Alfredo M. Bonanno
Introduzione alla terza edizione
Dieci anni sono tanti, ed è proprio il tempo passato dalla seconda edizione di questo libro, tempo tagliato a metà da una provvida ristampa. Mi sono spesso chiesto che fine faccia la carta stampata che, animaletti perniciosi, diffondiamo con sempre maggiori difficoltà. Quali effetti concreti ha essa sulla realtà in cui viviamo? Riusciamo a farci sentire? Oppure, come falene impazzite, ci aggiriamo nei dintorni della fiamma fino a bruciarci le ali?
In particolare questo libro ha avuto, fin dal momento della sua prima uscita, nel 1985, la pretesa di spingere alla lotta attraverso due strade: la teoria e la pratica. Si è potuto cogliere la parte visibilmente concretizzata di questa pretesa? Oppure tutto è andato via via dissolvendosi nel distinguo maniacale della scolasticizzazione, da un lato, e nell’equivoco muscolare di una forma ottusamente organizzativa, dall’altro lato? Non so rispondere a queste domande e ho visto lo smarrimento negli occhi dei miei non pochissimi ascoltatori nelle conferenze che sono andato facendo in giro in Europa negli ultimi quattro anni.
Avvertivo, e avverto, la necessità di una disincrostazione del mito insurrezionale, per come è stato costruito più dalla stampa e dall’occhiuta attenzione della repressione che dalle nostre teorie. Ma si tratta di un lavoro di Sisifo. Non è praticamente possibile venirne a capo. Appena si accende un barlume critico, ecco profilarsi il ginepraio dei malintesi, delle parole che moltiplicano il proprio significato, delle ridondanze apocalittiche. Ma non voglio perdere del tutto la speranza, per cui rinvio alla trascrizione delle mie conferenze successive al 2009, e qui ci metto una pietra sopra.
Resta l’attività frenetica degli imbalsamatori di professione, coloro che riescono a rimettere insieme i pezzi di una qualsivoglia disossata organizzazione. Costoro accudiscono incessantemente non al compito precipuo dell’attacco contro il nemico ma alla visitazione del proprio lessico reboante, minaccioso come può esserlo una catastrofe in un vilissimo vaso da notte. Nei loro gesti va individuata non tanto la sostanza ma il fantasma, non il corpo vivo ma gli aromi letterari (presi ovviamente a prestito) usati per nascondere il lezzo di cadavere. Come buttare un pezzo di carne fresca in bocca ai cani ringhianti del giornalismo internazionale. Si salvi chi può. Basta il più lieve movimento del braccio, diretto a mimare un attacco, perché gli arconti di turno si sentano obbligati a stendere documenti probatori, cosmologie integrali, spiegazioni che nessuno ha richiesto e che a nessuno sono necessarie. L’azione che dovrebbe parlare da sé, tace. Aveva, l’azione di cui parliamo, quel genere di azione, polsi sottili, voce flebile, agghindamenti d’accatto. E da sé non trovava fiato per reggersi, semplicità e compostezza morale, per cui doveva rinvenire qua e là coprivergogne esplicative, sigle dal fascino segreto quanto infimo, sgraziati giochini di parole.
Prima, molto prima, la tesi era lineare: individuare il nemico, attaccarlo, e non potendo illudersi di una distruzione definitiva, prediligere la riproducibilità dell’attacco. Nessuna scelta notturna a se stessa, nessun segno fascinoso da lasciare agli angoli delle strade, nessuna nervatura clandestina, difesa o baluardo per altre componenti immaginate più deboli e bisognose di sostegno. Ogni azione non è mai quello che non può essere, cioè quello che vorremmo che fosse, essa è semplicemente quello che è. Un attacco contro il nemico non racchiude in sé più estrosa creatività e fantastica capacità liberatoria di quanto siamo capaci di donargli. E la nostra forza non si alimenta soltanto di sogni ma anche di deiezioni. Siamo l’apice della fecondità e l’abisso inelegante del fare.
Tutto ciò potrà sembrare poco chiaro ma basta considerare i risvolti pratici di quello che vado sostenendo da molti decenni e dalle pagine, a migliaia, emergerà una tesi soltanto: bisogna distruggere il nemico prima che lui distrugga il mondo, non noi, che quasi certamente nemmeno ci tiene da conto, ma il mondo, trasformandolo in una immondezzaio privo di vita e di futuro. Restare speranzosi sulla riva del fiume nella certezza che prima o poi passerà il cadavere del nemico è attitudine suicida. Non solo per noi, che di questa lungimiranza dovremmo farcene un codice assoluto di comportamento, ma per tutti, per il mondo nel suo insieme. La struttura dell’Ade non ha tenebre e lamenti ma tecnologia e produzione, avvitamenti letali di incomprensibili transitabilità economiche. Di tutto questo non c’è certezza alcuna, può apparire un discorso generico e non pertinente, infondato agli occhi di qualche congruo pedante assiso sui frammenti della propria grammatica quotidiana. E io non posseggo nessuna chiave interpretativa. Sto, come tutti, seduto su di un pezzo di pietra a guardare l’approssimarsi del tramonto di tutto quello che di bello tento ancora di immaginare.
Ma preferisco continuare a tenere il coltello tra i denti. Fino alla fine.
Ed è con questo spirito che consegno, rivedute e corrette, queste pagine al loro destino.
Trieste, 20 agosto 2013
Alfredo M. Bonanno
Introduzione alla seconda edizione
Non sfuggirà al lettore che negli ultimi anni il termine “anarchismo insurrezionalista” ha avuto una diffusione amplissima. E di questo ce ne rammarichiamo. Giornalisti tediano, telecronisti tengono svegli, ministri degli interni dalla stantia coscienziosità fanno tremare di paura camere riunite mentre poliziotti assortiti fiutano ogni angolo del paese col risultato di dare corpo a un fantasma che solo nel nome ricorda qualcosa di concreto. È il destino di tutte le idee rivoluzionarie che, opportunamente digerite dai grandi mezzi di diffusione, diventano banalità realistiche funzionali al dominio. Il lettore deve tenere conto di questo problema. Lo scontro, anche a livello di comprensione letterale di una tesi rivoluzionaria, continua ben al di là della semplice formulazione e non appartiene più al luogo in cui quella tesi venne approfondita o all’individuo che ebbe in sorte esprimerla in modo più o meno compiuto, essi (scontro e comprensione), come momenti della lotta di classe, appartengono a tutti coloro che vogliono continuare ad approfondire la conoscenza degli strumenti rivoluzionari facendosi strada fra gli ostacoli che il potere continua a predisporre.
Non dico che questo libro, che vede adesso la sua seconda edizione dopo quasi vent’anni, sia all’origine delle teorie insurrezionaliste anarchiche, sarebbe una grave imprecisione, comunque la sua parte l’ha fatta e speriamo che possa continuare a farla.
Come al solito, ogni teoria che cerca di andare oltre il ristagno che alimenta soltanto pratiche ripetitive trova due ostacoli: uno interno e uno esterno. Se si tratta di una teoria rivoluzionaria il primo ostacolo lo trova nel movimento stesso, il quale non ama molto sentirsi turbare nelle sue sonnolente ritualità di confine. Ricavatosi una nicchia da qualche parte, qui attende tempi migliori custodendo con ansia i propri eritemi. Se cerchi di svegliarlo risponde con affermazioni delicatamente denigratorie, con sottintesi ironici avvolti nella carta dozzinale del realismo politico. Se insisti, se diventi un incubo assordante e arrivi perfino a svegliare qualche suo componente non del tutto rimbecillito, eccolo impeccabilmente prendere le distanze con comunicati che sono vere e proprie “delazioni alla francese”. (“Noi non siamo stati, per le conclusioni, riguardo chi può essere stato, fate voi”).
L’ostacolo esterno (gli organi repressivi veri e propri) quasi sempre stenta a mettersi in moto, poi, alla fine, dilaga cercando di imporre i propri punti di vista – spesso fermi su esperienze decotte – arrivando tardi, molto tardi, a capire il pericolo che gli sta davanti. Tra questi spazi di adattamento c’è modo di difendere e di contrattaccare, ma qualcuno avvolto come in un sudario nel proprio violentismo non se ne dà pensiero. La coerenza è la grande diseredata. Aspetta l’indulgenza di una conclusione da millenni, non riceve che dichiarazioni di principio. Tutti sono coerenti, nessuno si riconosce per il contrario, quindi la coerenza non è una cosa seria. Quando volemmo impadronirci del cielo trovammo qualcuno dal sufficiente coraggio pronto a rimproverarci di volere qualcosa che spettava soltanto a Dio (orrore: noi atei da sempre, pretendere il cielo!), allo stesso modo quando sottolineammo la complice asineria di qualcuno, una voce simile, ancora pronta, ci ricordò della santa pazienza e dell’onerosa fatica quotidiana dell’animale vilipeso. Profonda scienza di chi non vuole capire.
Questo per la teoria.
La pratica sollecita risposte differenti. Quando dilaga lentamente, svanendo nella impalpabilità della sovversione diffusa, è avvertibile soltanto da orecchie in grado di sentire ogni flebile sommovimento, ogni conclusione fuori posto, ogni scricchiolio impudico delle consuetudini inveterate. Occorre avere una leggerezza non comune, il piede agile, la mente sveglia. Non sono molti quelli che colgono questi inauditi rumori, anche quando sono l’effetto di azioni numericamente significative. I più si attardano su giustificazioni elusive, date per lo più a se stessi: “Che importa a noi se qualcuno punzecchia il comune nemico? Si tratta di bambinate. Noi siamo persone serie e coi piedi per terra. Noi sappiamo cosa fare. Ecco perché aspettiamo la rivoluzione. Quando verrà attaccheremo e allora non ci limiteremo a sgonfiare i palloncini del figlio del maresciallo”. Discorso salmodiante, da prosseneta. Non dico che in questo modo si cerchi di giustificare il far nulla, ma spesso, nelle pieghe del sofà, si trovano accomodamenti insospettati, le comodità di un piumino, i sostegni promettenti di un’attesa, le illusioni di garantire la propria pulizia personale (delle mani in particolare): il tutto non esclude le gradassate occasionali.
Qualche traliccio qua e là: caduto nella notte. Qualche piccolo botto qua e là: nel rispetto delle Muse dell’anarchia. Qualche fiammella che da sé prende corpo contro la gaglioffa produzione mercantile. Dio non si scompone. Nulla che minacci veramente lo Stato, nessun segno di cedimento delle strutture che ci governano. Il ciglio iroso del governante non si solleva di un millimetro. Si tratta di banali incitamenti alla distruzione più che distruzioni essi stessi. Andiamo, siamo seri, nessun cruccio per queste vizze manifestazioni di dissenso. Certo, gli organi a ciò preposti riempiono le carte d’ufficio, indagini vengono espletate, qualche compagno per pura disgrazia (non certo per validità delle indagini) viene arrestato e condannato, per il resto basta aspettare che tutto finisca nel silenzio.
Non solo rumori nella notte, anche pratiche più ampie, partecipazioni a lotte specifiche, collocate esattamente nel tempo e nello spazio, lotte caratterizzate da un processo repressivo in corso contro il quale la gente cerca di fare qualcosa. Non crociate generalizzate contro i simboli del dominio, lotte per i princìpi e per l’inconcussa necessità di vivere liberi in un futuro dove risplenderà il sole dell’anarchia, ma lotte intermedie, più modeste, visibili a occhio sprovvisto di lenti ideologiche, lotte contro qualcosa che impedisce di vivere qui e subito, lotte che recidono una o molte delle condizioni minime per non fare scadere la propria vita nel codardo accomodamento del giorno per giorno. Lotte per la casa, per l’acqua, per ridurre l’inquinamento, contro gli armamenti, contro le industrie dannose alla salute, ecc. E qui si fa luce con prepotenza il discorso sul metodo. Solo che l’attendista con i piedi per terra non ama le chiarificazioni di metodo, rischiano di proporgli più domande di quelle alle quali è abituato a rispondere. Il metodo, correttamente delineato, ha la tendenza a espandersi nella vita quotidiana, a inquietare con effimere alternative, a suggerire valutazioni e confronti. Tutte cose spiacevoli che non acconsentono a gommose sospensioni di giudizio.
Quando si entra nel terreno del metodo si sa dove si comincia e non si sa dove si finisce. Molti ti ascoltano, capiscono, acconsentono, poi, al momento opportuno, ti rispondono cosa del tutto diversa. Eppure non si tratta di enunciazioni dogmatiche ma solo di proposte di comportamento dapprima accettate – in astratto – e poi nel concreto rifiutate. Perché? Penso perché il metodo insurrezionale richiede di essere applicato nella pratica, in diverse condizioni di lotta, più che discusso in astratto o studiato a tavolino. È nel momento di prendere decisioni, nella realtà specifica di una lotta, che le contraddizioni si fanno più evidenti. Un esempio per tutti: nell’eventualità di una lotta contro un obiettivo preciso della repressione, nel momento in cui si decide per l’attacco diretto e si fissa un giorno e un’ora, occorrerà che i partecipanti all’azione si organizzino, non potendosi ipotizzare che ognuno muova contro l’obiettivo nel modo e coi tempi che meglio crede. Qui non si avanza un discorso di efficienza pura, che comunque in questo caso ha la sua validità, ma principalmente un discorso di sicurezza. L’organizzazione che sembra più idonea è quella dei piccoli gruppi che, nel caso di compagni provenienti da diverse zone, anche lontane tra loro, vengono costituiti in base alla provenienza geografica, in modo che compagni non conosciuti da tutti possano essere conosciuti (o meno) nell’àmbito del gruppo della zona dalla quale provengono ed è questo gruppo (sotto molti aspetti) che garantisce per loro.
Chi scrive, per almeno due volte, nel momento preciso in cui occorreva organizzarsi in gruppi zonali per attaccare, si è trovato di fronte a un rifiuto netto, anche da parte di coloro che prima (in astratto) si erano detti d’accordo con questo metodo. Motivi? Non chiari, probabilmente una sorta di ritrosia anarchica, un sentirsi trafitti dagli aculei di una disciplina organizzativa troppo stretta. Non è facile dare una risposta, occorrerebbe una finezza di analisi che non posseggo.
Ma il metodo è anche altro. Non può essere ristretto alle procedure organizzative che stingono e non durano, né alla scelta di alcuni mezzi al posto di altri. Non può essere, nella sua complessità, avvilito a “manuale”, né vaporizzato a sanatutto. Il metodo è scelta di vita, prima di tutto, in quanto è nella vita di ognuno di noi che deve trovare le sue radici ed espandersi, in caso contrario diventa una miope superfetazione ideologica, un luogo separato del frastuono politico. Il metodo insurrezionale è basato sull’autonomia delle proprie scelte, sulla conflittualità permanente contro il nemico, sull’attacco. Prima di calare questo metodo in una singola azione, o in un movimento di massa sia pure circoscritto nel tempo e nello spazio, occorre che questi princìpi diventino nostra pratica quotidiana, caratterizzino la nostra vita, prendano corpo dalla nostra stessa follia che insiste nel rigettare ogni realismo politico e ogni perbenismo possibilista.
Lo spettatore, stremato da teorie e pratiche insurrezionali in fondo a lui estranee, non può coglierne l’intima logica, l’articolazione e il significato che le contrassegnano. Il suo giudizio sarà pertanto emotivamente instabile, un abbozzo di sciatte speranze. Ora tifoso del botto dalla sbrigliata fantasia, domani almanaccante di fronte a cosa fare per non disperdere l’attacco in una puerile manifestazione di volontà. Sempre disattento ai contenuti delle proprie intenzioni, suggerisce giustificazioni dei propri conati immaginari e qui si arresta costernato.
Se nella mia vita sono alieno dal contrattare accomodamenti e collaborazioni con il potere nelle sue più svariate forme, al momento della lotta insurrezionale non tarderò a convincermi che cosa mi si sta dicendo quando il metodo suggerisce l’ “autonomia” da qualsiasi forma politica che, per contingenze e comodità, sembrerebbe vicina a lottare insieme a me. Lo stesso per la “conflittualità permanente”. Se non aspetto scadenze e indicazioni, in genere fornite dal potere stesso, per scegliere i miei obiettivi, se non considero possibile una distinzione netta tra momenti di tregua e momenti di lotta, capirò prima quello che mi si dice. E, infine, l’ “attacco”. Questa dimensione può appartenere alla mia vita, posso quotidianamente vederla in cento e cento attimi, presentarsi e sparire in tante delle cose che mi passano sotto gli occhi, dalla lettura di un giornale alla vista di un oggetto, di un simbolo, di un rappresentante di tutto quel mondo, variegato e complesso, che considero meritevole del mio permanente attacco. Se ragiono così mi verrà più facile capire che cosa si intende quando mi si parla di “attacco insurrezionale”.
Il libro che qui vede la sua seconda edizione può anche essere letto come una sequenza spaiata di documenti occasionali e di lepide giustificazioni tardive, occorrenti a mettere ordine in una pratica indistinguibile nel momento del suo realizzo da qualsiasi altra attività intermedia contro il potere. Da qui una lettura stanca, avara di sé, indulgente ai dettagli, attenta alle contraddizioni e alimento di sospetti inqualificabili. Sottolineando solo il sovrabbondare di attenzioni organizzative, si ottiene come risultato di ingigantire il momento formale di fronte a quello sostanziale. Non si guarda più alle cose fatte (o da fare, sempre possibili) e ci si angoscia rancorosamente per le attenzioni che pretendono regolare la spontaneità del confronto col nemico. Ci si chiude in questo modo in una tana e come tutte le tane si è poi obbligati a difenderla. Il ricordo dei trasporti possibili, dei voli sognati e mai posseduti, delle sensazioni di leggerezza fa allora contraltare al senso di soffocamento che si prova. La pesantezza catacombale del gesto, e del pensiero, è così scambiata per realismo e concreto rispetto dei rapporti oggettivi. Da questo momento in poi, chi dovesse trovarsi in questa deprecabile condizione, prima di farsi travolgere dalla propria devozione al sospetto, è bene che sospenda la lettura iniziata con protervia fuori luogo.
