signe de bêtise et d’avachissement mental, bien au contraire ! C’est une qualité indéniable qui témoigne d’une grande constance morale et d’un engagement radical sans faille. Ainsi, à un journaliste qui lui demande de revenir sur son succès médiatique en tant que « symbole d’une nouvelle radicalité intellectuelle [critiquant] le libéralisme, le réformisme et même la démocratie » (sic), Badiou répond : «  Si les intermédiaires médiatiques ont récemment découvert ma “radicalité” politique et intellectuelle, c’est parce que je n’ai pas changé depuis les années 70, une période où, sous l’adjectif “révolutionnaire”, la radicalité politique se portait bien. Pendant les années 80, beaucoup ont renoncé et moi, je suis resté fidèle. » (38) Cette posture étant systématiquement mise en avant dans de nombreuses interviews pour permettre à Badiou d’avoir le beau rôle face au cirque médiatique, on ne peut s’empêcher de penser qu’il y a ici connivence ou, du moins, convergence d’intérêts. Voici un exemple de notice apologétique trouvée sur le fameux site de la gauche « ultra-chic », Rue89 : « Vénérable mandarin de l’École normale supérieure (ENS), oû les étudiants font la queue pour suivre son séminaire annuel (cette année consacré à Platon), Alain Badiou est, après Jacques Derrida, l’un des philosophes français les plus connus au monde. Très estimé par ses collègues, il a bâti un univers conceptuel cohérent, mélange néo-platonicien et marxiste pur et dur. Il est réputé pour sa capacité à synthétiser l’histoire des idées. Aujourd’hui, il se définit encore comme “ultragauchiste”. » Mais on franchit un degré supplémentaire dans la complaisance et le contentement de soi avec l’interview récente de Badiou réalisée par Frédéric Taddéi à la télévision lors de l’émission « Ce soir ou jamais » (39).
Frédéric Taddéi : Alain Badiou bonjour. Vous êtes philosophe, vous êtes peu connu du grand public, vous fuyez plutôt la télévision, d’ailleurs on vous remercie de l’honneur que vous nous faites, ainsi qu’aux téléspectateurs de « Ce soir ou jamais », d’avoir accepté notre invitation. Vous êtes ce qu’on appelle un « maître à penser ». Vous avez enseigné à Paris VIII, au Collège International de Philosophie, à l’École Normale Supérieure où vous animez un séminaire extrêmement couru, comme on dit, pas seulement en France puisque c’est le cas en Amérique, en Asie, jusqu’en Australie, dans toute l’Europe bien entendu. Vos séminaires de philosophie sont extrêmement fréquentés par les intellectuels, par les étudiants. C’est beaucoup dû à votre engagement politique : vous êtes considéré comme le dernier penseur français radical, pour ne pas dire révolutionnaire, en totale rupture avec les valeurs de notre société …
Alain Badiou : Je ne vais pas protester contre une description aussi radicale elle-même, n’est-ce pas. Après tout quand on construit une philosophie et une pensée en rupture avec le système du monde tel qu’il est, on doit en accepter les conséquences y compris les descriptions que vous en donnez …
Pourquoi Badiou est-il à ce point courtisé par les journalistes dits « de gauche » ? Pourquoi vouloir à toute force en faire le chantre de la radicalité révolutionnaire, tel David s’opposant à Goliath (Goliath incarnant, au fil des pages, aussi bien Sarkozy que le capitalisme ou la démocratie) ? Trois facteurs semblent jouer un rôle déterminant dans cette affaire :
 la nostalgie, très présente dans le milieu journalistique décrit plus haut, pour la figure de « l’intellectuel engagé » à la française, du type Sartre ou Foucault, favorise cette idôlatrie en faveur de Badiou puisque, justement, il se pose en héritier de ce courant-là, comme nous l’avons évoqué plus haut.
 l’état déplorable dans lequel se trouvent et la gauche et l’extrême-gauche en fait un « radical » puisque, parmi le désert des idées, celui qui est assez habile pour répéter à qui veut l’entendre qu’il incarne « la gauche de la gauche », sans jamais la définir de manière précise et au prix de contorsions réactionnaires et de falsifications historiques évidentes, devient une sorte de héros capable de faire voler en éclats le « consensus » actuel. Il est significatif que Badiou soit toujours présenté, dans les médias, comme un « ultra-gauchiste » sans qu’il soit pour autant interrogé plus avant sur le contenu réel et effectif qu’il associe à ce terme. Qu’il représente la version la plus dure de la gauche stalinienne ne semble déranger personne. Du moment qu’il est du bon côté et qu’il critique Sarkozy, inutile d’aller chercher plus loin !
Cette rhétorique bien rôdée s’accompagne, quand elle est utilisée par les partisans de Badiou, d’une apologie du courage politique du « maître » qui est tout bonnement grotesque. Après l’avoir comparé tour à tour de manière implicite mais néanmoins calculée à Socrate, Platon ou Diogène, Alain Brossat fait de Badiou un redoutable adversaire de la « doxa liquide » et un farouche partisan du « dire-vrai » : « Il est sans doute moins “dangereux” dans nos sociétés que dans d’autres de ne pas vivre et penser comme le plêthos, de ne pas plier au fait majoritaire, tout en cultivant le différend avec les gouvernants, mais il y est assurément plus difficile d’y maintenir des conditions dans lequel (40) la véridiction conserve un sens et une portée – tout particulièrement là où sont en jeu les questions de la politique et du pouvoir. […] Or, ce que montre l’essai de Badiou (41) contre ou plutôt “à propos” de Sarkozy, c’est qu’une telle scène peut encore, dans notre présent, être formé – mais qu’il y faut, en effet, beaucoup de fermeté morale et de courage intellectuel. » (42)
 L’absence d’esprit critique et de véritables débats de qualité dans le domaine des sciences humaines et de la presse dite « intellectuelle » favorise l’émergence de figures comme celles de Badiou qui développent une vision manichéenne et simpliste des choses.
2. « L’hypothèse communiste » et ce qu’elle implique
Dans les interviews qu’il accorde de façon régulière à la presse, Badiou n’a de cesse de revenir sur ce qu’il appelle « l’hypothèse communiste ». Voici comment il décrit cette notion dans une interview accordée au journal L’Humanité datant du 11 février 2008 : « manière de vivre en commun non fondée sur la séparation ». Dans une édition précédente de ce même journal (6 novembre 2007), Badiou répond tout aussi vaguement à la question qui lui est posée et qui concerne la façon dont cette « hypothèse » pourrait s’appliquer concrètement :
J’aimerais pouvoir en dire plus. Pour l’instant, je soutiens qu’il faut affirmer sans peur que nous sommes dans le maintien de cette hypothèse. Il faut dire que l’hypothèse de l’émancipation, fondamentalement, reste l’hypothèse communiste. Ce premier point peut trouver des formes d’élaboration. Il faut comprendre ensuite qu’il s’agit là d’une idée au sens fort. Je propose de la travailler comme telle. Ce qui signifie que dans une situation concrète, conflictuelle, nous devons l’utiliser comme critère pour distinguer ce qui est homogène avec cette hypothèse égalitaire et ce qui ne l’est pas.
Pour bien comprendre ce qu’est en train de nous dire ici Badiou, il faut mettre ce passage en parallèle avec un autre : « Il s’agit en somme d’une Idée, pour parler comme Kant, dont la fonction est régulatrice, et non d’un programme » (43). Ces déclarations mettent au jour une série de paradoxes qu’il faut expliquer. D’abord, l’expression « Idée communiste » en elle-même est contradictoire, puisque, si l’on s’en tient à la définition kantienne de l’Idée, celle-ci est absolument séparée de l’expérience et de la réalité vécue : elle n’est donc pas compatible avec la doctrine communiste qui prend appui sur le domaine politique et social. En effet, Kant appelle « Idées transcendantales » ou « Idées de la Raison » ce qui, « dans notre pensée, non seulement ne dérive pas des sens, mais dépasse même les concepts de l’entendement, puisque l’on ne peut rien trouver dans l’expérience qui en fournisse une illustration. » (44) Dans la Critique de la raison pure, il consacre toute une section à définir cette notion : « J’entends par idée un concept rationnel nécessaire auquel nul objet qui lui corresponde ne peut être donné dans les sens. Les concepts purs de la raison, que nous considérons en ce moment, sont ainsi des idées transcendantales. Ce sont des concepts de la raison pure, car ils considèrent toute connaissance expérimentale comme déterminée par une totalité absolue des conditions. Ils ne sont pas formés arbitrairement, mais ils sont donnés, au contraire, par la nature même de la raison et se rapportent nécessairement aussi à tout l’usage de l’entendement. » (45)
Ainsi, la pseudo-théorie de Badiou ne tient pas, puisque le communisme ne peut pas être à la fois une « Idée » et une « hypothèse ». Une hypothèse est en effet une affirmation provisoire en attente de confirmation ou de réfutation par les faits, elle doit donc être, à un moment donné, en contact avec la réalité. Badiou utilise de manière frauduleuse le vocabulaire scientifique et philosophique pour donner à son discours un « vernis » qui ne résiste pas à l’analyse. Il aggrave encore son cas dans ce domaine en affirmant : « Il est absurde de qualifier les principes communistes (au sens que je viens de dire) d’utopie, comme on le fait si souvent. Ce sont des schèmes intellectuels, toujours actualisés de façon différente, et qui servent à produire, entre différentes politiques, des lignes de démarcation. » (46) Là encore, l’utilisation du vocabulaire kantien brouille les pistes et ne sert qu’à impressionner le lecteur. Qu’est-ce qu’un schème ? Selon Maurizio Ferraris – dont le dernier ouvrage paru nous semble être bien plus pertinent pour réfléchir sur l’histoire de la philosophie que tous les livres de Badiou réunis – les schèmes kantiens sont des « instruments par l’intermédiaire desquels les objets sont déterminés par les concepts » et possédant trois propriétés : « 1. ils diffèrent de l’imagination ; 2. ils consistent en méthodes de construction ; 3. ils représentent la forme du Temps ». (47) On ne voit donc pas très bien en quoi le schème kantien aurait quelque chose à voir avec le communisme. Qui plus est, Badiou se contredit une nouvelle fois : il nous dit d’abord que le communisme est une « manière de vivre en commun non fondée sur la séparation » pour ensuite nous expliquer que les principes communistes — les fameux « schèmes » — « servent à produire […] des lignes de démarcation ». Il faudrait donc choisir entre ces deux idées, à moins que Badiou ne soit pas non plus très au point sur la définition même du mot « séparation » !
