Editoriale
Perché la solidarietà è importante per gli anarchici? Al di là dell’apparenza, si tratta di una domanda retorica. La solidarietà si basa sulla nostra concezione della lotta e della vita. Questa domanda, in ogni caso, è stata continuamente posta nel corso della nostra storia.
Il sistema dominante, fondato sulla rappresentazione e l’autorità, sull’economia e la repressione, nega la solidarietà. Il sistema democratico è nemico della solidarietà, essendo basato sulla fede (in un politico, in un partito, in una campagna) e sulla delega. L’autorità si basa sulla forza, sull’oppressione e, di conseguenza, dove c’è oppressione non può esserci solidarietà. Il capitalismo è esattamente l’opposto della solidarietà: l’inganno, il privilegio a scapito degli altri, lo sfruttamento materiale, la schiavitù. La repressione interdisce la solidarietà, col bastone o con la legge. Le religioni, istituzionalizzate o meno, qualsiasi esse siano, compreso il cristianesimo che usa la parola «solidarietà» al posto di «carità», sono nemiche della solidarietà dal momento che questa può esistere solo tra uguali e nella religione non c’è relazione possibile che non passi attraverso la mediazione (di un dio, del prete, di qualsivoglia chiesa).
La solidarietà si manifesta nella vita non mediata, ma soprattutto nel corso della lotta e nello scontro con chi la nega.
Le dimostrazioni di sostegno, a tutti i livelli, a seguito dell’arresto di 11 compagni nel dicembre scorso, ci hanno posto la domanda in maniera diversa. Poiché la solidarietà è fondamentale nelle nostre pratiche, essendo «la migliore arma che abbiamo», come hanno espresso le manifestazioni di Barcellona, poiché «la solidarietà non è una semplice parola scritta», come più o meno hanno dimostrato gli anarchici che sono evasi dal Carcere di Punta Carretas (Montevideo, Uruguay) il 18 marzo del 1931, con l’aiuto di altri compagni e compagne che per oltre un anno e mezzo hanno lavorato alla costruzione di un cunicolo per liberarli ― può solo essere una solidarietà complice.
La reazione agli arresti da parte di tantissime persone è stata positiva. Questo significa che chi è sceso in strada, chi ha raccolto soldi per le spese necessarie ai tanti compagni arrestati o in carcere, chi ha manifestato il proprio sostegno al di là delle accuse, ha compreso che la solidarietà è più di un’adesione virtuale.
Come mai non c’è stata una risposta analoga quando sono stati arrestati altri compagni e compagne, nelle operazioni repressive del 2013? Ciascuno avrà i suoi motivi. Però, in certi casi, non c’è scusa che tenga. La solidarietà con gli anarchici non può aspettare chiarimenti, direttive, gruppi di sostegno e quant’altro. Siamo rassegnati ― tara mentale generata dall’invadente sinistra ― al fatto che da un arresto nasca un gruppo di addetti ai lavori che si adopera per trasformare una campagna, in parecchi casi asettica e vittimista, pur di ottenere la liberazione dei detenuti.
È necessario seguire sempre lo stesso schema? Non si possono cercare di fare le cose in modo diverso? Alcuni pensano che rifiutare lo schema di una campagna di sinistra significa condannarsi al fallimento, alla mancanza di solidarietà. Tuttavia, nei casi in questione, in particolare nei fatti repressivi del novembre 2013, c’è stata una mancanza di solidarietà fin dal primo momento.
Ma cercare di fare le cose in modo diverso significa tentare di avanzare sulla strada della lotta e, a volte, della repressione. E ciò che da alcuni può essere considerato un fallimento, sempre in senso matematico, altri possono ritenerlo un successo, in senso critico, di approccio, di rifiuto degli schemi e un rafforzamento, se vogliamo, etico.