La vita è una fonte che fa zampillare l’acqua nel posto e nelle circostanze che crede. Ma l’acqua fatta così zampillare mette a nudo una sua conformazione, che è il suo essere quello che è e, in questo solo senso, la sua propria costanza. Il che non ha niente da fare con una originarietà, con una immutabilità necessaria, quasi la natura di ognuno di noi non avesse avuto bisogno di essere quale presentemente è, e fosse impensabile così come è data. Il coraggio nessuno se lo può dare se non lo possiede, tanto meno starnazzando. In direzione opposta alla vita, trascendendo l’esperienza nel controllo e nella corrispondenza alle presunzioni analitiche, creando un mondo di fantasma giaccio in attesa, mi costruisco bizzose giustificazioni che risultano tanto indipendenti dalla realtà da poterle essere, a piacere, sostegno o critica, senza che questa aumenti o diminuisca il proprio pregio, che è quello di essere creatura viva, non immagine di perfezione astrattamente conchiusa.
Il primo germe del coinvolgimento nasce nello slancio immaginativo onde, davanti a cosa ignota che mi sorprende, me la raffiguro alludendola per come mi colpisce e mi commuove. Non mantengo un distacco, non manifesto disappunto per essere stato disturbato nei miei onesti sogni. La parola teorica reca il segno di questa commozione, e dell’immagine che me ne rimane. Non è baloccamento di corrispondenze astratte tra teoria e pratica. Ma poi la parola si logora. Usata per capirsi, non suggerisce più l’immagine che pure continua a racchiudere in maniera criptica, è stanca, non soccorre, ha bisogno di essere soccorsa. Ancora una volta è del grande cuore di chi agisce che essa ha bisogno, non della cattiveria necroscopizzante di chi alberga nel cuore un vegliardo mal consigliato. Il nuovo slancio immaginativo, nuovo perché mai domo di fronte alla ripetizione incombente, affronta avvenimenti di cui conosce poco la natura e niente l’origine, ma ne ricostruisce la storia in un credibile sviluppo alieno dagli imperativi morali.
Occorre che io creda nella necessità improrogabile dell’attacco contro il nemico, mentre immagino il metodo che dovrà sostenermi. Se non ci credo più, quanto alla lettera pura del metodo, o ci rinuncio o diventa illanguidita retorica, irrequietezza da fattucchiera. Se non alimento la mia poesia di vita, la mia musica di vita, la mia arte, la mia libertà, tutte le ideazioni e le figurazioni, tenute al guinzaglio del realismo a tutti i costi, affogano nella litigiosa coazione dell’esistenza. Inaridito il pulsare della mia vita resto affascinato dall’impeccabile scandire delle ripetizioni analitiche – il regno puro del metodo – e la mia coscienza se ne compiace. Canto ancora, se la mia ugola ne è capace, ma non è più la mia visione personale, frutto della mia vita emotiva e pure della mia fantasia, ma la ragionevole deduzione che alimenta garrula i sospetti e le lacrimose recriminazioni. Occorrerebbe avere gli occhi così addentro agli uomini e alle cose da intuirne il più profondo carattere, e da questo partire per altre ricognizioni, mettersi in gioco in attesa che venga fuori l’aspetto rivelatore dei propri limiti. Non cercare di nascondere ogni apparizione di questi ultimi. La vita non è mai astretta a nessun obbligo di verosimiglianza, non si incarica di effigi ma di creature vive.
L’invenzione di puri motivi lineari (il metodo come puro ornamento, il progetto puro che soddisfa l’intelletto più esigente), anche se compone un mondo in sé coerente e armonico, appartiene all’anticamera dell’agire, a un movimento immaginativo che realizza e fa vivere le figure che immagina, ma che non fornisce loro corpo e sangue. Questo mondo fantastico, suscitato e creato dall’arte dell’analisi, si sovrappone al mondo dell’azione e dell’esperienza, quale conoscitivamente io lo vivo in me stesso. A volte gli si interpone e intreccia, penetrandolo di forme immaginarie perfettamente figurate, sollevando le difficoltà del pensare alla completezza di una danza, e questo può affascinare, ma la realtà concreta sta altrove.
Con il ricorso al metodo – fatto di coerenti ipotesi e di slanci dell’immaginazione – io vado oltre il semplice conoscere per documentarmi, per sapermi regolare, costruisco l’azione, getto le basi di qualcosa che va al di là di quelle che considero le mie immediate utilità, l’esistenza che mi imprigiona e mi caratterizza. L’ipotesi metodologica mi porta oltre l’orizzonte coattivo della comune ricerca, mi seduce a realizzare nella realtà il modello astratto, quindi, a me suo autore fa vedere qualcosa di enigmatico che nel progetto c’è ma non viene subito alla luce, mutilo com’è a causa delle mie incapacità e limitatezze. E questo qualcosa è un principio, un propulsore di vita al quale resta legato tutto lo sforzo analitico ma che non può essere semplicemente dedotto o “capito” con tutta calma, rischiando di non persuadersi del perché quell’aspetto enigmatico permane così importante se non si viene da esso contaminati e resi precari perfino nella convinzione di stare agendo per il meglio. Il primo moto di comprensione è quello spontaneo, un sentimento di fiducia nella vita, senza il quale non solo non tenterei nessuna impresa né pratica né teorica, ma non alzerei un braccio dal divano dove Oblomov imputridiva.
La tristezza che molti avvertono di fronte a qualsiasi impegno analitico (che possono liberamente accettare o rifiutare, in quanto non è mai loro imposto coattivamente) dipende da quanto si è detto prima. La fiducia in se stessi, la stessa fisiologica volontà di vivere si abbrutisce in noia sbadata annullando l’impulso iniziale ad affrontare gli inevitabili ostacoli che ogni analisi mette davanti a sé. Riscaldato dalla fiducia in me stesso, nelle mie capacità, tra dolori e gioie mi porto più avanti, affermando non tanto la validità di un metodo, ma la forza mia, assolutamente mia, di persuadermi della sua validità o della sua mancanza di senso. Se quel metodo mi dice qualcosa, mi fornisce il fondamento di un progetto, eccolo acquisire significato per la mia vita, che ne è, nel medesimo tempo, l’origine, il fine e l’interiore norma e misura di persuasione.
E questo è un libro che parla a lungo di metodo, di metodo e dei problemi relativi alla sua applicazione. Facendosi strada fra la caligine che i grandi mezzi di informazione ripetutamente stendono sul concetto di “insurrezione”, si può ancora afferrare fra il disgusto qualcosa di concreto. Alla fin fine per quanti crucci si diano le varie componenti del potere non possono mutilare del tutto un’idea rivoluzionaria. Con il metodo insurrezionale non oltrepasso né le condizioni oggettive dello scontro di classe, né la realtà nel suo insieme, ma mi dispongo criticamente verso ogni cosa, non accettando nulla come un fatto, bensì di tutto domandando se e come sia pensabile e possibile. Non accetto la fola di un luogo privilegiato della lotta, né di un soggetto altrettanto privilegiato in grado di determinare l’agognata catastrofe rivoluzionaria. Il mio stesso metodo è solo uno strumento per costruire progetti limitati e circoscritti, non il fiore all’occhiello della rivoluzione. Trovata questa pensabilità critica, mi accosto al metodo con una coscienza diversa, in grado di scegliere fra le varie possibilità che mi vengono suggerite, prima fra tutte l’alternativa tra accettare o rifiutare. Ciò che dianzi mi mancava a causa della mia supponenza, con un interesse accresciuto, non diminuito, adesso lo posseggo. Sono in grado di affrontare le difficoltà della teoria con una schietta critica della sua pensabilità e possibilità. Il progetto, una volta individuato nelle sue grandi linee, si muove in altra direzione della riflessione metodologica: sia quando questa è un semplice momento di sosta e di raccoglimento per intendere e valutare il già fatto al fine di meglio decidere il da fare, sia quando si fa informazione di fatti riferiti quali mai vennero visti dallo sguardo esagitato del cronista o dell’annalista, sia quando si fa meditazione per un ulteriore approfondimento teorico, punto di partenza per meglio accedere alle proprie idee e convinzioni ormai prive delle vecchie ostinate malizie.
Il metodo insurrezionale ha il suo principio nel mio bisogno di giudicare io stesso quel che mi conviene ritenere o operare, ha il suo proseguimento nel mio bisogno di considerare la via per giungere a una concezione dell’esistenza e della realtà che non sia opprimente ma liberatoria, e regolare su di essa i miei giudizi e la mia condotta, ha la sua attualità di consapevole scelta quando sottopone a critica la pensabilità dei tanti progetti possibili offerti dalla coscienza da una vasta congerie di proposte metodologiche.
Così il metodo insurrezionale non può avere altro soggetto che l’uomo (perché solo l’uomo ha desiderio di trasformare se stesso e la realtà che lo circonda, e ha bisogno di questa trasformazione se non vuole soffocare nella regola e nell’ovvietà da pappagallo). Non può aver altro oggetto che l’uomo stesso, cioè l’azione con la quale io, sentendo me, la mia vita e, attraverso questa, la realtà universale che mi circonda, mi do una consapevolezza, della quale mi domando come sia possibile, e la sua possibilità cosa significhi. Il metodo insurrezionale è dunque un’occasione progettuale, ma ciò non lo defrauda né della sua natura rivoluzionaria, né della totalità della sua logica. Anche se il progetto prende le caratteristiche della torbida parzialità, il metodo alimenta qualcosa che non accetta la logica dell’ “a poco a poco”.
Non mi affido a un burbero monatto che mi sogguarda sospettoso della mia disponibilità, non prendo posizione subito, non racconto me stesso, ma neppure intenzionalmente lo rifiuto. Gli do corso – è ancora del metodo insurrezionale che sto parlando – non affermando che sia un vero accertato alieno da mutevolezze, ma sapendo che non rimango privo di un progetto dal momento che lo penso e, in un qualche modo, ne parlo. Le spontanee figurazioni della fantasia “libera”, per varie che siano presso i diversi individui, rientrano nella disposizione avversativa naturale, multiforme nelle disposizioni e nei procedimenti, ma una nel riferirsi, in maniere così diverse, a ciò che siamo e per cui siamo. Limitandosi a questo impulso offensivo (del quale tutti siamo arcaicamente innamorati) si resta prigionieri della propria limitazione: una venerabile e ostica vecchietta piena di tic e di ignoranza. L’idea di depurare da una simile farragine un nucleo metallizzato di credenze tanto vere che, difatti, non mancano a nessuno, è presuntuosa idea da nevrotici. Ma anche i nevrotici, quando foggiano codesta vaporosa credenza, ascoltano sì le monellerie del loro cuore ma anche la loro esperienza, per cui si chiedono: come si fa? Anche la loro presunzione cincischia con un progetto, per quanto si dica non bisognevole di un metodo. L’ispirazione è altra cosa, anche se trattata alla stessa stregua. La verità è in noi, sanguigna, agente con chiarezza (o almeno con una qualche verità), è presente, non più solo in un’idea che con l’esperienza me ne formo ma nell’agitazione che essa provoca nel mio petto, cioè in una sua diretta efficacia. Sono un privilegiato, un vaso d’elezione, non ho bisogno di mendicare documenti, studiare, possedere un metodo, dar vita a un progetto: esisto quindi sono, pienamente completo nella mia multiforme limitazione di cui non mi lagno. Muovendo da niente, condiscendo alla mia ignoranza arcaica e ne faccio una facultade. So bene io quando e come attaccare. Il resto sono pasticcioni e chiacchieroni, ombre cinesi da cui la mia fede in me stesso mi terrà alla larga. La formulazione di questa intuizione dà luogo ai dogmi della volontà. Questa la si presuppone libera quando è strumento della schiavitù. La vita la si presuppone simile a quell’impaccevole brandello di esistenza che sperimentiamo tutti i giorni, quando è tutt’altra cosa.
Questo ipotetico almanaccatore che ha in uggia il metodo lo accetterebbe volentieri se non lo chiamasse a un impegno diretto e personale, fastidioso perché invasivo e troppo coinvolgente. Vorrebbe di certo un metodo – chi non lo vuole in assoluto alzi la mano – ma che fosse un metodo discreto, capace di lavorare per conto suo, di sostituire nel bisogno chi non lo ama, di produrre effetti oggettivi, sia pure a lunga scadenza, di cui entrare in possesso e impiegare nell’ultima indispensabile spallata contro il nemico. Oh metodo ideale, perché non parli? Che capolavoro saresti.
Un metodo del genere (marxista?, no di certo, lasciatemi parlare e vi accorgerete che i marxisti in questo campo sono in larga e buona compagnia) dovrebbe essere fondato su di un rigoroso criticismo incapace di balbettamenti, diventare lo scheletro simulato di tutte le cose, naturali, umane e divine, in modo che queste si possano studiare nella consapevolezza che io ne ho, senza fare domande in merito a come questa torva consapevolezza rivelatrice sia possibile e cosa significhi. Ma questo criticismo esclude qualsiasi rossore verso la testimonianza della mia consapevolezza che, se diffido, ho il dovere di diffidare della ragione criticante quanto della ragione criticata. Compito precipuo di questa struttura nascosta è l’elaborazione di una critica patriarcale dell’atto conoscitivo, una critica che mi dovrebbe indicare i fatti immaginandone e provandone una interpretazione e una spiegazione, una critica che mi permetterebbe alla fine – se non mi rifiuto a questo lavoro che sorpassa la mia immediata nostalgia dell’attacco – di impegnarmi in attività universalmente umane, che si svolgono in direzioni che io stesso segno al mio operare, adatte a quello che io sono, ai miei limiti ma in guisa che non diventino coinvolgimento e rimessa a rischio. Insomma ho bisogno di tempo per imparare a brucare e anche di conforto, quel conforto che tutti ricevono con piacere. Farmi sapere – come malaccortamente fa il metodo insurrezionale – che non c’è nessuna talpa che lavora al posto mio mi accora e mi espone nudo alla incanagliata furia dei tempi. In ciascuna delle mie opere posso trasecolare o riuscire, e posso riuscirvi più o meno. Posso affrontare periodi in cui le condizioni oggettive, lo “spirito del tempo” (che strano, non appena sento bisbigliare qualcosa su questa lisa struttura ossea insita nella storia, ecco affiorare le immagini dello zoo hegeliano), non siano nella migliore disposizione verso l’azione mia e di altri. E poi, perché prendere sempre me stesso come misura di tutte le cose? Non basta osservare quello che si fa quasi dappertutto? Esaminare se io ci sia riuscito, a fare qualcosa, e come e quanto, è ufficio del critico o spetta a me esprimere un giudizio valutativo? Ecco come continua a ragionare chi sente la mancanza dello zoccolo duro nella realtà, delle contraddizioni che come nuvole irose all’orizzonte si accalcano ai confini del cielo.
Che male può esserci nell’immaginare questo movimento sotterraneo? Anche Pascal si era detto, nel parlare della scommessa: che male può esserci nel considerare esistente Dio, nel caso positivo guadagniamo, nel caso negativo non perdiamo nulla. Che triste idea per un grande uomo come lui. Anche il nostro ansimante desideroso di fondatezza oggettiva ragiona allo stesso modo. Non si rende conto che immaginare esistente questo meccanismo storico comporta delicate conseguenze, alcune dello stesso genere dell’ipotesi che ammette l’esistenza di un Dio qualsiasi. Con un poco di attenzione non è difficile capire che il corrispettivo diciamo politico, concretamente e biecamente politico, di questa ipotesi immaginata agente all’interno della storia, quindi aleggiante al di sopra degli accadimenti che la miseria umana contrassegna con la propria tabe, è il partito. Qui si deposita la scienza pragmatica che osserva e studia, indicando le modificazioni (alte e basse) di quel processo segreto, il cui giudizio molto si giova della filosofia della storia, sia nella forma conscia e rigorosa in cui è esercitata dalle menti preparate, sia nella forma meno conscia e meno rigorosa in cui ogni uomo si forma il concetto di una forza amica ma non visibile. Il sogno di questo qualcosa che combatte al posto mio intacca ogni disposizione nettamente critica, ma può accompagnare qualsiasi fare dell’esistenza quotidiana, in qualunque direzione orientata, senza mortificarla, anzi rafforzandola e illuminandola. Non ci sono incompatibilità tra la filosofia della storia sognata, per fare un nome, da Hegel e la scienza, l’arte, l’azione, la fede. Solo che la rivoluzione è altra cosa.
I produttori in massa di spiegazioni meccaniche (più o meno sotterraneamente considerate nel loro processo) sono in genere di matrice materialista e storica, in altri termini hanno un’ascendenza marxista. Alcuni di loro, vista la distretta dei tempi in cui vivono le teorie di Marx, preferiscono tacere queste parentele, ma la faccenda non cambia. Niente di cui meravigliarsi. Quello che desta meraviglia è che invece non pochi compagni sembrano dare una eccessiva attenzione a queste esercitazioni filosofiche. Ma forse mi sbaglio.
Il potere suggerisce un luogo caratterizzante, una targhetta dimessa, i quali solidificano un’opinione distorta ma facilmente riproducibile. Questo è il caso della “globalizzazione”. Tutti credono di sapere di cosa si tratti, nessuno sa bene cosa sia, anche per il semplice motivo che c’è poco da sapere. E di qualcosa di cui non c’è quasi nulla da sapere ognuno finisce fatalmente per farsi un’opinione (quella, per l’appunto, incarognita nelle accademie di regime). Che tutti viviamo in un mondo conflittuale, la convinzione è generalizzata. Guardandoci chiassosamente in cagnesco gli uni con gli altri metabolizziamo questa conflittualità, la quale dalla sua nobile ma remota origine di classe scade così a momento biologico. Riluttiamo davanti a un aggancio concreto con la realtà ma guadagniamo in certezza personale: nulla fa star bene quanto il demente convincimento che quello che ci dilania nel mondo in cui viviamo sia una faccenda innata, connaturata nella bestia umana.
