Il Candidato di “la feuille” (it/fr)

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ALLE URNE!
Il periodo elettorale è aperto: corse campestri e concerti, frasi e fraseggiatori – il periodo! – periodo roboante in cui scorrono tutti i motivetti ben noti.
Le note gravi dei contrabbassi opportunisti, la voce dei pifferi socialisti, il cappello cinese dei radicali che si suona con piedi e mani, dirigono l’accattivante frastuono che fa rinnovare i mandati.
È il preludio alla grande orchestra – canto e ricatti, frottole… Si suona il Triangolo e la Croce.

Tutte le promesse suonano in campo ed il tamburo batte per la città. La pelle d’asino antisemita riunisce i figli della patria: figli di truppa e figli da coro.
Nei collegi elettorali, carillon, conservatori, l’accordo è più sconcertante: quando Marcel Sembat dà il La, André Vervoort lancia il Do.
Benché turbati, gli elettori si apprestano a riprendere il ritornello. Sotto la bacchetta dei direttori d’orchestra tutti i votaioli si metteranno a cantare. Pazienza se non cantano bene, Candidati! Ai vostri tromboni. Popolo sovrano! Attenzione… Rinnoveremo il parlamento. Uno, due! Uno, due! Popolo! Alle urne!… Sinistra, destra! È per la Repubblica! Uno, due! Sinistra, destra! A misura…
E voi, gli astensionisti! Quelli che non marciano al passo, al dito, con gli sguardacci e con il bastone – fate attenzione! La misura non vale nulla…
Semplici Riserve
Avevo sempre creduto che l’astensione era il linguaggio muto che conveniva servirsi per indicare il proprio disprezzo per le leggi e i loro creatori.
Votare, mi dicevo, è rendersi complici. Ci si assume la propria parte per le decisioni prese. Le si ratifica anticipatamente. Si fa parte della banda e della truppa.
Come rifiutarsi di inchinarsi davanti alla Cosa legiferata se si accetta il principio della legge brutale del numero?
Non votando, al contrario, sembra perfettamente logico non sottomettersi mai, resistere, vivere in rivolta.
Non si è firmato il contratto.
Non votando, si resta se stessi. Si vive come un uomo che nessun Pinco Pallino deve vantarsi di rappresentare.
Si disdegna Tortallacrema.
Soltanto così si è sovrani, perché non si è cancellato il proprio diritto, perché non si è delegato nessuno. Si è padroni del proprio pensiero, coscienti di un’azione diretta.
Si possono disdegnare le chiacchiere.
Si evita l’idiozia di far affermare il parlamentarismo e di eleggere, allo stesso tempo, i membri del parlamento.
Evito di insistere. Si perde fede nel popolo stesso: gli ultimi elettori sghignazzano.
Il contadino rinuncia a implorare. L’operaio sogna ad altri mezzi…
Nulla di buono è uscito dall’Urna.
Mai, a causa della miseria, vi sono stati così tanti suicidi. Cosa si è fatto contro la disoccupazione? Cosa non si è fatto contro il pensiero? Leggi eccezionali, leggi scellerate…
Presto, più del suffragio, sarà lo schifo ad essere universale.
Considero prudente decretare presto il famoso voto obbligatorio. Senza ciò, nel ventesimo secolo, presumo che i funzionari sarebbero i soli a risultare come elettori.
Voterebbe, in ordine, lo stato maggiore.
Voterebbero anche i magistrati, gli assistenti e gli agenti di polizia.
L’Urna, da cui nulla di buono esce, diverrebbe il vaso di Pandora – il gendarme.
Candidature e Candidature
Queste osservazioni correnti e qualche altra ancora erano bastate, sinora, ad allontanarmi dal piattino dell’elemosina in cui gli eletti trovano venticinque franchi. Non avevo fatto ad alcun candidato l’elemosina richiesta di una scheda elettorale.
Avevo torto.
Ecco che si parla, molto a proposito, delle candidature dette di protesta.
Non si tratta più di nominare dei politici; i filosofi entrano in lizza [1]. L’orizzonte si apre verso il pane gratuito. Si manifesta per l’amnistia. Ci si pronuncia contro gli ebrei, si plebiscita per Dreyfus.
Eccole, le idee generali!
È finito il tempo dei programmi. Millerand mostra delle piattaforme. Non è più questione di trespoli…
La verità è in marcia. Se è stanca, prima del traguardo è bene offrirle una sedia.
Sembra che si stia per eleggere un deputato; ma è l’Idea che sta per sedersi.
Il Dovere dei Buoni Francesi
Arriva un momento in cui si capisce l’opera che potrebbe compiere un parlamento veramente democratico.
Un’ora risuonante – in genere quella in cui si pone la propria candidatura – un’ora risuonante, argentina, in cui si avverte l’urgenza della politica alla camera dei deputati. Vi sono sicuramente molte cosa da fare in seno alla camera – quel seno che non si sapeva vedere.
Dall’alto della tribuna parlamentare, le parole acquisiscono in portata. Si ripercuotono sin nei più piccoli borghi del paese.