Ce jeu conceptuel sert essentiellement à deux choses : d’abord à masquer son vide théorique (comme il n’a aucune idée nouvelle et concrète à proposer pour construire quoi que ce soit, il est donc obligé de poser « l’hypothèse communiste » comme une sorte de paradigme essentiellement abstrait, un absolu ne reposant sur rien mais qu’il agite tel un étendard pour donner l’impression d’une radicalité extrême), et ensuite à éviter de parler des expériences concrètes du communisme (qui furent toutes sans exception des échecs lamentables) autrement que par allusion, ce qui impliquerait de revenir sur les régimes bureaucratiques totalitaires, chose qui répugne à Badiou (48).
Dans De quoi Sarkozy est-il le nom ?, il consacre justement un passage entier à l’évolution de l’hypothèse communiste, sous la forme de ce qu’il appelle des « séquences » (49) qui se succéderaient toujours selon le même schéma comme il s’en est expliqué dans Abrégé de métapolitique : « Sylvain Lazarus a établi qu’entre Marx et Lénine il n’y a non pas continuité et développement, mais rupture et fondation. Il y a également rupture entre Staline et Lénine, puis entre Marx et Staline. » (50) Badiou en vient donc à nier l’existence d’une idéologie marxiste (« le marxisme n’existe pas » (51)) au nom du déploiement du paradigme idéal de « l’hypothèse communiste » qui s’incarnerait dans différents « héros révolutionnaires » au fil des siècles (52). À partir de cette affirmation, on serait en droit d’attendre de la part d’un cacique de l’agrégation le déploiement rigoureux d’une perspective historique expliquant les origines du communisme et qui nous permettrait au moins d’en percevoir les articulations logiques ; mais ce serait mal connaître Badiou, toujours prêt à privilégier les allusions aux affirmations fondées sur des faits précis. L’analyse présentée dans De quoi Sarkozy est-il le nom ? n’a d’ailleurs rien à envier à une mauvaise copie de terminale quand on voit les banalités et les approximations qui s’y trouvent mêlées : « En tant qu’Idée pure de l’égalité, l’hypothèse communiste existe à l’état pratique depuis sans doute les débuts de l’existence de l’État. Dès que l’action des masses s’oppose, au nom de la justice égalitaire, à la coercition de l’État, on voit apparaître des rudiments ou des fragments de l’hypothèse communiste » (53). Badiou cède ici à la facilité de formules toutes faites – on pense à « de tous temps, les hommes » – qui n’expliquent rien mais donnent l’impression que la personne qui s’exprime a embrassé l’histoire universelle en une seule phrase. Un peu plus loin, toujours dans le même chapitre, il énumère quelques événements historiques qui serviraient, selon lui, de fondement à « l’hypothèse communiste »
Depuis la Révolution française et son écho progressivement universel, depuis les développements les plus radicalement égalitaires de cette révolution – entre les décrets du Comité robespierriste sur le maximum et les théorisations de Babeuf – nous savons (quand je dis « nous », c’est l’humanité abstraite, et le savoir concerné est le savoir universellement disponible sur les chemins de l’émancipation) que le communisme est la bonne hypothèse. En vérité, il n’y en a pas d’autre, en tout cas, je n’en connais pas d’autre. (54)
Cet extrait est emblématique de la pensée de Badiou qui fonctionne par simplifications, ellipses et raccourcis historiques. D’abord, premier constat, en affirmant que le communisme « est la bonne hypothèse », il se contredit une nouvelle fois lui-même et nie de facto que c’est une hypothèse : comment peut-il affirmer cela alors qu’elle n’a pas encore été prouvée et que, comme nous l’avons vu plus haut, elle ne peut pas l’être ? Si on pose que quelque chose est une hypothèse, on sous-entend qu’elle n’est pas isolée et qu’il y en a d’autres ; or, lui dit qu’il n’en connaît qu’une seule ! De plus, en mettant sur le même pied d’égalité les « décrets du Comité robespierriste sur le maximum » et les « théorisations de Babeuf », Badiou cède au procédé – bien connu des maoïstes – de la falsification historique dans le but de valoriser son « Idée » du communisme. Il s’agit ni plus ni moins d’un amalgame, car qu’est-ce que la loi sur le maximum général ? C’est une tentative d’économie dirigée instituant le maximum décroissant du prix des grains de blé et qui, face à la crise des subsistances et à la hausse des prix, s’est peu à peu étendue à toutes les denrées alimentaires, aux matières premières et aux salaires. Cependant, loin d’être un succès égalitariste, cette mesure se révéla être un échec fortement impopulaire puisque les paysans se mirent à cacher leurs récoltes pour ne pas avoir à les vendre à perte et les spéculateurs, eux, se précipitèrent pour acquérir tout ce qu’ils pouvaient. La Convention tenta alors de contrer l’insuccès de la loi par la répression en emprisonnant et en guillotinant les contrevenants, contribuant ainsi à l’instauration de la Terreur. Ainsi, le fait même d’associer, dans une même phrase, Robespierre et Babeuf (55) tend à jeter le trouble dans l’esprit du lecteur tout en faisant de « l’Incorruptible » un précurseur du communisme. Badiou est fidèle en cela à la ligne marxiste-léniniste qui a toujours cherché à valoriser Robespierre. Peut-être, tout simplement, s’est-il inspiré de la rigueur et de l’intransigeance de son ami Slavoj Zizek qui a présenté, selon une recette bien connue (56), en mars 2008, un choix de textes de Robespierre réunis sous le nom de Terreur et Vertu.
Ce ne sont pas des exemples isolés dans l’oeuvre de Badiou, l’argumentation inconsistante étant l’une des marques de son « style ». Il considère en effet l’histoire comme une sorte de « réservoir » de faits dans lequel il va piocher des éléments au gré de sa démonstration, quand cela soutient sa thèse, sans jamais se soucier de la continuité historique ni de l’exactitude de ses dires ! C’est d’ailleurs une « méthode » qu’il assume pleinement et qu’il revendique en tant que telle :
Je suis un platonicien sophistiqué, et non un platonicien vulgaire. […] Le temps est toujours le temps d’un monde. […] C’est du reste pourquoi la présentation « culturelle » des oeuvres d’art, avec restitution soigneuse du contexte, obsession de l’Histoire et relativisation des hiérarchies de valeur, si à la mode aujourd’hui, n’est finalement qu’un éteignoir : elle opère au nom de notre conception du temps (la conception historique et relativiste du matérialisme démocratique) contre l’éternité des vérités. (57)
Nous en verrons un autre exemple avec l’expression « pétainisme transcendantal » que Badiou fait remonter à 1815.