L’effetto «cancelletto»
«I telefoni intelligenti ci offrono l’opportunità di capire come la vita normale modelli la mente della gente comune. La tecnologia digitale che usiamo quotidianamente modella il processo sensoriale nella mente a un livello che ci ha sbalorditi»
Articolo su uno studio dell’Università e del Politecnico Federale di Zurigo (Svizzera) sull’effetto di dispositivi tattili sulla nostra mente
(La Vanguardia, 20 gennaio 2015)
Lo slogan «anch’io sono anarchico» è stato ribadito a più riprese. Due di queste situazioni, da poco, ci hanno indotto a qualche riflessione: la prima è relativa alla lotta nel quartiere di Gamonal a Burgos [a gennaio e nel novembre 2014], dove questo slogan è stato lanciato da alcuni abitanti in risposta ai tentativi del sindaco di dividere, di far scontrare e separare per l’ennesima volta le persone del quartiere; la seconda era in seguito all’arresto delle persone accusate nell’ambito dell’operazione Pandora, quando questa parola d’ordine ha cominciato a rimbalzare di cellulare in cellulare, preceduta da un cancelletto: «#Anch’io sono anarchico»!
Nel primo caso, si trattava di una risposta puntuale e forte contro la violenza dello Stato, da parte di coloro che non credono più agli stratagemmi di quest’ultimo, frutto del lavoro collettivo fra compagni e vicini di Gamonal. Nel secondo caso, è solo un hashtag in più, una etichetta formata da una parola, una sigla o una frase preceduta dal carattere «cancelletto» e utilizzata su internet, nello specifico sul social network Twitter.
L’effetto cancelletto è la possibilità di fare propria una etichetta dotata di un certo peso (quale esso sia), cosa che ci consente di dare un’opinione senza pronunciare una parola, senza immischiarsi, senza una riflessione approfondita: basta riprodurre quell’etichetta al ritmo nevrotico delle nostre vite (in un ascensore, nel traffico, in metropolitana, fra una classe e l’altra, perfino mentre si sta cagando), come pure il mondo virtuale in generale ci dà l’opportunità di comunicare (o diffondere) sul campo qualsiasi riflessione, opinione, foto, stronzata, poco importa cosa viene detto. Viva il fantastico mondo della tecnologia!
Quando eravamo piccoli, giocavamo spesso così: prendevamo una parola di due sillabe e la ripetevamo più volte fino a quando cambiava significato. Ciò che allora mi stupiva non era che «bron-ca» [rabbia] si trasformasse in «ca-bron» [carogna], ma fino a che punto le due parole venissero svuotate del loro significato come per magia, diventando solo un suono. È così che la frase «yo también soy anarquista» ripetuta tante volte può certo crescere e diffondersi nel tempo, ma, in relazione al mezzo utilizzato e alla situazione in cui viene lanciata, può acquisire un senso e una rappresaglia o sgretolarsi e ridursi a semplice slogan, ad una parola vuota.
Non daremo lo stesso valore al «Soffro perché sono radicale» di Vanzetti di fronte alla pena di morte e al fluttuante «#Anch’io sono anarchico» trasmesso «anonimamente» su Twitter.
La solidarietà è accettabile, ma non bisogna dimenticare che è proprio ripetendo una cosa e decontestualizzandola che si banalizza il suo valore, il suo peso; definirsi anarchici in un momento in cui questo viene messo in discussione è certo apprezzabile, ma è assurdo farlo senza sentirlo, senza crederci e senza capirlo, per di più attraverso uno strumento mediatico che non implica nessun coinvolgimento reale. Quindi non è sorprendente che anche dei politici o dei giornalisti con la passione delle nuove tecnologie annuncino con fierezza la loro facile solidarietà da smartphone: «#yo también soy anarquista». Nessuno di loro avrebbe certo avuto l’audacia di riprendere così facilmente questa etichetta sul proprio GPS dotato di parola e di scritto quando Francisco e Monica sono stati arrestati. Perché? O di affermare come alcuni solidali in un volantino: «Siamo tutti Mateo Morral». E in tal caso, questa frase si sarebbe diffusa con altrettanta rapidità fino a diventare un trending topic, un argomento alla moda?