Si commentano all’estero.
Gli stranieri spiano. Non dimentichiamolo. I buoni Francesi hanno un dovere:
Eleggere un parlamento degno di essi.
Degli Uomini
Allora si agita il problema di una rappresentanza veramente nazionale. Ma quali uomini vi sono qualificati? Quali cittadini bisogna scegliere?
Cerco tra i più grandi.
Millevoye, Dérouléde esitano… E Rochefort, meno avena selvatica, si dedica alla vita di famiglia.
C’è malgrado tutto Edouard Drumond, inflessibile come ai giovani tempi; ma il Maestro ci è sottratto da dei Cabili che non votano. Cosa è rimasto a Marsiglia in cui cantavano per lui i poeti:
I tuoi discepoli formati alla scuola del Maestro,
Non ignorano la devozione;
Su di essi nessun neo potrà mai nascere:
L’hanno promesso in un giuramento.
Ah! Questa promessa… ah! Questi nei… Drumond è partito lo stesso verso inquietanti Casbah.
Già l’Africa acclama il Maestro di cui tutte le donne baciano la mano. Ma sarà deputato di Algeri? È in arabo che si acclama, in spagnolo, in maltese. Vi sono dei brindisi italiani. Ve ne sono altri in maccheronico. Non si sa ancora esattamente cosa pensano gli elettori.
Tuttavia si può sperare. Il tempo è bello. La fisionomia del Maestro, la sua figura caratteristica, impressiona favorevolmente gli antisemiti chiaroveggenti. Sin dal suo primo apparire si solleva un clamore: Morte agli Ebrei!…
L’eco risponde: Viva Drumond!
Non sono che rose e fiori, banchetti in onore del Maestro. I marabutti, familiarmente, lo chiamano Sidi Cuscus.
Il più degno
La conquista di alcuni feudi elettorali da questi o quei capi di partito sarebbe d’altronde insufficiente per modificare la situazione. Si sogna piuttosto una specie di boulangismo che permetterebbe alle persone oneste di manifestare nel contempo, e senza la minima ambiguità, su tutta la superficie del paese. Si vorrebbe che un grido popolare riassumesse le aspirazioni, le rabbie, o, almeno, il disprezzo di una nazione di cui ci si è troppo beffati…
È impregnato di questo pensiero che siamo andati, nel suo rifugio, a far visita ad un Maestro a cui nessuno avrebbe mai pensato, un modesto a cui nessuno negherà il suo esatto significato.
Oggi, ho l’onore di presentare questo maestro al popolo.
Lo si chiama Mastro Aliboron [2]. Tutto ciò sia preso in considerazione. L’asino per cui sollecito il suffragio dei miei concittadini è un compare dei più graditi, un asino leale e ben ferrato. Pelo curato e fine garretto, bella voce.
Un asino, vi dico – quattro zampe e due grandi orecchie. Un asino che raglia e deve pensare, vedendo brulicare i bipedi,
    … i giudici, gli ufficiali giudiziari,
I clericali, i procuratori, i sergenti, i cancellieri:
Parola mia, non più di noi, l’uomo non è che una bestia!
Un asino non troppo intelligente, un saggio che non beve che acqua e indietreggerebbe di fronte ad un calice di vino.
A parte questo, il tipo compiuto di un deputato maggioritario.
Votate per lui!
Non mi piace adulare il popolo. Ecco il candidato che si merita. A Roma, ai tempi della decadenza, la plebe acclamava un cavallo come console.
L’asinello deve trionfare nella repubblica opportunista.
Non ho parlato di boulangismo? In bene! Sì, un boulangismo, ma senza generale con il pennacchio, senza cavallo nero decorativo:
È un asino, un asino, un asino,
È un asino che ci occorre.
E l’asino è pronto. Sta per correre alle riunioni. Lo si vedrà per le strade di Parigi. I suoi amici spiegheranno il suo programma e gli astensionisti stessi, per una volta, andranno a votare.
È un asino bianco.
Si chiama Nullo.
Le schede bianche, le schede annullate, conteranno infine – e saranno contate…
Da subito grandi manifesti illustreranno sui muri il manifesto del candidato.
Un comitato si costituisce: degli scrittori, degli artisti, qualche oratore dei club. Preziose collaborazioni sono state acquisite. Che i Filistei diffidino: l’Asino trotta verso palazzo Borbone.
Votate per Lui!!
Un regime si sotterra con allegria.
Sarebbe ingannarsi, in parte, credere ad uno scherzo, a qualche burla di Montmartre.
Reazionari, conservatori, socialisti disingannati, tutti gli scoraggiati di questa repubblica costituiscono una maggioranza che può, sorridendo, esprimersi.
Bisogna votare per l’asino Nullo [3].
Non facciamoci illusioni: si tenterà di impedire al nostro eletto di raggiungere la scuderia del quai d’Orsay [4]. Lo si perseguiterà forse. Il deposito comunale lo aspetta sicuramente.
Ma vedremo l’autorità di cui gode di cui godrà la nuova Camera, quando, all’oratore in preda all’effetto da tribuna, qualcuno dalle gallerie griderà:
– Basta! Chiedo la parola per il vostro collega l’Asino bianco.
 
