Insolito sguardo

COPSGUA

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La libertà sarà anche contagiosa, ma la servitù volontaria ha mostrato d’esserlo assai di più. Nell’eterno presente del dominio e dell’obbedienza sembra non esserci via di scampo. Chi si ostina a pensare che libertà non sia sinonimo di normalità, si sorprende attonito davanti a parole e ad azioni che hanno perso ogni significato. Ma il realismo della rassegnazione e della politica può incappare in ben altro che in lamentosi spettatori

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I tre testi qui presentati sottolineano che, a prescindere dalle circostanze “oggettive” della realtà circostante, per quanto sfavorevoli, la possibilità di sparigliare le carte del dominio è sempre alla portata di fantasia e determinazione.
Le occasioni non mancano, non mancano mai. Il più delle volte è il nostro occhio a non essere in grado di vederle, perché addomesticato a guardare solo ciò che gli è già noto.
C’è bisogno di un insolito sguardo – rivolto altrimenti – per giungere altrove.
INSOLITO SGUARDO
Carpe Diem • 13 minuti • Uno, due, tre… otto
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Carpe Diem

da Finimondo:

A nessuno è concesso di conoscere il futuro, né di determinarlo a proprio piacimento.

La vita è davvero quello che ci capita mentre siamo impegnati a fare altri progetti. I soli obiettivi che talora si riescono a raggiungere sono quelli più banali. Spesso mediocri. Ma i grandi obiettivi, quelli, conoscono solo generosi tentativi trascinati da entusiasmo e speranza.

Perché, ad essere sinceri fino alla brutalità, trascorriamo gran parte della nostra esistenza ad assistere da spettatori — attoniti o infuriati — alla realtà quotidiana. Veniamo determinati, assai più di quanto riusciamo a determinarci. Ed è anche questo senso di impotenza a spingere all’azione. Gli attacchi solitari, così come gli assalti collettivi, possono dare un senso alla vita, la riempiono e la abbelliscono rendendola meno triste. Ma spesso è soprattutto attraverso i voli della retorica che arrivano a minacciare l’esistente. Un esistente che si sta mostrando sempre più in grado di fagocitare ogni pensiero ribelle, ogni atto audace, e di riprodursi nonostante questi ultimi, talvolta anche attraverso gli stessi. Incessantemente.

«L’avvenire noi siam, pensiero e dinamite», si diceva oltre un secolo fa. No, noi anarchici non siamo più l’avvenire (se mai lo siamo stati). In un certo senso, non possiamo nemmeno più esserlo. I vasi comunicanti fra il pensiero e l’azione sono stati tagliati, forma e contenuto non vanno più di pari passo. All’orizzonte di questa civiltà ipertecnologica rumoreggia il ritorno dell’analfabetismo, non certo l’avvento della coscienza. La pace dei mercati rischia di essere minacciata dalla guerra civile, assai più che dalla guerra sociale. L’idea non arma più il braccio, il braccio non riesce più a dare potenza all’idea. Privati d’ogni prospettiva, si finisce, semplicemente, per agitarsi, sballottati qua e là dagli avvenimenti.

Un secolo fa, a Parigi, un pugno di anarchici armati fino ai denti si spostava su veloci automobili, dando parecchio filo da torcere ad una società borghese che contro di loro lanciava i suoi poliziotti spesso disarmati e muniti al massimo di bicicletta. Nonostante questa disparità, tutta favorevole agli anarchici, quella rivolta individuale durò appena pochi mesi.

Una ventina di anni dopo, in Spagna, le cose non andarono tanto meglio alla rivoluzione sociale. La sua anarchia durò solo una «breve estate», nonostante gli anarchici capeggiassero la più grande organizzazione sindacale del paese e potessero contare sui suoi milioni di iscritti.

Ed oggi, invece? Oggi, sono gli anarchici a dover andare in bicicletta se vogliono evitare di venire seguiti dalla polizia attraverso i rilevatori satellitari. Oggi, sono gli anarchici ad entrare nelle masse estranee se vogliono (illudersi di) contare. Ma non prima di aver messo una museruola alle loro aspirazioni più mordaci.

