I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protette dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione…–James Graham Ballard
1. Il paradiso dei palazzinari
Il vento solleva i sacchetti di plastica, trascina le carte sparse sui marciapiedi invasi dalle sterpaglie e spazza l’erba non curata dello spiazzo verde in cui mi trovo. Intorno c’è la campagna romana – o quello che ne rimane – puntellata da condomini a schiera di sei piani, ben distanziati e quasi tutti uguali l’uno all’altro. Dietro di me, il cartellone dell’ultimo spettacolo di Enrico Brignano – Evolushow – sovrasta i cassonetti. È uno dei pochi volti che incontro per strada.
È un venerdì pomeriggio di fine novembre. I parcheggi sono semivuoti, le automobili serpeggiano tra i viali in mezzo al tripudio di rotatorie; il sole cerca di bucare le nuvole per insinuarsi tra le gru e gli scheletri dei palazzoni in costruzione – l’ennesima colata di cemento pronta a mangiarsi l’agro, fare la fortuna dei costruttori e ospitare “giovani coppie in cerca di spazi e aria a una certa distanza dallo smog”.
Da Nuova Ponte di Nona – estrema periferia est di Roma, qualche chilometro oltre il Grande raccordo anulare – la capitale non potrebbe essere più lontana. Quello che è conosciuto come il “nuovo quartiere di Caltagirone” è stato costruito da zero nel 2002 (in parte grazie a un accordo stipulato negli anni novanta tra la giunta di centrosinistra e i costruttori) e ora ospita all’incirca ventimila abitanti – perlopiù piccola e media borghesia.
Nelle intenzioni originarie del piano regolatore, approvato nel 2008 dalla giunta Veltroni, Ponte di Nona doveva essere una delle 18 “centralità” della Roma del futuro: una città policentrica in grado di assottigliare, se non ricucire del tutto, lo spaventoso divario tra il centro e la periferia. Il piano si è rivelato un sonoro fallimento, anche perché – come fa notare Francesco Erbani in Il tramonto della città pubblica – la scelta delle aree dove costruire le centralità (16 milioni di metri cubi di costruzioni) ha coinciso perfettamente con le grandi proprietà immobiliari di alcune famiglie di costruttori, e non con le reali esigenze della città.
Come in altre centralità – basti pensare a Porta di Roma – a Ponte di Nona sono state costruite abitazioni senza uffici, servizi e, soprattutto, senza un adeguato sistema di mobilità. Nonostante il quartiere sia servito da due linee di autobus (tralasciando i tempi di percorrenza), l’unico modo per arrivarci è prendere l’automobile e incolonnarsi sulla via Collatina, un’arteria stradale abbastanza pericolosa e cronicamente congestionata, oppure passare per l’altrettanto imballata autostrada A24 Roma-L’Aquila. Il treno si ferma alla stazione Lunghezza, a due chilometri di distanza. La “futura metro C” è solo negli annunci immobiliari.
Per rendersi conto di come nel quartiere non ci sia davvero nulla di “centrale” basta fare un giro per viale Francesco Caltagirone – questo il nome della via principale del quartiere: una schiera di condomìni fatti con lo stampo, una marea di annunci di vendita, molti uffici di agenzie immobiliari, qualche bar, qualche edicola, qualche pizzeria al taglio, una farmacia, nessuna piazza. Poco distante c’è l’Istituto Raffaele Ciriello (che comprende scuola materna, elementare e media), su cui sventolano brandelli di bandiere e che attualmente è chiuso “a tempo indeterminato” per “gravi motivi igienico-sanitari” – l’“assedio” di topi resistenti anche agli interventi di derattizzazione.
Nell’assenza di reali poli di aggregazione, il vero nucleo pulsante di Ponte di Nona è il centro commerciale Roma Est, una cattedrale di centomila metri quadrati inaugurata nel 2007 che scandisce il ritmo di un insediamento urbano che non è né città né campagna né paese.
All’ingresso del terzo piano, un gruppo di ragazzini è assiepato intorno a una specie di palco e aspetta impazientemente i rapper Gemitaiz e Madman, che dovrebbero arrivare nel centro per “incontrare i fan e firmare le copie del loro ultimo album Kepler-gold edition”. Per tutto il centro, già pieno di decorazioni natalizie, la comunità si ritrova in questi spazi “urbani” (e privati) più per passaggiare e passare il tempo che per comprare qualcosa negli oltre 200 negozi. La dimensione sociale del centro è sottolineata anche dall’“area allattamento” posta vicino alle scale – un séparé in similcartongesso a forma di cicogna che ospita al suo interno due sedie di plastica nera.
Quando esco, accecato dalle luci che i neon sparano in tutto il centro, il parcheggio sul tetto è semivuoto. Un signore con in mano dei sacchetti e le chiavi di una Volvo si guarda intorno. “Sai se c’è un altro parcheggio scoperto?”, mi chiede. “No, non credo”, rispondo. “E allora me sa che m’hanno fatto la macchina”, dice sconsolato. Non sapendo che dire, lo invito a guardare meglio. L’uomo mi ringrazia e continua ad aggirarsi tra le auto, spaesato e perplesso. All’orizzonte le nuvole si sono un po’ diradate, e le montagne si stagliano sui palazzi di Caltagirone.
La sensazione di smarrimento di fronte a questo brandello di città si può trovare anche nel libro Vite periferiche (2012) dell’urbanista Enzo Scandurra. Nel breve capitolo dedicato a Ponte di Nona, l’autore lo descrive come “una metafora della contemporaneità”, “la più grande beffa dei sogni degli urbanisti” e “un presepe moderno attorno alla mangiatoia del centro commerciale, il Regno a venire uscito dai libri di Ballard”. E similmente a quanto succede nei sobborghi londinesi descritti dal grande autore britannico, anche Ponte di Nona – dietro la sua apparente tranquillità di Paradiso dei Palazzinari per la classe media – è una zona che si sente minacciata dall’esterno e che di conseguenza è solcata da profonde tensioni.
Facendo un rapido giro sulla cronaca locale, infatti, i titoli parlano di furti in pieno giorno nelle abitazioni, “saccheggi notturni” di auto, inseguimenti di ladri con tanto di sparatorie e tentate rapine. Oltre alla microcriminalità, nell’ultimo anno, anno e mezzo la pace sociale del quartiere è stata incrinata anche dalle occupazioni dei palazzi invenduti di Caltagirone.
Il 6 aprile del 2013 Action – un movimento per il diritto alla casa – occupa un palazzo vuoto in via Cerruti. Al suo interno si stabiliscono 53 nuclei familiari fino al dicembre dello stesso anno, quando la polizia sgombera lo stabile. Mentre gli attivisti parlano di “favore a Caltagirone” e sostengono che l’occupazione era diventata “un punto di riferimento importante per il quartiere”, il comitato cittadino parla di “vittoria della legalità”: “Neghiamo nella maniera più assoluta che l’occupazione stava diventando una vicenda preziosa per tutto il quartiere. Al contrario, era fonte di tensione e comune causa di danni economici”.
L’11 aprile del 2014, in un ex hotel a tre stelle in via Grappelli viene aperto un centro d’accoglienza per richiedenti asilo. In un primo momento, i cittadini pensano di trovarsi di fronte a una nuova occupazione e sono pronti a protestare. A stemperare le tensioni ci pensa però Bruno Foresti, presidente del comitato di quartiere di Nuova Ponte di Nona: “La struttura è pulita, e i ragazzi, tutti africani, sono sistemati comodamente nelle loro stanze”.
Se i rifugiati sono stati accettati dal quartiere, la vicinanza con il campo rom di via di Salone è molto più problematica. I cittadini denunciano a più riprese i roghi tossici appiccati all’interno dell’insediamento, e fanno notare come la convivenza con gli “zingari” sia pressoché impossibile. In un articolo sul Tempo – quotidiano in prima linea nel denunciare, spesso e volentieri in maniera strumentale, il degrado dei quartieri di Roma – è anche riportata la testimonianza di un residente costretto a cambiare casa perché i “rom spavaldi e impuniti” avrebbero imposto la loro legge su Ponte di Nona.
Per cercare di ovviare al problema di sicurezza, alcuni residenti fondano il Coordinamento azioni operative Ponte di Nona (Caop) e cominciano a fare delle “ronde” per le strade del quartiere. L’associazione è capeggiata da Franco Pirina, un pensionato dal profilo politico e ideologico piuttosto preciso. Pirina si è pubblicamente detto “orgoglioso di essere di Idee di Destra”, e ha esplicitato queste “idee” nel suo profilo Facebook, dove condivide post dalla pagina “I Giovani Fascisti Italiani”, spera che una “tromba d’aria” si abbatta “sul Campo delinquenziale di via di Salone” e afferma di voler eliminare personalmente questa “gentaglia” (i rom) non “con una SOLUZIONE FINALE ma con dieci di esse”.
Il 10 maggio del 2014 il Caop prova a fare il grande salto organizzando nel quartiere una manifestazione per chiedere lo “smantellamento del campo rom”. Il corteo – come riporta il sito La Fiera dell’Est – si rivela un autentico flop: partecipano solo cento persone, “provenienti perlopiù dalle zone limitrofe”. Tra i manifestanti, inoltre, si segnalano Fabrizio Santori di La Destra, l’eurodeputato di Forza Italia Antonio Tajani e una delegazione di CasaPound guidata dal vicepresidente dei fascisti del terzo millennio Simone Di Stefano. Il comitato di quartiere Nuova Ponte di Nona si dissocia dalla mobilitazione e decide di non partecipare “per mantenere il suo status apolitico”.
Ponte di Nona racchiude in sé una serie di elementi comuni ad altre zone di Roma in cui è divampata la protesta: la speculazione edilizia che prende il sopravvento sul pubblico, l’assenza di servizi, la disastrosa gestione dei campi rom, le criticità del sistema d’accoglienza, le campagne di disinformazione montate ad arte; e infine le strumentalizzazioni politiche, compresa la massiccia infiltrazione nelle proteste da parte della destra più o meno estrema.
Ma Ponte di Nona è anche, e soprattutto, la plastica rappresentazione di uno sviluppo urbano come quello della capitale completamente sfuggito di mano, che schizza incontrollato in tutte le direttrici e crea una parte di città che in realtà – come ha detto Giovanni Caudo prima di diventare assessore all’urbanistica – è un “territorio urbanizzato a bassa densità”, sempre più polverizzato in “isole, frammenti, appendici, propaggini” e che, proprio per questa conformazione, è ingovernabile.
Nel “deposito di polveri da sparo” che sono le odierne periferie romane è bastato gettare qualche cerino per far saltare tutto.