Zo d’Axa

Note:[1] In Francese la parola lice, oltre al significato di lizza può significare anche cagna da caccia, (sarà un caso?).

[2] Aliboron è il nome che la tradizione letteraria francese associa all’asino ed è stato reso celebre dalle favole di Jean de la Fontaine

[3] L’âne nul, omofoneticamente suona allo stesso modo di annulle, cioè annullamento. L’asino bianco, quindi, era un invito ad andare a votare ed annullare le schede, visto che, giustamente, come ogni persona onesta sa, dopo ogni elezione le cose rimangono tali e quali se non peggio in quanto esse mostrano la docilità del gregge elettorale a farsi prenderer in giro ed obedire compatto.

[4] Si tratta ovviamente della celebre “stalla del Parlamento” parigina.

 

Le Candidat de « la feuille »

Zo d’Axa

AUX URNES !

 

La période électorale est ouverte : steeple et concert, phrases et phraseurs — la période ! — période ronflante où roulent tous les airs connus.

Les notes graves des contrebasses opportunistes, la voix des fifres socialistes, le chapeau-chinois des radicaux qu’on joue des pieds et des mains, mènent le tapage raccrocheur qui fait renouveler les mandats.

C’est le prélude à grand orchestre — chant et chantage, boniments… On joue du Triangle et de la Croix.

Toutes les promesses sonnent au champ, et le tambour bat en ville. La peau d’âne antisémite rallie les enfants de la patrie : enfants de troupe et enfants de chœur.

Dans les collèges électoraux, boîtes à musique, conservatoires, l’accord est plus déconcertant : quand Marcel Sembat donne le La, André Vervoort lance le Do.

Bien que troublés, les électeurs s’apprêtent à reprendre au refrain. Sous la baguette des chefs d’orchestre, tous les votards donneront de la voix. Tant pis, s’ils ne chantent pas juste. Candidats ! à vos trombones. Peuple souverain ! attention… Nous rénoverons le parlement. Une, deux ! une, deux ! Peuple ! aux urnes !… Gauche, droite ! c’est pour la République ! Une, deux ! gauche, droite ! En mesure…

Et vous, les abstentionnistes ! ceux qu’on ne fait point marcher au pas, au doigt, à l’œil et au bâton — attention ! la mesure est pour rien…

Simples Réserves

J’avais toujours cru que l’abstention était le langage muet dont il convenait de se servir pour indiquer son mépris des lois et de leurs faiseurs.