L’impressione più immediata che abbiamo è quella di essere stati messi fuori gioco. Di assistere a bordo campo a un gioco che, oltre a ripugnarci, ci è in ogni caso precluso. Politici che passano la palla ad imprenditori, i quali a loro volta la passano a banchieri, i quali a loro volta la passano a governanti, i quali a loro volta… i nostri nemici sembrano essere rimasti i soli in campo, non devono nemmeno affaticarsi troppo, possono limitarsi a far trascorrere il tempo, quasi senza intoppi. Trionfatori su tutti i piani — grazie anche a noi. Non a caso l’uomo considerato il più ricco del mondo gongola all’idea che ormai da decenni non sia più in discussione il cosa, tutt’al più il come.

Fine dei nostri giochi? Il discorso è quindi da considerare chiuso?

Cogliere l’attimo

Eppure lo sviluppo del dominio non avviene in un vuoto d’aria che lo preserva in permanenza dalle raffiche di vento. Ecco perché il gioco fra apparati non può essere condotto sempre al centro del campo, al sicuro. La parabola della loro palla la scorgiamo sovente anche ai bordi. Più vicina a noi. Anche molto vicina a noi. Dal centro alla periferia, e viceversa. Se ne osserviamo gli schemi, i loro passaggi appaiono talvolta prevedibili. Si può intuire in anticipo su quale bordo del campo la palla passerà. Impossibile conoscerne la velocità, o chi andrà a raccoglierla, ma la traiettoria, più o meno, quella sì. E basterebbe allungare il piede, in una breve invasione di campo, per cambiarne la direzione e scombussolare così i progetti dei nostri nemici. E cogliere l’attimo.

In questo senso, carpe diem non va inteso come sinonimo di abbandono edonista, non è il passo di danza, con un drink in mano, nel salone del Titanic che affonda. È una mossa improvvisa ed inaspettata con cui scompaginare il gioco dell’avversario. Non è né un gioco individuale, né un gioco a squadre. È entrambe le cose. È il gioco di chi non ha gioco, il gioco di chi, trovandosi in un dato contesto solo contro tutti, decide di osare per seminare confusione nelle fila del nemico. Perché, contro ogni edificante favola collettivista, ogni singolo individuo ha sempre la possibilità di reinventare tutto. Quando tutto sembra ormai dato per perso, scontato, si tratta di compiere una mossa imprevista e dall’esito imprevedibile. Quando ci si ritrova nell’impossibilità di andare avanti, così come di tornare indietro, occorre aprirsi un varco, una breccia laterale, attraverso cui sottrarsi all’accerchiamento. A rischio di soccombere nel tentativo.

L’esempio storico più noto, e più sfortunato, risale forse al marzo 1933, a Berlino, quando il giovane Marinus Van der Lubbe prese una decisione ardita. Si guardò attorno, prese atto del dilagare del nazismo e della concomitante disfatta del proletariato tedesco e — anziché lasciarsi andare allo sconforto — decise di agire. Non ebbe fortuna, no. Ma come negare che quella sua determinazione, straordinaria quanto commovente, fa parte a pieno titolo di ciò che ci resta?

Contrariamente a quanto pensano i più populisti, a nostro avviso non è possibile costruire nulla di radicalmente diverso in questa realtà, non è possibile persuaderla a rovesciarsi. E, contrariamente a quanto pensano i più nichilisti, non riteniamo neppure di possedere la forza per distruggerla totalmente. Ma le ragioni del pessimismo non possono nulla contro quella irragionevolezza che da sempre alimenta la rivolta. Le lamentele possono affiorare sulla bocca, ma non possono scavare nel cuore. Una cosa è sempre possibile farla, sia che siamo in tanti sia che siamo in pochi: tentare di inceppare la realtà. Non è una soluzione, non fornisce risultati certi né garanzie, è una possibilità da azzardare e di cui avvalersi, sempre nel corso dei propri progetti.