Un peu plus loin dans le livre, en faisant mine de vouloir préciser ce qu’il entend par « communisme », Badiou avance des idées tout aussi contestables : « “Communisme”, qu’est-ce à dire ? Comme l’expose Marx dans les Manuscrits de 1844, le communisme est une idée relative au destin de l’humanité générique. Il faut absolument distinguer cet usage du mot, du sens, entièrement usé aujourd’hui, de l’adjectif “communiste” dans les expressions comme “partis communistes”, “monde communiste”, pour ne rien dire de “État communiste”, qui est un oxymore auquel on a prudemment et logiquement préféré l’obscur syntagme “État socialiste”. Même si […] ces usages du mot font partie du devenir historique, par étapes, de l’hypothèse » (58). Tout ce développement répétitif ne vise en réalité qu’à faire admettre une seule idée au lecteur : à savoir que les expériences concrètes du communisme n’invalident en rien « l’hypothèse », et qu’il faut donc la poursuivre. Cette idée revient encore une fois à séparer l’idéologie de son application concrète, ce qui nous semble être une posture intenable et qui a été maintes fois réfutée, y compris par Marx lui-même dans L’Idéologie allemande : « Pour nous, le communisme n’est pas un état de choses qu’il convient d’établir, un idéal auquel la réalité devra se conformer. Nous appelons communisme le mouvement réel qui abolit l’état actuel des choses »(59). C’est bien le contraire de ce que nous dit Badiou, qui réussit l’exploit remarquable de faire du marxisme contre Marx puisqu’il transforme la théorie communiste en un pur idéalisme qui consiste précisément à considérer « que le monde est dominé par des idées, que les idées et les concepts sont des principes déterminants, que des idées déterminées constituent le mystère du monde matériel accessible aux philosophes. » (60)
Cette conception idéaliste du communisme (61) va de pair, non seulement avec le refus de prendre réellement en considération son passé totalitaire, mais également avec une valorisation à peine voilée du bilan stalinien. Comme le relève la notice Wikipedia qui lui est consacrée, Badiou ne renie rien « ou presque » de son héritage maoïste dont il se déclare être, aujourd’hui, « l’un des rares représentants notoires » (62) et « considère que les phénomènes comme le goulag et la Révolution culturelle ne doivent pas conduire, concernant le communisme, à “jeter le bébé avec l’eau du bain”. » Dans De quoi Sarkozy est-il le nom ?, il procède même à une réhabilitation en bonne et due forme du passé stalinien de l’URSS au moyen de plusieurs arguments :
 Il affirme d’abord que Staline, malgré tous ses crimes, aurait été un rempart efficace pour freiner l’avancée du capitalisme : « Du temps de Staline, il faut bien dire que les organisations politiques ouvrières et populaires se portaient infiniment mieux, et que le capitalisme était moins arrogant. Il n’y a même pas de comparaison. » (63) Cette fausse opposition entre « capitalisme » et « système soviétique » – qui a alimenté toute la période de la « Guerre froide » du côté de la propagande communiste – est répétée à satiété dans la presse par Badiou : « En faisant peur au capitalisme [les États socialistes] permettaient aux organisations ouvrières des pays occidentaux d’obtenir des concessions importantes. Ce sera mon seul coup de chapeau à Staline : il faisait peur au capitalisme. » (64) Il est bien évident que les relations entre le système soviétique et le système capitaliste n’étaient pas aussi simples ; derrière l’opposition spectaculaire entre ces deux camps fictifs s’était installée une sorte de connivence. Comme le remarque Karl Korsch, en Russie, le marxisme ne fut dès le début qu’un « écran idéologique » (65) qui n’avait de communiste que le nom.
 Badiou cherche ensuite à minimiser le « bilan stalinien » en le comparant avec notre situation actuelle : « Mon ami le philosophe slovène Slavoj Zizek a dit quelque part que ce qu’on n’avait pas compris, lorsqu’on a mis en scène l’opposition du stalinisme et de la démocratie parlementaire, c’est que le stalinisme était l’avenir de la démocratie parlementaire. Nous y venons, lentement, tortueusement.[…] Après tout, les moyens techniques du contrôle des populations sont aujourd’hui tels que Staline, avec ses fichiers manuscrits interminables, ses fusillades de masse, ses espions à chapeau, ses gigantesques camps pouilleux et ses tortures bestiales, apparaît comme un amateur d’un autre âge » (66). Nos deux grands philosophes découvrent, bien tardivement, un fait connu depuis au moins cinquante ans : le caractère bureaucratique des « démocraties parlementaires », que l’on pourrait définir aussi bien comme des « sociétés de contrôle ». Mais en quoi cela constitue-t-il un argument en faveur du socialisme bureaucratique soviétique ? Cette remarque de Badiou est d’autant plus surprenante que, dans la citation de Zizek, le « stalinisme » est décrit défavorablement comme le cauchemar à venir de nos sociétés actuelles.
 enfin, si Badiou met tout en oeuvre pour éviter de considérer le passé « totalitaire » de l’URSS, c’est en fonction d’un objectif précis : il s’agit coûte que coûte de séparer la théorie de sa réalité pratique pour en préserver le caractère idéal (cette illusion a au moins deux noms : « l’hypothèse communiste » et le « communisme de l’Idée »). Badiou ne veut pas prendre le risque d’employer la notion de « totalitarisme » et préfère ranger les « antitotalitaires » du côté des idéologues libéraux pour ne pas avoir à les affronter : « Les antitotalitaires du XXe ne sont pas différents des idéologues du début du XIXe siècle (Constant, Tocqueville, …). Les restaurations s’accompagnent toujours d’une intelligentsia libérale qui refuse d’assumer le passé révolutionnaire et se tourne vers l’increvable doctrine libérale, dont elle profite : la liberté des opinions, l’État de droit, les élections, tout cela sans qu’on touche, sur le fond, aux inégalités et à la propriété privée » (67). Il est tout à fait symptomatique que Badiou désigne généralement, sous le vocable « antitotalitaires », les pantins que sont les « nouveaux philosophes », au lieu de s’attaquer aux innombrables théoriciens et romanciers qui ont mis en exergue les impasses du communisme comme George Orwell, Arthur Koestler, Hannah Arendt, Simone Weil, les représentants du « marxisme critique », et cela au nom d’une critique du totalitarisme qui ne peut pas être réduite à une adhésion aveugle aux dogmes du libéralisme.
3. Le maoïsme de Badiou
nonfictionfr : Vous aimez citer Lénine – vous l’avez fait tout à l’heure – Marx (c’est moins dangereux), Mao, etc. Y croyez-vous vraiment vous-même ? N’y a-t-il pas une part de provocation à citer Mao ?
Alain Badiou : Là-dessus, je ne vais pas me sauver moi-même. J’aime bien faire savoir que je ne cèderai pas à l’intimidation. Vous savez, j’ai connu l’époque où des maos, il y en avait partout, avec des nuances différentes, des organisations nombreuses. Et puis, mon rapport à Mao a été un rapport qui se servait de choses dites, prononcées dans la politique effective. Si vous lisez une bonne partie du Petit livre rouge, ce que vous voyez, ce sont des recettes militantes, très précises et très utiles : « qu’est-ce que vous faites dans telle et telle situation ? » ; « qu’est-ce qu’il faut savoir distinguer quand on est dans un lieu déterminé ? » ; « quelles sont les principales choses dont il faut se garder si on veut tenir le processus militant ? ». Je me servais de ça exactement comme une cuisinière se servirait d’un livre de cuisine ; c’est le meilleur livre de cuisine politique qui existe. J’aime bien citer mon livre de cuisine, et faire savoir qu’en un certain sens, après tout, certaines choses que je fais ne sont pas en substance très différentes de celles que je faisais à l’époque. Sur une situation populaire, arriver à organiser vraiment une réunion de gens de manière à pouvoir décider de quelque chose, c’est ce que je faisais, c’est ce que je fais encore actuellement, et sur ce genre de questions tous ces repères sont vraiment très intéressants. (68)
Dans sa conférence sur « La Révolution culturelle : la dernière révolution ? » (69), Badiou donne trois raisons pour y voir un modèle de l’action politique dans le monde actuel :
 d’abord, la Révolution culturelle a fondé l’existence du courant maoïste, « seule véritable création des années 60 et 70 », et Le Petit livre rouge de Mao, qui en est le socle théorique, a été le « guide » de ce courant, « non pas du tout, comme les sots le disent, à des fins de catéchisation dogmatique, mais, tout au contraire, pour nous éclairer et inventer des voies nouvelles dans toutes sortes de situations disparates. »
 ensuite, la Révolution culturelle serait « l’exemple type d’une expérience politique qui sature la forme du parti-État » et, en cela, elle aurait beaucoup à nous apprendre sur la réalisation d’une « nouvelle séquence » de « l’Hypothèse communiste ».
 enfin, la Révolution culturelle est « une grande leçon sur l’histoire et la politique, sur l’histoire pensée à partir de la politique ». Cette même idée est répétée de manière plus forte dans sa « Lettre à Slavoj 2iiek » : « Il faut rendre justice à ce que l’échec terrible de la Révolution culturelle contient d’universalité. » (70)
Reprenons successivement ces trois points de manière à mettre en évidence les contradictions et autres aberrations qui leur sont attachées :
 le maoïsme est loin d’avoir été le courant politique dominant des années 60 et 70, et encore moins leur « seule véritable création » : les situationnistes, en particulier, s’opposèrent radicalement aux « bureaucrates » trotskistes, maoïstes, etc. En outre, les rapports entre le « maoïsme français » et la révolution culturelle chinoise relevaient bien davantage « d’une vision largement imaginaire de la Chine » (71) que d’une analyse sérieuse de la situation réelle de la Chine de l’époque. Quant au Petit Livre rouge métamorphosé en un « guide » de sagesse millénaire et de stratégie pratique digne des grands classiques de la pensée chinoise, c’est encore une nouvelle falsification. Il suffit de quelques aphorismes pour s’en rendre compte : « Grand n’est pas synonyme de redoutable. Le grand sera renversé par le petit, et le petit deviendra grand. » Au vu de la profondeur de pensée qui s’y exprime, il n’est guère étonnant qu’il ait été le livre de « cuisine » intellectuel préféré de Badiou !