2. La “rivolta” di Roma est
Sono alla fine di via Cavour, all’incrocio con i Fori imperiali, e guardo divertito i turisti che osservano la scena e scattano foto a tutto spiano – l’ennesima, indimenticabile cartolina dalla città eterna. È il 12 luglio 2014 e qualche centinaio di persone, disposte ordinatamente in blocchi separati e distinti, sventola bandiere tricolori e intona slogan contro il sindaco Ignazio Marino, i campi rom e i centri d’accoglienza.
Il corteo è partito verso le dieci di mattina da piazza dell’Esquilino, dove alcune decine di manifestanti si sono radunate per chiedere “un’azione decisa contro gli insediamenti abusivi che stanno avvelenando la vita in tanti quartieri della capitale”. La manifestazione è promossa da CasaPound, e partecipano diversi comitati tra cui il Caop di Pirina, e alcuni residenti di Tor Sapienza. A reggere gli striscioni ci sono il vicepresidente del comitato Tor Sapienza, Roberto Torre, e il presidente, Tommaso Ippoliti, ex consigliere di Alleanza nazionale al VII municipio considerato “riconducibile” all’occupazione di destra “Foro 753”, e una nutrita delegazione di Settecamini.
Proprio a Settecamini, quartiere periferico nel quadrante est di Roma, nell’aprile del 2014 è cominciata quella che è stata definita “la ribellione delle periferie”. Alla notizia dell’apertura di un centro d’accoglienza in largo Davanzati, i residenti erano scesi in piazza per protestare. I mezzi d’informazione, come succederà più volte nei mesi successivi, presentano la “rivolta” di Settecamini come qualcosa di “spontaneo” e dettato dall’“esasperazione” di cittadini stremati. Ma un volantino di chiamata alle armi, circolato in quei giorni, la dice lunga sull’ideologia di riferimento:
Il cittadino italiano è super tassato, esasperato, indifeso, senza speranza e abbandonato dallo stato! L’Italia è in piena crisi economica e conta circa 2.000.000 di disoccupati. QUESTO NON È RAZZISMO MA ORA PIÙ CHE MAI L’ITALIANO HA BISOGNO DI AIUTI DALLO STATO – tanti di noi italiani hanno bisogno di una casa – tanti di noi italiani abbiamo bisogno di sovvenzioni sanitarie – tanti di noi italiani hanno bisogno di agevolazioni scolastiche per i propri bambini – un clandestino a noi italiani costa circa 45 euro al giorno, soldi che non abbiamo neanche per noi!
I residenti assicurano più volte che dietro le loro proteste non c’è un movimento politico. Hanno ragione: di movimenti ce ne sono almeno due – Lega nord e CasaPound. Una volta bloccata l’apertura del centro, Mauro Antonini di CasaPound rilascia questa dichiarazione: “La mobilitazione popolare contro l’apertura di un centro d’accoglienza per profughi e rifugiati politici a Settecamini è stato un successo, non solo perché i residenti del quartiere hanno aderito in massa alla protesta, sostenuta da CasaPound Italia, ma soprattutto perché ha permesso la sospensione del progetto di apertura del centro”.
Mario Borghezio, mentre la campagna elettorale per le europee entrava nel vivo, aveva inaugurato il suo tour nelle periferie romane a Settecamini, insieme alle “facce pulite” di CasaPound che gli hanno permesso di prendere più di cinquemila preferenze in terra ostile e approdare trionfalmente all’europarlamento.“Le istituzioni devono capire che questa è una scelta scellerata”, aveva detto il leghista. “La tensione sociale è già alta e se ci sarà una rivolta popolare io sarò in prima linea al fianco di questi ragazzi“.
Sempre a maggio, il solito Tempo pubblica un articolo intitolato “La lista segreta dei centri per rifugiati. Marea di immigrati in arrivo a Roma”, in cui si parla di “assedio alle porte” e “invasione di rifugiati”. Le cifre riportate nel pezzo parlano di “2.630 persone in arrivo […] distribuite tra 48 centri gestiti dalle ‘solite’ coop” (nel quadrante est della capitale ce ne sono almeno 15).
Nel mirino del quotidiano romano – e di molte proteste in periferia – ci sono appunto i centri Sprar, acronomimo per Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Nel sito ufficiale si può trovare la definizione del programma: “(Sprar) è costituito dalla rete degli enti locali che – per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata – accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo”.
Dalla cosiddetta emergenza Nordafrica del 2011 a oggi, tuttavia, questi centri hanno cambiato volto in maniera significativa: da “eccellenza nel panorama dei sistemi di accoglienza” sono progressivamente diventati “megaghetti” dove i migranti rimangono “parcheggiati per mesi o anni senza alcuna prospettiva reale di inserimento nel nuovo contesto sociale”. Recentemente, inoltre, è emerso come il business dell’accoglienza fosse uno degli interessi principali della “mafia capitale” di Massimo Carminati e in particolare di Salvatore Buzzi, presidente del consorzio di cooperative Eriches 29 nonché (secondo i pm) “organo apicale della mafia capitale”.
Quest’ultimo, in più intercettazioni, aveva spiegato che “il traffico di droga rende di meno” del business dell’accoglienza, e che “tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sugli zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati”. Le carte dell’inchiesta raccontano di appalti pilotati e di capacità di “orientare i flussi” di migranti per favorire un gruppo di cooperative – le “solite coop”, per usare l’espressione del Tempo.
Oltre agli Sprar ci sono anche i Cas, Centri d’accoglienza straordinaria, dove risiede circa il 50 per cento dei richiedenti asilo (secondo i dati dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2013 le richieste di asilo presentate in Italia sono state circa 27mila). A differenza degli Sprar, i Cas sono “strutture di varia natura il cui gestore ha stipulato una convenzione con la prefettura locale” e si impegnano a “erogare un servizio di accoglienza a fronte di un compenso di 30/35 euro quotidiani per ciascun migrante (che alla fine ne vedrà solo 2,5, ndr)”. Il problema, come scrive Giovanna Vaccaro di Borderline Sicilia, è che troppo spesso i Cas sono “fautori di un’accoglienza che si limita a garantire il vitto e l’alloggio” e non offrono un vero percorso d’integrazione.
In più, spiega un operatore, molti centri d’accoglienza “sono troppo isolati geograficamente e socialmente, messi in periferia e senza servizi di alcun tipo, ed è normale che esplodano conflitti”. È dello stesso avviso l’avvocato Salvatore Fachile dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che sottolinea come alla scarsa professionalità di alcuni gestori si aggiungano anche i tempi biblici necessari per vagliare le richieste d’asilo: “Se un numero elevato di persone viene ammucchiato in luoghi privi di servizi, dove non gli viene neanche spiegata qual è la tempistica, dove sono costretti ad attendere tempi lunghissimi in uno stato di sospensione esistenziale, poi è normale che si creino incomprensioni sociali da entrambe le parti”.
In un contesto del genere – contrassegnato dal considerevole aumento degli sbarchi, dalla confusione burocratico-amministrativa, dagli interessi criminali e dalla disinformazione sparsa a piene mani – non sorprende che a volte sia sufficiente una semplice indiscrezione sulla possibile apertura di un centro per scatenare la protesta. È successo a Torre Angela, un altro quartiere di Roma est, quando alla fine di luglio 2014 comincia a circolare la voce dell’arrivo di ben “1.200 rifugiati” in un centro commerciale abbandonato in via Celio Caldo.
Nonostante le smentite di Marco Scipioni, presidente del VI municipio, i cittadini non si fidano e bloccano più volte la Casilina. Durante le proteste non mancano neppure le infiltrazioni degli estremisti. Nel corso di un presidio, infatti, appaiono “due striscioni con una croce uncinata e la sigla A.F., acronimo di Azione Frontale”. Questo gruppuscolo di estrema destra, si legge nel loro sito, “nasce dall’idea di un gruppo di ragazzi, stufi di vivere passivamente il fenomeno di una società ormai priva di valori e sani ideali”. Il loro obiettivo primario è “la lotta ai poteri forti, nello specifico satanismo e massoneria, signoraggio bancario e lotta al sionismo”.
La sigla aveva già fatto parlare di sé in diverse occasioni. Nel novembre del 2013, proprio a Torre Angela, era apparsa una grossa svastica dipinta di rosso accompagnata dalla scritta “Più omicidi stile Raciti” e firmata “Azione Frontale”. Qualche mese dopo, alla vigilia del giorno della memoria, il “presidente” Ernesto Moroni (candidato con Forza Nuova alle regionali del Lazio del 2010) aveva inviato tre pacchi contenenti teste di maiale alla sinagoga, al museo della memoria a Trastevere e all’ambasciata israeliana ai Parioli.
In un’intervista al Messaggero, Moroni aveva spiegato che la sua “provocazione” non intendeva “offendere quei poveracci morti nei campi di concentramento nazisti”, ma piuttosto porre all’attenzione dell’opinione pubblica la sua teoria sulla nascita del nazionalsocialismo: “Il nazismo è stato finanziato da importanti famiglie ebree sioniste, con lo scopo di creare numerosi eventi a catena che poi avrebbero portato all’occupazione tanto ambita di Israele. Diciamo che intendevo porre un interrogativo alla comunità ebraica”.
A Torre Angela, comunque, la presenza di personaggi del genere spacca il fronte dei residenti e alimenta la “paura di uscirne screditati o peggio additati come intolleranti o neofascisti.” Le manifestazioni nel quartiere, tuttavia, cessano quando arriva la definitiva smentita dalla prefettura.
Tornando alla manifestazione del 12 luglio nel centro storico, la presenza di una figura come Borghezio alla testa del corteo non sembra scandalizzare nessuno – anzi. All’altezza dei Fori imperiali, l’eurodeputato leghista improvvisa un comizio in cui sparge con il megafono il suo Verbo: “Questa non è una manifestazione contro qualcuno. È una manifestazione in difesa di Roma. È l’inizio della resistenza dei veri romani al degrado, all’inciviltà, al disordine, alla criminalità, all’invasione”.
Dietro di lui, intanto, un anziano signore si lamenta ad alta voce con i responsabili di CasaPound. “Io so’ de Trastevere”, attacca l’uomo, “ma proprio Borghezio famo parlà? Uno de Bolzano?”. Il climax dell’eurodeputato, tuttavia, non è minimamente interrotto: “I cittadini di Roma questa invasione non la vogliono. Marino e questo governo aprano bene le orecchie: comincia la resistenza dei romani all’invasione. Noi puliremo Roma, col vostro appoggio! Salviamo Roma!”.
Si tratta di parole certamente sorprendenti, soprattutto se pronunciate da quello che è stato tra i più convinti alfieri dell’indipendenza della Padania. Ma i tempi degli insulti contro “Roma ladrona” e i romani che necessitano di “trapianti di cervello” appartengono a un’altra era.