Le occasioni non mancano, non mancano mai. Il più delle volte è il nostro occhio a non essere in grado di vederle, perché non è abituato. Vede i movimenti sociali, percepisce il disagio di cui spesso sono espressione, guarda agli appuntamenti militanti, li tiene costantemente sotto osservazione. Ma non vede molto altro. Il calcolo, questa ossessione così occidentale nella sua pura razionalità, tarpa la nostra visuale oltre alle nostre ali. Contiamo le forze del nemico, contiamo le nostre forze, e dopo averne soppesata l’enorme disparità pensiamo solo a come far pareggiare il bilancio. Ma i conti non tornano, non torneranno mai. Bisogna pur decidersi ad ignorarli, o per esuberanza o per innocenza.

Altrove e altrimenti

Oltre mezzo secolo fa un critico statunitense, spirito troppo libero per rimanere in ginocchio nelle segreterie di partito, faceva notare come esistano diverse maniere di guardare ciò che ci circonda, a seconda della prospettiva di ogni individuo. La percezione di un bosco, ad esempio, cambia se a guardarlo è un cacciatore o un artista. L’occhio del primo vede tutto ma la sua mente registra solo la preda di cui va in cerca. È (e vuole essere) consapevole solo di questo particolare. L’occhio del secondo invece coglie le sfumature, le ombre, i colori, perché vuole essere consapevole di tutto. Gli americani, diceva questo critico, sono cacciatori, persone pratiche, infatti la loro cultura si fonda sul pragmatismo. A differenza degli europei, disprezzano l’arte ed apprezzano solo la tecnica. Ecco perché sono così esperti nel raccogliere dati e redigere manuali. Scriveva: «… noi diciamo “È un fatto”, e non vogliamo dire “È soltanto un fatto”, ma piuttosto, “Poiché è un fatto, non c’è altro da aggiungere”. Questo tropismo verso il Fatto deforma il nostro pensiero e impoverisce la nostra umanità. La “teoria” (dal greco theoria) è letteralmente un “guardare”; di qui “contemplazione, riflessione, speculazione”».

Non molti anni fa una critica francese, da sempre nemica di ogni pragmatismo e atterrita dalla colonizzazione planetaria di corpi e spiriti da parte dell’idra tecnologica, osservava che «l’indistruttibile sole della mediocrità non ha smesso di affascinare. Ma se esiste un mezzo per sottrarvisi, ovvero per combatterlo, non è quello di cominciare a guardare altrove e altrimenti?».

Entrambi questi autori, dunque, ponevano al centro dell’attenzione la questione dello sguardo e della sua importanza. Lo sguardo, ovvero — in senso greco — la teoria. La mente degli esseri umani si sofferma ad approfondire solo ciò su cui si posano gli occhi. Ma, bisognerebbe aggiungere, è vero anche il contrario! Ovvero che, a lungo andare, noi guardiamo solo ciò che teorizziamo.

Anche gli anarchici sono cacciatori: cacciatori di rivolte, di sommosse, di rivoluzioni. Individui pratici, disprezzano anch’essi l’arte. Ecco perché, quando entrano nella metropoli, si guardano attorno ed il loro occhio registra solo alcuni particolari, quelli che reputa interessanti: il rumore del malcontento che spezza il silenzio del consenso, il movimento della protesta che agita le strade. È lì e solo lì che l’anarchico vuole indirizzare la propria mira. Certo, il cacciatore vuole uccidere la preda mentre l’anarchico vuole solo accompagnarla, magari sedurla, talvolta cavalcarla. Diversi nelle intenzioni, benché il loro occhio rimanga il medesimo.

Ma la rivolta, per tanti anarchici, non era una forma di poesia, più che di propaganda? Non erano loro a rifiutare una rivoluzione in cui non si potesse ballare? Non erano loro a porre non solo la questione del pane, ma anche quella delle rose? Rivendicare la soddisfazione dei bisogni materiali, organizzare questa rivendicazione, è sempre stato il lavoro politico della sinistra, la sua specialità e professione. Per quanto abitanti della terra, con i piedi immersi nel fango, gli anarchici hanno sempre puntato i loro occhi alle stelle venendo non a caso accusati di essere idealisti, romantici, sognatori. Nel loro cuore c’è soprattutto l’esplorazione dei desideri. Non un lavoro, ma un gioco. Non una scienza, ma un’utopia. Non una tecnica, ma semmai — se ci è concessa la volgarità — un’arte.