Voter, me disais-je, c’est se rendre complice. On prend sa part des décisions. On les ratifie d’avance. On est de la bande et du troupeau.

Comment refuser de s’incliner devant la Chose légiférée si l’on accepte le principe de la loi brutale du nombre ?

En ne votant pas, au contraire, il semble parfaitement logique de ne se soumettre jamais, de résister, de vivre en révolte.

On n’a pas signé au contrat.

En ne votant pas, on reste soi. On vit en homme que nul Tartempion ne doit se vanter de représenter.

On dédaigne Tartalacrème.

Alors seulement on est souverain, puisqu’on n’a pas biffé son droit, puisqu’on n’a délégué personne. On est maître de sa pensée, conscient d’une action directe.

On peut faire fi des parlottes.

On évite cette idiotie de s’affirmer contre le parlementarisme et d’élire, au même instant, les membres du parlement.

Je me garderai d’insister. Dans le peuple même on perd la foi : les derniers électeurs ricanent.

Le paysan renonce à implorer. L’ouvrier songe à d’autres moyens…

Rien de bon n’est sorti de l’Urne.

Jamais, pour cause de misère, il n’y eut autant de suicides. Qu’a-t-on fait contre le chômage ? Que n’a-t-on pas fait contre la pensée ? Lois d’exception, lois scélérates…

Bientôt, plus que le suffrage, le dégoût sera universel.

Je tiens pour prudent de décréter vite le fameux vote obligatoire. Sans cela, au vingtième siècle, je présume que les fonctionnaires seraient seuls en carte d’électeur.

Voterait, par ordre, l’état-major.

Voteraient aussi les magistrats, les recors et les gens de police.

L’Urne, dont rien n’est sorti de bon, serait la boîte à Pandore — le gendarme.

Candidatures et Candidatures

Ces observations courantes et quelques autres encore avaient suffi, jusqu’à ce jour, à m’éloigner de la sébile où les élus trouvent vingt-cinq francs. Je n’avais fait à aucun candidat l’aumône quêtée d’un bulletin.

J’avais tort.

Voici qu’on parle, fort à propos, des candidatures dites de protestation.

Il ne s’agit plus de nommer des politiciens ; les philosophes entrent en lice. L’horizon s’ouvre vers le pain gratuit. On manifeste pour l’amnistie. On se prononce contre les juifs. On plébiscite pour Dreyfus.

Les voilà bien, les idées générales !

C’en est fini des programmes. Millerand montre des plates-formes. Il n’est plus question de tréteaux…

La vérité est en marche. Si elle est lasse, avant l’étape, il est bon de lui offrir un siège.

On semble élire un député ; mais c’est l’Idée qui va s’asseoir.

Le Devoir des Bons Français

Un moment vient où l’on comprend l’œuvre que pourrait accomplir un parlement vraiment démocratique.

Une heure tinte — généralement celle où l’on pose sa candidature — une heure tinte, argentine, où l’on perçoit l’urgence de la politique en chambre de députés. Il y a sûrement belle besogne à faire au sein de la Chambre — ce sein que l’on ne savait voir.

Du haut de la tribune parlementaire, les mots acquièrent de la portée. Ils se répercutent jusqu’aux plus petits hameaux du pays.

Ils se commentent à l’étranger.

L’étranger guette. Ne l’oublions pas. Les bons Français ont un devoir :

Élire un parlement digne d’eux.

Des Hommes

Alors s’agite le problème d’une représentation véritablement nationale. Mais quels hommes sont qualifiés ? Quels citoyens faut-il choisir ?

Je cherche parmi les plus grands.

Millevoye, Déroulède hésitent… Et Rochefort, moins folle-avoine, se consacre à la vie de famille.

Il y a bien Édouard Drumond, inflexible comme au jeune temps ; mais le Maître nous est ravi par des kabyles qui ne votent pas. Que n’est-il resté à Marseille où chantaient pour lui les poètes :

Tes disciples formés à l’école du Maître,
N’ignorent pas le dévouement ;
Sur eux aucun point noir ne pourra jamais naître :
Ils l’ont promis par un serment.