Resta solo una domanda: a chi si riferisce Borghezio quando parla di “noi”?
3. Uno di noi
L’incrocio tra via Casilina e via della Marranella è, come al solito, caotico e trafficato. Sono a Tor Pignattara, “Torpigna” o “Banglatown” per i residenti, lo storico quartiere a “du’ passi dar centro de Roma” che alcuni considerano un esempio di integrazione e multietnicità – su cui spicca l’eccellenza della scuola Pisacane – e altri dipingono come un “laboratorio di fusione a freddo di odio razziale, criminalità, degrado e incuria” se non direttamente una specie di Teheran nel cuore della capitale: “Negozi gestiti da immigrati arabi, scuole coraniche e anche sale del V municipio concesse alla comunità musulmana per insegnare ai bambini il Corano”.
Davanti a me, attaccato a un semaforo, c’è un volantino che ricostruisce la vita di Muhammad Shahzad Khan, il pachistano di 28 anni che la notte del 18 settembre 2014 è stato ammazzato di botte da un ragazzo italiano di 17 anni in via Lodovico Pavoni. “ Shahzad proveniva da una umile famiglia”, recita il testo, “era il figlio maggiore e per aiutare i genitori e la sua famiglia aveva deciso di venire in Italia a lavorare”. E il lavoro Shahzad l’aveva trovato: faceva il cuoco in un ristorante pachistano nella zona di Prati.
Negli ultimi mesi, tuttavia, la perdita di quel posto l’aveva costretto a fare il venditore ambulante per mandare denaro in Pakistan alla moglie e al figlio di tre mesi, che non farà mai in tempo a conoscere. Secondo Ejaz Ahmad, mediatore culturale e direttore di Azad, giornale della comunità pachistana di Roma, Shahzad era conosciuto “benissimo” nel quartiere: “Era un po’ disturbato, questo è vero, ma non dava fastidio a nessuno. Cantava per strada le sure del Corano e in italiano diceva Io sono musulmano, sono pachistano”.
Mentre sto finendo di leggere il volantino, un passante si avvicina al semaforo e dà una letta sommaria. “Era un bravo ragazzo, come no,” dice l’uomo tra sé e sé. “Ma mica hanno scritto che j’ha sputato in faccia”. Il riferimento è a una delle versioni circolate subito dopo la morte di Shahzad, descritto dalla stampa come un “pachistano [sic] insolente” che, in preda al delirio etilico, avrebbe sputato in faccia a Daniel (questo il nome del ragazzo italiano) costringendolo a reagire con un pugno.
Poco distante dal volantino, la comunità pachistana e alcuni comitati di quartiere sono radunati in piazza della Marranella per ricordare la vittima. È il 28 settembre; solo una settimana prima, un corteo improvvisato di residenti e amici di Daniel aveva percorso le strade del quartiere per mostrare solidarietà all’arrestato.
Sugli striscioni erano comparse frasi come: “Non sei solo siamo tutti con te!”; “Ci manchi a tutti”; “Ridateci Daniel”; “Sai amico mio prima la tua assenza era sostenibile, ora non più, ci manchi”; e infine, in quello più significativo, “No razzismo, no diversità, una disgrazia non ti priverà della tua libertà. Forza Daniel”. Come a dire: non si è trattato di un omicidio razziale. È stata una tragedia – una “disgrazia”, appunto. Cose che capitano.
L’indagine e i successivi provvedimenti giudiziari raccontano invece una storia completamente diversa: un’“aggressione a freddo” compiuta con “violenza indicibile”. Secondo l’autopsia Shahzad è stato ucciso con “ripetuti colpi” (e non con un singolo pugno) alla testa che gli hanno provocato un’emorragia interna. E quasi sicuramente non era nemmeno ubriaco. Una testimonianza del centro d’accoglienza in cui il pachistano era ospitato dal 30 agosto riferisce che “Shahzad non è mai rientrato in stato di ubriachezza”.
Il 14 ottobre è arrestato il padre di Daniel, Massimiliano Balducci, con la pesante accusa di concorso morale in omicidio aggravato dai futili motivi. Secondo gli inquirenti e i giudici del tribunale del riesame, che hanno respinto il ricorso che chiedeva la scarcerazione, sarebbe stato Balducci ad aver istigato il figlio. Quella sera, stando alla ricostruzione del pubblico ministero, l’uomo è infastidito dalla “litania” che il pachistano ripete ad alta voce in via Pavoni. Dalla sua abitazione Balducci prova a lanciargli una bottiglia piena d’acqua. Il lancio, però, non va a segno. A quel punto partono gli insulti: “A’ testa di cazzo, vattene”. Vedendo che il figlio è in strada, il padre lo esorta con queste parole: “Daglie du’ pizze, caccialo via sto deficiente, sta testa di cazzo. Sfondalo, gonfialo”. Daniel avrebbe agito di conseguenza, “per non deludere suo padre”.
Nell’ordinanza dei magistrati è evidenziata anche un’altra circostanza. Dopo il pestaggio, il padre scende in via Pavoni e si avvicina al cadavere. Ma, scrive la Repubblica, “invece di preoccuparsi per quanto combinato dall’adolescente” Balducci sfonda a calci il portone del palazzo accanto e tenta di buttare giù la porta dei vicini di casa “che avevano osato gridare dal balcone di smetterla di picchiare quel giovane pachistano”. L’uomo si scaglia contro di loro chiamandoli “spie infami” (avevano allertato la polizia) e ricoprendoli di minacce: “Scennete giù che ve sfonno. Viettela a prende co’ me invece che co’ mi fijo”. Per paura di ritorsioni, i vicini sposteranno i figli dall’asilo e andranno ad abitare in un altro quartiere di Roma.
Già prima dell’assassinio di Shahzad il clima nel quartiere era teso. Una residente con cui parlo al sit-in del 28 settembre mi dice che l’omicidio “è solo la punta dell’iceberg di continui atti di provocazioni” che partono dalle aggressioni verbali e sfociano in quelle fisiche, spesso e volentieri non denunciate.
“Da qualche tempo l’idillio della Tor Pignattara povera ma bella”, scrive Valerio Mattioli su Vice, “tollerante e civile è stato eroso da una generalizzata condizione di degrado. […] Gli ingredienti potete immaginarli: criminalità, sporcizia, cassonetti intasati, lampioni che non funzionano, puzza ovunque, risse, omicidi. È una zona depressa, Tor Pignattara, da tanti punti di vista: quello umorale, quello urbanistico, quello economico. La crisi qui ha portato a galla una serie di tensioni rimaste per anni come sottotraccia”.
Naturalmente c’è anche chi cerca di sfruttare le tensioni per alzare il livello dello scontro e indirizzare la protesta verso temi ben specifici. A metà settembre era apparso per le vie del quartiere un volantino intitolato “I cittadini si ribellano” e firmato da sedicenti “cittadini di Torpignattara”. È una lettera aperta alla “dottoressa Rossella Matarazzo”, la delegata alla sicurezza del comune di Roma, sulla “situazione di totale degrado di questo quartiere”. Il tenore è chiarissimo sin dalle prime righe: “Con l’alibi di un finto buonismo e di una finta integrazione, che non è altro che una occupazione abusiva del quartiere, i cittadini non hanno più una dignitosa vivibilità”. Più avanti il testo recita, in un italiano traballante,
Con le frontiere aperte, gli immigrati che arrivano a Roma, vengono canalizzati in particolari zone, dove gli amministratori permettono una ‘accoglienza’ fuori controllo, diversa dalle zone residenziali. Vista l’attuale situazione mondiale di terrorismo ed epidemie, questo permissivismo assoluto è molto pericoloso. Noi vogliamo il pieno rispetto delle leggi da parte di “tutti”. Vogliamo riprenderci i nostri diritti, nella reciprocità del vivere civile. Riaffermare la Cultura del nostro quartiere: degli artigiani, della famiglia, della piccola proprietà e delle nostre tradizioni civili e religiose.
I responsabili del neonato comitato Cittadini di Torpignattara sono Maurizio Benedetti (presidente), Stefano Selva (portavoce) e Celio Cegalin (vicepresidente). Se il tono della lettera non fosse sufficiente, basta farsi un giro nei profili Facebook dei tre – e nel gruppo aperto – per accorgersi a quale parte politica si ispiri il comitato. Un altro comitato di quartiere che si attesta su posizioni simili è il Filarete. Come ricostruisce Mattioli su Vice, tra gli amministratori dell’omonimo gruppo Facebook figurano il “cittadino per Alemanno” Fabio Fraticelli e “fan dell’organo semiufficiale dell’M5s TzeTze”.
Il contenuto della lettera lo si ritrova nell’assemblea pubblica del 13 settembre convocato presso la parrocchia di san Barnaba. Secondo il resoconto del magazine Il Corviale-Giornale delle periferie, quella riunione
ha messo in luce la manovra politica della destra romana volta a strumentalizzare il malcontento della gente per le condizioni di estremo disagio in cui è costretta a vivere. […] Un gruppo di cittadini – tra cui alcuni commercianti – […] hanno inteso distaccarsi dall’iniziativa del comitato di quartiere di Torpignattara per adottare metodi di lotta ritenuti più efficaci nel portare avanti la vertenza di territorio. In realtà, la riunione è stata condotta, in spregio a qualsiasi norma democratica e di civiltà, per ottenere il consenso su un documento dai chiari contenuti xenofobi.
L’articolo prosegue dicendo che la famigerata lettera
evita accuratamente di dire che il traffico di cocaina, la prostituzione, l’usura, il riciclaggio di denaro sporco, il proliferare delle sale scommesse […] a Tor Pignattara non sono altro che l’esito di azioni di criminalità organizzata italiana di stampo mafioso. E l’occultamento di questa verità serve ad addossare la responsabilità del degrado alla presenza degli immigrati.
Il 15 ottobre 2014 l’ex sindaco Gianni Alemanno – su cui ora pende la pesantissima accusa di associazione mafiosa – decide di fare una capatina nel quartiere e individua subito i veri responsabili dei problemi di Tor Pignattara.
Il 16 ottobre i due comitati citati sopra – insieme ad altri due comitati di quartiere – mettono un banchetto in piazza della Marranella e cominciano a raccogliere le firme per una petizione che, tra le altre cose, chiede “un presidio fisso delle forze dell’ordine” e “un nuovo regolamento comunale per i campi nomadi”.
Il sit-in è contestato da un centinaio di attivisti dei movimenti di sinistra al grido di “via i fascisti da Tor Pignattara” e “gli unici stranieri sono gli sbirri nei quartieri”. Anche l’Assemblea permanente dei cittadini e delle cittadine di Tor Pignattara – sigla sotto la quale confluiscono (tra gli altri) il comitato Certosa e il comitato di quartiere di Tor Pignattara – decide di prendere esplicitamente le distanze da coloro che “vogliono alimentare la guerra tra poveri, individuando nel proprio vicino più debole la causa del loro malessere”.