 usurpation de plus grande ampleur cette fois-ci, Badiou veut nous faire croire que la Révolution culturelle aurait été une manière de faire exploser de l’intérieur le parti-État (c’est ce qu’il faut comprendre, sans doute, par l’expression « sature la forme du parti-État »), alors même qu’elle n’a été qu’un processus de renforcement du pouvoir étatique au travers du personnage de Mao par élimination de tous ses concurrents (72) ! Ce que Badiou cherche en réalité à faire, c’est de montrer que la Révolution culturelle a été un échec, non pas en raison de la personnalité de Mao, mais malgré lui en quelque sorte. Voici ce qu’il répond à Nicolas Truong à ce sujet : « Mao a constaté […] que le parti accaparait l’État et organisait la perpétuation de son pouvoir », et il a voulu remettre en cause cet état de fait pour « rectifier le cours du socialisme d’État » (73). Il répète à peu près la même chose dans De quoi Sarkozy est-il le nom ? : « Il faut à tout prix tremper le parti dans le mouvement de masse pour le régénérer, le dé-bureaucratiser, et le lancer dans la transformation du monde réel. La Révolution culturelle tente cette épreuve, et devient vite chaotique et violente » (74) ainsi que dans sa « Lettre à Slavoj Zizek » : « On discerne très vite chez Mao, à l’intérieur d’un stalinisme apparent tout à fait classique […], des réticences singulières envers tout ce qui accorderait au Parti le monopole de la direction du processus politique populaire. […] La pensée dialectique de Mao est au service d’une relativisation des pouvoirs du Parti. » (75) Bafouant la vérité historique, ces affirmations laissent très nettement entendre que Mao se serait battu contre les instances du Parti au nom d’un souci de « dé-bureaucratisation », d’égalité et d’équité ! Or, Mao a cherché à déstabiliser le pouvoir bureaucratique, non pas pour rendre service au peuple ou pour rétablir « l’Idée » égalitariste communiste, mais pour en reprendre la tête, ayant été un temps écarté du pouvoir (de 1958 à 1965 environ) (76). Comme l’a montré Simon Leys, depuis la conférence de Lushan en 1959, les dirigeants chinois n’ont eu de cesse de « chercher un moyen d’aiguiller Mao sur une voie de garage : leur idée était de le consacrer comme une sorte de fétiche suprême, et, donc, de le réduire à un glorieux état de paralysie, neutralisant ainsi une fois pour toutes, par cette apothéose même, tout le potentiel destructeur présenté par son redoutable talent d’invention. » (77) Cette lutte pour reprendre le pouvoir n’est pas du tout prise en compte par Badiou, qui pousse même le vice jusqu’à remettre en cause « la version historiographique dominante » de l’événement, telle qu’elle a été établie par le même Simon Leys : « Le livre qui donne le style général des versions officielles ou “critiques” de la révolution culturelle est celui de Simon Leys ».
 la Révolution culturelle ne peut être considérée comme une « grande leçon sur l’histoire et la politique » que si l’on oublie les massacres perpétués en son nom et la nature même du régime de Mao. Et c’est bien ce que tente de faire Badiou qui, outre ses blagues de mauvais goût (78), a l’audace de sous-entendre que, finalement, nous ne sommes pas allés jusqu’au bout de cette expérience : « Rappelons à ce propos que l’échec sanglant d’une entreprise n’est pas son jugement dernier. Là aussi [il s’adresse à Zizek], tu argues trop facilement de l’échec de la Révolution culturelle pour en effacer l’importance et l’actualité (rappelons ici que Mao soutenait qu’il faudrait encore dix ou vingt révolutions culturelles pour pousser la société vers le communisme) » (79). Face à de telles énormités, il convient de rétablir les faits : « La Révolution culturelle » qui n’eut de révolutionnaire que le nom, et de culturel que le prétexte tactique initial, fut une une lutte pour le pouvoir, menée au sommet entre une poignée d’individus derrière le rideau de fumée d’un fictif mouvement de masses (dans la suite de l’événement, à la faveur du désordre engendré par cette lutte, un courant de masse authentiquement révolutionnaire se développa spontanément à la base, se traduisant par des mutineries militaires et par de vastes grèves ouvrières ; celles-ci, qui n’avaient pas été prévues au programme, furent impitoyablement écrasées) » (80). Badiou veut à tout prix redorer le blason d’un maoïsme depuis longtemps discrédité, et qui redevient branché grâce à la mode rétro des seventies.
Ainsi, loin d’avoir tiré les enseignements de l’histoire, il déclare, en bon althussérien, que « la philosophie autorise une perception non historiciste de la politique » (81) . Et il continue de chanter les vertus de la pensée-Mao tout en poussant l’indécence, avec la complicité de son éditeur et « ami » Éric Hazan, jusqu’à en faire une « victime » de notre temps : « Mao, dont il est à la mode de dire le plus de mal possible, reste une grande figure marxiste révolutionnaire » (82). Il fallait y penser, Badiou et ses amis l’ont fait : la présentation négative de la Révolution culturelle n’est qu’un tigre de papier fabriqué par le monde occidental et médiatique pour désamorcer la charge subversive du maoïsme et traîner dans la boue la figure du guide Suprême de la Révolution !
4. Démocratie parlementaire et dictature
Badiou est un fervent adversaire de la démocratie parlementaire et du suffrage universel, comme il le dit lui-même aussi bien dans Abrégé de métapolitique (pour la version théorique prétentieuse) que dans De quoi Sarkozy est-il le nom ? (pour la version « grand public »). Dans ce dernier ouvrage, il consacre un chapitre entier à ce qu’il appelle la « Terreur démocratique ». Il s’appuie sur la façon dont Adolf Hitler, en 1933, a accédé au pouvoir, pour généraliser et étendre son propos en allant jusqu’à affirmer que le suffrage universel a produit une « quantité d’abominations » dans l’histoire. Le point central de son analyse est de démontrer le lien étroit qui existerait entre démocratie et corruption de manière à prouver que la démocratie n’est qu’un outil de propagande du capitalisme. Pour Badiou, en effet, la corruption serait « l’essence » de la démocratie : « Si la démocratie est représentation, elle l’est d’abord du système général qui en porte les formes. Autrement dit : la démocratie électorale n’est représentative qu’autant qu’elle est d’abord représentation consensuelle du capitalisme » (83). Badiou ne peut s’empêcher d’invoquer deux de ses figures tutélaires préférées, Platon et Robespierre, pour qu’ils puissent servir de garants à sa thèse : « L’idée remonte en fait à Platon. Dans sa critique radicale du régime démocratique, Platon note qu’un tel régime considère que ce sur quoi une politique doit se régler est l’anarchie des désirs matériels. Et que, en conséquence, un gouvernement démocratique est inapte au service de quelque Idée vraie que ce soit, parce que si la puissance publique est au service des désirs et de leur satisfaction, au service, finalement, de l’économie au sens large du mot, elle n’obéit qu’à deux critères : la richesse […] et l’opinion […] » (84). Badiou surinterprète les idées développées par Platon dans le Livre VIII (555b-566d) de La République où il est avant tout question de la différence entre oligarchie et démocratie, puis des critères de ce régime politique, et enfin de ce que serait la définition de « l’homme démocratique ». L’économie n’est pas du tout convoquée en tant que telle, car ce qui intéresse Platon est de montrer que la démocratie est un type de gouvernement « anarchique » qui « dispense une sorte d’égalité aussi bien à ce qui est inégal qu’à ce qui est égal » (85), donc qu’il met sur le même plan les « désirs nécessaires » et les « désirs superflus ». Platon critique ce type de gouvernement qu’il considère comme le plus instable et le plus incohérent qui soit puisque construit sur le « désir insatiable » de la liberté. En utilisant le terme de « désirs matériels », absent du dialogue de Platon, Badiou opère donc une réduction et une falsification du texte de manière à lui faire dire ce qu’il voudrait y trouver, c’est-à-dire la preuve du lien soit-disant intrinsèque entre démocratie et capitalisme (86) ! Il suffit de se reporter à la description de « l’homme démocratique » pour se rendre compte que l’optique de Platon est bien différente de celle de Badiou : « Aujourd’hui il s’enivre au son de la flûte, demain il boira de l’eau claire et jeûnera ; tantôt il s’exerce au gymnase, tantôt il est oisif et n’a souci de rien, tantôt il semble plongé dans la philosophie. Souvent, il s’occupe de politique et, bondissant à la tribune, il dit et il fait ce qui lui passe par l’esprit ; lui arrive-t-il d’envier les gens de guerre ? Le voilà devenu guerrier ; les hommes d’affaires ? Le voilà qui se lance dans le négoce. Sa vie ne connaît ni ordre ni nécessité, mais il l’appelle agréable, libre, heureuse, et lui reste fidèle » (87). Selon le principe « badioulien » par excellence de l’amalgame grossier consistant à enchaîner deux arguments d’autorité au sein d’un même passage sans citer les auteurs dont il est question, le parallèle est ensuite très vite établi avec « les révolutionnaires français, qui sont républicains et non démocrates, [et qui] appellent “corruption” l’asservissement de la puissance gouvernementale au cours des affaires. » (88)