La colpa di questo conflitto (eterno) è del capitale. Nessuno di noi sa come identificare questa colpa, né con quali ausili valutarla, ma tutti siamo convinti che essa esiste, dicendo il contrario si è soltanto codardi servi di un potere che utilizza il capitale e trae beneficio del processo di sfruttamento in corso.
Lo sfruttamento non è un fatto pacifico, è attanagliato da ambasce alte e basse, deve ricorrere a intricati maneggi repressivi e sollecitare il reticente consenso, i dominanti non sono ben sicuri sulla sella dove stanno appollaiati, e la saturnina contraddizione continua a dilaniarli. Ma che cosa sia questa contraddizione non lo sappiamo, non sappiamo nemmeno se si tratti di una serie di contraddizioni (periodiche o imprevedibili), oppure se si tratti di uno stato permanente di contraddizione in cui non ci sono “salti” irrecuperabili. Ciò non vuol dire negare singolarmente queste realtà, ma solo negare che il loro rapporto sia leggibile univocamente in chiave di processo e, per giunta, di processo identificabile e oggettivamente diretto a produrre contraddizioni sempre più gravi e quindi meno superabili.
Eppure arriviamo a strane conclusioni in cui questi elementi sconosciuti vengono dati per accertati e operanti. Diciamo, per fare un esempio, ma il sapido ragionamento precedente potrebbe essere modulato in almeno quattro versioni più o meno equivalenti, che i conflitti del capitale producono delle contraddizioni che possono essere regolate al di sopra degli interessi di ogni singolo Stato, in modo da pervenire a una sorta di globalizzazione non solo del profitto ma anche della sua regolamentazione.
Quanto detto non vuol dire nulla, ma contribuisce a gonfiare petti dubbiosi e dilatare narici in debito di ossigeno.
Che il potere si paludi dentro atteggiamenti abbastanza codificabili, come accade con la nazione più potente del mondo, con le insistenti riunioni dei potenti della terra, che giudichi e sbrani “secondo che avvinghia”, che manovri il tasso monetario o la produzione di armi in una con gli embarghi e la “costruzione informativa” di Stati “canaglia” posti all’indice, è certo un processo in corso. Il punto di domanda si pone se noi possiamo identificare questo processo come un movimento unitario, se possiamo considerarlo privo di scompensi (non contraddizioni) al suo interno (nel senso che un aumento di una parte di esso non avvenga a scapito di un’altra parte e viceversa), se possiamo immaginarlo come “il nemico” contro cui, per sottrazione di vicinanza (cioè per sufficiente distanza di coscienza rivoluzionaria) avere poi la capacità analitica di identificare una controparte, un movimento rivoluzionario operante più o meno volontariamente. A queste domande si potrebbe rispondere in molti modi. Non è questo il luogo per farlo, qui mi interessa notare che tanti compagni rimangono, ancora oggi, bizzarramente affascinati da problemi del genere, che non sono molto dissimili dal gioco delle tre carte. Essi sono importanti (e certamente non per meglio inquadrare le forze e le intenzioni nemiche) per tutti coloro che si immaginano come rappresentanti di quel popolo oppresso che non attende (loro tramite) che di gestire lui il potere. Questo desiderio (o questo incubo, se si preferisce) non ci appartiene. Noi siamo “assolutamente altro”.
Ma come prendiamo coscienza noi stessi di questo essere “assolutamente altro”?
La bassa misura, il contatto diretto con la breve esperienza circoscritta che ognuno di noi coagula al di fuori di una visione collettiva è un punto di partenza. Miracolare una impacciata condizione di pena in modo che possa “vedere” il sorgere del sole al di là dell’orizzonte chiuso dalle nubi dell’inquinamento, è operazione sanguinosamente ideologica. La mia risposta adeguata allo scontro di classe determina ancora la mia coscienza, ma non nel modo in cui la si vedeva una volta, sotto l’egemonia marxista, cioè non attraverso il polimorfo filtro ideologico che proponeva squarci di un meccanismo operante in modo oggettivo e valido per tutti (padroni e schiavi). La mia risposta adesso è totalmente mia, e io cerco di portarla fuori dall’interpretazione corrente (omologazione), cerco di sproporzionarla alle attese repressive che sono al varco di tutto quello che delle mie intenzioni riuscirà a trasformarsi in azione. Questa lotta, qui e ora, tutta e subito, mi include perché io sono incluso in essa e insieme costituiamo un’unità estranea che potrà (o non potrà) trovare altre unità estranee con le quali costituire una transitoria unione in vista dell’attacco contro il nemico che ci opprime. E questo movimento non potrà più essere catturato (spiegato) da infecondi procedimenti “superiori” in corso, capaci di imporre scansioni alla lotta e quindi di abbassarla fino al livello di “comprensibilità” valido per tutti.
Io voglio che la mia lotta rimanga “incomprensibile” ai probi che cercano di elevare la loro condizione di miserabili al rango di interpreti dei miei sforzi di liberazione. Voglio che le dinamiche determinate dai conflitti interni al capitale risultino incomprensibili anch’esse perché è proprio questo il massimo appello che posso rivolgere alla mia capacità di capire e a quella di coloro che come me vogliono risultare “estranei” a ogni omologazione. Se devo adeguarmi alle scansioni latrate dal capitale (a sua volta obbligato a rispondere ai propri conflitti interni) non posso dare libero sfogo alla mia voglia di distruzione, non posso accedere a quei livelli di comprensione che renderanno questa voglia progettualmente realizzabile ma logicamente incomprensibile. Non voglio che la logica artritica degli analisti, quella di chi tiene il polso del capitale per misurarne la temperatura, sia la mia logica. Al contrario voglio che la mia logica del “tutto e subito” sia fuori tono, fuori tempo, fuori dimensione per ogni tentativo di ridurla agli schemi del suo esatto contrario: la logica dell’ “a poco a poco”.
Prima di concludere poche parole riguardo questa seconda edizione. La “Parte terza” della prima edizione è stata tolta, e precisamente: Per un astensionismo sovversivo, Il progetto repressivo, Mafia e Stato, La lotta antimilitarista, scritti miei che troveranno collocazione più acconcia in futuri libri. Al posto di questa parte soppressa inserisco, come continuazione della “Parte seconda”, l’intervento a Trento realizzato dal 20 al 28 aprile 1995 contro la venuta del Papa.
Trieste, 28 giugno 2003
Alfredo M. Bonanno
Introduzione alla prima edizione
Il senno del poi è sempre critico. Ed è questa l’epoca dei critici e dei benpensanti.
Ciò consente di capire meglio, ma bisogna anche darsi una prospettiva. Non si può approfondire all’infinito. Si rischia di relegare tutto nell’archeologia del fare, spingendo lo sguardo tanto indietro da non vedere nulla.
Questo libro insiste invece nella riproposizione della realtà del dato immediato, nella progressività del costruibile. Potrà quindi sembrare statico, limitato, a volte dogmatico.
Esiste comunque una chiave di lettura che consente una specie di superamento dell’immediato, l’apparizione di un qualcosa di inatteso. Il senso della passione deve sovrapporsi all’ordine ravvicinato degli elementi (fatti, avvenimenti, frasi, parole). Abbiamo lavorato nel senso dell’azione rivoluzionaria? Vi abbiamo, al contrario, opposto resistenza? Forse nessuno potrà rispondere a queste domande. Il corso della vita umana è una continua negazione dell’origine, del problema dell’origine e quindi, anche, del problema del percorso (in un senso o nell’altro). La vita è o non è. La rivoluzione anche.
Ma chi aspetta immobile non può dirsi privilegiato per non essersi sporcato le mani. La sua è semplicemente un’illusione solitaria.
L’azione è delimitazione di fatti, progresso di avvenimenti, riflessione in atto. Essa non si compie per dimostrare la certezza della teoria (qualora questa fosse balenata a priori). I motivi del suo venire al mondo sono diversi. Anche la gioia è un ottimo motivo. Spesso il solo motivo valido, anche se rarissimo.
Vedendola dall’esterno l’azione appare però come fornita di una logica ferrea. Nessuno ammetterebbe di agire senza un buon motivo. L’economicismo di questa premessa sfugge a tutti coloro che negano in teoria la loro schiavitù logica e vi soggiacciono nella pratica.
Tale logica ferrea costituisce l’elemento esteriore di questo libro, la cosa che più facilmente si coglie e l’ultima ad avere importanza.
Eppure bisogna considerare bene una simile presenza-assenza. Ciò che è secondario diventa soccorso della memoria e sostegno agli imprevisti del cuore. Il medesimo che si ripresenta è senz’altro un grosso peso che ci portiamo al piede, ma è anche l’elemento modesto e continuo su cui costruire l’azione. Una cosa di poca importanza non è detto che vada sottovalutata. Ogni tassello fa parte del mosaico e l’incompletezza di quest’ultimo offende a qualsiasi livello.
E poi è una faccenda di gusto. Il contenuto di una struttura non è determinato dai limiti che essa possiede. Al contrario, l’azione di questi limiti – come prodotto dell’istituzione – sopravviene alla creatività individuale e la racchiude in una prospettiva che le dà l’illusione di movimento. Al solito non ci si convince che si cammina nonostante le catene, ma grazie alle catene. Se ci si lascia sopraffare dai limiti della struttura essa si solidifica proprio nel momento che ci racchiude. Dobbiamo saper riconoscere il suo statuto mortale, la sua origine delittuosa. Per superarla, per usare il senso costruttivo che possiede (se lo possiede).
Dallo Stato in giù le strutture si moltiplicano e si ramificano, incontrandosi (e scontrandosi) con le forme vitali. Anche l’organizzazione rivoluzionaria è una struttura, spesso ripresenta i difetti del mini-Stato, ma ciò non può impedirci di cogliere le differenze. In quest’ultima specie di struttura la presenza formale della creatività individuale dovrebbe essere maggiore, di gran lunga maggiore, che nelle strutture vicine al modello statale. È anche una questione di sfumature. Anche l’individuo è una struttura. Basti pensare ai processi di sovrapposizione che governano le sue possibilità di ragionamento, alle deformazioni ideologiche, ai condizionamenti biofisici. Ma una notevole parte della caratteristica individuale è costituita dalla creatività (o dalla potenziale creatività), cosa che non si può dire delle strutture più complesse in cui l’elemento organizzativo prevale.
La salvaguardia della creatività all’interno della struttura si basa sulle capacità autorganizzative che non devono essere subordinate all’efficienza o all’economicismo dell’azione. Nella struttura queste capacità sono allo stato latente per cui la vediamo annegata in un immenso dispositivo di prevenzione. In fondo il suo scopo principale è la sopravvivenza, da qui la necessità di mettere ordine e limite alle istanze interne di natura creativa, proprio perché negatrici di quelle regole che garantiscono la perpetuazione del modello. Recentemente si è visto come le strutture riescano a gestire anche gli stimoli creativi (mode giovanili, correnti musicali, avanguardie letterarie, sistemi innovativi nella produzione, gusti orientaleggianti, ecc.), riconducendoli all’interno della gestione centralizzata.
In fondo siamo noi che diamo alla struttura la fondatezza che possiede. La nostra abitudine a ubbidire consente la gerarchia dei contenuti strutturali. L’ipotesi organizzativa in sé è una semplice tautologia, una riconferma che per vivere e agire bisogna mettersi d’accordo su regole minimali. In pratica non esisterebbero più istituzioni se smettessimo di credere nel mito dell’istituzione, dell’ordine, dell’organizzazione. Ed è proprio la ribellione che ci permette di negare questo niente, di dirci individui liberi, di costruirci un progetto di libertà.
Non c’è da farsi illusioni sulla totale estraneità della struttura alle condizioni della vita, al progetto rivoluzionario.
Su questo punto occorre riflettere meglio.
Distruzione e coscienza
L’unica cosa da fare quindi, nei riguardi della struttura, è lavorare alla sua distruzione.
Questo iter distruttivo corrisponde con la presa di coscienza, con la nascita e la formazione della coscienza rivoluzionaria.
Non voglio aprire qui il discorso sui livelli di coscienza ma occorre tenere presente che esiste una corrispondenza evidente fra la falsa coscienza, la coscienza del dominio, la coscienza unionista, la coscienza sociale (o rivoluzionaria) e il rapporto con la struttura, intendendosi con ciò il grado di utilizzazione, il limite di coinvolgimento e il progetto di distruzione.
La coscienza non nasce insieme all’individuo, non è ereditata con ciò che chiamiamo vita. Il singolo deve ingaggiare una lotta per acquisirla, ai diversi livelli in cui le condizioni oggettive e soggettive gli consentono di portare avanti lo scontro. Questo è ciò che chiamiamo “fare esperienza”, cioè agire, provare, educarsi a sentire, ragionare. E in più, oltre tutto ciò, l’esperienza degli altri si combina con la nostra e diventa indispensabile in quanto è rivissuta come esperienza propria.
La coscienza non si eredita. Solo la lotta la produce.
Non si tratta di una semplice visione del mondo, un modo di interpretare la realtà. Man mano che ci si avvicina alla coscienza rivoluzionaria, si capisce come il fenomeno sia molto complesso. Se in generale nessuno può modificare la propria natura biologica, la propria coscienza può essere modificata. Si può scegliere una direzione diversa da quella seguita. Si prendono così decisioni fondamentali.
In tale prospettiva si subisce l’influsso delle strutture esterne ma si opera anche su di loro. L’influsso può essere passivo e quindi dilagante, oppure reso più circoscritto tramite azioni precise, individuali e collettive. Nel caso che qui ci interessa, cioè quello del livello rivoluzionario, l’azione distruttiva s’indirizza verso la struttura ma non può impedire di ritorcersi anche contro la coscienza stessa.
Per questo, come si dice, la coscienza brucia se stessa.
Si sviluppa a partire dal rapporto con la realtà (quindi proprio con la struttura), ma vi inserisce un elemento nuovo, vitale, l’elemento distruttivo, l’unico capace di impedire la conservazione dell’eternamente oggettivo. La coscienza trasforma così la struttura, spesso la migliora, proprio perché la costringe a ripresentarsi sotto vesti diverse, più adeguate allo sviluppo dei tempi. Altre volte la coscienza si accresce, diventa più articolata, si affina, si educa a comprendere i rapporti con la realtà, sensibilizza il mondo, crea movimento. Ed è proprio questo entusiasmo che, a un certo punto, minaccia di indebolirla. Essa non può andare avanti all’infinito, salvo ad accettare l’ordine esteriore e quindi ridursi al livello della coscienza inferiore (unionista, per esempio). Con ciò si riconfermerebbe in continuazione come supporto della realtà e da quest’ultima ricaverebbe la propria giustificazione a esistere.
La coscienza rivoluzionaria è invece sola davanti alla struttura che rallenta man mano i contributi che prima forniva. E simile difesa della realtà avviene di pari passo con l’intensificarsi dell’attacco distruttivo che la coscienza scatena contro la struttura.
A un certo punto occorre decidersi per l’azione distruttiva perché è impensabile un eterno permanere sulla presa di coscienza. Ed è proprio tale necessità che ci riporta al rapporto con la struttura, con una differente struttura. La costruzione della società libera di domani è data da una serie di violenti passaggi tra distruzione e costruzione. E in questa lotta frequentemente siamo noi che soccombiamo.
Comunque, per evitare ogni pessimismo, bisogna tenere presente che l’intristire della coscienza, il corrispondente e ovvio crollare della vita corporale, sono fenomeni che subiscono forti modificazioni in funzione della situazione collettiva, dello sviluppo dell’azione, della gioia che si prova in quello che si fa.
Anche la coscienza può imparare a indirizzare meglio i colpi e quindi a dosare le forze. È un tipo di saggezza che si acquista a proprie spese, nel corso della lotta.
Del lavoro fatto
Com’è ovvio non scrivo un libro per sentito dire. Di quello di cui qui discuto ho esperienza personale, diretta. Il mio rapporto col reale è stato un percorso come quello di tanti altri. Lo documento qui – specialmente nella seconda parte – per riflettere insieme sui limiti e le possibilità di alcune esperienze di lotta.
Questa seconda parte, che è centrale per diversi motivi, ha una disposizione cronologica. Comprende difatti i diversi tentativi di realizzare organizzazioni insurrezionali. Nell’arco di quasi dodici anni molte cose cambiano: gli interessi, le prospettive e, principalmente, il linguaggio. Le parole emigrano e ritornano. È facile sperdersi seguendo il loro tragitto. Ma non se ne deve fare un problema. Lo scopo resta unitario: dettagliare una realtà operativa perché possa agire nel senso insurrezionale anche scontrandosi con altre forze che pretendono andare nella medesima direzione. Questo è stato lo scopo di tutto il lavoro degli ultimi anni.
Uno dei motivi conduttori è dato dalla convinzione che non si può mai avere coscienza perfetta della propria posizione nel conflitto di classe. Certo, abbiamo un’idea, un orientamento, una più che ottima motivazione per agire, non una certezza in assoluto. Mi si potrebbe rispondere che di un tipo di certezza del genere nessuno ha bisogno e che anch’io ho a lungo criticato ogni tentativo idealista di stabilirla da qualche parte. Ma, in fondo al nostro animo, la sua assenza si fa sentire. Più ancora ci manca la solidità del reale, quell’atteggiamento convincente che vediamo nella parte avversa. Non facciamo caso al fatto che si tratta, appunto, di un atteggiamento e che i nostri nemici, anche loro, non sono convinti di quello che fanno. Ciò che più conta per noi è che abbiamo bisogno di un punto di riferimento. I giochi ideologici e dialettici cercano di risolvere il problema, ma non possono accontentare. Lo smarrimento del padre potrebbe condurci lontano, nelle braccia della madre-partito, o altrove. Ecco perché diventa indispensabile prendere coscienza della parzialità. Noi agiamo, ma dei risultati del nostro agire non avremo mai esatta cognizione. Allo stesso modo viviamo, ma non sapremo mai esattamente cosa significa vivere. Così facciamo parte di una totalità che non riusciremo mai a individuare. Potremo vederla in azione ma non ne conosceremo mai i contorni.