Dal canto loro, i membri del comitato Cittadini di Torpignattara si professano “apolitici” e mostrano di avere le idee piuttosto chiare sulle accuse di razzismo: “Noi vogliamo un’integrazione vera, non un’invasione”. La presunta apoliticità di questi nuovi comitati di quartiere di Tor Pignattara, tuttavia, è messa in dubbio da quello che è successo il 2 dicembre durante la trasmissione Quinta Colonna, quando una bandiera con la tartaruga di CasaPound è sventolata in diretta tv tra “l’imbarazzo di qualche residente” e le prese di distanza del comitato Filarete.
4. Caccia al nero
Nelle stesse ore in cui a Tor Pignattara andava in scena il corteo di solidarietà con Daniel, un altro fronte dell’odio si apriva a circa 20 chilometri di distanza, a Corcolle – uno degli ultimi lembi orientali del comune di Roma, un tranquillo insediamento urbano sorto (abusivamente) alla fine degli anni sessanta e che dall’alto, tra palazzine e villette, “appare come il dispiegarsi delle ali di un grande rapace”. La zona – come denunciano i residenti – si allaga ogni volta che piove ed è quasi del tutto sprovvista dei servizi basilari.
Sono le 19.34 di sabato 20 settembre quando un autobus della linea 042 viene assaltato – senza alcun motivo apparente – da una “trentina di immigrati” (qualche giornale aggiunge “che vivono nel centro d’accoglienza nei pressi di Corcolle”, voce mai confermata). Secondo la versione fornita dall’autista dell’Atac, Elisa De Bianchi, “quei tipi urlavano, tiravano calci sulla carrozzeria e sulle porte. Mi hanno gridato di tutto. […] All’improvviso ho sentito un botto e il finestrino vicino al primo posto dietro di me è andato in frantumi: avevano tirato una bottiglia di birra come un proiettile. Meno male che il bus era vuoto, sennò ci scappava il morto”.
L’aggressione, sempre secondo l’autista, non finisce qui. Dopo una chiamata al centro di controllo dell’Atac, De Bianchi è autorizzata a rientrare nel deposito di Corcolle. Quando arriva al capolinea, l’autista si ritrova davanti gli immigrati, questa volta “più cattivi”. “Mi aspettavano”, dichiara al Corriere della Sera. “Qualcuno li aveva portati fin lì. Ho chiuso il finestrino, non potevo andare né avanti né indietro. […] Quelli intanto spaccavano tutto, hanno finito di sfondare il finestrino. Ho pensato: ‘Se riescono a salire mi violentano e mi ammazzano’”.
A neanche ventiquattr’ore di distanza dal primo assalto a un autobus di linea, nel tardo pomeriggio del 21 settembre un altro assalto-fotocopia colpisce il bus 508, sempre a Corcolle. Anche in questo caso la conducente è una donna. “Alla fermata c’erano una quindicina di persone”, racconta Federica Galesso alla Repubblica. “Molte sono salite, mentre quattro sudafricani [sudafricani?, ndr] hanno aspettato che ripartissi e poi hanno scagliato contro l’autobus un paio di grosse pietre. Dall’interno della cabina di guida ho sentito due tonfi, poi le urla spaventate dei passeggeri”.
La doppia aggressione scatena la rivolta di una parte della popolazione di Corcolle, che individua i responsabili della violenza nei 53 richiedenti asilo ospitati nel centro d’accoglienza di via Novafeltria, aperto il 13 settembre. La sera dello stesso 21 settembre, qualche centinaio di persone scende in strada, blocca via Polense e fa partire una vera e propria “caccia al nero”. Due immigrati sono tirati giù dal 508, che arriva dalla limitrofa Castelverde, e pestati: uno finirà in ospedale; l’altro si salverà gettandosi nel fosso che costeggia la carreggiata. La terza vittima è un residente nero che abita a Corcolle da vent’anni: la polizia e gli abitanti del quartiere che lo riconoscono riescono a sottrarlo alla folla.
Sul posto c’è anche il presidente del VI municipio Marco Scipioni (del Partito democratico), che il giorno dopo dichiara: “Qui la situazione è esasperata, c’è un allarme sociale che resta inascoltato. È assolutamente necessario allontare gli immigrati dal nostro municipio”. Insomma, a Corcolle è andato in scena uno scoppio di rabbia popolare – ma non razzista, ci mancherebbe – dettata unicamente dall’“esasperazione”.
Quella riportata finora è la cronaca “ufficiale” di quello che è successo a Corcolle in quei giorni. Quella ufficiosa, invece, è molto meno limpida e lineare. Dopo la “caccia al nero”, il sito DinamoPress racconta che “è uso comune di non pochi autisti (non tutti, sia chiaro!) quello di non fermarsi alle fermate designate se a queste ci sono parecchi migranti che aspettano,” costringendo questi ultimi a macinare chilometri, specialmente in periferia. Quel sabato l’aggressione potrebbe essere stata una reazione dettata dalla rabbia dopo che ben tre autobus – nell’arco di quasi due ore – avevano tirato dritto.
Inoltre, come ricostruisce Riccardo Staglianò sul Venerdì del 28 novembre, il doppio assalto agli autobus “gronda incongruenze” e, particolare piuttosto curioso per fatti di una tale gravità, non ci sono testimoni. A parte uno – Emilio Tora, un autista dell’Atac “sospeso per non precisati motivi disciplinari”. È lui che De Bianchi chiama subito, ad aggressione ancora in corso. Ed è sempre lui che confermerà, a rete unificate, la versione di De Bianchi (che non ha denunciato l’accaduto alla polizia).
Tora è un personaggio abbastanza sui generis, per così dire: sull’avambraccio destro ha tatuato “NOBIS” (l’“a noi” fascista in latino) in caratteri cubitali, e la sua pagina Facebook – consultata da Staglianò – è una sorta di manuale del Perfetto Fascio-Xenofobo 2.0:
Fiero di essere razzista per Dio scrive, tutto maiuscolo, il 20 settembre, nell’imminenza della prima aggressione (in un commento chiosa: Bastardi schifosi sulla brace li metterei). L’indomani si compiace della manifestazione: Corcolle bloccata, tutti contro i negri. Ma già a giugno commentava entusiasta il linciaggio a morte di un borseggiatore rumeno sulla metropolitana: E dajee vedemo mpo se ce sentono de ste recchie rumeni demmerdaaaa. Un giorno posta foto tenere con la figlia, l’indomani quelle del Duce.
Non è nemmeno chiaro chi abbia materialmente compiuto la “caccia al nero”. Girando per Facebook ho trovato la testimonianza di una residente, fatta in presa diretta proprio in quel 21 settembre. Il post, che trascrivo qui sotto in ordine cronologico, è molto interessante perché rende conto di come quella sera le voci – compreso un tentato stupro dei rifugiati a danno di una “15enne del quartiere” – girassero in maniera del tutto incontrollata:
[21:14] Scontro a Corcolle tra quelli di colore e corcolle. Hanno distrutto autobus di linee… importunato ragazze… ora ce umana dirigente capo della polizia…
[21:19] Hanno preso a sassate una 15 enne del quartiere. Ste merdeeee
[21:43] Dicono che hanno tentato di violentarla
[21:44] Ecco i cellerini
[21:52] I ns ragazzi cominciano a scaldarsi.
[22:35] Li stanno andando a tirare fuori dalla palazzina
[22:44] Scipioni [presidente del municipio] pure è qui
[23:23] È passato un nero a momenti lo massacravano
[23:24] La mattina [i neri] stanno nudi per strada…
[23:25] Dicono che ne arrivano altri… dicono che tra una settimana li fanno sfollare ma i ragazzi minacciano guerra da domani…
Per placare la “guerra” la polizia presidia per qualche giorno il centro d’accoglienza, mentre la prefettura fa sapere di voler “alleggerire” la zona “portando un po’ di migranti negli altri centri, in aree diverse”: “Nessuna operazione eclatante di trasferimenti di massa”, scrive il cronista Mauro Favale su la Repubblica, “piuttosto spostamenti mirati, tre alla volta, anche per rispondere alle pressioni di quel pezzo di quartiere che esplicitamente gli addossa tutti i problemi di Corcolle”. La notizia dell’avvenuto trasferimento di “circa un terzo dei migranti” ospitati nella struttura la dà Scipioni.
Ma chi sono questi “ns ragazzi”? Il Messaggero scrive che alcuni residenti hanno visto “bandiere di Forza Nuova” alla “prima manifestazione”. Secondo Lucrezia La Gatta di Tiburno.tv, “almeno metà di quelle facce io non le avevo mai viste. Non erano di qui”. Un altro testimone racconta invece a La Fiera dell’Est che “dopo il secondo assalto una frangia di ragazzi del quartiere, quelli che si professano ‘di destra’, decide di radunarsi sulla Polense per picchiare qualche nero. Non avevano un’idea ben precisa di cosa stessero facendo e perché, volevano solo sfogarsi.” RomaToday riporta che “per gli abitanti i raid e le spedizioni punitive sarebbero state condotte da pochi gruppi di violenti in odore di estrema destra”. Il giorno dopo l’aggressione, nel quartiere appare anche la scritta “NO NERI”, accompagnata da una croce celtica e una svastica.
Se ancor oggi non c’è la certezza su chi abbia picchiato gli stranieri, ci sono pochissimi dubbi sul fatto che le destre abbiano cercato di soffiare sul fuoco in maniera spudorata. Subito dopo l’aggressione ai bus, Giordano Tredicine, vicepresidente dell’assemblea capitolina in quota Forza Italia, afferma che “il limite della tollerabilità è stato ampiamente e definitivamente superato”; Gianni Alemanno dice “basta buonismo, è arrivata l’ora di alzare la guardia”; e Francesco Storace, capogruppo di La Destra in consiglio regionale, chiede di individuare gli “appartenenti alla tribù che ha tentato il linciaggio” (e no, non si riferisce ai fatti della sera del 21 settembre).
Il 22 settembre sui banconi dei negozi appare una raccolta di firme organizzata dall’associazione di commercianti e artigiani made in Corcolle. Nel testo della scheda si legge: “Gli abitanti della zona richiedono l’allontanamento degli immigrati nei centri di raccolta del Municipio a causa di numerose violenze provocate dagli stessi del territorio”. Italo Marziali, presidente dell’associazione, spiega così la genesi dell’iniziativa “antinegro” (com’è chiamata in quartiere): “Quella sera il presidente del municipio ci ha chiesto di raccogliere le firme e così abbiamo fatto. Il testo lo abbiamo scritto noi. Ho un nipote di colore quindi chiamarmi razzista è davvero fuori luogo. Lo scopo della raccolta firme è quello di chiudere il centro profughi e di mettere all’attenzione delle istituzioni le problematiche del quartiere. In un momento di rabbia si possono commettere degli errori”.