Eccoci arrivati al dunque, a ciò che qui vogliamo iniziare ad accennare. La possibilità ed anche la necessità di allargare il nostro sguardo, di non concentrarlo solo e soltanto sulla preda abituale, ma anche su tutto ciò che ci circonda. Anche perché non si può nascondere che la vecchia alternativa «apocalisse o rivoluzione» si stia sempre più risolvendo a favore della prima e le modificazioni sociali avvenute negli ultimi decenni abbiano vanificato molte esperienze sovversive del passato, intese come abituali e confortanti punti di riferimento. È vero che esistono ancora paesi con una buona presenza di movimenti anarchici determinati e consapevoli, dove la questione sociale è ancora all’ordine del giorno, ma si tratta di eccezioni che sembrano confermare una triste regola: un ambito sociale frammentato, atomizzato, in cui gli anarchici si ritrovano sempre più isolati, deboli, impotenti. Anarchici che, dopo la certezza, adesso hanno perso anche la speranza di preparare e vivere la Grande Sera. Ma a cui nulla e nessuno potrà impedire di cogliere l’attimo.

Ed è proprio per cogliere l’attimo che è necessario cominciare a guardare altrove e altrimenti. A pensare come sparigliare le carte dell’avversario, invece di rispondere al suo gioco. A come mandarlo in confusione, anziché rintuzzarlo. A come sorprenderlo, possibilmente, essendo dove lui non ci aspetta, facendo ciò che non si attende. Cercando di capire non come fare ciò che si è sempre fatto, ma come fare ciò che non si è mai fatto. Aspettare le situazioni al varco per farle precipitare, anziché rincorrerle per influenzarle con il peso della nostra (inibita) presenza. Oppure intervenire percorrendo la periferia delle situazioni senza bloccarsi nell’ingorgo del loro centro. Oppure, addirittura, anticiparle per dirottarle altrove, mandando in rovina i progetti del nemico.

Ma forse il modo migliore per spiegare cosa vogliamo dire è fare alcuni esempi.

Una situazione da far lievitare o precipitare?

Si potrebbe quasi definire un riflesso condizionato. Davanti ad una situazione che si presenta favorevole, piena di potenzialità, una situazione di forte disagio e insofferenza da parte della gente, accompagnata magari da segnali di protesta, l’anarchico tende a buttarsi a capofitto per fare da lievito. Vuole essere l’elemento che mette in moto una specie di reazione a catena in grado di far crescere la situazione. Farla crescere quantitativamente affinché arrivi ad una mole tale da poter fare pressione, da poter contrastare la dimensione dell’avversario statale. Per raggiungere questo obiettivo ci si ritrova nella necessità non solo di trascurare ogni preoccupazione qualitativa (che qui le scuse non mancano, da «quello che si fa è più importante di quello che si dice» a «da cosa nasce cosa»), ma anche di fare da medico pediatra della situazione in corso. Si misurano di continuo la sua pressione ed altezza, si dosano i passi da compiere, si blocca ogni slancio che potrebbe compromettere una crescita regolare e quindi sana. Non si pensa mai a come fare l’esatto contrario, ovvero a farla precipitare.

Eppure, in questo senso, l’esempio storico (per quanto dal sapore piuttosto mitologico) è davvero celebre. Ci riferiamo all’insurrezione di Praga del 1848, quando una situazione di forte conflitto fra truppe di soldati e manifestanti più o meno democratici stava per essere riassorbita, per spegnersi, per timore delle possibili conseguenze di un salto nel buio. Fu una fucilata, una semplice fucilata partita dalla finestra di un albergo a dare fuoco alle polveri. Che sia stato davvero Bakunin a premere il grilletto o meno, non ha alcuna importanza. Quello era un momento di tensione fra l’apparato dello Stato e un movimento che non sventolava affatto la bandiera nera dell’anarchia. Ma, anziché preoccuparsi di far lievitare il movimento, di accompagnarlo poco alla volta nelle sue rivendicazioni, di insegnargli tecniche e tattiche, di farlo crescere nella sua consapevolezza, ci fu chi con una semplice azione alla portata di chiunque fece precipitare la situazione.

Questa non è solo una citazione del lontano passato, è anche una possibilità concreta del presente.