Questa scoperta ci conduce ad ammettere che la posizione tradizionale individualista non ha senso se resta legata alla concezione della coscienza come centro del mondo (cioè della classe). Non ci si può orientare nel conflitto sociale partendo da un centro che non esiste: l’individuo. Così si isola la singola coscienza e si racchiude nella difesa provvisoria della propria integrità. Al contrario, l’orientamento nel conflitto avviene a partire dallo scontro stesso, quindi dalle componenti di esso che, come sappiamo, sono contrapposte tra loro (altrimenti non si avrebbe conflitto). Ecco perché la regola prima della coscienza rivoluzionaria è quella di trovare il nemico. E la struttura è il segno tangibile del nostro nemico.
Non importa se struttura del nemico o struttura rivoluzionaria, essa sarà il nemico di oggi o di domani e dobbiamo comunque, anche se in tempi diversi e in diversi modi, lavorare alla sua distruzione.
Però è a partire da essa che ci orientiamo nello scontro di classe. La semplice posizione di fatto, quella cioè che risulta dai rapporti di classe, non basta. In caso contrario non si spiegherebbero gli immobilismi davanti allo sfruttamento o i passaggi da una classe all’altra, in modo particolare la presenza, fra i rivoluzionari, di compagni provenienti dalle classi dominanti.
Il passaggio dalla coscienza elementare (o di fatto) alla coscienza rivoluzionaria avviene quindi con un cambiamento nel rapporto con la classe che da semplice mondo esteriore contenente la nostra esistenza, diventa il mondo in cui viviamo la nostra vita. Perdiamo così quel legame originario che ci legava in modo oggettivo alla classe, nel bene e nel male, che ci rendeva componenti di un progetto di cui eravamo assolutamente all’oscuro ma a cui partecipavamo comunque. Adesso possiamo parteciparvi o non parteciparvi. Questa nuova posizione non è data oggettivamente, essa è una conquista soggettiva che può andare persa o mantenuta, migliorata o degradata, e che nessuna forza potrà ricondurre indietro, verso l’incoscienza oggettiva della classe.
Il passaggio non avviene di colpo, spesso dura anni ed è appesantito da resistenze di ogni tipo: interne ed esterne. Nei fatti esso non si compie mai in modo completo. Restiamo sempre nella fase di presa di coscienza fin quando non cominciamo a lavorare – concretamente – alla distruzione della struttura che ci sta davanti, la più immediata e tangibile. Solo allora completiamo uno degli infiniti cicli della presa di coscienza, per passare a fasi successive che non sono né superiori né inferiori ma solo diverse.
L’elemento contraddittorio
È evidente che nel rapporto con la struttura si racchiude la massima contraddizione della vita umana. Ne ho parlato nel libro La rivoluzione illogica [1984], che precede il presente lavoro dal punto di vista deduttivo tramite una continuità d’indagine che si completa nel libro successivo: Chi ha paura della rivoluzione? [1986], di cui suggerisco la lettura. Ma questa contraddizione è evidente solo ai livelli più alti di coscienza rivoluzionaria, dove può essere affrontata o messa tra parentesi. In quest’ultimo caso si ha la fuga verso il partito (armato o riformatore non ha importanza). Quando viene valutata per quella che è, contraddizione della vita prima di tutto, allora ci si rende conto che l’azione sociale non consente il libero sfogo dell’utopia libertaria ma, se vuole essere realmente concreta, ha bisogno di adeguarsi alla realtà dello scontro di classe. Ciò significa che non è costruibile adesso un regno della pura libertà se non nel vago dell’altrettanto pura contemplazione. La tendenza attiva alla verità è attraversata da correnti in senso contrario di notevole intensità che sono l’effetto delle azioni nemiche, ma sono anche il risultato delle condizioni date, dei rapporti sociali esistenti, della realtà nel suo insieme. Tutto questo mondo avverso alla verità si presenta con aspetti sempre diversi, smaglianti, accurati, profondi. Viene suggerito e si autopropone come oggettivo, ragionevole, dimostrabile e, quel che è peggio, come espressione del pensiero libero.
In pratica accade che la libertà assoluta del pensiero conduce a una verità astratta che supera le condizioni concrete della realtà e ci propone un’indicazione, se si vuole validissima, ma lontana e inefficace nella lotta in corso. Molte volte mi sembra che questi pensatori “liberi” per definizione si affannino a parlare alla “storia”. Fanno bellissime dichiarazioni da manuale, riconfermano il proprio punto di vista, sono contro questo e contro quello, ma nei fatti concreti retrocedono sempre di fronte alla realtà dello scontro. Trovano scuse, si accartocciano su dubbi atroci, aspettano perennemente che qualcuno fornisca garanzie sui risultati dell’azione. Per loro non è mai tempo di fare qualcosa. Occorre sempre aspettare e, per non tenere le mani in mano, redigere splendide dichiarazioni di principio.
Di simili patetici personaggi l’anarchismo abbonda e alcuni di loro amano farsi passare – e spesso ci riescono – per uomini d’azione dall’illustre passato su cui, per naturale e ovvia delicatezza, nessuno mette becco. Il male che questa brava gente – volontariamente o involontariamente – fa alla rivoluzione non è oggi valutabile, ma lo sarà certamente in futuro, quando si potranno fare considerazioni più precise su questi ultimi anni.
Si comprenderà allora in che modo il confusionismo, l’impreparazione, l’ignoranza teorica e la pochezza di cuore e di entusiasmo, avranno stornato tante forze dall’azione rivoluzionaria.
Tornando al nostro discorso la tendenza attiva alla verità non si dispiega banalmente in ogni direzione, non segue l’intuizione dovunque il desiderio del singolo colloca obiettivi che poi risultano illusori, al contrario, si auto-prescrive uno scopo preciso, quindi si dà i mezzi materiali indispensabili se non proprio al raggiungimento di quello scopo, almeno al suo avvicinamento. Più la coscienza individua e riconosce la dimensione dei legami che la tengono prigioniera, più sviluppa le forze necessarie a scioglierli. Ma questo riconoscimento significa, di già, rifiuto di orientare la realtà su di se stessi e ribaltamento di se stessi nella realtà. Non siamo più il centro del mondo, non possediamo più le ricette valide per tutte le situazioni – come credono tutti gli intellettuali che si sono avventurati nelle difficoltà rivoluzionarie –, siamo semplicemente immersi in una serie infinita di rapporti sociali e sviluppiamo una serie di tensioni, di contraddizioni, di relazioni che ci delimitano (cioè comprimono la nostra libertà) ma, nello stesso tempo, ci posizionano nel mondo, ci individuano.
Del porre e del risolvere
Ancora una disillusione per coloro che qui si attendono una parola chiarificatrice (una volta per tutte). Mi rendo conto di porre più problemi di quanti ne riesca a risolvere (ma poi, ha un senso parlare della soluzione dei problemi?). Comunque sono certo che non esiste altro metodo per procedere nel difficile cammino della rivoluzione. Ogni volo poetico è fuor di luogo.
Londra, 2 aprile 1984
Alfredo M. Bonanno
Parte prima
I. Che cos’è l’insurrezione
Prima approssimazione essenziale
Un movimento circoscritto di massa che attacca, con la violenza, una struttura del potere.
Questa definizione è molto approssimativa ed è quindi utile cercare di approfondirla.
In essa si distinguono tre elementi:
a) la limitatezza del movimento di massa,
b) la violenza dell’attacco,
c) la parzialità della struttura del potere.
Una critica dell’insurrezione è pertanto molto facile. Un movimento di massa circoscritto significa minoritario, debole e inefficace. Esso viene facilmente distrutto, criminalizzato, ed è una contraddizione in se stesso in quanto se è di massa deve tendere ad allargarsi. All’inizio può essere piccolo ma allora non è il caso di muoversi in tali condizioni. E poi, un movimento che sta in effetti crescendo, che è agli inizi, o che, per diversi motivi, permane limitato proprio perché non trova spazio, per muoversi deve prendere una decisione, nel caso invece del grande movimento di massa è proprio questa sua enorme dimensione che lo fa agire naturalmente, senza costringerlo a decisioni, come spontanea conseguenza della spinta interna. Se ne conclude che la decisione dell’attacco, in realtà di massa molto modesta, è sempre minoritaria. E siccome l’unanimità in queste cose è roba delle favole, la decisione sarà opera di piccoli gruppi specifici agenti all’interno del movimento circoscritto. Ma su cosa si baseranno i gruppi? Non avranno la tendenza a costituire un’avanguardia? Non finiranno per prevaricare la volontà degli altri? Non distruggeranno le stesse possibilità di crescita del movimento?
Ciò per quanto riguarda il primo punto. Per il secondo la critica può notare altrettanto facilmente come l’attacco con forze minoritarie sia quasi sempre destinato a fallire. Da qui le tragiche conseguenze legate all’aumento della repressione. Inoltre l’uso della violenza nel corso dell’attacco non è normale azione politica di massa, in quanto corrisponde a una scelta di mezzi che non tutti condividono, scelta attuata da una minoranza che decide appunto i tempi, i modi e i luoghi dell’attacco. Nel caso della violenza scatenata dalle grandi masse, allora il problema non sussiste, la situazione nel suo insieme si trasforma e la violenza diventa spontanea manifestazione delle forze di liberazione.
Per il terzo punto infine la critica può individuare l’insignificanza di colpire una struttura limitata del potere, mentre le altre strutture restano inattaccate e in grado di correre in aiuto del punto colpito, provvedendo immediatamente a evitare il pericolo. L’impossibilità di scegliere un punto più significativo di un altro. Oggi il potere non possiede più un “cuore” e quindi non ci si orienta bene nell’individuazione dei punti nevralgici del nemico. Il rischio di non essere poi in grado di attendere per colpire strutture più ampie o diverse strutture in un’unica azione.
L’insieme di queste critiche è molto fondato e merita di fare riflettere. Da notare ancora che esso potrebbe essere esteso a dettagli diversi, altrettanto ragionevoli e degni di considerazione.
C’è da dire però che in tali preoccupazioni non si fa cenno degli aspetti positivi e dei limiti concreti dell’atto insurrezionale.
Esaminiamoli confrontandoli con le critiche di cui sopra:
a) la decisione insurrezionale non spreca le energie accumulate nel corso della tensione rivoluzionaria in quanto conclude con un obiettivo preciso la serie di sforzi che, a lungo andare, minacciano di perdersi nel vuoto,
b) la violenza dell’attacco sorprende quasi sempre il nemico che ha fissato i luoghi e i tempi della contrattazione sociale sul terreno democratico e non si aspetta il ricorso ad armi diverse,
c) l’obiettivo in se stesso, considerato come struttura collegata con l’immenso complesso istituzionale, è ben poca cosa, ma non bisogna dimenticare l’effetto di riproduzione che l’atto insurrezionale possiede (una volta che sia realizzato in certi modi e si proponga, appunto, come fatto riproducibile).
Tanto per gli aspetti positivi, veniamo ora ai limiti concreti:
a) la partecipazione al fatto insurrezione è legata alla rispondenza delle organizzazioni che hanno partecipato a prepararlo, cioè in che modo queste reagiscono davanti alla scelta dell’obiettivo, all’impiego di determinati metodi, alle possibili conseguenze repressive, ecc.,
b) il ricorso alla violenza seleziona fortemente la risposta del movimento nel suo insieme, anche a seguito del dilagante mal costume ideologico che tende a mettere in cattiva luce la violenza liberatoria degli sfruttati partendo da un imbroglio filosofico estratto di sana pianta dall’etica borghese,
c) la riproducibilità dell’atto insurrezionale, per quanto possa essere studiata nei minimi particolari e resa oggettivamente possibile, è sempre disturbata notevolmente dall’intervento dei grandi mezzi d’informazione che possono in qualsiasi momento condizionare una risposta popolare.
La limitatezza del movimento di massa
Riflettiamo un attimo sul movimento di massa. Consiste in una più o meno repentina modificazione del livello di coscienza di un gruppo considerevole di persone legato da elementi oggettivi, in genere dall’appartenenza alla stessa classe.
Per esempio, un gruppo di proletari, che può raccogliere anche elementi di classi confinanti (sottoproletari, contadini, disoccupati, emarginati) o elementi provenienti dalle classi dominanti che hanno rifiutato la propria ideologia d’origine, questo gruppo si muove, cioè si polarizza su determinati obiettivi a seguito delle modificazioni sociali o culturali che stanno verificandosi nelle forze produttive, nella composizione delle classi, nella condizione degli strati sociali, nelle ideologie, ecc.
Il livello di coscienza che viene raggiunto dal movimento nel suo insieme determina anche la sua capacità di autorganizzazione. Ma, tenendo conto che il livello di coscienza è a sua volta un effetto delle modificazioni di cui dicevamo prima, se ne deduce che anche la spinta autorganizzativa è legata a queste modificazioni. Se esse sono modeste, se sono a lunga scadenza, se il potere ha l’abilità di graduarle nel tempo, se la pace sociale si realizza, allora anche le forze autorganizzative saranno meno evidenti e disponibili.
Non è detto però che questa capacità speciale, attraverso la quale si promuove il progetto insurrezionale, sia indispensabile in tutta la massa che si sta muovendo. Una generalizzazione non è solo impensabile ma anche sconsiderata perché ogni individuo possiede livelli di coscienza diversi, motivazioni non uguali e comunque un diverso carattere e una sua diversa storia.
Può darsi, più facilmente, che una piccola minoranza, all’interno della massa in movimento, abbia quelle caratteristiche autorganizzative di cui si discute, ed è anche possibile che le voglia mettere in pratica, trasformandole da semplice potenza in “atto concreto”, cioè in costruzione di una struttura organizzativa precisa, una struttura attorno a cui polarizzare il movimento di massa che si sta formando, sia pure di modeste dimensioni ma sempre in grado di recepire gli elementi essenziali del discorso liberatorio e antagonista.
Abbiamo quindi una limitazione precisa che, se ben si riflette, si trova in qualsiasi lavoro di massa con intendimenti politici anche a lunga scadenza. Solo che in quest’ultimo caso, quando si prospetta uno schema di crescita quantitativa all’infinito, proprio il rinvio in avanti, continuato e indistinto, nasconde la reale limitatezza del movimento stesso, dando l’illusione che se anche oggi si è in pochi domani si sarà in molti, in numero sufficiente per travolgere il rapporto di forza col nemico. Quando invece si respinge l’illusione quantitativa e si vuole agire subito, comunque dentro tempi ragionevolmente brevi, occorre ammettere la ineluttabile limitatezza del movimento di massa.
La struttura insurrezionale
Non è pensabile che la minoranza agente, dotata di un’alta coscienza rivoluzionaria, aspetti, prima di muoversi, che il gruppo di riferimento, il cosiddetto movimento di massa, raggiunga lo stesso livello di coscienza o, peggio ancora, che sia visibile un processo sempre più generalizzato di allargamento dei livelli di coscienza. Sarebbe un rinviare all’infinito il progetto organizzativo che invece ha necessità di carattere immediato.
Presentarsi alla gente come portatori di un programma politico comprendente dettagli (sia pure minimi e particolareggiati) sull’obiettivo e sui metodi: è questo un aspetto non trascurabile del compito rivoluzionario. In pratica le organizzazioni riformiste o pseudorivoluzionarie si presentano con programmi molto dettagliati e anche, qualche volta, più aggressivi e affascinanti.
Oltre al programma e ai metodi occorre un punto di riferimento organizzativo.
Questo non può essere però il gruppo stesso che promuove l’iniziativa, suggerisce il programma e garantisce la bontà dei metodi avanzati. Tale gruppo, proprio a seguito del livello di coscienza raggiunto, avrà una sua omogeneità che, quasi sempre, si traduce in una struttura organizzativa, ma non è di un simile tipo di struttura che qui si discute. Non possiamo pensare di suggerire al movimento di massa (quindi a un numero più o meno grande di proletari e di sfruttati) di entrare a far parte dei nostri gruppi anarchici.
Così facendo il gruppo si trasformerebbe in un mini-partito e la gente sarebbe spinta ad aspettarsi e accettare ordini. L’autorganizzazione non si trasferisce facendo migrare la gente all’interno di strutture specifiche dove essa si esprime balbettando, ma contribuendo alla costruzione di strutture fornite di particolari caratteristiche in grado, se non di consentire uno sviluppo pieno dell’autorganizzazione, almeno di non distruggerne le pulsioni nascenti.
Le caratteristiche di queste strutture sono ben chiare:
a) sono polarizzate su un solo problema, quindi non si presentano come mini-sindacati capaci di difendere produttori, o provvedere ai bisogni di questo o quel gruppo di persone. Nell’azione sono pertanto dirette esclusivamente a un obiettivo preciso, che è costituito dall’attacco alla struttura di potere che si è scelta,
b) sono conflittuali in modo permanente, cioè non aspettano segnali da qualcuno o da qualcosa per attaccare l’obiettivo, ma fin dall’inizio cominciano a svolgere azioni adeguate alle proprie possibilità. Tali azioni cessano soltanto con lo spegnersi del movimento di massa che è alla base, sia per un raggiungimento dell’obiettivo, sia per uno spostarsi di quest’ultimo a seguito di decisioni statali, sia per un ostacolo repressivo talmente alto da risultare insuperabile,
c) sono autonome, cioè non dipendono né dal gruppo che ha contribuito alla loro costituzione, né da altre forze politiche più o meno consistenti con cui entrano in contatto nel corso della loro vita.
L’obiettivo
Deve avere una sua concretezza e non essere esclusivamente simbolico. Non è possibile un’azione insurrezionale contro un singolo individuo (a esempio, un magistrato o un poliziotto). L’inconcludenza è evidente.