La sera stessa è organizzato un presidio in via Spinetoli, davanti a un hotel dove voci incontrollate prospettano l’arrivo di “altri migranti da ospitare nella struttura”. Il Messaggero parla esplicitamente di “frange dell’estrema destra e del panorama ultrà delle curve dell’Olimpico” che “tentano di seminare campagne xenofobe”. Al presidio, riporta sempre l’articolo, “c’era solo un gruppetto isolato di estremisti tenuto a distanza dagli altri”.
Gli stessi timori infondati sull’“invasione” di migranti (questa volta si parla di “pullman con 800 rifugiati”) si ripetono l’11 ottobre e causano un’altra mobilitazione di cui non ha parlato praticamente nessuno – le telecamere, infatti, avevano già ampiamente abbandonato il quartiere. Negli striscioni esposti al sit-in ci sono slogan come “L’Italia agli italiani” e “Basta invasione”. Alle 8 di sera i manifestanti – tra cui, riporta il Tempo, ci sono anche residenti dei quartieri limitrofi di La Storta, Castelverde, Ponte di Nona, Torre Angela – decidono di bloccare via Polense. La polizia riceve l’ordine di liberare la strada e porta in questura otto persone, denunciate per “interruzione di pubblico servizio, violenza privata e resistenza a pubblico ufficiale”.
A proposito di strumentalizzazioni, dopo la “caccia al nero” ci sono state diverse passerelle dei politici. Il 28 settembre Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia si reca nel quartiere per “essere al fianco dei cittadini di Corcolle”, abbandonati da “un’amministrazione comunale che sembra occuparsi più degli immigrati che dei cittadini”.
Qualche giorno dopo è il turno di Borghezio, che arriva a Corcolle scortato dai militanti di CasaPound e accolto dalla scritta “Lega salvaci tu” – una circostanza abbastanza curiosa, visto che alle ultime europee il partito di Matteo Salvini qui ha preso la bellezza di 56 voti. Anche in questo caso, le parole di Borghezio sono un inno alla fratellanza tra i popoli: “Questa periferia romana è già abbandonata a se stessa, e bisogna capire se è il caso di installare proprio qui un centro rifugiati. Ovviamente se rimanessero tranquilli all’interno del loro centro non ci sarebbero tensioni, ma dal momento che spesso girano in gruppi consistenti e sotto l’effetto di bevande alcoliche c’è il rischio che la situazione possa degenerare”.
Come ha sottolineato Matteo Muoio su La Fiera dell’Est, “in molti nel quartiere hanno pronunciato parole di condanna verso gli eventi di domenica 21 e i loro protagonisti”, e il comitato di quartiere “se ne è dissociato completamente”. Invece Luca Casciani, speaker della radio romana Rtr 99, ha mostrato entusiasmo per la “caccia al nero” nella sua trasmissione Giorno per giorno… Cor Veleno:
Quello che servirebbe è il matto, uno che in macchina ha una mitragliatrice e ne fa secchi 34, se ne sono salvati 6, ecco il problema è quello, che se ne sono salvati 6… Quando i selvaggi si appropriano di una cosa tua, tu sei costretto a non chiamarli selvaggi, se no vieni denunciato, se no vieni chiamato razzista. Tu mantieni i selvaggi che distruggono la tua città e la tua civiltà e se provi a ribellarti ti chiamano razzista, se provi a organizzare delle ronde ti chiamano fascista… Qualcuno mi ha detto: ‘secondo te cosa bisogna fare per vedere gli italiani che si ribellano, che scendono in piazza?’. Ecco bisogna attendere quello che è successo a Corcolle, bisogna attendere che qualcuno muoia… che differenza c’è tra le scimmie, i Tarzan, che attaccavano i villaggi di coloni e queste scimmie che attaccano un autobus dell’Atac?… Se ti permetti di distruggere un mezzo che fa parte della collettività, la stessa collettività che ti mantiene, brutta sanguisuga schifosa, e qualcuno ti ammazza, io dico che ha fatto bene.
Casciani e compagnia non dovranno aspettare molto tempo per un’altra punizione collettiva dei “selvaggi”. Corcolle, infatti, è stata la prova generale di quello che sarebbe successo poco meno di un mese dopo, in un quartiere a ridosso del Grande raccordo anulare che ormai l’Italia intera conosce: Tor Sapienza.
5. Il pogrom di viale Giorgio Morandi
“Tutti parlano di noi in questi giorni, siamo sotto i riflettori: televisioni, telegiornali, stampa. Ma nessuno veramente ci conosce”.–Dalla “Lettera aperta dei rifugiati del Morandi”, 14 novembre 2014
Percorro più volte – prima in motorino, poi a piedi – l’anello di cemento di viale Giorgio Morandi, questa parte di Tor Sapienza arroccata su una collinetta che, sin dagli anni settanta, l’area storica del quartiere ha sempre considerato come un corpo estraneo. I famigerati palazzoni dell’Ater, ripresi in lungo e in largo dalle telecamere di telegiornali, talk show e programmi pomeridiani, scorrono immobili ai miei lati. Gli alberi sono stati potati, le strade sono più o meno pulite e i lampioni funzionano regolarmente. Sembra un anonimo viale, come ce ne sono tantissimi a Roma, e non il luogo che per una settimana è diventato un violento focolaio del rancore anti-immigrati.
Qualche abitante è al bar, altri scaricano la spesa dall’auto. Non ci trovo assolutamente nulla delle pompose descrizioni fatte a caldo dagli Editorialisti Di Un Certo Peso, in cui si declamava la poetica sbandata dei “contenitori di vite disperate e imprigionate” che si “spiano e si odiano” da palazzi che somigliano a “placidi asini” e invece sono “muli rabbiosi”. Davanti al centro d’accoglienza ci sono ancora due camionette dei carabinieri e uno schieramento di agenti. Dietro di loro i richiedenti asilo del centro – quelli rimasti, almeno – parlano sulla porta d’ingresso. Sui vetri è impresso il marchio della sassaiola del 10-11 novembre. È l’unico segno visibile dell’assedio razzista al centro.
Alle pendici dei palazzoni, in uno spiazzo di cemento davanti al mercato, i lampeggianti della polizia municipale illuminano a intermittenza viale Giorgio De Chirico. È il tardo pomeriggio del 25 novembre: movimenti, centri sociali, associazioni del territorio e residenti di Tor Sapienza (pochissimi, tuttavia, quelli di viale Morandi) sono riuniti in un’assemblea pubblica – la seconda di questo tipo convocata per “reagire ai fatti di viale Morandi”.
A margine dell’incontro parlo con Gabriella Errico, operatrice della cooperativa Un sorriso che gestisce il centro d’accoglienza. “Adesso la situazione è molto tranquilla”, mi dice. “Siamo in uno stallo. I ragazzi entrano ed escono, le attività sono riprese in maniera normale”. Tutto a posto con i residenti, quindi? “Siamo sempre andati d’accordo. È ovvio che nella convivenza c’è discussione, ma si è sempre superata. C’è comunque una forma di dialogo. Per strada ci si parla”. E perché siete diventati un bersaglio? “Stavamo nel posto sbagliato al momento sbagliato”, risponde Errico.
Secondo un residente che ha parlato nell’assemblea di piazza De Cupis del 19 novembre, “la rivolta è comprensibile, l’obiettivo terribilmente sbagliato. Bisognava andare al comune e dalle istituzioni, non prendersela con i rifugiati”. A distanza di qualche settimana, tuttavia, i motivi dell’assalto non sono ancora stati chiariti del tutto.
Nel fiume di analisi che si sono riversate su Tor Sapienza, in pochi hanno inquadrato i fatti in una prospettiva di ampio raggio. Tra questi c’è l’antropologa Adriana Goni Mazzitelli, che in un lungo articolo pubblicato su Comune-Info ha ricostruito la storia del quartiere. Fondato nel 1923 come “quartiere operaio” dal ferroviere molisano antifascista Michele Testa, Tor Sapienza attraversa almeno quattro “tipologie d’insediamento”:
La prima è il quartiere originario, case basse e una fisonomia da piccola città, la seconda è quella dei ‘palazzoni’ per gli ex baraccati del centro di Roma costruiti negli anni settanta e ottanta, come il complesso Ater Giorgio Morandi; la terza è quella delle strutture per le migrazioni o le popolazioni ‘temporanee’ e ‘tollerate’, come i campi rom (per i profughi della guerra dei Balcani) costruiti negli anni novanta o i centri di prima accoglienza (Cpa) per rifugiati e richiedenti di asilo, […] e infine la quarta, quella delle occupazioni per il diritto all’abitare (tra cui c’è l’esperienza di Metropoliz, la ‘città meticcia’ nata nel 2009 a seguito dell’occupazione dell’ex salumificio Fiorucci in via Prenestina 913, ndr)
Nell’incuria generalizzata e nell’assenza delle istituzioni, il quartiere diventa così una “periferia d’enclave” composta da “insediamenti casuali e frammentari” che non sono mai stati messi in condizione di “interagire” e di “crescere insieme per diventare società”. Anzi: i vari frammenti del quartiere, spiega l’antropologa, sono in perenne tensione tra di loro e di conseguenza “accendono conflitti”.
Per rendersene conto basta guardare la cronologia delle proteste dei residenti – anche in piazza – che hanno scandito gli ultimi mesi. Tanto per cominciare, i cittadini da parecchio tempo denunciano (attraverso i social network e la stampa) i roghi tossici che si levano dal campo rom di via Salviati. Altri problemi sollevati dagli abitanti sono il generale senso di insicurezza e quello della prostituzione in strada. Sui palazzoni di viale Morandi, inoltre, pesa il fallimento di un progetto di riqualificazione che doveva far sorgere “un centro commerciale con uffici dell’allora unità sanitaria locale, negozi e associazioni culturali e di quartiere”. Non se ne fece mai nulla, e nel corso degli anni quei locali sono stati “prima occupati abusivamente da cittadini italiani, e poi da romeni, che attualmente occupano la maggior parte degli immobili”.
È in un contesto simile che nell’ottobre del 2014 comincia a spargersi la voce dell’apertura di un nuovo centro d’accoglienza in uno stabile abbandonato in via Rucellai. Il consigliere municipale Daniele Rinaldi (Fratelli d’Italia) presenta un’interrogazione al presidente del municipio Giammarco Palmieri chiedendogli di “esprimere una posizione di diniego chiara e netta” per “non peggiorare una situazione già precaria e difficile”.