La stratégie de Badiou concernant le vote repose donc essentiellement sur un jeu d’inversion rhétorique : il fait du suffrage universel un instrument de terreur pour dédouaner l’expérience robespierriste et la dictature stalinienne. En effet, en réduisant la démocratie au « consensus capitaliste », et en partant du présupposé que la lutte contre le capitalisme est le seul combat valable, Badiou estime que la fin justifie les « moyens », si odieux soient-ils. Il valorise même l’expression de « dictature du prolétariat » en disant qu’elle symbolisait une résistance puisqu’elle mettait le communisme « à l’écart du capitalisme consensuel » (89). Cette défense n’est pas étonnante quand l’on connaît les maîtres à penser de Badiou. Quels sont-ils ? Robespierre, Staline, Lénine, Mao, saint Paul. Tous ont en commun le dogmatisme : soit qu’ils aient mis en place eux-mêmes un régime violent et coercitif (Robespierre, Staline, Mao), ou qu’ils en aient été à l’origine (Lénine a créé le « marxisme-léninisme », saint Paul a créé le christianisme). L’aveuglement idéologique dans lequel se trouve Badiou l’empêche de voir l’essentiel du problème, à savoir que, comme le dit George Orwell : « Ce qui décide de tout, c’est le bannissement de la démocratie. Une fois cela acquis, Staline – ou quiconque lui ressemble assez pour tenir ce rôle – a désormais la voie toute tracée. » (90)
V. Le « pétainisme transcendantal »
Cette notion de « pétainisme transcendantal » a fait fureur dans les médias lors de la sortie de De quoi Sarkozy est-il le nom ? ; elle a été reprise par Badiou et par certains de ses amis comme Éric Hazan pour qualifier les multiples actions mises en place par le gouvernement Sarkozy. Puisqu’elle est censée répondre à la question posée par le titre du livre, cette notion mérite qu’on s’y intéresse de près. D’abord, que signifie-t-elle ? Si l’on prend le terme de « transcendantal » au sens kantien, alors l’expression forgée par Badiou n’a aucun sens puisque ce mot désigne, chez Kant, le domaine des conditions de possibilité : « J’appelle transcendantale toute connaissance qui, en général, s’occupe moins des objets que de nos concepts a priori des objets. Un système de concepts de ce genre s’appellerait philosophie transcendantale » (91). Badiou utilise donc un terme « ronflant » de la philosophie, détaché de son contexte (kantien ou husserlien) dans l’unique but d’impressionner le lecteur. Si le stratagème fonctionne, ce dernier doit pouvoir se dire en son for intérieur : « attention, l’expression est compliquée, c’est qu’elle doit être profonde ! ». Nous nous trouvons une nouvelle fois face au cas bien connu : Badiou détourne le sens d’un concept philosophique à des fins personnelles, de manière à le faire « rentrer » dans son idéologie. Voici la définition qu’il donne de « transcendantal » dans De quoi Sarkozy est-il le nom ? : « [C’est] quelque chose qui, sans apparaître à la surface (d’où que notre situation ne “ressemble” pas à la séquence du règne de Pétain), configure de loin, donne la loi et son ordre, à une disposition collective » (92). Il réussit l’exploit d’en proposer deux nouvelles définitions tout aussi obscures mais encore plus prétentieuses dans son Second Manifeste : « Ordre, maximum et minimum, conjonction et enveloppe suffisent à penser l’écart entre l’être et l’être-là. J’ai proposé d’appeler transcendantal le système de ces règles. […] Comme Kant en avait eu l’intuition, suivi sur ce point par Husserl, le motif du transcendantal est essentiellement un motif logique. L’erreur, cependant, est de parler de logique transcendantale en l’opposant à la logique formelle. Car la logique des mondes est de part en part prélevée sur certaines inflexions de la logique formelle. » (93) Un peu plus loin, il ajoute : « Formellement, l’étude du transcendantal est l’étude de quelques types d’ordre structural, c’est une question technique. » (94) Comprenne qui pourra ce charabia pseudo-philosophique, en attendant, nous n’en savons pas plus sur cette notion de « transcendantal » à part que, si l’on s’en tient à la première définition, la plus compréhensible, elle serait un synonyme de « tendance ». Les choses se compliquent quand elle est associée au terme non moins nébuleux de « pétainisme » : « Je propose de dire que “pétainiste” est le transcendantal, en France, des formes étatiques et catastrophiques de la désorientation. Nous avons une désorientation majeure, elle se présente comme un tournant dans la situation, elle est solennellement active à la tête de l’État. De ce point de vue, encore formel, il y a une tradition nationale du pétainisme qui est bien antérieure à Pétain. Le pétainisme commence en réalité en France avec la Restauration de 1815. » (95) Le lecteur doit alors s’armer de son sens commun pour essayer de débrouiller les différents fils conceptuels tissés ici par Badiou et pour comprendre, au final, que le terme de « pétainisme transcendantal » n’est ni plus ni moins qu’un équivalent de « réaction ». Badiou nous refait donc le coup de « l’hypothèse communiste » puisque, si l’on suit son raisonnement, le « pétainisme » serait une sorte d’invariant, de paradigme, qui resurgirait de temps en temps dans l’histoire, sous forme de « séquences », et qui incarnerait les forces réactionnaires, hostiles à « l’Idée » révolutionnaire. Ce terme de « pétainisme » a un grand avantage : il est bien plus provocateur et a un impact beaucoup plus grand dans les médias que la notion de « réaction », du seul fait qu’il est associé à une période sombre de l’histoire de France. Une telle expression ne correspond à rien ; on peut même la considérer comme un oxymore au sens où elle associe un terme abstrait se voulant universel ( « transcendantal ») à un autre désignant une doctrine ayant partie liée à une période historique (le « pétainisme »). Si le « pétainisme » commence en 1815, alors il est impossible de définir le pétainisme réel, celui qui a été en vigueur de 1940 à 1944.
Cependant, Badiou juge plus prudent, quand il s’agit de s’adresser au « grand public », d’édulcorer son discours pour parer à d’éventuelles critiques. Dans l’interview qui suit, il est frappant de voir qu’il accompagne son propos de tant de précautions oratoires qu’il finit par n’être plus du tout lisible :
Alain Badiou : Je précise bien dans le livre [il s’agit de De quoi Sarkozy est-il le nom ?] que ce n’est pas de l’ordre de la ressemblance [ … ]. C’est vraiment une analogie formelle. Je donne du pétainisme une définition assez large. C’est, je pense, une constante de l’histoire française depuis la Révolution [de 1789], à savoir l’existence d’une figure de la réaction nationale, qui a des caractéristiques communes.
Premièrement, c’est un régime dominé par la peur de quelque chose. Deuxièmement, c’est un régime qui com-
pose avec l’étranger, évidemment. Troisièmement, c’est un régime qui suppose qu’on peut mettre fin, véritablement, à la tradition révolutionnaire française […]. Ce que Sarkozy a lui-même énoncé sous la forme : « il faut mettre fin à Mai 68 une fois pour toutes » […].
Voilà, l’ensemble de ces facteurs, je les appelle “pétainistes”, uniquement parce que Pétain leur a donné évidemment la forme la plus violente. Je ne compare pas du tout Sarkozy à cette forme-là en tant que forme de violence : mais c’est le même esprit. (96)
Bref, « Pétain et Sarkozy, ce n’est pas la même chose sauf que c’est la même chose » ! Voici un discours typiquement badioulien associant des phrases contradictoires et que l’on peut aisément relever : « Ce n’est pas de l’ordre de la ressemblance […]. C’est vraiment une analogie formelle. » Qu’est-ce qu’une analogie ? C’est précisément « une mise en rapport, par ressemblance » (97) comme nous le rappelle l’étymologie grecque du mot analogia, rapport. Que nous dit donc Badiou ? Qu’il n’y a pas ressemblance entre Pétain et Sarkozy, mais « analogie formelle », c’est-à-dire une ressemblance. Néanmoins, il « ne compare pas du tout Sarkozy à cette forme-là », « mais c’est le même esprit. » Autrement dit, Badiou admet qu’il n’y a aucun rapport entre Pétain et Sarkozy, mais il tient à en établir un quand même pour montrer à quel point Sarkozy est infréquentable. Cela ne nous en apprend pas davantage sur le sarkozysme que sur le pétainisme. Mais, comme il est dans l’air du temps de traiter le gouvernement Sarkozy de fasciste, Badiou s’est empressé de prendre sa plume pour donner à ces récriminations une dimension plus « philosophique » afin de pouvoir se positionner en analyste suprême de la situation. En réalité, ses analyses ne recouvrent que des banalités dignes du « café du commerce » car il ne dit rien de plus que ce que l’on entend partout dans la presse « de gauche » branchée comme Les Inrockuptibles & Co., assimilant la politique de Sarkozy à une forme de « barbarie », en évitant bien évidemment de rentrer dans les détails d’une véritable analyse. Badiou et son récent succès ne sont que le reflet de cette critique factice du pouvoir en place.
VI. Badiou et ses disciples
“En matière de relations sociales aussi, chacun préfère nettement celui qui lui ressemble ; ainsi, pour un imbécile, la fréquentation d’un autre imbécile est infiniment plus agréable que celle de tous les grands esprits réunis. Chacun est donc amené à prendre le plus grand des plaisirs avant tout dans ses propres oeuvres, simplement parce qu’elle sont le miroir réfléchissant de son propre esprit et qu’elles font écho à ses propres pensées. Ensuite, seront à son goût les oeuvres de ceux qui lui sont homogènes. Un homme plat, sec et à l’esprit à l’envers, en un mot : désordonné, n’accordera donc ses applaudissement sincères et vraiment sentis qu’à un homme plat, sec et à l’esprit à l’envers ; bref, au pur verbiage.” (98)
Vous pensiez avoir atteint avec Badiou une sorte de point de non-retour, le comble de la vanité absconse au-delà duquel il serait inenvisageable de construire des théories plus vaines et plus absconses ? Attendez d’avoir lu ses disciples qui, encore plus prétentieux, tentent, à travers leurs ouvrages, à la fois de légitimer le « maître » en en perpétuant la pensée, mais aussi de se frayer une voie « personnelle » dans le but d’accéder à la reconnaissance médiatique.