Allo stesso modo non è possibile contro una intera classe di nemici (la classe dominante, la burocrazia, i dirigenti politici, ecc.), si tratta di obiettivi che non si possono localizzare nello spazio fisico, anche se sono identificabili nello spazio sociale.
Gli obiettivi insurrezionali sono le realizzazioni in atto dello sfruttamento e del controllo sociale, e sono, ovviamente, strutture.
Si tratta di processi articolati nei quali, con sistemi precisi, si realizzano programmi fissati a livello centrale, si attua una ripartizione del lavoro fra diversi componenti, si fissano norme inderogabili di comportamento. Nelle strutture si vede, in concreto, l’azione del dominio.
Un poliziotto, un magistrato, un capitalista, una prigione, un tribunale, un manicomio, un municipio, il parlamento, un ufficio delle imposte, e tanti altri individui e luoghi attraverso i quali il suddetto processo si mette in moto e si realizza, sono tutti possibili obiettivi di lotta, ma non possono costituire, da soli, un obiettivo insurrezionale.
Attaccare un singolo capitalista ha – in pratica – un significato simbolico. Non tanto nei confronti degli altri capitalisti che, come tutti sappiamo, non smettono per paura il loro mestiere, ma nei confronti degli altri proletari che dovrebbero capire la possibilità di un attacco del genere. Ora, un’azione simile è valida solo in due prospettive: nell’ipotesi che chi la compie intende distruggere un’espressione concreta del nemico, una parte, anche se infinitesimale, dell’enorme ostacolo che l’opprime, secondo, nell’ipotesi che l’attacco stesso si inserisca in una più ampia strategia insurrezionale e che quindi il singolo risulti essere un elemento dell’istituzione che si vuole attaccare.
La prima di queste due ipotesi qui non ci riguarda. La seconda viene ricondotta all’indagine sull’obiettivo insurrezionale stesso che, com’è ovvio, risulta costituito non solo da un processo in corso, ma anche da uomini e da cose.
Tornando al nostro discorso possiamo adesso precisare che la lotta insurrezionale può essere condotta – sempre restando nella concezione di realizzazioni in atto – contro la repressione, contro la democrazia parlamentare, contro il sistema educativo, contro il lavoro, contro il militarismo, contro il burocraticismo, ecc.
La qual cosa significa attacco contro ogni singolo elemento che concorre a rendere possibile la repressione, la democrazia parlamentare, il sistema educativo, il lavoro, il militarismo, ecc.
Il progetto
Pur non essendo possibile parlare di progetti dettagliati è necessario che si abbia una traccia, sia per valutare adeguatamente le azioni in funzione del livello dello scontro, sia per coordinare l’intervento delle diverse strutture insurrezionali.
Questo progetto, anche se embrionale, deve tenere conto di tutte le forze in gioco. In primo luogo le forze politiche che apparentemente sostengono lo stesso genere di lotta. A esempio i partiti di sinistra e le stesse formazioni rivoluzionarie di impostazione autoritaria, nel caso che queste abbiano sufficiente significato e non siano semplici ipotesi ideologiche. Non per quello che rappresentano, in quanto sistemi organizzati, ma per i proletari che riescono a raggiungere, a disinformare e, quindi, a condizionare. In fondo il nostro referente è comune, quindi non possiamo ignorare le loro posizioni o evitare di confrontarci quando lottiamo in una prospettiva insurrezionale.
Essi saranno sistematicamente contro questa prospettiva ma non potranno mai ammetterlo ufficialmente davanti agli sfruttati e ai proletari che li seguono. Dovranno pertanto seguire vie traverse, operare compromessi e impiegare tutte le arti politiche di cui sono in possesso. In tali frangenti la nostra azione può riuscire ad allargare quel movimento di massa su cui ci basiamo, proprio esercitando un’attrazione sugli elementi che si ricollegano a questi partiti e a queste organizzazioni.
Nello stesso tempo il progetto deve considerare le condizioni generali dello scontro, la situazione produttiva e sociale del paese, la situazione internazionale.
Per un altro verso il progetto deve indicare una concretizzazione precisa di lotta, una personificazione dell’obiettivo che non sia solamente simbolica ma costituisca una base precisa di intervento, facile a comprendersi.
Se si lotta contro la repressione può essere un grande carcere in costruzione, se si lotta contro il militarismo può essere una base missilistica, se si lotta contro il sistema educativo può essere una grande università, se si lotta contro il lavoro può essere una fabbrica o un ufficio di collocamento, se si lotta contro il burocraticismo può essere il municipio, la sede di un partito o di un sindacato, oppure l’ufficio di assegnazione delle case.
La decodificazione dell’obiettivo
Come apparirà chiaro nel corso di tutto questo libro, l’obiettivo può, a volte, risultare astratto all’occhio non esercitato del proletario che si muove e si dichiara disponibile alla lotta. Lo stesso concetto di insurrezione risulta pieno di equivoci, anche fra coloro che dovrebbero avere l’istinto per simili problemi. Occorre pertanto interporre, tra l’obiettivo e la sua personificazione, un processo di decodificazione, cioè, in pratica, delle spiegazioni.
Per esempio, la lotta contro la repressione può risultare troppo astratta, mentre diventa più comprensibile se si indica un carcere preciso come personificazione dell’obiettivo. Ma anche questa fase può risultare scollegata dagli interessi immediati dei singoli proletari, ed è qui che si sviluppa il lavoro di decodificazione: pericolo del carcere, la mancanza di libertà, il suo significato intimidatorio nei riguardi delle lotte sociali, la falsa ideologia dei buoni e dei cattivi, come si costruisce il criminale, la funzione della polizia, della magistratura, ecc. Si tratta di una vasta gamma di informazioni che bisogna elaborare e diffondere nell’àmbito territoriale. La diffusione può essere intensissima proprio perché il referente è molto limitato. In genere si tratta di un quartiere, una cittadina, una zona comprendente più paesi o piccole città.
È ovvio che bisogna collegare la realtà territoriale con le altre situazioni, in tutto il paese e anche all’estero, ma si tratta di normale lavoro per gruppi rivoluzionari anarchici che si collegano in molti modi fra di loro.
La violenza dell’attacco
Molti s’immaginano l’insurrezione come la semplice lotta sulle barricate. Ciò è infantile.
Spesso fa comodo restringere la valutazione critica a questa immagine e affermare che si tratta di sogni ottocenteschi ormai fuori del tempo.
Tutto questo libro è dedicato a smontare una simile ipotesi illusoria. La lotta insurrezionale è un progetto di azione rivoluzionaria a media scadenza che non si limita ad aspettare una ipotetica rivolta delle masse.
I metodi di lotta proposti sono quindi, per conseguenza, di natura violenta. Cioè non ammettono l’uso di tecniche pacifiste o semplicemente simboliche. Ma la violenza non consiste in una immediata e velleitaria radicalizzazione dello scontro. Essa si basa invece su di una continua rapportazione al livello reale del conflitto, in modo da evitare fughe in avanti che avrebbero, come conseguenza immediata, un inutile aumento della repressione.
L’insieme di questi interventi, metodi e considerazioni critiche, ha lo scopo di spostare verso l’obiettivo la maggior parte possibile del movimento di massa che è stato sensibilizzato con il precedente lavoro controinformativo e che ha preso contatto con le strutture insurrezionali.
Lo spostamento ha il senso di portare fisicamente la gente dentro il territorio nemico, dentro la struttura istituzionale che si vuole attaccare. Da qui il significato centrale che l’occupazione assume nella prospettiva insurrezionale.
L’occupazione
Ogni realizzazione in atto dello sfruttamento e del controllo sociale ha una estensione nel territorio. Una attività del genere sarebbe impossibile senza la costruzione di edifici, uffici, muri di cinta, segnali d’allarme, poliziotti di guardia, divieti di accesso, schedari, computer, macchinari, depositi di armi, aule scolastiche, sale consiliari, magazzini di deposito, catene di montaggio, aule giudiziarie, ecc.
Dentro questo spazio fisico la presenza degli sfruttati e dei controllati è possibile solo a seguito dell’accettazione di alcune condizioni preliminari: essere inquisiti, educati, perquisiti, misurati, guardati, valutati, pesati, spogliati, robotizzati. Le regole di comportamento sono fissate dalle leggi, dalle abitudini, dalla morale dominante. Ogni comportamento “deviante” è punito con una sanzione legale e con la riprovazione del gruppo che ci circonda.
Il limite segnato dalla legge, sia esso consacrato dalla proprietà o dall’autorità statale, può essere superato solo con un’azione violenta che porta coloro che devono stare al di qua, di colpo e senza alcuna autorizzazione, al di là di quanto prescrive la legge.
Non bisogna confondere questo superamento reale con il semplice superamento simbolico dei pacifisti. L’azione violenta assume le caratteristiche insurrezionali solo quando i partecipanti si portano al di là del limite di cui sopra per attaccare e possibilmente distruggere la struttura nemica e non per dimostrare semplicemente il loro dissenso.
Di volta in volta, nel corso delle singole lotte, questa differenza apparirà chiara, sia per i metodi impiegati, sia per le decisioni e le proposte organizzative.
Purtroppo il grande inquinamento socialdemocratico di questi ultimi anni ha svalutato il senso profondo del termine “occupazione”. Molte volte si è finito per fare corrispondere questo atto insurrezionale con la semplice manifestazione simbolica, con la richiesta di migliori condizioni di lavoro, di salario, di vita, con la pratica riformista e perbenista.
Invece l’occupazione è proprio il punto focale dell’attacco al tabù, il momento del superamento della soglia che immette nel territorio che per definizione di legge ci è stato sottratto e che noi torniamo a riprendere. Solo che non possiamo riprenderlo se non a condizione di distruggerlo, in caso contrario la nostra azione svanisce nel simbolo.
La parzialià della struttura del potere
Un’ultima classica obiezione è quella di considerare troppo circoscritta e insignificante un’azione insurrezionale. In un mondo che tende sempre di più alla generalizzazione del controllo – ci si chiede – che senso ha attaccare e distruggere uno degli infiniti punti periferici di questo controllo (e del relativo sfruttamento)?
Bisogna riconoscere che la risposta a tale obiezione non è agevole e merita quindi un migliore approfondimento.
Per capire occorre ritornare al concetto di “riproducibilità”. L’azione deve essere studiata in modo che sia chiaro lo scopo rivoluzionario, il metodo impiegato e il fondamento ideale di libertà che ispira il movimento nel suo insieme. Deve inoltre essere un’azione di movimento, cioè un superamento del limite fissato dalla legge che non sia opera di un ristretto gruppo di militanti rivoluzionari, ma coinvolga il maggior numero possibile di proletari e di sfruttati.
Certo, occorrerà pagare un prezzo repressivo, spesso anche considerevolmente alto. Ma non esiste altra alternativa per chi s’incammina sulla strada rivoluzionaria.
Lo Stato ha ormai fatto l’abitudine al simbolismo delle lotte pacifiste. Non ha invece ancora potuto (né potrà mai) neutralizzare, in modo indolore, le lotte insurrezionali. Però anche il contraccolpo repressivo ha una sua azione sulla gente.
Sulle prime, apparentemente, si generalizza la paura. Poi si sviluppa il sostegno e la simpatia. Per ultimo, potrebbe anche aprirsi la fase della presa di coscienza.
Per quanto piccola sia l’azione e per quanto inefficienti risultino i nostri sforzi di allargarla ad altre situazioni e a mantenerla in contatto con l’esterno – vista anche l’inconsistenza e la faziosità endemiche del movimento rivoluzionario – l’insurrezione è sempre un fatto rivoluzionario di grande significato che mette a nudo la reale natura del potere, il suo falso democraticismo, l’efferatezza della repressione (ma anche i suoi limiti), l’inutilità dei patteggiamenti, il collaborazionismo dei riformisti, il gesuitismo degli aspiranti al nuovo potere.
Nessuna valutazione quantitativa è possibile in simili intraprese. Lo sanno bene i compagni che capiscono che cosa vuol dire la lotta insurrezionale. Una lotta spesso oscura, che non risulta subito comprensibile, che incontra il sospetto dei supercritici e l’inattività delle grandi masse. Ma è proprio un piccolo nucleo di compagni che ripropone continuamente il progetto insurrezionale, modificandolo a seconda della realtà e delle condizioni conflittuali, che deve avere chiari i limiti e le possibilità del proprio operare. Ed è a questo pugno di uomini e di donne che il mio lavoro si indirizza in modo primario.
II. Lotta rivoluzionaria e insurrezione
La necessità della prospettiva insurrezionale
Il nostro compito di anarchici, la nostra preoccupazione principale, il nostro desiderio più grande è quello di vedere realizzata la rivoluzione sociale: terribile sconvolgimento di uomini e di istituzioni, capace finalmente di porre fine allo sfruttamento e di instaurare il regno della giustizia.
Per noi anarchici la rivoluzione è la nostra guida, il nostro punto di riferimento costante, qualsiasi cosa facciamo, di qualsiasi problema ci occupiamo. Non sarà possibile l’anarchia, che vogliamo tutti, senza il doloroso passaggio rivoluzionario. Se non vogliamo trasformare l’anarchia in un inutile sogno dobbiamo lottare per distruggere con la rivoluzione lo Stato e gli sfruttatori.
Ma la rivoluzione non è un mito ideale da utilizzarsi come semplice riferimento. Proprio perché è un fatto concreto, essa deve essere costruita giorno per giorno, anche con tentativi più modesti che non hanno tutte le caratteristiche liberatorie della rivoluzione sociale vera e propria. Questi tentativi più modesti sono le insurrezioni. In esse il movimento di sollevazione delle minoranze più sfruttate e delle minoranze più sensibilizzate politicamente apre la strada alla possibile sollevazione di sempre più ampi strati di sfruttati, in un flusso di ribellione che può anche sboccare nella rivoluzione, ma può anche concludersi nell’instaurazione di un nuovo potere o in una riconferma sanguinosa del vecchio. In questo caso, pur essendosi presentata l’insurrezione come sollevazione liberatoria, essa si è amaramente conclusa con un ripristino del dominio statale e padronale. Nessuna contraddizione in ciò. Si tratta del naturale svolgersi delle cose. L’insurrezione è l’elemento indispensabile della rivoluzione, senza di essa, senza una serie lunga e dolorosa di insurrezioni non ci sarà rivoluzione e il potere regnerà indisturbato nel pieno delle sue forze. Lo scoraggiamento non fa per noi. Ancora una volta, ottusamente, ci prepariamo e lottiamo per l’insurrezione che verrà, piccolo pezzo del futuro grande mosaico della rivoluzione.
Certo, il capitalismo ha profonde contraddizioni che lo spingono verso processi di aggiustamento e di evoluzione, proprio allo scopo di evitare le crisi periodiche da cui è afflitto, ma non possiamo cullarci nell’attesa di queste crisi. Quando esse si verificheranno saranno le benvenute se risponderanno ai requisiti di elementi acceleratori del processo insurrezionale. Da parte nostra, nel frattempo, ci prepariamo e prepariamo le masse sfruttate all’insurrezione.
In questo senso riteniamo che i tempi sono sempre maturi per la prossima insurrezione. Meglio un’insurrezione fallita che cento tentennamenti che fanno fallire cento occasioni da cui sarebbe potuta scaturire la rivoluzione definitiva. Siamo quindi contrari a coloro che dicono che le recenti batoste del movimento rivoluzionario ci dovrebbero fare riflettere e ci dovrebbero far concludere per una maggiore prudenza. Riteniamo che il tempo delle insurrezioni sia venuto, proprio perché è sempre tempo di battersi mentre l’attesa torna solo utile al capitale.
Preparare l’insurrezione significa preparare le condizioni soggettive (personali e materiali) che consentono a una minoranza anarchica specifica di creare le circostanze indispensabili allo sviluppo del processo insurrezionale. Se l’insurrezione è fenomeno di massa per cui, in caso contrario, rischia di abortire subito, il suo inizio è sempre il risultato dell’azione di una minoranza decisa, di un pugno di coraggiosi che attacca i punti più significativi dell’obiettivo parziale da raggiungere.
Dobbiamo essere molto chiari. I compiti della lotta anarchica contro il potere possono variare molto, ma tutti – a nostro avviso – devono dirigersi coerentemente a preparare l’insurrezione. Alcuni compagni possono dedicarsi alla chiarificazione teorica, all’analisi economica e filosofica, all’indagine storica, ma tutto deve essere immediatamente funzionale alla preparazione di quella minoranza capace di realizzare l’insurrezione facendo in modo che le masse partecipino in maniera più ampia possibile o almeno non ostacolino. Alcuni compagni possono pensare l’insurrezione realizzabile più avanti nel tempo (non rinviata in avanti all’infinito), altri la pensano realizzabile immediatamente: questo può determinare una ripartizione di compiti, nel senso che i primi saranno portati a interessarsi di più ai problemi della cultura rivoluzionaria, ma il loro scopo deve finalizzarsi allo stesso obiettivo. In caso contrario si addormenterebbero quelle forze ribelli che hanno proprio bisogno di chiarezza per organizzare l’azione e non di chiacchiere per rinviarla.
Il ruolo della minoranza specifica
Duplice il compito di preparazione della minoranza: da
un lato la sua sensibilizzazione ai problemi del livello dello scontro, che non sono solo problemi militari e politici, ma anche e principalmente, problemi sociali ed economici. Dopo, la preparazione concreta, in termini specifici e dettagliati, in vista della insurrezione.
Insistiamo ancora una volta: la preparazione delle masse non potrà in alcun modo essere una delle condizioni della rivoluzione. Se aspettassimo di preparare prima le masse a un simile compito grandioso, non si farebbe mai nulla. Più che altro siamo convinti che la preparazione delle grandi masse sarà una conseguenza della rivoluzione, e forse non tra le più immediate. Viceversa, la minoranza anarchica rivoluzionaria deve poter essere preparata al compito storico che l’attende.