Il comitato di quartiere di Tor Sapienza, in un comunicato dice che “quello che sta accadendo in via Rucellai è qualcosa di incredibilmente oscuro e misterioso. […] Un cantiere a tutto ritmo ove operai in tuta bianca, mascherina e casco stanno rimuovendo amianto e facendo una ristrutturazione straordinaria, ma per fare cosa? Sembra oramai quasi accertato che si voglia fare un centro di accoglienza all’insaputa dei cittadini già stremati da quelli esistenti”. Il 10 e l’11 ottobre alcuni residenti – un centinaio – organizzano un presidio davanti alla struttura, convinti che stiano per arrivare i migranti da Corcolle. A piazza De Cupis, intanto, circa 500 persone – tra cui a un certo punto appare anche il solito Alemanno – si riuniscono per manifestare contro i roghi del campo rom e, appunto, l’apertura del nuovo centro. Quest’ultima, infine, è definitivamente smentita da Palmieri.
Le proteste si placano per qualche settimana, fino a quando alcuni fatti di cronaca non fanno scattare la collera contro il centro – sebbene l’ottantina di “ospiti” (di cui la metà minori non accompagnati) non abbia mai avuto nulla a che fare con questi episodi. Alla fine di ottobre un uomo di 62 anni viene “picchiato a sangue da due individui” e derubato in un tratto di viale Morandi. Il venerdì prima degli assedi, scrive il Tempo, “due ladri georgiani che si erano intrufolati nel condominio popolare di via Cremona sono stati malmenati e poi denunciati dagli abitanti”. La vera miccia che fa accendere la rivolta è la notizia – ancora adesso non si riesce a capire quanto sia confermata o meno – di un tentato stupro (compiuto, si presume, da persone “dell’Est”) ai danni di Ambra, una giovane madre di 28 anni abitante del quartiere.
La sera del 10 novembre un gruppo di persone decide di farsi giustizia da solo. Alcune testimonianze dicono che, prima di bersagliare il centro, gli uomini “armati di spranghe e bastoni” hanno tentato un blitz in “una chiesa sconsacrata” in via Carlo Balestrini “occupata dal coordinamento di lotta per la casa”. Alle 11 di sera Roberto Torre, vicepresidente del comitato di quartiere di Tor Sapienza, scrive su Facebook che “a Giorgio Morandi c’è molta confusione, forti esplosioni, molta polizia, sembra una guerrilla, lancio di sassi contro il centro di accoglienza, una situazione veramente esplosiva”.
Il raid è compiuto al grido di “ve bruciamo vivi”, “negri demmerda” e “non uscite più perché v’ammazzamo”. I residenti sul posto si lamentano con i cronisti: “Non ne possiamo più, gli zingari di là, dall’altra parte i negri”. Gli stessi aggiungono che gli immigrati “vengono a fare i porci comodi loro a casa nostra”. Secondo RomaToday, tra i manifestanti c’erano anche “personaggi inneggianti al Duce”.
Nelle prime, convulse fasi dell’assalto qualcuno scrive nel gruppo Facebook di Tor Sapienza che sono state le “bestie da cancellare” (cioè i migranti del centro) a iniziare il lancio di oggetti contro i residenti. La polizia, però, smentisce categoricamente questa versione. Dopo il primo assalto, il presidente del comitato Tor Sapienza Tommaso Ippoliti cerca di spiegare a caldo l’accaduto: “Questa notte è stata un’iniziativa spontanea di alcuni abitati esasperati. Non è una questione di razzismo né di ronde, siamo solo stanchi, non ne possiamo più”.
Nel pomeriggio dell’11 novembre si tiene una breve assemblea di quartiere, che si trasforma in fretta in un “corteo spontaneo” dei residenti di fronte al centro. I portavoce del comitato di quartiere spiegano che “la rabbia delle oltre mille famiglie scese in piazza per trovare una soluzione al problema della poca sicurezza ha portato nuovamente i residenti a protestare sotto al centro d’accoglienza di via Morandi”. La situazione, se possibile, è ancora più tesa del giorno prima, e le dichiarazioni dei residenti raccolte dalla stampa non promettono nulla di buono. “Appena la polizia e le telecamere se ne vanno”, dice un ragazzo ai giornalisti, “entriamo nel palazzo degli immigrati e li buttiamo giù dalla finestra uno dopo l’altro. Così vediamo se continuano a tirarci bottiglie e a pisciare sui passanti”. Una signora ha le idee ancora più chiare: “Du’ taniche de benzina e ‘n fiammifero”.
Poco dopo le dieci e mezza parte il secondo assalto, nettamente più pesante del primo. Una settantina di manifestanti a volto coperto lancia sassi e bombe carta contro il centro e dà alle fiamme diversi cassonetti. I rifugiati cercano di difendersi con quello che trovano dentro la struttura. Una residente descrive così la scena su Facebook: “Cassonetti incendiati, sassaiole e lanci di bombe carta, dal centro rispondono gettando di tutto dalle finestre è un macello io ci sono proprio di fronte temo il peggio”. Alla fine la polizia disperde gli incappucciati con cariche e lacrimogeni. Il bilancio finale è pesante: una volante della polizia danneggiata e una quindicina di feriti tra agenti, manifestanti e un cameraman della trasmissione Virus.
Si è speculato molto sia sull’identità di questi incappucciati sia se dietro al tentato pogrom ci fosse un certo tipo di “regia”. Qualcuno, come in questa corrispondenza, ha descritto i manifestanti a volto coperto come persone capaci di pianificare un attacco “violento ed effettuato da più lati”, nonché di “stare in strada e reggere gli scontri”. “È molto probabile”, prosegue il pezzo, “che una parte degli assalitori sia venuta dall’esterno del quartiere e che vi fossero fascisti”. Gli investigatori, stando al Messaggero, stanno indagando proprio negli “ambienti degli ultrà e della destra più estrema”. Nello stesso articolo si parla anche di pusher locali che avrebbero fomentato gli animi “per nulla contenti della presenza delle forze dell’ordine nella zona, e anche preoccupati che qualcuno degli immigrati possa rubargli fette di mercato dello spaccio”.
Nei giorni successivi all’attacco, un ragazzo che abita a Tor Sapienza scrive un post su Facebook in cui parla di “fiaccolate, […] manifestazioni e scontri provocati e stimolati da associazioni di quartiere infiltrate da organizzazioni di estrema destra”. Un altro abitante del quartiere, ripreso in forma anonima dalle telecamere di Piazza Pulita, sembra confermare quest’ultima versione: “Gente che non è del quartiere c’è dietro a questa cosa. C’è una regia dietro, li ho visti con i miei occhi. Sono arrivati qui e hanno cominciato a istruire, hanno preparato. Io stesso li ho sentiti dire alle donne di parlare di ‘sti tentati stupri, di furti, di calcare la mano, di fare più pesante quella che è la situazione reale”.
Durante le interrogazioni parlamentari alla camera del 25 novembre, il ministro dell’interno Angelino Alfano ha però dichiarato che “al momento non ci sono riscontri sulla presenza di elementi dell’estrema destra romana o ultrà delle tifoserie locali negli scontri verificatisi a Tor Sapienza lo scorso 11 novembre”. Nel frattempo il pubblico ministero Eugenio Albamonte, titolare del procedimento, ha incaricato la Digos di stilare un’informativa per ricostruire quelle due notti di violenza. In attesa che si individuino i responsabili – se mai saranno individuati – restano però le pesantissime conseguenze politiche del caso.
Il 13 novembre l’amministrazione comunale (di comune accordo con la prefettura) fa partire il trasferimento dei minori in altri centri. L’assessorato alle politiche sociali fa sapere che non si tratta di “uno sgombero”, e che comunque la decisione è stata presa per “evitare il generarsi di altri incidenti e per far tornare rapidamente la calma”. Il giorno dopo, il 14 novembre, almeno quindici minori tornano a piedi nel centro di viale Morandi perché, fanno sapere i responsabili della struttura, “vogliono vivere qui e riprendere le loro attività”. Sono però costretti ad andarsene di nuovo, anche perché la macchina della strumentalizzazione politica ha cominciato a funzionare a pieno regime.
Nell’arco di qualche giorno a Tor Sapienza arrivano Giorgia Meloni, il sindaco Ignazio Marino (che da un lato è fischiato e insultato dai residenti, dall’altro è completamente abbandonato dal suo partito), Paola Taverna del Movimento 5 stelle, i neofascisti di Forza Nuova e l’immancabile Mario Borghezio-più-scorta-di-CasaPound che, sorseggiando un cappuccino in un bar, si dice “conquistato” da questa “ribellione di persone che amano il proprio quartiere”.
Lo smistamento dei minori – neanche fossero pacchi indesiderati – segna indubbiamente uno spartiacque nell’autunno caldo di Roma est. Lo “svuotamento forzoso” del centro “a furor di assalti razzisti” costituisce un precedente molto pericoloso. La “resa” ai “malumori anti-immigrati” della piazza, infatti, potrebbe ingenerare la convinzione che colpire impunemente l’anello debole della catena sociale sia una valida strategia per attirare l’attenzione sui problemi dei quartieri.
Dopo il doppio assalto, insomma, il quartiere Tor Sapienza è diventato il modello Tor Sapienza – una forma di lotta idealmente replicabile in altre realtà, e che alcuni ritengono semplicemente perfetta per risolvere i problemi di molte altre periferie italiane.
6. L’ascesa del cittadino indignato
Sono da poco passate le dieci di mattina di sabato 15 novembre quando un gruppo di manifestanti in piazza dell’Esquilino stappa un fumogeno bianco. Nello striscione che reggono in mano è impressa, in un ineccepibile fasciofont, la scritta “Periferie in rivolta”; ai lati di questa c’è il faccione di Ignazio Marino barrato da una striscia rossa. Qualcuno sventola il tricolore, e in un altro striscione la parola “clandestino” è usata per denigrare il sindaco di Roma.
La cosiddetta Marcia delle periferie sul Campidoglio – organizzata da mesi e sospinta dai fatti di Tor Sapienza – è pronta a riversare la rabbia di più di 60 comitati di quartiere e di migliaia di romani sul centro storico di una città di cui fanno parte, ma che sembra averli dimenticati. A garantire la natura apartitica dell’evento è l’organizzatore della manifestazione, il Caop di Franco Pirina. “Braccia tese” e “saluti romani” non saranno i benvenuti, così come la politica: “Non vogliamo essere considerati né di destra né di sinistra, né altro. Ciascuno vota come vuole, insieme siamo cittadini, esasperati dal degrado di Roma”.
Basta destreggiarsi tra cartelloni e tricolori per accorgersi che in mezzo ai “cittadini indignati” – poco più di mille – c’è una selva di facce conosciute che appartengono quasi tutte alla destra romana. In piazza, infatti, ci sono militanti di CasaPound e politici di Forza Italia e Fratelli d’Italia (partito che, molto gentilmente, ha anche offerto il retro di alcuni striscioni).