Prenons le cas du disciple le plus « célèbre » de Badiou : Mehdi Belhaj Kacem. Il a d’abord connu un petit succès d’estime puisque Godard, dans son Histoire du Cinéma, a cité plusieurs extraits de ses ouvrages. Voici comment il est présenté dans Wikipedia : « La plupart de ses ouvrages, d’accès parfois difficile en raison d’un style très prolifique, sont unanimement salués par la critique : il a ainsi été sélectionné comme l’un des “Cent écrivains du XXe siècle” dans un numéro spécial hors-série de Libération paru à l’occasion des célébrations de l’an 2000. »
Ainsi, quand « MBK » se laisse aller à son goût pour l’écriture d’essais pseudo-philosophiques, après le relatif succès auprès du public journalistique parisien de ses romans délirants, c’est tout naturellement vers Alain Badiou qu’il se tourne afin de bénéficier de son prestige critique et universitaire. Celui-ci lui rédige une préface tout à son honneur pour son livre Événement et Répétition publié chez Tristram en 2004 et dont le titre n’est pas sans rappeler l’ouvrage-somme du même Badiou, L’Être et l’Événement (99) : «  Mehdi Belhaj Kacem, je ne vois pas d’autre image pour éclairer sa façon si singulière d’entrer par effraction dans la pensée, que d’évoquer l’abordage. Par sa pratique de l’abordage textuel simultanément sauvage et rigoureux, il est pirate de tout ordre spéculatif académiquement formulable. Il est la forme “anti” de cet ordre. Par sa discipline conceptuelle intime, il sert la philosophie, mieux que personne peut-être » (100) Le procédé est connu et rebattu : MBK est présenté comme le nouveau philosophe subversif du XXIe siècle – après Badiou bien sûr -, qui, à ses risques et périls, tel un « pirate », entreprend le sabordage systématique de la pensée conformiste et académique. Qu’en est-il en réalité ? Le lecteur se doute bien que nous n’allons pas nous lancer ici dans l’analyse précise et détaillée de l’oeuvre de MBK, ce qui est tout à fait inutile puisqu’une seule lecture suffit pour se faire une idée du personnage et de sa prétendue entreprise d’« abordage textuel », saluée par Technikart (101). Voici un extrait de son pseudo-essai L’Affect : « L’angoisse, impossible de la représentation désir et angoisse : quel objet ? Angoisse et désir, peur et jouissance la parade deleuzienne du désir la consistance du désir la loi de la jouissance du désir comme excès le manque : vide ou virtuel ? La jouissance supposée de l’événement l’animal les couleuvres de wittgenstein heidegger dans la batcave heidegger et les bêtes la vérité si tu trouves la mort apagogique la présence absolue. » (102) Tout MBK est dans cette logorrhée, ainsi décrite par Pierre Jourde à propos de son premier roman, Cancer : « Écrire, pour Mehdi Belhaj Kacem, c’est s’employer à faire signe qu’on est un grand écrivain, audacieux, moderne (c’est-à-dire tout ce que l’écrivain populaire ne fait pas) : absence de ponctuation, auto-commentaire permanent, scatologie omniprésente (le grand écrivain est celui qui transcende les fonctions basses dans un lyrisme échevelé). Tout a une fonction très précise dans cette fabrication. Le sexe, le vomi, le caca, c’est pour montrer qu’on ne triche pas, qu’on baigne dans le réel (parce qu’on en fait de la poésie). La syntaxe dépourvue de liens et de pauses, c’est pour montrer, de même, qu’on ne s’arrête pas à des vétilles et à des petitesses de réflexion, on ne coupe pas, on est en ligne directe avec l’inspiration, l’inconscient, tout le bazar. Bref, le bon vieux schéma de la littérature à l’épate. » (103) Depuis qu’il a rencontré Alain Badiou, MBK prétend à présent faire de la philosophie, mais le style et la méthode restent les mêmes. MBK remercie d’ailleurs Badiou dans son dernier ouvrage, publié par Badiou lui-même, en lui rendant hommage sur le mode de la révélation :
Le différend qui oppose la scolastique anglo-saxonne et … son Autre est le donc le différend lui-même, à savoir : le statut de la singularité. Celle-ci n’existe tout simplement pas dans la constellation de la philosophie analytique. Elle dresse une cartographie interminable des particularités dans leur « instanciation » (sic) par l’universel ; elle ne pense pas cette nouvelle problématique philosophique qui surgit avec force au vingtième siècle avec Heidegger, se prolonge avec Deleuze, Derrida et Foucault, et se « consacre » avec Badiou.” (104)
Dans l’ouvrage récent d’un autre partisan du même Badiou, La soustraction de l’Être de Rémy Bac (105), on tombe incidemment sur une préface rédigée par son ami personnel « MBK » :
Comme tout événement, même discret, ma rencontre avec Rémy Bac est faite de coïncidences tressées. Tout d’abord, elle eut lieu le jour même où je rencontrais empiriquement Alain Badiou pour la première fois. C’était un an et demi après avoir passé quatre mois, littéralement vingt-quatre heures sur vingt-quatre, à lire L’Être et l’Événement. Rémy collaborait à une revue auto-éditée qui répond au nom prédestiné d’Ironie, concept auquel je consacre la partie initiatique de mon travail actuel sur le nihilisme – qui doit beaucoup à Rémy, mais j’y reviens. (106)
On voit, à travers ces quelques exemples, combien le petit cercle des disciples de Badiou est fermé jusqu’à produire une littérature critique encore plus inconsistante que les oeuvres du maître.
Conclusion
L’« oeuvre » de Badiou n’est qu’une illustration supplémentaire de cette « confusion mentale » qui se donne libre cours dans le post-modernisme philosophique : « La confusion philosophique a ceci de diabolique qu’elle est attirante. La rhétorique philosophique a maints atouts. L’un des principaux est de donner le sentiment d’appartenir à un petit groupe de gens éclairés qui combat bravement les superstitions des masses. Au coeur de la pire confusion, ce sentiment est souvent décuplé. La confusion intellectuelle est généralement arrogante. La volonté de surprendre, d’être original, brillant, voire de choquer, joue un rôle déterminant en philosophie. Mais c’est aussi parfois le désir de se couler dans la pensée ambiante, tout en se présentant comme subversif, qui encourage à adopter certaines thèses. […] Le plaisir pris à se gausser de ceux qui ne sont pas parvenus à s’élever à un niveau de pensée supposé supérieur n’est pas non plus sans encourager des attitudes dans lesquelles le désir de vérité ne joue plus qu’un rôle mineur » (107). Il serait tentant, pour finir, de retourner une icône badioulienne contre Badiou lui-même : « Prenez garde qu’il ne se trouve quelqu’un pour vous réduire en esclavage par le vain leurre de la “philosophie” » (108).
Notes
1 – Mehdi Belhaj Kacem, L’Esprit du nihilisme : une ontologie de l’Histoire, Fayard, Paris, 2009.
2 – Harry G. Frankfurt, De l’art de dire des conneries, 10/18, Paris, 2006.
3 – Site internet : http://membres.lycos.fr/orgapoli.
4 – Une critique de la métaphysique chez Badiou a été ébauchée par Frédéric Nef dans Qu’est-ce que la métaphysique ? mais elle ne s’en prend qu’à des points de détail de sa théorie.
5 – Jean-François Martos, Correspondance avec Guy Debord, Le Fin Mot de l’histoire, Paris, 1998.
6 – « Ses plus de 17 000 exemplaires vendus – inespéré pour un auteur dont les ouvrages plus austères ne dépassent pas les 3 000 – un retirage en urgence par la petite maison d’édition, un nombre de recensions encore jamais atteint… : “On savait que ce livre allait se vendre mais pas à ce point”, confie Sébastien Raimondi, responsable d’édition [des éditions Lignes]. C’est par le bouche-à-oreille au sein d’un lectorat très critique à l’encontre de Nicolas Sarkozy que le livre fut conseillé » (Le Monde, 12 janvier 2008). Le mensuel Livres Hebdo du mois de mai 2009 recensait même 34 000 exemplaires vendus. Parmi les nombreux commentaires disproportionnés qui n’ont pas manqué de revenir sur ce succès éditorial, les analyses de l’hebdomadaire Marianne détiennent la palme : « Qualifié par Arnaud Viviant de “très grand livre”, le chroniqueur de France Inter le compare à La Société du spectacle de Guy Debord paru en 1967, à savoir un examen impitoyable des tendances et des contradictions les plus fondamentales de la société d’alors et annonciateur des événements qui suivirent. »
7 – Badiou est intervenu récemment (jeudi 9 avril 2009) dans l’émission « culturelle » diffusée par France 3 et qui s’appelle « Ce soir ou jamais ». Vous pouvez retrouver la retranscription écrite de cette interview sur quelques sites internet.
8 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ? (Circonstances, 4), Lignes, Paris, 2007.
9 – Introduction au séminaire sur Platon retranscrit par Daniel Fischer et consultable en ligne sur le site suivant : http://www.entretemps.asso. fr/Badiou/08-09.htm. C’est nous qui soulignons.
10 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 52.
11 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., note 18 p. 147. C’est nous qui soulignons.
12 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, Fayard, Paris, 2009, p. 137.
13 – Ibid., note 17 p. 154.
14 – La Contre-révolution bureaucratique, 10/18, Paris, 1973.
15 – On trouve la plupart de ces remerciements dans les notes situées à la fin de Second Manifeste pour la philosophie.
16 – « La métapolitique s’oppose à la philosophie politique qui prétend que, les politiques n’étant pas des pensées, c’est au philosophe qu’il revient de penser “le” politique. » Alain Badiou, Abrégé de métapolitique, Seuil, Paris, 1998.