Eliminiamo anche il problema della “purezza”. Noi non parteciperemo soltanto alle insurrezioni guidate dagli anarchici, ma anche a tutte le altre insurrezioni che si manifestano con le caratteristiche del popolo in rivolta, anche se per determinate circostanze a guidarle saranno gli stalinisti, nostri futuri nemici. Vuol dire che cercheremo di conquistarci un posto migliore proprio nella lotta, nel corso degli avvenimenti, diffondendo per quanto possibile il nostro programma di liberazione totale che contrapporremo a quello banalmente economico e politico degli autoritari. Il resto sarà l’insurrezione stessa a verificarlo.
Compito da realizzare subito, questo dell’insurrezione. Ma con quali mezzi concreti? Abbiamo visto che la minoranza specifica deve farsi carico dell’urto iniziale, sorprendendo il potere, determinando una situazione di scompiglio che possa mettere in difficoltà le forze della repressione e fare riflettere le masse degli sfruttati sul problema di intervenire o meno. Ma cosa intendiamo per minoranza specifica? Forse il movimento anarchico nel suo complesso? Forse il movimento rivoluzionario nel senso più ampio? Queste domande richiedono una risposta chiara.
Partiamo dall’ipotesi più ampia. Il movimento rivoluzionario nel suo insieme non può essere considerato, dal punto di vista che ci interessa, come minoranza specifica capace di realizzare unitariamente l’insurrezione. Esso presenta tutta una serie di contraddizioni che, a sua volta, rispecchia le contraddizioni della società in cui viviamo. Ai modelli ideologici corrispondono raggruppamenti organizzativi che finiscono per anteporre la pregiudiziale teorica agli interessi immediati della liberazione. Di più, le stesse formulazioni analitiche di buona parte del movimento rivoluzionario sono a carattere autoritario, quindi prevedono la conquista del potere e non la sua immediata distruzione, il suo preteso utilizzo in senso anti-borghese e non la sua scomparsa. È chiaro pertanto che questa parte delle forze rivoluzionarie non ha interesse a preparare l’insurrezione ora e subito, in quanto si illude che i tempi lunghi lavorano per lei, sbriciolando la base su cui poggia il capitalismo e preparando la situazione rivoluzionaria senza l’anticamera pericolosa dell’insurrezione. Avremo quindi che tali fasce del movimento rivoluzionario si schiereranno su posizioni contro-insurrezionali, arrivando (come abbiamo visto in molti casi recentemente) ad attaccare e denunciare i compagni anarchici sostenitori della tesi inversa. Concludiamo col dire che non è possibile allargare fino a questo punto il concetto di minoranza specifica. Quando, per ipotesi, gli stalinisti scatenassero loro il processo insurrezionale, o perché convinti di trovarsi davanti a condizioni rivoluzionarie o perché trascinati dalle istanze della base che non ammettono raffinatezze ideologiche, allora il nostro compito sarebbe quello di partecipare con tutte le nostre forze all’insurrezione, per batterci sul campo concreto delle lotte e lì trovare lo spazio necessario alle nostre idee. In caso contrario, con noi iniziatori e propugnatori dell’insurrezione, è abbastanza facile trovare questa parte del movimento rivoluzionario su posizioni contrarie o, nella migliore delle ipotesi, su posizioni di attesa.
Vediamo adesso se il movimento anarchico nel suo insieme può essere considerato come minoranza specifica capace di realizzare unitariamente l’insurrezione. La conclusione è ancora una volta negativa. Le contraddizioni al suo interno sono immense e per lo più dovute alle paure e alle remore che un ristretto gruppo di princisbecchi ha seminato con accuratezza al suo interno. Esso appare oggi come un vecchio mantello sdrucito e pieno di toppe che solo a malapena riesce a far ricordare gli antichi splendori. Le fughe in avanti, verso ipotetiche forme d’intervento elitario, come quando si è cercato dall’esterno di fornire analisi precostituite e già impacchettate o catechismi pronti all’uso, o come quando si è preteso di fornire a tutto il movimento l’analisi conclusiva da mettere subito in pratica, sono state un fallimento. Lo stesso per le fughe all’indietro, verso quei ritorni dell’anarcosindacalismo che non potevano non lasciare scontenti sia i lavoratori nel loro insieme, che gli stessi compagni rivoluzionari. E poi, il fallimento più ampio e accertato della politica dello struzzo. Nascondersi dietro le paure delle provocazioni per non fare niente, per non intervenire che a babbo morto, per stare continuamente con la bilancia in mano a pesare, giudicare e condannare quei pochi compagni che qualcosa facevano, anche se circoscritta e limitata. Della specificità di questo movimento restano solo il nome, il simbolo, le bandiere, qualche vecchio compagno, qualche giovane compagno invecchiato prima del tempo, qualche entusiasta che spera sempre, qualche mummia incartapecorita all’interno della sua piccola bottega. La gran quantità dei compagni attivi, che forma l’anima rivoluzionaria del movimento anarchico e che è pronta a ricominciare la lotta, non deve farsi scoraggiare da cassandre e uccelli del malaugurio. L’azione è il metro per distinguere al di là dei simboli e delle dichiarazioni di principio.
Sono proprio questi compagni disponibili per l’azione a costituire la minoranza specifica di cui parlavamo prima. Saranno loro a preparare e realizzare l’insurrezione, nei modi e nelle forme che l’esperienza di lotta del movimento rivoluzionario nel suo insieme ci ha tramandato e tenendo conto delle più recenti modificazioni dello Stato e dei padroni. Questi modi non potranno prescindere da quelle strutture organizzative minime di base che dovranno farsi carico di risolvere i diversi problemi che sorgeranno nel corso della preparazione insurrezionale. In queste strutture la responsabilità del lavoro da fare deve ricadere ovviamente sui compagni rivoluzionari anarchici e non può essere lasciata alla buona volontà o all’improvvisazione. Le regole della sopravvivenza stessa impongono, a tale punto, condizioni imprescindibili di sicurezza e di cautela. Il tempo delle inutili chiacchiere cessa davanti all’urgenza dell’azione.
Sull’insieme dell’attività svolta da questa minoranza specifica, così individuata, che si articola nelle strutture minime di intervento, c’è da dire ancora qualcosa. Questa attività non può essere considerata solo dal punto di vista della “propaganda col fatto”. Il suo scopo, infatti, non è quello di dare l’esempio o di influenzare un ampio raggio di possibili simpatizzanti. Certo l’aspetto empirico esiste anche, dovendosi tener conto che l’alleanza massima che garantisce la riuscita dei piani futuri è quella con le masse in rivolta, ma si tratta di un aspetto che è tacitamente ripreso dal meccanismo dell’informazione capitalista che lo trasforma in merce vendendolo al dettaglio attraverso i giornali, la televisione, il cinema, i libri, ecc. La verità è che la minoranza specifica stessa, realizzando le proprie azioni, ha la possibilità di far capire qualcosa agli altri se capisce qualcosa essa stessa nel momento medesimo dell’azione. L’azione quindi significa educazione attraverso l’azione, ed educazione di se stessi e degli altri. Se riteniamo di avere capito tutto e ci affidiamo in modo esclusivo alla nostra scienza, al momento dell’azione consegniamo nelle mani del capitale un meccanismo ripetitivo che si inserisce perfettamente nel complesso generalizzato della produzione capitalista che è, in primo luogo, ripetizione di se stesso all’infinito.
L’azione della minoranza specifica deve quindi consistere non in una interruzione dell’imparare a proprie spese qual è la realtà dello scontro, ma in una trasformazione graduale e completa del proprio imparare, trasformazione realizzata facendo vedere agli altri come si impara a comprendere la realtà dello scontro. Se l’azione della minoranza specifica dà l’esempio di qualcosa, essa dà l’esempio di come si impara a individuare e colpire il nemico e non di come si insegna il relativo metodo. Nel momento giusto l’azione giusta diventa sostanza dell’attacco singolo e specifico, simbolo di tutti gli attacchi possibili futuri, dispiegarsi di un momento non ancora venuto a maturazione, massimo livello d’intervento raggiungibile operando nella realtà dello scontro. La lotta di classe caratterizza lo scontro in essere. Questo elemento consente l’azione concreta della minoranza specifica. Al suo interno l’azione si trasforma continuamente da tentativo di comprendere a tentativo di insegnare. Cancellando il primo momento tutto annega nella ripetitività, cancellando il secondo momento tutto annega nell’indecisione.
Nel flusso continuo dello scontro di classe si trovano tutti: educatori ed educandi, in esso tutto riceve la giusta collocazione all’interno dei rapporti di forza. Chi non ha imparato dai propri errori non può mostrare nulla agli altri, e un modo eminente di non imparare è proprio smettere di imparare, pensare che sia venuto il momento per insegnare e basta. Attraverso il filtro dello scontro di classe la memoria della rivoluzione si dispiega lentamente diventando tramandabile. Nelle azioni la memoria si tramanda concretamente e diventa percepibile da parte degli altri, proprio nell’istante in cui è riflessione e critica per chi opera l’azione stessa.
Ogni singola struttura minima d’intervento, che agisce all’interno della minoranza specifica, corre il rischio di porsi come parte dialogante col movimento rivoluzionario nel suo insieme e, qualche volta, con l’intera massa degli sfruttati, se non imposta correttamente il senso della propria azione. Ponendosi come parte isolata, di fronte a tanto referente, ci si illude che il movimento tutto e gli sfruttati, la loro sorte e la sorte della rivoluzione, dipendano da noi, ci si aspetta chissà cosa da quello che facciamo, si resta frustrati dalla superficialità delle risposte e dall’incomprensione generale. La lotta rivoluzionaria è come un mare ondoso contro cui lottare sarebbe follia vana, occorre adattarsi al senso delle onde, nuotare ora con forza e ora con leggerezza, cogliere l’impeto di vita che il mare nasconde in se stesso per arrivare alla meta desiderata. La difficile arte del nuotatore nasconde il senso politico dell’azione minoritaria. Quest’ultima mette in risalto il suo significato di classe esplodendo improvvisamente come frutto della memoria rivoluzionaria e come indicazione per il presente scontro.
Pensiamo pertanto che l’azione di queste strutture minime sia ancora una volta indispensabile – se correttamente impostata – alla preparazione di quel processo insurrezionale che riteniamo compito immediato e improrogabile di tutti gli anarchici. Lungi dall’esserci un contrasto tra le due cose – come qualcuno ha cercato di farci notare – riteniamo che siano complementari e indissociabili. Il lavoro di fondo delle strutture minime d’intervento si somma nel lavoro complessivo, di natura organizzativa e generale, della minoranza specifica nel suo insieme.
L’insurrezione sarà, ancora una volta, il banco di prova di quello che si è fatto, causa ed effetto, nello stesso tempo, di quel modificarsi dei rapporti di forza che consente il dischiudersi delle porte della rivoluzione.
[Cfr. A. M. Bonanno, Lotta rivoluzionaria e insurrezione, in “Anarchismo” n. 30, 1980, pp. 9-12. Una traduzione inglese parziale di questo articolo è uscita su “Insurrection”, numero unico, 1982, pp. 1-3]
III. La ribellione
Lo scettico
Uno dei tanti sputa-sentenze, disgustato del mondo e di se stesso, un vecchio rudere di tante immaginarie battaglie, disilluso e scettico nella miseria del proprio quotidiano problema di vivere, mi diceva che la ribellione ormai non esiste, che parlarne diventa anacronistico, roba del secolo scorso.
Il mio amico, ricordando la sua passata militanza e sognando a occhi aperti, tra un bicchiere e l’altro, mi confermava l’intenzione di restare proprio a far niente. Né aspettando, né sperando. Semplicemente a far niente. Lavorando per vivere, osservando scorrere la vita.
La tristezza di queste affermazioni è, per me, qualcosa di tangibile. Non molto tempo fa qualcuno – credendo di fare una critica severa – mi diceva: – che cosa farai da grande? Ecco, è proprio questa mia supposta immaturità che costituisce forse il patrimonio cui tengo di più, la cosa più bella della mia vita. Io non so cosa farò da grande, proprio perché voglio continuare a restare con l’entusiasmo del bambino che scopre il mondo e non voglio incartapecorirmi in elaborate giustificazioni del “non fare”.
L’azione, in fondo, ha sempre qualcosa di avventato. Lo scetticismo è una delle filosofie più profonde, ma, come tutto ciò che è acuto e alto, perde troppo presto il contatto con la realtà, con quelle cose modeste e concrete che non arrivano a grandi altezze di pensiero o di sentimento, ma che pure sono importanti e fondamentali, costituendo la gran parte della vita di tutti. Lo scettico non le considera. Nell’ardire della propria ipotesi sul mondo, avanza senza dubbi, senza contraddizioni. Gli altri si affaticano a mettere insieme conseguenze, egli li guarda con superiorità e rimira se stesso nell’assoluta freddezza della propria identità. Così finisce per trovarsi sempre perfetto, al sicuro, lontano da ogni confronto spiacevole. Ma non si rende conto di essere semplicemente pusillanime e stanco. Un feroce conservatore del proprio avvenirismo.
L’adeguarsi
In fondo il mio amico scettico si adegua, cioè segue il comportamento più adeguato (quindi, secondo lui, più giusto) alla situazione in cui si trova. Egli non si ribella.
La sua tragedia è proprio qua. Nega la realtà della ribellione in conseguenza del fatto che non si ribella e, come sempre accade, tende a giustificare filosoficamente questo dato “normale”, dandogli connotazioni generalizzate.
In fondo una delle norme sociali fondamentali è quella che vuole razionale il comportamento dell’individuo. E lo scettico è profondamente razionale. Tanto razionale da dare il voltastomaco.
La razionalità è uno degli strumenti essenziali per assicurare la perpetuazione della scala di valori accettata dalla collettività. Ogni mutamento di codificazione delle norme (o dei valori, che poi è la stessa cosa) deve essere prima considerato attraverso la discriminante della ragione. Se ci si deve ribellare a un ingiusto atto repressivo, ciò deve accadere solo quando il risultato è abbastanza probabile che sia positivo e quando si abbia ben chiaro il processo di trasformazione e anche cosa fare dopo. Ogni azione diversa è rigettata indietro, nei comportamenti irrazionali e quindi assolutamente negativi.
Gli strumenti della razionalità sono moltissimi e differenziati e tutti realizzano il controllo dell’individuo contribuendo a formare il suo carattere. Si ha così che il singolo si comporta in modo apparentemente volontario, ma in sostanza esegue quasi esattamente gli ordini che riceve. I desideri dell’individuo sono quindi, nella gran parte dei casi, proprio quelli che egli deve avere e le sue azioni quelle che egli deve fare.
La rottura
Certe volte il meccanismo non funziona. L’equilibrio instabile che il processo repressivo persegue, bilanciando elementi intrapsichici, strutture biologiche, imposizioni sociali e elaborazioni culturali, si rompe. La coscienza della propria situazione, per come è stata costruita dal sistema sociale, si frantuma. È allora che ci si comporta in modo “diverso”.
È la rottura. Ci scostiamo dal comportamento che il resto dei membri della collettività segue e considera “giusto”.
Non si deve pensare che lo scettico, proprio per la sua posizione, sia un diverso. In effetti egli si comporta in modo coerente con le norme (fra cui la razionalità) che regolano la collettività di cui una volta faceva parte, a cui si era contrapposto, e verso cui col proprio atteggiamento di rinuncia tende a ritornare.
Di regola, la rottura avviene come negazione delle norme di comportamento della collettività cui si appartiene. Vi possono essere negazioni più o meno violente o più o meno radicali. Nessuno può negare totalmente le norme di comportamento. Nessuno può accettarle totalmente. Tra questi due estremi impossibili si colloca il comportamento adeguato. Nel senso della negazione si collocano una serie di comportamenti che sono detti “diversi”.
Ma per quale motivo ci si comporta in modo “diverso”? Esistono due componenti che sollecitano alla diversità: la ragione razionale e le ragioni del cuore. Entrambi entrano a far parte della situazione del singolo che è costituita da un insieme enorme di atti, fatti e relazioni, ma che è anche la coscienza stessa di questo insieme organico. Non è facile stabilire se nel comportamento adeguato prevale la razionalità e in quello diverso prevalgono le ragioni del cuore. Diciamo che, in linea di massima, queste ultime sono difficilmente riconducibili alle norme sociali che prescrivono certi comportamenti e li considerano adeguati. Ciò non toglie che si riscontrano notevoli cristallizzazioni dei sentimenti i quali vengono spesso vissuti secondo il modello precostituito dall’esterno e non per come propongono le pulsioni personali. In senso contrario, abbiamo che la ragione può essere elemento ordinatore di un comportamento diverso, per quanto generalmente si tratta di sfumature all’interno di un progetto di rifiuto della realtà che, di volta in volta, viene “normalizzato” se non trova uno sbocco operativo.
Poiché non è qui il caso di sviluppare questo problema, lasciamo le cose come stanno, tenendo conto però che la rottura può presentarsi almeno in tre modi. Schematizzando per facilitare la comprensione parliamo di un modo oggettivo, di un modo disordinato e di un modo cosciente.
La marginalizzazione
Lo stesso processo produttivo respinge al margine una serie di strati sociali che trovano occupazione irregolare, attività saltuarie e illegali, redditi incerti e, di regola, molto modesti.
La “diversità” è qui in massima parte effetto del processo oggettivo di riduzione al margine, di separazione dagli strati sociali meglio organizzati e quindi più legati al sistema produttivo.
Ne consegue che il complesso di usi, costumi, valori, norme che regola la condotta risulta per forza di cose diverso e tende a uniformarsi in una vera e propria cultura del ghetto con il sentimento di chiusura e di particolarità che ne deriva.