Poco prima della partenza – e con un perfetto tempismo – Gianni Alemanno dardeggia tra la folla, si piazza dietro uno striscione e sorride ai fotografi. Qualche manifestante azzarda un applauso; dietro di me, invece, dei cittadini lo mandano “affanculo” più volte e lo ricoprono di insulti, tra i quali mi appunto “a’ ripulito” e “a’ giudeo”. Il giornalista Marco Carta individua anche Giordano Tredicine, il deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli, i consiglieri regionali di Forza Italia Luca Gramazio – che qualche settimana dopo sarà coinvolto nell’indagine su “Mafia Capitale” – e Antonello Aurigemma, e anche i consiglieri della Lega dei popoli – il partito “gemello” per il centrosud della Lega nord – Marco Pomarici e Luca Aubert.
Per non farsi mancare proprio nulla, alla “marcia delle periferie” partecipano anche vecchie conoscenze del neofascismo romano. Nelle prime file c’è il fondatore del Fronte nazionale ed ex di Avanguardia nazionale Adriano Tilgher, che nel 1976 fu condannato per ricostituzione del partito fascista – condanna di cui, ha dichiarato qualche anno fa, “sono orgoglioso”. Poco più in là c’è Andrea Insabato, militante neofascista di lungo corso – e dall’altrettanto lunga fedina penale – conosciuto per aver messo una bomba nella sede del quotidiano il manifesto nel 2000.
Anche Danilo Cipressi – l’uomo con i Ray-Ban a goccia che anima il corteo dal furgoncino – ha un curriculum di tutto rispetto. Oltre a essere il fondatore del Fronte romano riscatto popolare (“movimento spontaneo fuori da qualsiasi schema politico”), Cipressi è autore dell’imperdibile libro A Roma se la tirano pure le quaglie e ha un canale YouTube in cui parla del degrado che ammorba la capitale, “ragazze belghe e fiche di legno di Roma” e “uomini tappetino da mi piace su fb”.
Certo, se si cerca un po’ su internet salta fuori che l’anno scorso Cipressi è stato candidato con CasaPound nel XIII municipio (“Con CasaPound”, aveva spiegato a Ostia.tv “vogliamo costruire un’Italia migliore”) e il 18 dicembre 2013 ha arringato la folla in piazza del Popolo durante la fallita marcia su Roma dei “forconi”.
Il corteo, comunque, si muove verso le undici. Le rivendicazioni tirano in mezzo di tutto, inclusi il divieto di vendere alcol dopo le 22 e l’eliminazione dalle strade del centro delle “botticelle” romane. Il vero collante della protesta, come facilmente intuibile, è l’opposizione al sindaco Marino e a centri d’accoglienza, immigrati e “zingari” che “distruggono la città”.
Dal “palco”, intanto, Cipressi elogia gli abitanti di Tor Sapienza presenti in piazza – pochissimi, tra cui Roberto Torre – che “hanno difeso il loro quartiere”. Naturalmente, come puntualizzato a getto continuo, “il razzismo non c’entra nulla” – è semplicemente un’invenzione della stampa politicizzata. A riprova del sentimento antirazzista che anima la mobilitazione, verso la fine di via Cavour Cipressi fa partire un siparietto atroce facendo salire sul furgoncino un manifestante nero.
Una piccola crepa nella retorica dell’“apoliticità” della marcia si verifica all’altezza di largo Corrado Ricci, quando alcuni manifestanti, durante l’ennesima esecuzione dell’inno di Mameli, non riescono a trattenere il braccio destro e lo puntano verso il cielo di Roma, per rimembrare i bei tempi andati in cui c’era Lui e gli immigrati stavano a casa loro, nei territori conquistati dall’impero.
Passata piazza Venezia, il corteo confluisce in piazza Santi Apostoli per i comizi conclusivi dei comitati di quartiere. Tra questi ci sono anche i Cittadini di Tor Pignattara e il comitato Filarete, che abbiamo già incontrato prima. Il primo a parlare è Franco Pirina che, non nasconde l’emozione: “Noi rivogliamo la nostra città dove siamo nati e abbiamo i nostri ricordi d’infanzia. Ce la ricordiamo diversamente da quella che è oggi”. L’intervento si conclude con un’ode al ggentismo: “La vera politica siamo noi, non sono più i politici! È la voce della gggente, ognuno di voi è il vero politico!”.
Dopo Pirina parla Augusto Caratelli, per il quale “oggi è iniziata la ribellione dei quartieri di Roma”. Caratelli, oltre a essere il presidente del Comitato difesa Esquilino-Roma caput mundi – associazione di quartiere che si batte “soprattutto contro la perdita di valori cristiani e cattolici e dell’identità propria di Roma” – è stato consigliere municipale in quota La Destra-Pdl dal 2008 al 2013. In questa veste, tra l’altro, si era distinto per aver cercato di impedire l’Europride che si è svolto in piazza Vittorio nel 2011.
Il copione della “marcia delle periferie” si ripete, pressoché identico, una settimana dopo. Nel frattempo, il 20 novembre i protagonisti di quella manifestazione formano il “Coordinamento di ribellione dei rioni e dei quartieri di Roma”, il cui battesimo si tiene l’indomani all’Eur – un quartiere di Roma tutt’altro che degradato. Recentemente dell’Eur si è parlato perché Andrea Santoro (presidente del IX municipio), ha deciso di avviare un progetto sperimentale di “zoning”, ossia l’istituzione di “isole” in cui “l’esercizio della prostituzione è tollerato e monitorato”.
Secondo il volantino di lancio dell’iniziativa, invece, l’Eur è una specie di succursale dell’Inferno. “I residenti”, si legge, “sono esausti e disgustati” della “condizione di degrado, sporcizia, abusivismo, prostituzione e spaccio”. La preparazione – soprattutto mediatica – dell’iniziativa riscuote un certo successo. Danilo Cipressi, per esempio, riesce a portare a spasso per il quartiere un giornalista di SkyTg24, elencandogli tutti gli orrori (compresi gli ambulanti che proditoriamente cercano di vendere pacchetti di fazzoletti) che i residenti devono sopportare nella loro vita quotidiana. Per allontanare ogni sospetto sulla manifestazione, il presidente di “Ripartiamo dall’Eur” Paolo Lampariello afferma che il corteo non sarà “né di destra né di sinistra né di centro”.
La scena che mi si presenta davanti non appena raggiungo il concentramento sotto il palazzo della civiltà italiana (il Colosseo quadrato) è esattamente la stessa della marcia nel centro storico: fasciofont come se non ci fosse un domani, gli stessi comitati di quartiere ben caratterizzati politicamente, Insabato, l’ubiquo Mario Borghezio – accompagnato dagli assistenti Davide Di Stefano e Mauro Antonini, entrambi di CasaPound – e politici di formazioni di destra come Sveva Belviso (ex vicesindaca nella giunta Alemanno e attuale consigliera comunale) e Luciano Ciocchetti (ex vicepresidente della regione Lazio e candidato alle ultime europee con Forza Italia).
I manifestanti non sono più di 500 – una cifra piuttosto esigua per un “corteo di residenti” dell’Eur – e vengono prevalentemente da fuori. E infatti dei problemi della zona si parla molto poco: la prostituzione in strada è invocata solo ed esclusivamente per chiedere una “legge nazionale” che la regolamenti (un cavallo di battaglia delle destre); e gli interventi dal solito furgoncino si concentrano
sull’“Italia che è diventata il ventre molle dell’Europa”, “l’invasione dei profughi” e la stampa che “cerca di annichilire l’italiano”.
Nel corso della stessa settimana in cui le proteste “spontanee” dei “ribelli dei rioni” assurgono all’onore delle cronache nazionali, un’altra periferia romana entra in fibrillazione e si prepara a manifestare contro i migranti. Si tratta dell’Infernetto, un quartiere di Roma a pochi chilometri dal mare fatto di ville e villini e immerso nel verde. È qui, e più precisamente nel centro d’accoglienza di via Salorno, che sono trasferiti 24 dei minori cacciati da Tor Sapienza.
Domenica 16 novembre Ignazio Marino si reca a sorpresa nel quartiere per visitare il centro, incontrare i comitati di quartiere ed evitare uno scenario alla Tor Sapienza. La visita del sindaco non sortisce molti effetti, e le tensioni crescono sia all’interno del centro – dove i “nuovi” arrivati si picchiano con i “vecchi” – sia fuori. I residenti, appresa la notizia dell’arrivo dei minori, organizzano un presidio davanti al centro; l’estrema destra, tra i manichini impiccati da Forza Nuova sui cavalcavia e gli striscioni di CasaPound nelle vie del quartiere, fa di tutto per avvelenare il clima.
La struttura di via Salorno era già stata al centro di polemiche montate ad arte. Il complesso è formato da vari casali: in uno si trova il centro per malati di Alzheimer “Le betulle”, aperto a marzo; in un altro – ben separato – c’è il centro d’accoglienza. I migranti, insomma, non condividono alcuno spazio con i malati. A ottobre, tuttavia, scoppia un caso “social-mediatico” quando Pierfrancesco Marchesi, ex consigliere municipale del Pdl, accusa Andrea Tassone – presidente del X municipio, del Partito democratico – e Ignazio Marino di “aver portato nel centro Alzheimer i profughi di Mare nostrum”.
Alla denuncia di Marchesi si accodano tutte le destre: i consiglieri municipali di Forza Italia sostengono che si mascherano “operazioni di accoglienza agli immigrati con l’assistenza ai nostri malati, superando ogni limite di decenza”; CasaPound chiede le dimissioni di Tassone, e Fratelli d’Italia afferma che Marino vuole “scaricare sulle periferie romane e nelle zone delocalizzate della nostra città il peso dell’immigrazione selvaggia”.
Incidentalmente, tutte queste forze politiche aderiscono al sit-in contro il centro indetto per il 22 novembre, il giorno dopo la parata all’Eur. Nonostante la protesta sia sostanzialmente organizzata da CasaPound, si fa di tutto per farla passare come qualcosa di “spontaneo”. Tra gli organizzatori spunta fuori anche un fantomatico “Comitato di difesa del X municipio”. Se si guarda la pagina Facebook, tuttavia, la data d’iscrizione risale al 16 novembre 2014 (pochi giorni prima della manifestazione), e l’ultimo post è datato 23 novembre 2014. Negli altri post si mescolano il “centro profughi” con il centro Alzheimer, ci si scaglia contro la “politica scellerata di Mare nostrum” e si usano grafiche e slogan di CasaPound (“Alcuni italiani non si arrendono”).