A ben pensarci non è poi tanto diverso — risultati a parte — da ciò che accadde nei pressi di Napoli pochi anni fa. L’utilizzo a dismisura di una discarica di rifiuti aveva riempito l’aria non solo di un insopportabile fetore, ma anche di tanta rabbia. Persone comuni si ritrovarono a bloccare i camion che trasportavano la raccolta della spazzatura, in una semplice rivendicazione di aria respirabile. E subito spuntarono i vari militanti, pronti a proporre assemblee cittadine su come risolvere il problema, su come attuare una raccolta differenziata, su come far funzionare dal basso quei servizi che le istituzioni non erano più in grado di gestire dall’alto. In quella situazione di tensione, quando nei presidi iniziavano già a volare le molotov e alcuni sindaci strappavano pubblicamente la loro insegna tricolore, cosa accadde? Che qualcuno incendiò i camion usati per la raccolta dei rifiuti. Ciò ovviamente non avrebbe risolto nulla, anzi, poteva solo provocare maggiori disagi poiché la spazzatura si sarebbe accumulata ancor di più, direttamente sulle strade. Non una ragionevole proposta volta a far crescere il movimento, ma semmai una eccessiva provoc-azione diretta a scatenare gli animi.

Quanto è abituato il nostro sguardo ad andare alla ricerca di simili possibilità? Possibilità che si presentano e si presenteranno sempre, al di là del contesto e delle ragioni della protesta. E al di là del numero dei compagni presenti. Perché, in fondo, cosa serve se non un occhio attento, qualche mezzo e un po’ di fantasia e determinazione?

Dal centro alla periferia

No, non siamo abituati. Nemmeno noi che qui ne parliamo lo siamo. Come tutti, tendiamo a cercare con gli occhi i contorni già noti. L’anarchico tende a rispondere, possibilmente colpo su colpo. E ciò è ammirevole per la fierezza che denota. Ma ha sempre senso? Ha davvero senso stare continuamente dietro lo Stato, seguirlo per criticare e rintuzzare le sue politiche? In un certo senso ciò è inevitabile. Quando scoppia una guerra, è inevitabile che l’occhio del cacciatore vada alle sedi diplomatiche dello Stato più belligerante. Quando una politica particolarmente odiosa diventa legge, è inevitabile puntare le sedi del partito che l’ha votata. Inevitabile, sì, ma l’azione non può esaurirsi qui. Si diventerebbe troppo prevedibili. Già lo siamo fin troppo, ad esempio quando annunciamo con fragore giornate o settimane di azioni contro questo o in solidarietà con quello. Non ci sembra davvero una buona idea fornire in anticipo ai guastafeste in uniforme date e luoghi dei nostri bagordi. In fondo, cosa cambierebbe se si scompigliasse il calendario? Il mondo che odiamo è talmente compatto, talmente intrecciato, talmente univoco da permetterci di non fare troppe distinzioni. E poiché non è affatto certo che il nemico del giorno sia anche quello che offre la possibilità del giorno, non sarebbe meglio lasciar perdere il primo e dedicarsi di più al secondo? Non sarebbe meglio pensare, abbozzare, un percorso di lotte che sia davvero nostro, del tutto autonomo? Inattuale, se vogliamo. Con meno bandierine da sventolare, senz’altro, ma probabilmente con maggiori spazi di agibilità. Inoltre, spesso e volentieri è solo per esaurimento o pigrizia mentale che non si è in grado di anticipare gli eventi. Le guerre, così come le leggi, non spuntano fuori all’improvviso, dal mattino alla sera. Siamo noi ad essere abituati ad attenderne l’ufficializzazione, perché pensiamo che solo una re-azione sia comprensibile, se non giustificata. È un codice d’onore piuttosto pericoloso quello di aspettare di ricevere il colpo dall’avversario prima di colpire a nostra volta. Ed è anche sciocco, giacché tutti noi siamo già sotto i colpi dello Stato, lo siamo sempre, 24 ore su 24. Non abbiamo bisogno di attendere proprio nulla, non dobbiamo rispondere proprio a nulla. Meglio essere noi a decidere il cosa e il quando e il dove, sempre, in base alla migliore occasione.