17 – Badiou cherche en effet à s’imposer comme le successeur de philosophes dits engagés et à en récupérer clairement l’héritage, au prix de contorsions assez considérables. On a pu le voir par exemple avec sa série d’essais intitulée Circonstances qui n’est pas évidemment sans rappeler les Situations de Jean-Paul Sartre.
18 – Voir la note d’intention rédigée par Badiou pour sa pièce, Ahmed philosophe : « [Ahmed apprend la philosophie aux enfants car] armer les enfants de toutes les ressources de la langue et de la pensée, le faire dans la puissance du rire, c’est jouer un bon tour supplémentaire aux puissants et aux installés ». Ahmed philosophe, Actes Sud, Arles, 1995.
19 – Jacques Bouveresse, Le Philosophe chez les autophages, Minuit, Paris, 1984, p. 24.
20 – Ibid., p. 34.
21 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 152-153. C’est nous qui soulignons.
22 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 152-153. C’est nous qui soulignons.
23 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 84-85.
24 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 33. Où l’on voit aussi que le style hégelien revu par Marx n’est pas toujours plagié avec l’élégance et le discernement souhaités…
25 – Ibid., p. 82.
26 – Jacques Bouveresse, op. cit., p. 35.
27 – Longtemps en désaccord, Badiou et Deleuze s’étaient rapprochés à la fin de la vie de ce dernier. Dans son Deleuze : la clameur de l’Être, Badiou se flatte même d’avoir entamé une correspondance avec lui.
28 – Qui sont les vivants ?
29 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 7.
30 – « Il est étrange de voir appeler aujourd’hui “pensée 68” un ensemble d’auteurs qui ont vu leur vogue s’accroître après l’échec de Mai 68 et des autres mouvements de la période, et qui n’ont joué aucun rôle dans la plus vague préparation “sociologique” du mouvement, à la fois parce que leurs idées étaient totalement inconnues des participants et parce qu’elles étaient diamétralement opposées à leurs aspirations implicites et explicites […]. Le contresens de Ferry et Renaut est total : la “pensée 68” est la pensée anti-68, la pensée qui a construit son succès de masse sur les ruines du mouvement de 68 et en fonction de son échec. » Cornelius Castoriadis cité par Kristin Ross, Mai 68 et ses vies ultérieures, Complexe, Paris, 2005, p. 202.
31 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 132.
32 – ibid., p. 133.
33 – À cet égard, les antidotes les plus redoutables aux ouvrages de Badiou seraient sans doute L’Art d’avoir toujours raison de Schopenhauer et De l’art de dire des conneries de H. G. Frankfurt.
33 – La séquence intitulée « W comme Wittgenstein » de L’Abécédaire de Gilles Deleuze (1996) est on ne peut plus explicite à ce sujet : « Non, je ne veux pas parler de ça. Pour moi, c’est une catastrophe philosophique, c’est le type mème d’une école, c’est une réduction de toute la philosophie, une régression massive de la philosophie. C’est très triste […]. Ils ont foutu un système de terreur (rires), où sous prétexte de faire quelque chose de nouveau, c’est la pauvreté instaurée en grandeur. Il n’y a pas de mot pour décrire ce danger-là. C’est un danger qui revient, ce n’est pas la première fois […]. C’est grave, surtout qu’ils sont méchants, les wittgensteiniens. Et puis ils cassent tout. S’ils l’emportent, alors là il y aura un assassinat de la philosophie. C’est des assassins de la philosophie. Il faut une grande vigilance… (rires) »
34 – Alain Badiou, Petit Panthéon portatif, La Fabrique, Paris, 2002, p. 118-119.
35 – « Dans ce Deleuze de janvier 1997 […] – ouvrage à propos duquel certains médisants ont pu parler de “détournement de cadavres” – A. Badiou “clamait”, à propos de son “Être” public à lui, dans une description comparée de leurs parcours respectifs, qu’il méritait bien une reconnaissance de même ordre que celle accordée par le public à G. Deleuze : “Qu’il ne soit pas absurde de nous comparer deviendra peu à peu une conviction publique. En 1992, François Wahl organisera à partir du doublet Badiou/Deleuze la préface qu’il a bien voulu écrire à mon recueil Conditions” (p. 11, souligné par nous). […] D’ailleurs Badiou ajoutait que Deleuze et lui constituaient “une sorte de tandem paradoxal” (ibid. p. 12). Il en donnait pour “juste preuve” comme aurait dit le président Mao, le fait que Deleuze avait écrit une note sur lui : “À l’époque, il achevait une collaboration écrite avec Félix Guattari, le Qu’est-ce que la philosophie ? (1991), qui devait connaître un immense et légitime succès. Il y a dans ce livre la note sur moi dont Deleuze, après mon article sur Le Pli, annonçait la venue” (ibid., p. 13). Après consultation du livre de Deleuze et Guattari en question, précisons qu’il s’y trouve de fait une assez longue “note sur lui” (p. 143 et 144), une présentation succinte de ce qu’écrivait Badiou dans L’Être et l’Événement et dans Manifeste pour la philosophie. Seuls d’insupportables esprits frondeurs et autres abominables fouteurs de merde rétorqueront que ce n’est pas parce que Deleuze et Guattari se sont penchés une fois sur le mirobolant Badiou que celui-ci en sort grandi. Ils observeront que Pasteur s’est penché toute sa vie sur des moisissures et des bactéries sans que cela les ait fait grandir d’un micron. » Jean-François Raguet, De la pourriture, L’Insomniaque, Paris, 2000, p. 48-49. Ajoutons que Raguet fait encore trop d’honneur à Deleuze et Guattari en les comparant à un savant comme Pasteur.
36 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 10-11. Cette manie de se comparer systématiquement aux plus grands auteurs (ici, Dostoïevski) montre la modestie de Badiou et son allégeance sans faille à la vérité.
37 – Conférence sous forme de brochure aux éditions du Rouge-Gorge, 2002.
38 – Libération du 27 janvier 2009, interview de Badiou, alors « invité spécial » du journal.
39 – Se reporter à la note 7 du présent article.
40 – Il y a indéniablement une faute de syntaxe ici : on attendrait « dans lesquelles » au lieu de « dans lequel ».
41 – Brossat parle du livre De quoi Sarkozy est-il le nom ?
42 – Alain Brossat, « Badiou is not bad for you », article se trouvant sur le site internet des éditions Lignes à l’adresse suivante : http://blog.edi-tions-lignes.com/20….
43 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 132
44 – André Lalande, Vocabulaire de la philosophie, PUF « Quadrige », 1991, p. 446. C’est nous qui soulignons.
45 – Emmanuel Kant, Critique de la raison pure, section « Des idées transcendantales », PUF, Paris, 1997, p. 270.
46 – C’est nous qui soulignons.
47 – Maurizio Ferraris, Goodbye Kant, L’éclat, 2009, p. 133. Traduction et notes de Jean-Pierre Cometti.
48 – « L’ennemi de la démocratie n’a été le despotisme du parti unique (le mal nommé “totalitarisme”)… » Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 123.
49 – L’un des petits plaisirs de Badiou, en parfait lacanien, est de jouer avec le vocabulaire pour donner l’impression qu’il est incroyablement fin et profond : « De façon générale, je préfère la lutte pour une nouvelle appropriation des noms à la pure et simple création de nouveaux noms, bien que cette dernière soit souvent requise. C’est pourquoi aussi je conserve sans hésiter, en dépit des sombres expérL-nces du siècle dernier, le beau mot de “communisme”. » (ibid. p. 123) Dans ce cas, pourquoi crée-t-il sans cesse de nouveaux mots dans ses ouvrages hautement philosophiques (Abrégé de métapoétique, Petit Manuel d’inesthétique, etc.) ?
50 – Alain Badiou, Abrégé de métapolitique, op. cit., p. 68.
51 – Ibid.
52 – En cela, il reprend exactement la tendance bolchévique déjà dénoncée par les marxistes critiques dans La Contre-révolution bureaucratique : « La seule réalisation idéologique du bolchévisme a été de relier sa propre théorie politique, dans son ensemble, au matérialisme philosophique. Protagoniste radical de la révolution bourgeoise, il retombe sur l’idéologie radicale de la révolution bourgeoise, dont il fait le dogme de sa propre conception de la société humaine. Cet attachement au matérialisme philosophique s’accompagne d’un glissement en arrière continu vers un idéalisme qui veut que la pratique politique émane en dernier lieu de l’action des chefs (la trahison du réformisme, l’idolâtrie de Lénine et de Staline). » « Thèses sur le bolchévisme », La Contre-révolution bureaucratique, 10/18, Paris, 1973, p. 32.
53 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 133.
54 – Ibid., p. 129-130.