A ogni modo, in via Orazio Vecchi non ci sono più di 200 manifestanti – giornalisti inclusi. La stragrande maggioranza è formata da militanti di CasaPound, e la compagnia di giro è la solita: Franco Pirina, Sveva Belviso, Luciano Ciocchetti, Luca Gramazio, Fabio Rampelli e naturalmente Mario Borghezio, accolto dagli applausi delle sue “facce pulite”. Gli slogan sono più o meno i seguenti: “Mare nostrum non lo vogliamo” (da notare che la missione della marina è finita il primo novembre); “Stupri, degrado e immigrazione stanno distruggendo questa nazione”; e l’immancabile “Il centro d’accoglienza non lo voglio”. Come all’Eur, anche all’Infernetto non si parla mai dei problemi del quartiere.
I residenti in piazza, in un quartiere abitato da più di 20mila persone, sono davvero pochi. Nel gruppo Facebook “Associazione culturale Infernetto e dintorni” un residente ha scritto che, per chi abita all’Infernetto, “l’ultimo problema da cui dovrebbe essere afflitto è proprio quello che riguarda gli immigrati e in particolar modo i ragazzi arrivati in questi giorni”. Ma questi cittadini, come accaduto altrove, sono stati completamente scavalcati da un meccanismo mediatico che non fa altro che alimentare certe provocazioni.
Il presidio si scioglie verso le sei di pomeriggio, quando il buio sta calando sull’Infernetto, e la sensazione è che la destra romana abbia provato a creare un’altra Tor Sapienza – fallendo miseramente. Della manifestazione mi rimangono però due frasi piuttosto sinistre. La prima è di Mario Borghezio: “Qui c’è gente pronta a intervenire. Ci sono braccia, cuori, bandiere e anche aste, più pesanti di queste, pronte a difendere i territori”.
La seconda, riportata dall’edizione locale della Repubblica, è di Simone Di Stefano. Un residente, che gli si è avvicinato alla fine del sit-in, chiede un intervento “più deciso” nei confronti del centro di via Salorno. “Non stasera”, risponde il vicepresidente di CasaPound. “Non possiamo fare come a Tor Sapienza, non è il momento politico giusto”.
7. La presa delle periferie
“Le borgate sono il nostro domani, ma il domani non si deciderà in borgata”.–Walter Siti
Il 26 novembre – qualche giorno dopo l’Infernetto, che praticamente è un modello di come si possa montare un caso mettendo all’angolo i residenti più moderati – il Messaggero pubblica un articolo intitolato “Roma, rom attaccano tre scuole: lanci di pietre contro gli studenti”. Comincia così:
Lo zaino in spalla e la paura d’esser colpito da bottiglie e pietre. Succede a Torrevecchia, a ridosso di un campo nomadi. Dopo due anni di tregua, torna la preoccupazione. ‘I ragazzi entrano ed escono da scuola tra gli insulti, le offese. Spesso i rom gli lanciano anche bottiglie e sassi, a volte sono costretti a vedere gente che fa i bisogni’.
L’episodio, appunto, sarebbe avvenuto nella periferia a nordovest della capitale, e le circostanze riportate sono indubbiamente gravi. Qualcosa però non torna: i virgolettati sono tutti anonimi, e i dirigenti del liceo classico Tacito e degli istituti alberghieri Domizia Lucilla e Rosa Luxemburg smentiscono subito di aver rilasciato dichiarazioni su presunti “allarmi rom”. Sulla vicenda intervengono anche gli assessori alle politiche sociali e alla scuola del XIV municipio, che esprimono il loro “disappunto” in relazione “alle notizie pubblicate oggi dal quotidiano Il Messaggero relative al presunto attacco che alcune scuole del nostro territorio avrebbero ricevuto nei giorni scorsi”.
In realtà, come riporta la Repubblica, “nel quartiere si racconta di una bravata di due sedicenni abitanti del campo che sarebbero entrati nel cortile della scuola a bordo di un motorino creando un po’ di scompiglio e sarebbero poi stati allontanati”. Ma ormai il processo di criminalizzazione è avviato, e bisogna assolutamente protestare per fermare l’arroganza dei rom. La mattina del 28 novembre centinaia di studenti guidati dai militanti del Blocco studentesco (organizzazione studentesca di CasaPound) si presentano davanti al Domizia Lucilla con lo striscione “Stop alla violenza dei rom / Alcuni italiani non si arrendono”.
Arci Solidarietà e la cooperativa sociale Eureka denunciano che “un gruppo di manifestanti di CasaPound ha impedito l’accesso a scuola” a circa 90 bambini rom, rimasti nel campo su decisione dei genitori “intimiditi” dalla presenza di “500 persone lì fuori”. Blocco studentesco replica però che “non è stato impedito a nessuno di uscire dal campo nomadi”. In serata, la questura spiega che il sit-in non ha “impedito agli studenti di accedere all’interno delle aule, né risulta che sia stato impedito il passaggio di alcuni bambini rom che stavano andando a scuola”.
Versioni contrastanti a parte, quanto successo a Torrevecchia è l’ennesima variazione dello schema: si parte dalla notizia di un’aggressione più o meno verificata in una zona disagiata di Roma; gli stranieri, senza farsi troppe domande, sono indicati come i responsabili; l’estrema destra, su tutti CasaPound e Lega nord, alza al massimo la tensione e/o scende in strada per manifestare.
Dopo il blitz del Blocco studentesco, il presidente del XIV municipio Valerio Barletta si è detto preoccupato di “questo soffiare sul fuoco della paura, quasi come se in questa fase storica servisse alla nostra città costruire tante diverse Tor Sapienza, da individuare in quelli che sono i territori più difficili”. E che la situazione a Roma sia “preoccupante” lo conferma anche Carlotta Sami, portavoce per il sud Europa dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati: “Già dalla primavera scorsa eravamo preoccupati per il fatto che arrivasse un numero importante di persone e che non ci fosse una gestione organizzata a livello italiano ed europeo. Prevedevamo una situazione di per sé abbastanza caotica, e che avrebbe impattato su una situazione sociale già provata dalla crisi”. L’impressione di Sami è che in queste proteste “ci sia stata una saldatura molto chiara tra alcuni mezzi di informazione, alcuni politici e alcuni gruppi ‘parapolitici’ che, pur non facendo parte dell’arco parlamentare, contribuiscono a questa saldatura”.
A giudicare da quello che ho visto, in questa “rivolta delle periferie” di spontaneo c’è veramente poco o nulla. L’esasperazione dei cittadini delle periferie, da cui nascono le proteste, è sicuramente reale e deriva da condizioni di vita oggettivamente difficili; ma tutte queste mobilitazioni sistematicamente finiscono (o sono fatte finire) su posizioni xenofobe o estremiste. Certo, il terreno è di per sé già fertile: la disinformazione sull’immigrazione è un genere letterario particolarmente apprezzato dai mass media, e i social network grondano di bufale e sottocultura razzista a buon mercato – e infatti, non c’è stata una manifestazione in cui non abbia sentito frasi come “loro prendono 1.200 euro al mese e noi italiani siamo costretti a fare la fame”.
In molti casi, comunque, le modalità di queste proteste – per non parlare della presenza di alcuni personaggi – ricalcano quanto visto all’opera con la “rivoluzione dei forconi” del dicembre 2013. All’epoca, però, non era andata troppo bene: le divisioni interne al Movimento 9 dicembre avevano svuotato le proteste, e la compagine di Danilo Calvani era davvero troppo sgangherata per avere una qualsiasi credibilità politica. Nella rivolta delle periferie, invece, un ruolo importante lo stanno giocando i più manovrabili comitati di quartiere, che infatti sono pesantemente infiltrati – quando non direttamente guidati – dalle destre.
Al livello europeo, la strategia di travestirsi da cittadini “apolitici” per portare avanti determinate istanze – anche con modalità violente – l’ha già sperimentata con successo Alba dorata in Grecia. Prima di approdare in parlamento, il partito neonazista aveva cominciato a raccogliere consensi ad Atene mascherandosi dietro sedicenti comitati di cittadini. Il caso più emblematico dell’ascesa degli estremisti è la presa di Agios Panteleimonas, un quartiere relativamente centrale con forte concentrazione di migranti. È stato lì che le squadracce di “cittadini” di Alba dorata – con la scusa del degrado – hanno prima chiuso un parco giochi nella piazza principale per impedire l’accesso agli immigrati, e poi inaugurato la sanguinosa stagione di caccia allo straniero.
A ogni modo, in tutto ciò ha indubbiamente influito il mutato clima politico e la nascita del “Fronte nazionale” italiano, cioè l’alleanza tra Lega nord e CasaPound presentata al grande pubblico lo scorso 18 ottobre in piazza Duomo a Milano. Proprio recentemente, tra l’altro, questo “progetto politico” ha ricevuto la benedizione di Marine Le Pen, che al 15° congresso del Front national a Lione ha definito Matteo Salvini “un uomo estremamente coraggioso che ha impresso una svolta nazionale che domani rimetterà la Lega nord al centro della vita politica italiana”. E in effetti, tra il declino irreversibile di Forza Italia e un Movimento 5 stelle che appare ogni giorno di più in disarmo, a destra (e non solo) c’è una prateria elettorale che aspetta solo di essere cavalcata.
Quanto sta accadendo nelle periferie romane potrebbe anche essere l’avanguardia del futuro della società italiana – l’epicentro di una nuova rivoluzione nazionale. Di questo, almeno, è convinto Mario Borghezio, che non si è perso una singola tappa di questa “ribellione”.
Nel contesto di una convention neofascista nella capitale – in cui erano presenti, tra gli altri, Stefano Delle Chiaie (ex terrorista nero e fondatore di Avanguardia nazionale), Bruno Di Luia (ex di Avanguardia nazionale), Gabriele Adinolfi e Adriano Tilgher (che si rivedrà in diversi cortei “apolitici”) – Borghezio si era rivolto così al “comandante” Delle Chiaie:
Oggi da parlamentare europeo giro di più Roma, e mi accorgo che i romani amano nel profondo questa città. E quindi, tenendo conto di questo fatto, perché non far breccia nel cuore dei romani e organizzare noi delle iniziative per difendere la grande bellezza di questa città, violentata schifosamente da quelli che l’hanno riempita di immigrati e di immondizia? Se date il via a iniziative di questo genere, io sarò con voi e alla prima ronda ci voglio essere. Quando il nostro popolo sente il bisogno di una rivoluzione nazionale, noi dobbiamo metterci alla guida di questa rivoluzione.
Era il giugno del 2014. Con il senno di poi, si è trattato di parole quanto meno profetiche.
Leonardo Bianchi è news editor di Vice Italia e collabora con Valigia Blu. Il suo sito è La Privata Repubblica. Su Twitter: @captblicero