Quando a metà degli anni 80 in Italia iniziò la lotta contro l’industria dell’atomo, i militanti andarono fuori dalle centrali nucleari ad urlare e ad organizzare la rabbia popolare. La cosa più immediata da fare è proprio quella, recarsi laddove si è attesi. Alcuni anarchici preferirono fare passeggiate notturne per le campagne. Sotto la luna, e non sotto le telecamere, i tralicci iniziarono a cadere (e non solo per mano anarchica). Era pur sempre una questione di energia, ma indirizzata altrove e altrimenti. Inoltre gli effetti collaterali di una simile pratica erano del tutto imprevedibili, perché le stesse autorità furono costrette ad ammettere che, se fosse caduto il traliccio giusto… chissà cosa sarebbe potuto accadere. Un black-out? Magari non su scala nazionale, ma di certo locale. Come accade talvolta a causa di un guasto di una centrale elettrica, o più semplicemente di una delle tante centraline periferiche che incontriamo ad ogni passo nella via. In passato la sospensione di un servizio essenziale come l’elettricità, indispensabile per la perpetuazione della routine quotidiana, ha molte volte provocato nelle metropoli gli effetti di massa più incontrollabili, come i saccheggi. E un black-out, oltre a sospendere la normalità e ad eccitare gli animi, potrebbe perfino servire a realizzare i desideri più inespressi. Per coloro ai quali non interessa osservare le persone infine scatenate lanciarsi all’assalto delle merci nei supermercati, né stare al loro fianco, in mezzo a quel disordine potrebbe esserci sicuramente qualcosa di meglio da fare — ma solo se lo avranno già pensato e preparato prima.

Quando si pensa al capitale e alle sue speculazioni, il nostro occhio va alle banche e ai loro sportelli. Ovvio e giusto. Ma perché non va anche alle anonime ed innocue ditte che producono i piccoli pezzi di plastica che si infilano in quegli sportelli? O ancora, perché il nostro pensiero non studia mai le possibilità di far fallire una banca (un evento sempre temuto dal sistema bancario perché a rischio di effetto domino)? E le finanziarie private, sono forse meglio? E le assicurazioni, sono innocenti? Ed è sempre e soltanto il fuoco a poter recare loro danno? I danni causati da false (o vere?) notizie messe in circolazione, non potrebbero superare quelle della sostituzione di un portone o di qualche finestra?

Quando si vuole bloccare una strada, il nostro occhio conta le persone in grado di formare un presidio. Eppure un paio di anni fa un banale incendio estivo divampato sui bordi di una grande tangenziale mandò in tilt per ore l’intero traffico di una delle maggiori metropoli europee.

Quando si vuole insultare un politico, il nostro occhio cerca l’indirizzo della sede del suo partito o gli eventi a cui parteciperà. Ovvero laddove, con ogni probabilità, si potrà a malapena insultarlo da lontano. Non cerca il cimitero dove andrà privatamente a piangere i suoi cari nell’anniversario della loro scomparsa.

Questi sono solo piccoli esempi, banali. Ma ognuno di noi, quanti ne potrebbe fare di simili? Ci soffermiamo mai su questi pensieri? Allarghiamo mai il nostro sguardo?

Anche l’occhio…

Quante volte succede di poter prevedere facilmente le mosse del nemico? A volte le sue manovre sono obbligate, quasi scontate. A volte non occorre affatto essere esperti del settore per saperlo, capirlo, o anche solo intuirlo.

Facciamo un esempio recente, che può essere significativo. Da qualche mese l’Italia ha un nuovo capo di governo, l’ex sindaco di Firenze. Tutti sapevano che sarebbe toccato a lui. Non c’era alcun dubbio in proposito. Non solo lo sapevano tutti, ma lo si sapeva da tempo. La sola cosa che non si sapeva era quando. In effetti, lo è diventato di colpo, nel giro di 48 ore, talmente all’improvviso da prendere tutti alla sprovvista. Prima si recava spesso in città prendendo — a suo dire — un treno locale di pendolari e poi la bicicletta, e lo si poteva incontrare per strada. Dopo è diventato il leader del governo, con tutto quello che ne consegue. Ieri sputargli in faccia sarebbe stato facilissimo, oggi non più.