Lo spazio che ognuno di noi dà alla tecnologia nella propria vita denota una scelta personale, ma è responsabilità di tutti che chi dice basta! all’avanzata frenetica di quest’ultima quanto meno non venga escluso dall’informazione nei momenti importanti. Se alcuni amano passare il loro tempo scrivendo su Twitter massime filosofiche o maledicendo i politici… che lo facciano, personalmente non li seguirò. Ma al di là dell’invito ad una riflessione personale su fino a che punto vogliamo continuare a dare spazio a questa corsa sfrenata e consumistica del controllo totalitario, pensiamo che sia di vitale importanza mantenere gli antichi strumenti di comunicazione fra di noi.
[Aversión, n. 13, marzo 2015]
http://finimondo.org/node/1604
L’Effet dièse
« Les téléphones intelligents nous offrent l’opportunité de comprendre comment la vie normale modèle le cerveau des gens communs. La technologie digitale que nous utilisons au quotidien modèle le processus sensoriel dans le cerveau à une échelle qui nous a surpris. »
Article sur une étude de l’Université et de l’École Polytechnique Fédérale de Zurich (Suisse) sur l’effet de l’utilisation de dispositifs tactiles sur notre cerveau. (La Vanguardia, 20 janvier 2015)
Le slogan « yo también soy anarquista » [moi aussi, je suis anarchiste] a été repris à de nombreuses reprises. Deux de ces occasions, il y a peu, nous ont poussé à quelques réflexions : la première a concerné la lutte dans le quartier de Gamonal à Burgos [en janvier et novembre 2014], où ce slogan a été lancé par des habitants en réponse aux tentatives de la mairie de séparer, de faire s’affronter et de diviser une fois de plus les gens du quartier ; la seconde a suivi l’arrestation des personnes accusées dans le cadre de l’opération Pandora, lorsque ce mot d’ordre s’est mis à rebondir à toute vitesse de portable en portable, précédé d’un signe dièse : « #Moi aussi je suis anarchiste » [1] !
Dans le premier cas, il s’agissait d’une réponse ponctuelle et forte contre la violence de l’État, venant de ceux qui ne croient plus aux stratagèmes de ce dernier, fruit du travail collectif entre des compagnon-nes et des voisin-es de Gamonal. Dans le second cas, ce n’est qu’un hashtag de plus, une étiquette formée d’un mot, un sigle ou une phrase précédés du caractère « dièse », et utilisé sur internet, en l’occurrence sur le réseau social Twitter.
L’effet dièse, c’est la possibilité de faire sienne une étiquette [un hashtag se compose d’un # suivi d’un tag, ou étiquette] dotée d’un certain poids (quel qu’il soit), cela nous permet de donner une opinion sans prononcer un mot, sans se mouiller, sans réflexion approfondie, puisqu’il suffit de reproduire cette étiquette au rythme névrotique de nos vies (dans l’ascenseur, dans les embouteillages, dans le métro, entre un cours et un autre, et même quand on est en train de chier). De la même façon d’ailleurs que le monde virtuel en général nous offre l’option de communiquer (ou de répandre) sur le champ n’importe quelle réflexion, opinion, photo, connerie, peu importe ce qui est dit : Vive le monde fantastique de la technologie !
Quand nous étions petites, nous jouions souvent à ce jeu : nous prenions un mot de deux syllabes et nous le répétions plusieurs fois jusqu’à ce qu’il change de sens ; ce qui me surprenait alors, ce n’était pas que « bron-ca » [colère] se transforme en « ca-brón » [salaud], mais plutôt à quel point les deux mots se voyaient vidés de leur sens comme par magie et ne devenaient plus qu’un bruit. C’est ainsi que la phrase « yo también soy anarquista » répétée à maintes reprises peut certes grossir et se diffuser dans le temps, mais, en fonction du moyen utilisé et de la situation dans laquelle elle est lancée, peut aussi bien se charger de sens et de représailles que s’effriter et se réduire à un simple slogan, à un mot creux.