La diversità nei riguardi delle principali norme di comportamento dei gruppi privilegiati è qui un fatto “normale” che si trasforma, attraverso la propria stessa omogeneità, in un nuovo tipo di norma di comportamento, la quale, con regole altrettanto rigide, finisce per contrapporsi al tipo precedente. Esistono comunque alcuni elementi che concorrono a mantenere più disponibili questi strati sociali per repentini e anche profondi mutamenti del livello di coscienza.
In primo luogo, una certa incapacità di riconoscersi come gruppo sociale, come insieme dotato di una coscienza di classe. Ciò non esclude una violenta e spontanea coesione nel caso di ribellioni che scoppiano improvvisamente e in breve tempo si concludono distruggendo gli obiettivi classici in cui si materializza il potere: municipi, uffici delle imposte, sedi di partito, chiese, negozi, ecc. La caratteristica esclusivamente distruttiva di questa violenza è uno degli elementi della “diversità” di cui discutiamo e non va sottovalutata per quanto non vada nemmeno considerata di primaria importanza.
In secondo luogo, l’importazione della scala di valori dalle classi superiori, in particolare dalla classe media, comporta un utilizzo di questa scala ma anche una certa sua provvisorietà. Alcuni punti fondamentali sono molto deboli. Per esempio, la struttura familiare è altamente approssimativa a causa dell’irregolarità del lavoro che non consente un’abitudine ordinata dei pasti, del sonno, del rapporto con i figli, della loro educazione, dei rapporti sessuali, dei divertimenti, ecc.
Infine, la tendenza all’autoriproduzione del ghetto, intesa sia in termini fisici che culturali. Ciò comporta una staticità dell’insieme, la quale da un lato si contrappone ai tentativi riformisti di migliorare le condizioni di vita, ma dall’altro lato non trova una soluzione di tipo rivoluzionario, se non attraverso esplosioni transitorie e di breve durata.
La ribellione disordinata
All’interno di tutte le classi sociali vi sono ribelli. Il carattere di qualche individuo risulta, a un dato momento, non idoneo a sopportare un certo livello di condizionamento e quindi si rifiuta, reagisce, rompe il cerchio che lo minaccia.
Certo, chi partecipa del dominio, man mano che si rende conto di questa sua situazione di privilegio, acquisendo (con l’educazione e i rapporti sociali in genere) una coscienza della classe superiore, difficilmente vi rinuncerà. Dal lato opposto, chi subisce il dominio, e man mano se ne rende conto, via via, con lo sfruttamento stesso e con la propria sofferenza, prende coscienza della situazione di classe in cui si trova, ed è più facilmente spinto a ribellarsi. Ciò è senza dubbio vero e costituisce la visione del conflitto di classe per come cerchiamo continuamente di analizzarla. Ma qui ci occupiamo di un problema particolare. Qui ci occupiamo del ribelle.
Se il carattere dell’individuo risulta condizionato da elementi sociali e, in misura molto più modesta, da elementi biologici, è contro i primi che si scatenerà un processo di rifiuto del condizionamento stesso, nel mentre si realizza in tutti i suoi dettagli. La formazione del carattere è un processo lungo e contraddittorio. Perciò i ribelli manifestano una tendenza a esaltare le contraddittorietà fin da molto giovani, rigettando le istanze e le pulsioni che provengono dalla parte ormai consolidata della propria personalità e costruendo alternative in antitesi alle richieste e alle pressioni esterne.
Di regola, il carattere di un individuo è un elemento della sua personalità, elemento che lo costringe ad agire secondo come la società (che ha contribuito fortemente a costruire quel carattere) vuole che agisca. Ma qualche volta questo meccanismo non funziona. È allora che nasce il ribelle.
Ma questa ribellione è disordinata. Cioè è priva di criterio orientativo. Va alla ricerca del proprio nemico ma si ferma alla prima ombra, cade nel primo tranello ideologico. Il picchiatore fascista nasce in questo modo. Lo stesso accade per l’attaccabrighe da crocevia. Le bande di quartiere si formano reclutando elementi del genere, mentre gli stadi si riempiono delle loro urla di incitamento e di autoesaltazione.
In fondo il ribelle disordinato è alla ricerca di un punto di riferimento, di un ideale per cui battersi, e a questo punto egli chiede anche indicazioni in merito all’oggetto contro cui battersi. L’ignoranza o l’aristocratica sopravvalutazione di se stessi, porta molti ribelli a non sapersi orientare da soli e a cadere in balìa di molte illusioni. Una volta dentro l’errore o l’equivoco il loro stesso carattere e la sopravvalutazione del proprio io impediscono ogni modificazione nelle proprie idee. Si spiega così perché molti sottoproletari costituiscono l’elemento di manovra della destra più reazionaria, contravvenendo a ogni logica sociale.
Il giovane è spesso in una situazione che potremmo definire di indecisione. Avverte uno stimolo alla rivolta, anche perché le sue prospettive sociali non sono ancora abbastanza chiare, perché i condizionamenti non sono ancora forti, ma non sa come orientarsi, non trova elementi validi per giustificare il proprio desiderio di andare “contro” una situazione asfissiante. Le grandi parole, i grandi discorsi ideologici dicono niente di chiaro per la sua situazione disgregata. L’azione rivoluzionaria e un opportuno chiarimento anarchico possono cadere facilmente su questo terreno fertile e ottenere notevoli risultati dal punto di vista dell’azione. Occorre però adeguare i nostri vecchi discorsi alle mutate condizioni di esistenza, senza con ciò accettare quei veicoli d’informazione che, proprio nella ricercatezza della forma fine a se stessa, nascondono tristemente la mancanza di contenuti. Occorre, infine, arrivare prima che i facili condizionamenti della violenza gratuita abbiano fatto presa. A cadere subito vittima dell’inganno sono spesso gli elementi migliori, i più ingenui, i più disposti all’azione. Essi pagano così la loro volontà cieca di “fare” e diventano i più pericolosi strumenti nelle mani del nemico a causa della loro ostinata volontà di continuare.
La ribellione cosciente
Nasce dalla felice unione del carattere e della presa di coscienza. In assoluto la seconda sarebbe impossibile senza una disponibilità del primo verso l’azione e, al contrario, il primo sarebbe mutilo senza l’apporto della seconda. Bisogna però precisare che la presa di coscienza è in massima parte effetto della situazione e del conflitto di classe, quindi procede in modo strettamente legato ai rapporti sociali e riceve da questi le proprie connotazioni. Invece il carattere è sempre un elemento intrinseco della personalità (alla cui composizione prende parte anche la coscienza di classe), quindi risulta essere un’espressione fortemente soggettiva.
Da una fusione di queste due realtà, diverse ma non antitetiche, legate insieme da mille connessioni interagenti fra loro, viene fuori la ribellione cosciente.
Elementi di differenziazione
Esistono alcuni parametri che permettono di differenziare la ribellione disordinata da quella cosciente. Il solo elemento dell’insofferenza priva di scopo, della rottura immotivata, non basta a separare con chiarezza.
La ribellione disordinata è, in genere, pessimistica, considera la vita come qualcosa di scarso valore e quindi è disposta a metterla in gioco. La propria vita e quella degli altri. Il pessimismo è sempre un elemento che tende a svalutare l’azione, cui attribuisce, comunque, scarse possibilità costruttive. Ne deriva che si è disponibili per qualsiasi cosa, purché ci si muova o si abbia l’impressione di muoversi. L’ottimismo è invece tendenzialmente valutativo, considera la vita come una esperienza che vale la pena di fare, fino in fondo. Non arretra davanti alla possibilità di metterla in gioco, ma non lo fa ciecamente. Valuta possibilità e prospettive. Con tutto ciò l’ottimismo non è una filosofia da benpensanti. Al contrario, è proprio questa classe che spesso – dall’interno del proprio microscopico mondo di interessi – vorrebbe mettere tutto a ferro e fuoco, ed è proprio essa lo strumento più feroce nelle mani della repressione.
Un’altra caratteristica della ribellione disordinata è la sua mancanza di amore. Non un tipo particolare di amore, ma il senso stesso dell’amore che ha un fondamento totale. Il disordine è sempre parzialità, la mancanza di scopi è non solo un aspetto dell’annichilimento morale dell’individuo, ma è anche la riconferma delle sue incapacità, quindi delle sue limitazioni. Il ribelle che rompe disordinatamente ha un risentimento contro tutto e contro tutti, si rinchiude perché ha paura. Il suo egoismo non è produttivo di nuova umanità. Semplicemente suggella gli aspetti deteriori del conservatorismo di chi detiene il potere. Certamente il ribelle rifiuta la sua condizione sociale, o non accetta i comportamenti imposti, ma la sua è sempre una ricerca del padrone, del superiore. Eccolo quindi cercare una divisa, un motto, un simbolo, una moda. Senza queste uniformità egli è perduto. Deve mettersi al servizio di qualcosa. Al contrario, il ribelle che ha coscienza della propria situazione di rottura e ne ha individuato le motivazioni è alla ricerca di un rapporto totale, di un completo coinvolgimento con la realtà e con gli altri. Il suo essere diverso è sempre, nello stesso tempo, un rifiuto dell’uniformità imposta come di quella ricercata. Il suo egoismo è un amore di sé come individuo, polo di un rapporto che comprende gli altri senza essere costretto a un processo di prostituzione a questa entità esterna che minaccia di condizionarci anche dopo che l’abbiamo rifiutata. Questa ribellione non ha limiti. Essa si pone scopi precisi ma solo per poterli raggiungere e superare. Non bisogna fare l’errore di considerare tali scopi come una limitazione della ribellione stessa. Molte volte l’apparente illimitatezza nasconde una mancanza di contenuti che si traduce in un vuoto ribellismo esteriore e in una conformità reale.
Ulteriore elemento di precisazione è il rapporto col mondo. Il ribelle rompe col mondo ma non lo nega. Quando la sua ribellione è priva di senso, si diffonde per ogni dove ma senza un proprio convincimento e propri contenuti, senza coinvolgere il concetto stesso di rapporto. Il ribelle disordinato nega se stesso nel momento in cui nega la possibilità di avere rapporti con gli altri. La sua non è una critica, ma è l’appiattimento della negazione. Il modello imposto dal comportamento corrente non gli risulta gradito o accessibile, e allora rifiuta la totalità dei comportamenti, appiattendone il valore. La libertà è uno degli obiettivi della vera ribellione, mentre nell’assenza generalizzata di valori, come è il caso del ribelle disordinato, essa scompare nella negazione della libertà degli altri o nel completo disinteressamento riguardo l’altrui schiavitù. Un combattente per la libertà è sempre, necessariamente, un ribelle, ma non sempre un ribelle è un combattente per la libertà.
Un ultimo elemento è la sensibilità alla bellezza. Una qualità diversa dei rapporti costituisce la caratteristica di fondo della ribellione cosciente. La rottura con il condizionamento imposto dalle regole del gioco propone una prospettiva differente, una diversa bellezza della vita. Ciò non esiste purtroppo nel disordine esclusivamente negativo che appiattisce le sfumature e produce una monotona ripetizione della propria immagine. Il senso del diverso sfuma così nel particolare e quest’ultimo, a sua volta, annega nell’uniforme. Certo, in questi ultimi anni sono andati diminuendo i contenuti culturali che consentivano prima una differente fruizione della bellezza ribelle, in compenso si è avuto un allargamento quantitativo che, in un modo o nell’altro, troverà lo sbocco verso nuove prospettive di qualità. Ogni cosa con i suoi limiti e le sue possibilità.
IV. La logica dell’insurrezione
Quando parliamo di insurrezione teniamo ovviamente conto di una “logica” che regge il comportamento insurrezionale, cioè parliamo di un metodo di intervento nella realtà delle lotte. Con ciò è chiaro che non ci riferiamo a questo o quel modello del passato.
Insurrezione non sono le barricate nelle strade e il popolo in armi. O, almeno, non sono solo quello.
Quando il popolo insorge spontaneamente perché ha raggiunto il limite di intollerabilità della sua situazione di sfruttamento, si verificano fatti visibili: scontri nelle strade, attacchi contro la polizia, distruzione di simboli del capitale (banche, gioiellerie, negozi, ecc.). Ma queste spontanee manifestazioni di violenza popolare colgono di regola impreparati gli anarchici, i quali restano sorpresi del fatto che l’apatia di ieri si trasformi improvvisamente nella rabbia di oggi.
Non intendiamo parlare di questa situazione di sorpresa o della eventuale partecipazione degli anarchici a un fatto del genere.
Per questo facciamo una differenza precisa tra sommossa e insurrezione.
Prendiamo la sommossa di Brixton, a Londra, di qualche anno fa [1981]: gli anarchici c’erano, ma non erano, né potevano, essere protagonisti della sommossa, né, tanto meno, svilupparla in una insurrezione nel senso prospettato in questo libro. Gli avvenimenti li avevano colti di sorpresa. I neri erano insorti per motivi apparentemente semplici ma che covavano da tempo sotto le ceneri. La partecipazione degli anarchici diventava quindi semplice adeguamento, essi erano “ospiti” di una situazione potenzialmente insurrezionale che non trovava sbocco verso sviluppi più concreti. In altre parole gli anarchici si trovavano ad agire senza essere in grado di seguire una logica insurrezionale.
Gettare occasionalmente un mattone contro la polizia non è certo il modo migliore per un rivoluzionario cosciente di partecipare a un’insurrezione. In pratica quel mattone significa la sua accettazione di una situazione di fatto che non ha contribuito a determinare e che richiede, anzi impone, che vengano lanciati mattoni contro la polizia.
La logica insurrezionale capovolge l’intervento. I compagni che la applicano non si limitano a individuare le situazioni di tensione sociale e non si limitano a spingere genericamente la gente a ribellarsi, vanno oltre, propongono un’organizzazione della rivolta.
Ecco, su questo argomento bisogna intendersi bene.
L’organizzazione proposta deve essere di tipo aggregativo (gruppo di sostegno e di denuncia, lega contro la repressione, associazione per il diritto alla casa, gruppo antinucleare, lega astensionista contro le elezioni, ecc.), non può essere un gruppo specifico anarchico. Per qual motivo, difatti, la gente dovrebbe aderire a un gruppo anarchico per organizzare e partecipare a una lotta?
La partecipazione degli sfruttati a questo tipo di strutture può anche essere notevole e ciò dipende dal lavoro che i compagni anarchici, presenti all’interno delle strutture, riusciranno a fare: volantini, giornali, manifesti, opuscoli, dibattiti, conferenze, comizi, ecc.
Le azioni che l’organizzazione così costituita deciderà di intraprendere saranno, via via, più significative in relazione sia all’andamento della lotta, sia al peso organizzativo raggiunto dalla struttura, sia al numero dei partecipanti, sia al genere di reazione repressiva che si metterà in moto.
La scelta delle varie azioni: manifestazione, corteo autorizzato, corteo non autorizzato, sit-in, occupazione di un edificio pubblico, blocco di una strada o di un quartiere, occupazione di una fabbrica, difesa del territorio occupato, attacco contro gli interventi repressivi, ecc., questa scelta, dipende dalle decisioni che verranno prese in assemblea – all’interno della organizzazione stessa – ma con la presenza attiva degli anarchici. Così lo svolgimento della lotta vedrà sempre al suo interno l’azione di una minoranza specifica attiva.
Certo non si è sicuri di nulla. Non si tratta di un controllo politico, ma di una semplice stimolazione pratica. I compagni anarchici saranno presenti nella lotta allo stesso titolo degli altri e non avranno un peso particolare nelle decisioni da prendere. Però potranno far valere gli aspetti pratici dei loro suggerimenti che devono comunque essere adeguati alla realtà dello scontro.
Per aversi un lavoro che rientri nella logica insurrezionale occorre che la spinta alla rivolta sia precisa, non astrattamente generica, e che sia anche possibile, cioè realizzabile dalla gente.
Occorre quindi che la lotta sia sentita e che le proposte dei compagni, all’interno della struttura organizzata, siano adeguate alla disponibilità di lotta della gente e in grado di dare, di volta in volta, indicazioni sempre più avanzate.
Una indicazione non adeguata per difetto, in quanto troppo timorosa o arretrata, viene scartata dalla gente e considerata ostacolo allo sviluppo della lotta e tradimento dei propri sentimenti di ribellione o delle proprie necessità. Una indicazione troppo avanzata, velleitaria e staccata dalla realtà dello scontro, viene considerata impossibile, pericolosa e controproducente, per cui la gente si ritrae paurosa di venire coinvolta in chissà quali raggiri.
In questo modo i compagni anarchici che operano all’interno della struttura hanno modo di potere misurare la propria azione stessa, essendo obbligati a seguire le indicazioni che provengono dalla gente e scegliendo solo azioni che risultino possibili e comprensibili.
La spinta verso l’insurrezione avviene quindi dentro i limiti della ribellione che si sta diffondendo e non è un’astratta costruzione di un gruppo minoritario.
Quando parliamo di metodo e di logica insurrezionali intendiamo esattamente ciò. Intendiamo il rifiuto di una logica sindacalista, di difesa di diritti ottenuti, di ricerca di una crescita quantitativa per poi fare qualcosa, poi, in un secondo tempo.
Le strutture organizzative che proponiamo non nascono nella logica resistenziale, tipica del sindacalismo di ogni tipo. Non sono gruppi corporativi per la difesa di interessi di categoria.
Si tratta di strutture minime di aggregazione per convogliare gli sfruttati verso un determinato obiettivo di lotta. Elementi di coesione attraverso i quali mettersi d’accordo su cosa fare per organizzare meglio la lotta, per stimolare l’istinto di ribellione della gente e trasformarlo in insurrezione quanto più possibile cosciente.
Per tutti questi motivi il gruppo di compagni anarchici interno alla struttura organizzata non può trasformarsi in un gruppo minoritario guida o in una minoranza di potere. Esso, infatti, è obbligato a seguire le condizioni dello scontro, non può appoggiarsi sulla crescita quantitativa all’infinito del gruppo stesso, non ha la possibilità di proporre azioni semplicemente difensiviste, è costretto a spingere verso una serie di azioni sempre più avanzate che, se da un lato possono condurre all’insurrezione e quindi a livelli di scontro sempre più alti e a risultati non facilmente prevedibili, dall’altro conducono pure all’inevitabile distruzione della struttura organizzativa di base e pertanto al dissolvimento della funzione svolta dal gruppo di compagni che tornano così alla loro attività precedente.