Ah ! cette promesse… Ah ! ces points noirs… Drumond est parti quand même vers d’inquiétantes Casbahs.

Déjà l’Afrique acclame le Maître dont toutes les femmes baisent la main. Mais sera-t-il député d’Alger ? C’est en arabe qu’on acclame, en espagnol, en maltais. Il y a des toasts italiens. Il y en a d’autres en petit nègre. On ne sait pas encore au juste ce que pensent les électeurs.

Toutefois on peut espérer. Le temps est beau. La physionomie du Maître, sa figure caractéristique, impressionne favorablement les anti-juifs clairvoyants. Dès qu’il paraît, c’est une clameur : Mort aux Youpins !…

L’écho répond : Vive Drumond !

Ce n’est que fleurs et que banquets, banquets en l’honneur du Maître. Les marabouts, familièrement, l’appellent Sidi Kouskous.

Le plus Digne

La conquête de quelques fiefs électoraux par tels ou tels chefs de partis serait d’ailleurs insuffisante pour modifier la situation. On rêve plutôt d’une sorte de boulangisme qui permettrait aux honnêtes gens de manifester à la fois, et sans la moindre ambiguïté, sur toute la surface du pays. On voudrait qu’un cri populaire résumât les aspirations, les colères, ou, tout au moins, les mépris d’une nation qu’on a trop bernée…

C’est pénétré de cette pensée que nous sommes allé, dans sa retraite, trouver un Maître auquel personne n’avait songé, un modeste dont personne pourtant ne niera la signification précise.

Aujourd’hui, l’honneur m’échoit de présenter ce maître au peuple.

On l’appelle Maître Aliboron. Ceci soit pris en bonne part. L’âne pour lequel je sollicite le suffrage de mes concitoyens est un compère des plus charmants, un âne loyal et bien ferré. Poil soyeux et fin jarret, belle voix.

Un âne, vous dis-je — quatre pattes et deux grandes oreilles. Un âne qui brait et doit penser, en voyant grouiller les bipèdes,

[…]… les juges, les huissiers,
Les clercs, les procureurs, les sergens, les greffiers ;
Ma foi, non plus que nous, l’homme n’est qu’une bête !

Un âne pas trop savant, un sage qui ne boit que de l’eau et reculerait devant un pot de vin.

À cela près, le type accompli d’un député majoritard.

Votez pour Lui !

Je n’aime pas flagorner le peuple. Voilà le candidat qu’il mérite. À Rome, aux jours de la décadence, la plèbe acclamait un cheval consul.

Le bourricot doit triompher en république opportuniste.

N’ai-je pas parlé de boulangisme ? En bien ! oui, un boulangisme, mais sans général à panache, sans cheval hoir décoratif :

C’est un âne, un âne, un âne,
C’est un âne qu’il nous faut.

Et l’âne est prêt. Il va courir les réunions. On le verra dans les rues de Paris. Ses amis diront son programme, et les abstentionnistes eux-mêmes, pour une fois, s’en iront voter.

C’est un âne blanc.

Il se nomme Nul.

Les bulletins blancs, les bulletins nuls, compteront enfin — et seront comptés…

Tout à l’heure de grandes affiches inscriront sur les murailles le manifeste du candidat.

Un comité se constitue : des écrivains, des artistes, quelques orateurs des clubs. De précieux concours sont acquis. Que les Philistins se méfient :

L’Âne trotte vers le palais Bourbon.

Votez pour Lui ! !

Un régime s’enterre gaîment.

Ce serait se tromper, en partie, que de croire à une plaisanterie, à quelque farce montmartroise.

Réactionnaires, conservateurs, socialistes désabusés, tous les lassés de cette république constituent une majorité qui peut, en souriant, s’exprimer.

Il faut voter pour l’âne Nul.

Nous ne nous faisons pas d’illusion : on empêchera notre élu de joindre l’écurie du quai d’Orsay. On le persécutera peut-être. La fourrière l’attend sans doute.

Mais nous verrons l’autorité dont jouira la nouvelle Chambre, quand, à l’orateur faisant des effets de tribune, quelqu’un des galeries criera :

— Assez ! je demande la parole pour votre collègue l’Âne blanc.

Zo D’Axa