Nous n’accorderons certainement pas la même valeur au « Je souffre parce que je suis anarchiste » de Vanzetti face à la peine de mort [2], qu’au « #Moi aussi je suis anarchiste » transmis « anonymement » et en flux par Twitter.
La solidarité est appréciable, mais il ne faut pas oublier que c’est précisément en ressassant et en décontextualisant quelque chose qu’on banalise sa valeur, son poids ; se définir anarchiste à un moment où c’est cela qui est en cause est bien sûr appréciable, mails il est absurde de le faire sans le ressentir, sans y croire et/ou sans le comprendre, qui plus est à travers un média qui ne suppose aucune sorte d’implication réelle. Ainsi, il n’est pas surprenant que même des politiciens et des journalistes férus de nouvelles technologies annoncent fièrement leur solidarité facile de smartphone : « #yo también soy anarquista ». Aucun d’entre eux n’aurait certainement eu l’audace de reprendre aussi facilement cette étiquette sur leur GPS doué de parole et d’écrit lorsque Francisco et Mónica ont été arrêtés. Pourquoi ? Ou d’affirmer comme certaines personnes solidaires dans un tract : « Nous sommes tou-tes Mateo Morral ». Et dans ce cas, cette phrase se serait-elle diffusée avec autant de rapidité, jusqu’à devenir un trending topic, c’est-à-dire un sujet à la mode ?
L’espace que chacun-e d’entre nous donne à la technologie dans sa propre vie relève d’un choix personnel, mais c’est une responsabilité collective qu’au moins celles et ceux qui disent basta ! à l’avancée frénétique de cette dernière ne soient pas exclu-es de l’information lors de moments importants. Si certain-es aiment passer leur temps en écrivant des maximes philosophiques ou en maudissant les politiciens sur Twitter… qu’ils y aillent, personnellement, je ne les suivrai pas. Mais au-delà de l’invitation à une réflexion personnelle sur jusqu’à quel point nous voulons continuer à donner de la place à cette course effrénée et consumériste du contrôle totalitaire, nous pensons qu’il est d’une importance vitale de maintenir les anciennes méthodes de communication entre nous…
[Traduit de l’espagnol d’Aversión n°13, mars 2015, par brèves du désordre.]
Notes
[1] Un effet encore amplifié suite à l’Opération Piñata du 30 mars, où on a même vu fleurir dès le surlendemain en guise de solidarité une… vente de tee-shirts à 9€ ! Et au-dessous d’un slogan emprunté ailleurs, il y a bien sûr l’inévitable invitation à se rendre sur twitter et son « #YoTambiénSoyAnarquista ». Voir l’image ci-contre, tirée d’un blog espagnol du mouvement qui soutient cette initiative.
Dans le même genre, on a pu trouver dès le lendemain l’invitation à un apéro solidaire à Barcelone avec comme point de référence encore twitter, mais cette fois en déclinaison catalane « #JoTambeSocanarquista » !
Conclusion, en cas de répression achète un tee-shirt ou bois un coup, mais surtout tweete bien ta rage…
[2] Discours de Vanzetti face au juge Thayer le 9 janvier 1927 lors de l’ultime sentence de sa condamnation à mort : « Je souffre parce que je suis anarchiste, et vraiment je suis un anarchiste. J’ai souffert parce que j’étais un Italien, et vraiment je suis un Italien. J’ai souffert plus pour ma famille et pour ceux que j’aime que pour moi-même, mais je suis si sûr d’avoir raison, que pouvez me tuer une fois, mais si pouviez m’exécuter deux fois et si pouvais renaître deux fois, je voudrais vivre de nouveau pour faire encore ce que j’ai déjà fait. J’ai fini. Merci. »
http://www.non-fides.fr/?L-Effet-diese