55 – Alors que Babeuf a pu être considéré par Marx et Engels comme un précurseur du communisme, et sa Conjuration des Égaux comme « le premier parti communiste », on ne peut pas dire qu’ils aient véritablement apprécié Robespierre. Comme le relève Jacques d’Hondt dans un article intitulé « Marx et la Terreur » « [Marx et Engels] s’intéressent à ceux qui, dans la Révolution, envisageaient déjà plus ou moins confusément un au-delà de cette révolution. Les hommes à qui va leur affection ne sont pas, quelque rôle historique irremplaçable qu’ils aient tenu, les royalistes, les constitutionnels, les thermidoriens […] même pas Robespierre, Saint-Just,Carnot ! Leur attention sympathique va aux fondateurs du Cercle social, à l’abbé Fauchet, […] à Anarchasis Cloots, l’orateur du genre humain, et surtout à Babeuf […]. Mais Fauchet, Cloots et Babeuf, avec leurs amis, ont tous été guillotinés, soit par Robespierre, soit par Carnot. Babeuf s’était montré, à l’époque même de la Grande Terreur, l’adversaire le plus véhément et le plus intrépide de cette terreur, et notamment dans ses publications au titre accusateur : Du système de la dépopulation, ou la vie et les crimes de Carrier… » Le Pouvoir, ouvrage collectif, Vrin, Paris, 1994. Rappelons cependant, afin de rétablir complètement les faits, que Babeuf, après avoir critiqué violemment Robespierre – le qualifiant notamment d’« Attila » et d’« exterminateur » – se montre plus nuancé après sa mort en 1794 en distinguant « deux Robespierre » : le tyran et le démocrate. Certains des conjurés, comme A. Darthé, étaient d’ailleurs d’anciens robespierristes. Babeuf fut arrêté par la police le 16 mai 1796, sur les ordres de Carnot, et guillotiné un an après suite au procès dit de Vendôme.
56 – Il a fait la méme chose pour Mao, avec la complicité de Badiou. Mao : de la pratique et de la contradiction, La Fabrique, Paris, 2008. Sur 2iiek, voir dans ce même numéro l’article d’Adam Kirsch.
57 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 36.
58 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 130.
59 – Karl Marx, L’Idéologie allemande, oeuvres t.III, Philosophie, Gallimard, Paris, p. 1067.
60 – Karl Marx, manuscrit de L’Idéologie allemande, consultable sur le site internet suivant : http://www.marxists. org/francais/marx/works/1845/00/ kmfe18450000a.htm.
61 – Elle n’est pas sans rappeler la vision maoïste du « Grand bond en avant » (1958) telle qu’elle est décrite par Simon Leys : « Pour catapulter la Chine vers le communisme, Mao voulait remplacer le facteur matériel par le facteur spirituel. […] C’est l’une des idiosyncrasies les plus remarquables de Mao [que d’adopter] une approche idéaliste et volontariste des problèmes. […] [C’est] la démarche d’un artiste ou d’un poète pour qui la réalité doit s’inventer et épouser les impératifs d’une vision purement subjective et intérieure. » Simon Leys, Les Habits neufs du président Mao [1971], in : Écrits sur la Chine, Robert Laffont, Paris, 1998. Le mao-idéalisme de Badiou, ne serait-il pas une variante de la vision intérieure du Grand Timonier ?
62 – Cette expression se trouve dans la « Lettre d’Alain Badiou à Slavoj 2i2ek concernant l’oeuvre de Mao Tsé-Toung », Mao : de la pratique et de la contradiction, La Fabrique, Paris, 2008, p. 285.
63 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 34.
64 – Libération, 27 janvier 2009.
65 – Karl Korsch, « L’idéologie marxiste en Russie », La Contre-révolution bureaucratique, op. cit., p. 251-254.
66 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit, p. 37.
67 – Libération, 27 janvier 2009.
68 – http://www.nonfiction.fdarticle-888- entretien_avec_alain_badiou 3 lasubjectivite_du_sarkozysme.htm
69 – Conférence donnée par Badiou en 2002 et que l’on peut trouver sous la forme de brochure aux éditions du Rouge-Gorge. Badiou signale d’ailleurs en note que ces conférences du Rouge-Gorge ont été créées et dirigées par lui-même, avec la complicité de Natacha Michel, « grande romancière » (sic), du moins pour ce qui concerne la période allant de 2001 à 2005. Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit, note 16 p. 146.
70 – « Lettre d’Alain Badiou à Slavoj Ziziek concernant l’oeuvre de Mao TséToung », Mao : de la pratique et de la contradiction, op. cit, p. 291.
71 – Kristin Ross, op. cit., p. 101.
72 – On pourra se reporter, pour plus de précisions, à un article du n°11 de l’Internationale situationniste intitulé « Le point d’explosion de l’idéologie en Chine ».
73 – Philosophie magazine du 29 mai 2008, interview d’Alain Badiou par Nicolas Truong.
74 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 145-146.
75 – « Lettre d’Alain Badiou à Slavoj Zizek concernant l’oeuvre de Mao TséToung », op. cit., p. 290-291.
76 – C’est d’ailleurs le sens même du terme de « Révolution culturelle » puisque « quanli douzheng » signifie précisément « lutte pour s’emparer du pouvoir ». Définition mentionnée par Simon Leys, op. cit., p. 14.
77 – Simon Leys, « Post-scriptum de 1976 : le maoïsme momifié », op. cit., p. 190.
78 – « Bush lui-même, connu pour ne rien lire, a lu avidement, dit-il, une biographie de Mao, et y a appris, à sa grande et pathétique stupeur, que Mao avait personnellement tué soixante-dix millions de personnes, ce qui en fait indubitablement le plus grand serial killer de l’histoire… ». « Lettre d’Alain Badiou à Slavoj 2iiek concernant l’oeuvre de Mao TséToung », op. cit., p. 286.
79 – Ibid. , p. 291.
80 – Simon Leys, op. cit., p. 13-14.
81 – Alain Badiou, Abrégé de métapolitique, op. cit., p. 68-69.
82 – On trouve ces inepties dans la présentation destinée à la presse du livre Mao : De la pratique et de la contradiction ainsi que sur la quatrième de couverture.
83 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 122.
84 -Ibid., p. 120.
85 – Platon, La République, Livre VIII, Garnier-Flammarion, Paris, 1966, 558b-559b, p. 318.
86 – Dans son Second Manifeste pour la philosophie, Badiou va même jusqu’à affirmer que, « en ce qui concerne l’aristocratie dirigeante », la solution proposée par Platon est « de type communiste ». Cette incongruité n’étant pas davantage expliquée, elle ne peut apparaître que comme un contresens, car la société idéale décrite dans La République est une société divisée en classes strictement séparées, or Badiou est contre la séparation. Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 138-139.
87 – Platon, La République, op. cit., p. 321. C’est nous qui soulignons.
88 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 121.
89 – Ibid., p. 34.
90 – George Orwell, Essais, articles, lettres, Ivrea / Encyclopédie des Nuisances, Paris, 1995, Volume 1, p. 478.
91 – Kant, Critique de la raison pure, op. cit., Introduction, paragraphe VII, p. 46.
92 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 103-104.
93 – Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, op. cit., p. 50-51.
94 – Ibid., p. 64.
95 – Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit., p. 104.
96 – C’est nous qui soulignons. Interview accordée par Badiou sur la « webtv » du Nouvel Observateur et consultable à l’adresse : http:// videos.nouvelobs.com/video/iLyROoafYcvV.html.
97 – Lexique des termes littéraires, sous la direction de Michel Jarrety, Le Livre de poche, Paris, 2001.
98 – Arthur Schopenhauer, « Sur le jugement, la critique, les acclamations et la gloire », Parerga et Paralipomena, 2ème partie, Coda, Paris, 2005, p. 781.
99 – Concept que Badiou reprend lui-même à l’un de ses « maîtres », à savoir Heidegger, puisque, comme on le sait, l’« Événement » (écrit « É-vénement ») est, chez lui, une notion-clé : « Une ambiguïté fondamentale, qui correspond à la question fondamentale [« que nous est-il donné ? »] traverse donc la pensée de Heidegger à tous ses niveaux. On ne peut dire ce qu’est le “quoi” qui nous est donné parce que le donné n’est pas un “quoi”. C’est pourquoi, de cet “autre commencement”, de cette alternative à la philosophie métaphysique à laquelle il espère nous préparer, Heidegger dit : “la question n’est plus de discuter “à propos” de quelque chose et d’en tirer quelque chose d’objectif, mais d’être porté à l’É-vénement.” D’après Heidegger, le terme “É-vénement” (Ereignis) est “depuis 1936 le terme phare de [s]a pensée.” Stanley Rosen, La Question de l’être : Heidegger renversé, Vrin, Paris, 2008.
100 – Alain Badiou, extrait de la préface à Événement et Répétition, Tristram, Auch, 2004.
101 – « Événement et répétition et L’Affect [Tristram, 2004] reformulent les motifs existentiels de la génération post-68, innervée par les moeurs porno, la mécanique hypermarchande et l’attitude hip-hop mais désertée par le politique. Il y est question de névrose amoureuse, d’ennui occidental et du 11 septembre 2001. Avec une hauteur de vue inouïe pour un jeune homme de 31 ans, Mehdi Belhaj Kacem crée des concepts en croisant Deleuze et Lacan, en réfutant Heidegger et Wittgenstein ou en reprenant Bergson et Marx. » Philippe Nassif, Technikart.
102 – http://www.lekti-ecriture.com/ editeurs/L-affect.html
103 – Pierre Jourde, La Littérature sans estomac, L’Esprit des Péninsules, Paris, 2002, p. 15.
104 – Mehdi Belhaj Kacem, L’Esprit du nihilisme : une ontologie de l’Histoire, op. cit., p. 580.
105 – Rémy Bac, La Soustraction de l’être (La question ontologique de la vérité de Heidegger à Badiou), Le Grand Souffle, Paris, 2008.
106 – Ibid., p. 9.
107 – Roger Pouivet, Philosophie contemporaine, PUF, Paris, 2008, p. 247.
108 – Saint Paul, Épître aux Colossiens (2,8), cité par Roger Pouivet, op. cit., p. 249.

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