Un’occasione sprecata, purtroppo. Ma quante occasioni simili ci sono? Quanti sono i sicuri, i predestinati leader di domani (in ambito politico ed economico) che oggi vivono indisturbati accanto a noi? Li conosciamo? No. Ma il nostro occhio li ha mai cercati? No, perché è intento a guardare solo quelli del momento, di fama, facilmente riconoscibili. Per non parlare di quegli oscuri tecnici il cui lavoro è indispensabile per il mantenimento dello status quo, assai più del dovere formale di primedonne dello spettacolo politico. Un capo del governo lo si può cambiare ogni tot anni, ma ci sono tecnici le cui competenze influenzano intere generazioni. Ad esempio, noi conosciamo il nome del politico che ha voluto riempire le nostre strade di telecamere, ma chi è stato a programmare il loro sistema di videosorveglianza?

A ben riflettere, si potrebbe fare lo stesso ragionamento non solo sulle persone, ma anche su molte cose. Quante sono le manifestazioni odiose che si tengono annualmente «nel solito posto»? E quanto si vorrebbe disturbare quei soliti posti nella data prevista? Ma perché non prima? Perché non giocare d’anticipo e cercare di costringere il nemico a traslocare, facendogli perdere tempo ed energia? Anche i «grandi eventi» si possono spesso prevedere, nel loro andamento come nell’esito finale. La gran parte delle manifestazioni oceaniche sono appuntamenti il cui svolgimento è già dato per scontato. Persino l’irruzione di una facinorosa rabbia non è più inattesa. È davvero questa la sola possibilità di intervento? O è la sola che conosciamo e che quindi riproduciamo?

Nulla da salvare

Per quanto la storia del movimento rivoluzionario sia appassionante ed ispiratrice, difficilmente può costituire oggi una pietra di paragone per noi. Dimentichiamoci della Spagna del 1936. Dimentichiamoci un assalto rivoluzionario, armata libertaria contro esercito statale, scontro frontale fra due forze contrapposte. Oggi questa forza non la possediamo. E chi non possiede la forza, ma non è intenzionato per questo ad arrendersi, è costretto ad affinare altre armi, come l’astuzia.

Noi non vogliamo né conquistare né ereditare questo mondo. Non vogliamo farlo funzionare meglio. Se è vero che ci troviamo in una situazione di guerra, allora siamo come guastatori in territorio nemico. Non possiamo fare affidamento quasi su nessuno, e non abbiamo nulla da salvare. Perché in territorio nemico tutto deve smettere di funzionare. Tutto deve incepparsi. Davanti al nostro gigantesco e poliedrico nemico, siamo talmente piccoli da risultare ridicoli e insignificanti. Talmente piccoli da poter essere talvolta invisibili. Questa debolezza quantitativa può essere la nostra forza qualitativa. Ciò che ci consenta di essere laddove nessuno si aspetta. Ma solo se inizieremo, se impareremo a guardare altrove e altrimenti, a mescolare fra loro elementi diversi come una certa conoscenza di ciò che ci circonda, una minima disponibilità di strumenti, una attenzione per quanto sta per accadere.

E se non vogliamo che tutto ciò si riduca ad un test da laboratorio, tanto per vedere l’effetto che produce, allora più di ogni altra cosa abbiamo bisogno di una prospettiva nostra. Una prospettiva che ci consenta di superare gli ostacoli non solo materiali che sempre più ci appaiono invalicabili. Mille e mille volte il nostro cuore ha contato i passi che ci separano dal muro di cinta, per poi calcolare i metri di mattoni che occorre scalare. Mille e mille volte il nostro sguardo ha scrutato quella sottile linea d’orizzonte che divide il filo spinato dal cielo, per poi fantasticare sulle forme e sui colori che là si intravedono. Non sappiamo cosa ci sia al di là del muro di cinta. Forse un paesaggio meraviglioso. Forse una giungla pericolosa. Forse entrambi. Fare congetture sarebbe mentire a noi stessi. Di sicuro c’è la libertà, quale essa sia.

[da Insolito sguardo, “gratisedizioni”, marzo 2015]