Queste proposizioni non sono facili a capirsi e possono dare spazio a equivoci. Per questo motivo riteniamo di grande importanza il massimo approfondimento teorico possibile.
[Cfr. A. M. Bonanno, The logic of insurrection, in “Insurrection” n. 1, 1984, p. 3]
V. Strategie e metodi insurrezionali
Lo sfruttamento
Lo sfruttamento è alla base del sistema capitalista. Non sarebbe possibile l’accumulazione e quindi la stessa continuazione del dominio di classe se non si operasse, nei confronti dei molti, la dittatura terroristica dei pochi, dittatura fondata sulla miseria, la paura, la morte.
Ciò determina lo scontro di classe. Per quanto si possa assistere spesso a fenomeni di accomodamento e di compromesso, gli sfruttati sono costantemente sulla difensiva, cauti e attenti, scrutano tutte le difficoltà del nemico, guardano con sospetto le manovre dei traditori – che a parole si dichiarano loro difensori – e aspettano il momento opportuno per alzare la testa e insorgere.
Lo scontro sociale si presenta quindi come un movimento alterno, ora più acuto, ora più morbido. Al suo interno si sviluppano teorie, pratiche, atteggiamenti e attese che non sono mai ripetizioni di ciò che è accaduto. Ogni momento storico presenta contrapposizioni nuove: nuovi padroni, nuovi traditori, nuovi sfruttati, nuove strategie d’attacco contro lo sfruttamento, nuovi tentativi di repressione.
Per grandi linee possiamo dire che la strategia del capitale si sposta da una maggiore incidenza dello strumento economico a una maggiore incidenza dello strumento politico. In tempi più propizi allo sfruttamento, il capitale trova larghe fasce sociali disposte a cedere se stesse in cambio di un salario e, quindi, si abbandona alle illusioni regolatrici del mercato. Man mano che queste fasce si riducono e quindi si alza necessariamente il costo del lavoro, oppure, man mano che la pressione sociale obbliga a ingrossare a dismisura l’occupazione, si riducono i margini automatici di equilibrio del sistema economico e ci si avvia verso strategie politiche e repressive più nette. Lo Stato interviene massicciamente e regola sia il processo economico che quello sociale. I guai si acuiscono, la polizia diventa l’elemento cardine su cui ruota l’ordine sociale, l’esercito il punto estremo di sostegno.
La strategia degli sfruttati si orienta anch’essa da un processo organizzativo di tipo sindacale e rivendicazionista, corrispondente alla fase di mercato del capitale, a un processo più smembrato, apparentemente incerto e contraddittorio, ma più vivo e creativo, più aperto all’autorganizzazione delle lotte, un processo che fa alzare di molto i livelli di lotta e può consentire l’impiego del metodo della lotta armata.
Non deve sembrare contraddittorio il fatto che a una strategia del capitale e dello Stato con pretese ordinatrici viene a corrispondere una strategia del movimento degli sfruttati con pretese creative e autorganizzatrici. La repressione man mano che aumenta fa scattare molti meccanismi, fra i quali proprio quello dell’aumento del livello dello scontro sociale. Inoltre, l’aumento della repressione è una conseguenza del deterioramento delle condizioni produttive precedenti in cui larghe fasce sociali estraniate dalla salarizzazione attendevano pazientemente di entrare nel mondo produttivo e, nella loro pazienza, si dichiaravano disponibili anche a condizioni di fame. Le speranze di tempi migliori, di migliori consumi e migliori salari sono freni molto più forti del mitra della polizia.
Strategie e metodi repressivi
Consideriamo come strategie l’impiego di alcuni metodi all’interno delle condizioni dello scontro sociale. I metodi invece sono processi di intervento che appaiono stabili e ben definiti, tali che non è possibile modificarli, almeno all’interno del quadro storico attuale dello sfruttamento.
Mentre le strategie sono legate alle condizioni del breve termine e quindi devono essere costantemente aggiornate, modificate, discusse ed eventualmente dichiarate inadatte allo scopo, i metodi si mantengono fissi e garantiscono quella continuità d’intervento che caratterizza la lotta su tutti e due i fronti: lo scontro di classe si modifica continuamente (in quanto alle strategie), ma resta, in pratica, lo stesso (in quanto ai metodi).
Il capitale impiega – come abbiamo visto – strategie diverse a seconda della situazione dello scontro sociale: passa dalla logica di mercato in senso concorrenziale, alla produzione con caratteristiche di statalizzazione, mescola maggiore produttività a minore repressione militare, maggiore repressione militare a minore produttività. Certe volte intensifica i consumi, altre volte li contrae, impiega il meccanismo monetario in alternativa al meccanismo fiscale e viceversa. Ancora in altri casi fa ricorso più aperto alla repressione e instaura un regime più chiuso, affidando a politici burattini la recita di filastrocche nazionaliste e ai torturatori in divisa il compito di spegnere nel sangue ogni dissenso.
Ma tutte queste strategie si fondano su quattro direzioni metodologiche:
1) Informazione controllata dal potere. Non si tratta del solo lavoro dei grandi mezzi di informazione, ma anche di tutti quegli atti che apparentemente si fondano sulla consultazione della gente: elezioni, scelta del proprio lavoro, scelta della propria cultura, impiego del tempo libero, acquisto di prodotti, formazione di opinioni politiche, sviluppo della scala dei valori etici, ecc.
2) Educazione differenziata delle diverse classi sociali. Non si tratta del solo momento scolastico, ma di un processo continuativo. In pratica è il metodo che ribadisce e inculca l’informazione controllata, la quale, altrimenti, finirebbe per svanire nel vuoto. Si tratta di processi coordinati che fanno affiorare e riconfermano valori etici, spesso massificati, ma anche elaborati per una minoranza abbastanza ristretta. Per esempio, assistiamo oggi a una rielaborazione del valore “nazionalismo” con quello di “democrazia”, ma si tratta solo di un caso fra i tanti.
3) Riforma delle condizioni di sfruttamento, non solo a livello politico, ma anche a livello sociale. Nessun progetto di potere è pensabile se non viene considerato come un tutto in movimento. Anche i regimi più tirannici del passato avevano una tendenza all’aggiustamento e al compromesso con le classi oppresse. La repressione assoluta è un mito limite, un ideale che a nessun potere costituito importa mantenere a lungo. Si preferisce sempre combinare insieme elementi di repressione pura e compromessi riformistici. In questa direzione la strada percorsa dalle moderne democrazie è veramente notevole.
4) Repressione terroristica di ogni comportamento contrario alla norma codificata. Va dalla diffusa riprovazione sociale nei confronti di certi valori dichiarati nocivi per il buon funzionamento della società, fino al terrorismo organizzato della polizia, dell’esercito, della magistratura, delle carceri, ecc., terrorismo che si rivolge nei confronti di chi vuole riconquistare quello che lo sfruttamento ha sottratto, riuscendo a costituire un monito nei confronti di tutti. In tale metodologia repressiva lo Stato può adottare organizzazioni particolari (polizia, servizi segreti, corpi speciali, esercito, ecc.), organizzazioni normalmente destinate ad altre attività, ma capaci all’occorrenza di svolgere compiti terroristici (sindacati, partiti, movimenti politici, scuole, ospedali, strutture culturali, giornali, televisioni, ecc.), oppure organizzazioni terroristiche create direttamente dallo Stato tramite l’impiego di elementi dell’esercito, della polizia, della magistratura, di movimenti politici di estrema destra, di assassini professionisti, di mafiosi.
Su tutto questo discorso c’è da dire che i diversi metodi non si escludono a vicenda ma si applicano, in pratica, contemporaneamente e hanno delle connessioni reciproche di grande interesse. Per esempio, basti pensare alle conseguenze dello sviluppo degli strumenti di informazione sui processi educativi realizzati dal potere. Il caso dell’informatica è ancora tutto da decidere [scritto nel 1982]. In linea di massima, come abbiamo detto, l’intensificazione della repressione si verifica quando gli altri due metodi cominciano a dare segni di rallentamento e di inefficacia. Il processo inverso è caratterizzato, in sostanza, da una certa vischiosità nella riduzione dei processi terroristici dello Stato, ciò a causa del fatto che non si smantellano con grande facilità organizzazioni e mentalità che hanno fatto ricorso alla violenza e alla tortura, all’assassinio e alla delazione come prassi giornaliera.
Strategie e metodi rivoluzionari
La differenza tra strategie e metodi è praticamente la stessa. Si tratta di forme di azione che l’uomo possiede. Sia esso sbirro o rivoluzionario non può fare a meno di agire studiando applicazioni strategicamente diverse di alcuni metodi fondamentali.
Le strategie rivoluzionarie hanno un rapporto diretto con le condizioni dello scontro sociale. Non ne sono la conseguenza passiva, e ciò perché il rivoluzionario cerca costantemente di operare sulla realtà, di incidere su di essa, di modificarla con la propria azione, ma devono tenere conto del livello dello scontro se non vogliono restare nel campo delle illusioni. A un basso livello dello scontro, quando larghe fasce del proletariato restano lontane dalla salarizzazione, quando il capitale ha tanta capacità da affidare se stesso alle leggi irrazionali del mercato, la strategia rivoluzionaria sarà certamente quella dell’irrobustimento delle organizzazioni del movimento, della penetrazione nei diversi settori del mondo del lavoro e della disoccupazione, fra gli operai e i braccianti, gli studenti e le casalinghe. A un livello più alto dello scontro sociale, la strategia del capitale dà segni di instabilità: lo Stato interviene pesantemente per correggere le condizioni intollerabili di incapacità nella gestione capitalistica dell’economia, a un livello in cui la repressione terroristica dello Stato aumenta e si riducono le possibilità di lavoro e di benessere (per quanto fittizio esso sia), la strategia rivoluzionaria si orienterà verso una intensificazione dell’attacco armato e quindi verso una crescita e una qualificazione progressiva delle organizzazioni armate che agiscono nella clandestinità.
All’interno di queste due direzioni – che non si escludono a vicenda, ma che anzi si sostengono reciprocamente – si sviluppano diverse scelte strategiche le quali precisano, a loro volta, la profonda e decisiva differenziazione che si nasconde all’interno dello schieramento rivoluzionario: la tendenza anarchica verso la qualità della lotta e verso la sua autorganizzazione, e la tendenza autoritaria verso la quantità della lotta e verso la sua centralizzazione.
I metodi che stanno alla base delle diverse strategie rivoluzionarie sono divisibili in quattro orientamenti:
1) Informazione libera, quanto più aderente alla realtà dei fatti, trasmessa direttamente dall’avvenimento al fruitore, senza interventi deformanti di tipo politico o ideologico. Certo, questa affermazione costituisce un ideale spesso non realizzabile, ma il metodo dell’informazione deve tendere a questa massima perfezione, trasmettendo, quanto più possibile, contenuti di fatti reali, facendo conoscere le diverse realtà, in modo da evitare che vengano irrimediabilmente stravolte dall’informazione controllata dal potere.
2) Teoria sulle condizioni dello scontro sociale. È indispensabile un’analisi che fornisca riflessioni sui fatti, per meglio focalizzarli e inquadrarli all’interno di un contesto più ampio. Questo secondo momento metodologico serve a fare meglio comprendere le informazioni, a farle parlare, a strapparle al loro muto contesto che le fa rassomigliare pericolosamente alle informazioni delittuosamente false messe in giro dal potere.
3) La lotta intermedia, che fa intervenire i rivoluzionari anche in aspetti parziali del conflitto sociale: nelle scuole, nelle fabbriche, nelle caserme, nei quartieri, nelle campagne. Singolarmente, ogni lotta di questo tipo, ha tutte le carte in regola per venire riassorbita dalla controparte e, spesso, contribuisce a fortificare le stesse basi dello sfruttamento, correggendone gli aspetti irrazionali. Non si può dire però che siano lotte di coda, o perdenti, o da considerarsi riformiste. È nella lotta, anche parziale e circoscritta, che per prima cosa le informazioni e le teorie trovano la loro possibile ed esatta comprensione da parte dei proletari. Sul piano puramente teorico resterebbero per sempre prive di significato. È nella lotta, anche parziale, che la coscienza di classe si forma e cresce. È nella lotta, anche di retroguardia, per la difesa di alcuni diritti o di conquiste già avvenute, che ci si prepara a un possibile innalzarsi del livello dello scontro.
4) La lotta armata, che riassume la metodologia violenta di attacco contro lo Stato, le sue organizzazioni, le sue strutture, i suoi uomini, le sue ricchezze, i suoi progetti. Il fatto che spesso questo metodo dia corpo alle strategie corrispondenti ai livelli più alti dello scontro sociale non significa che si possa considerare un metodo di lotta “più elevato”, o più efficiente, o più rivoluzionario. È semplicemente un metodo diverso, che possiede caratteristiche sue, limiti e pregi suoi, ma che non può collocarsi in un posto più alto in una ipotetica e mai definita scala rivoluzionaria di valori. Determinati livelli di coscienza spingono un proletario a distribuire un volantino davanti a una fabbrica, altri livelli lo spingono a impugnare una pistola per riprendersi quello che gli è stato sottratto, per sparare su un poliziotto o un magistrato, per punire un colpevole, un esecutore del progetto terroristico dello Stato, una spia, oppure, altri livelli ancora lo spingono ad attaccare una fabbrica, a sabotarne la produzione, a danneggiarne i prodotti, altri ancora, infine, lo spingono ad associarsi con proletari nella sua stessa situazione, uomini e donne coscienti della necessità di sviluppare insieme e con un minimo di coordinazione un attacco contro il nemico di classe.
Ognuno di questi metodi non esclude l’altro, anzi, al contrario, si compenetrano e si sostengono a vicenda. Da ciò risulta chiaro che non è mai possibile identificare con chiarezza un momento preciso in cui si deve ricorre all’impiego di un certo metodo, ma, tutti insieme, devono essere impiegati e possono dare i loro frutti, nei limiti e nelle prospettive in cui le varie strategie consentono la realizzazione di questi frutti.
Il problema della strategia
Nel campo dei sogni rivoluzionari il valore della strategia di attacco è chiaramente secondario. Ci si illude che la verità deve per forza trionfare sulla menzogna. Come i martiri cristiani non si retrocede davanti al pericolo. Si va avanti a testa in giù mettendo in pace la propria coscienza, mantenendo alta la fiaccola della purezza ideologica, ma restando spesso lontani dalla realtà dello scontro.
I proletari, gli sfruttati in genere, gli strati sottoproletari che subiscono aspetti acutissimi di oppressione, non hanno le idee chiare. Non è affatto vera l’equazione sfruttamento=chiarezza. Si può vivere tutta la vita con le catene al collo, trascinandosi a fatica, senza rendersi conto di chi ha chiuso il lucchetto. Mettere in sufficiente risalto questo punto non è facile. Le parole non bastano. Le informazioni neppure. Almeno, non bastano da sole. Occorre sviluppare le lotte, anche quelle intermedie e di lunga durata. Occorre avere progetti strategici ben chiari, capaci di consentire l’impiego dei diversi metodi a disposizione, in modo coordinato e fruttifero.
In quanto anarchici perseguiamo lo scopo della crescita qualitativa del movimento e sosteniamo la sua autorganizzazione. In questo ci contrapponiamo agli autoritari e agli stalinisti, i quali sostengono una crescita massicciamente quantitativa, fondata sul controllo e sulla centralizzazione (cosiddetta democratica). Ma questa nostra posizione non può mettersi nelle braccia di una vana strategia di attesa. Cioè, non possiamo aspettare all’infinito che si sviluppi, nel proletariato e nelle masse sfruttate, la tendenza all’autorganizzazione, con tutte le sue necessarie premesse qualitative e creative. Dobbiamo incidere in modo più diretto, anche in modo più pesante. Dobbiamo muoverci anche come minoranza specifica, assumere noi il compito di portare a buon fine azioni che gli sfruttati da soli, a un dato livello dello scontro di classe, non possono sviluppare. In caso contrario, consegneremmo noi, e insieme a noi lo stesso proletariato, nelle mani degli stalinisti.
Facciamo alcuni esempi:
1) Nell’elaborazione dell’informazione dobbiamo perseguire il progetto di una trasmissione quanto più aderente alla realtà, in modo da evitare una rielaborazione ideologica, sia pure la nostra rielaborazione ideologica. Ma non possiamo per questo affidarci all’iniziativa degli sfruttati, aprendo, per esempio, gli strumenti di informazione che veniamo creando, alla loro spontanea utilizzazione. Sarebbe un colossale fallimento. Metteremmo in circolazione un orrendo miscuglio di luoghi comuni, di chiacchiere, di massimalismi senza capo né coda, di discussioni da caffè. Dobbiamo provvedere noi a redigere i nostri strumenti di informazione, dobbiamo necessariamente passare al vaglio di una critica rivoluzionaria i contributi provenienti dall’esterno, in modo da dare loro una più consona collocazione in seno a quella che è la nostra strategia, evitando – per quanto possibile – che questo intervento si trasformi in una radicale deformazione dell’informazione stessa. In una parola, il nostro lavoro sarà sempre un lavoro di “parte” e non potrà mai pretendere di arrivare alla pura “oggettività” senza negarsi in quanto informazione.
2) Nello sviluppo teorico delle nostre analisi dobbiamo sforzarci di rendere conto di come stanno le cose e non di come dovrebbero essere. Quest’ultimo aspetto, su cui spesso ci soffermiamo per un innato amore per l’utopia, deve per forza risultare secondario nei confronti dell’analisi, più urgente e primaria, fondata sulla valutazione della realtà, per quanto lodevole e di grande significato sentimentale possa essere la nostra spinta verso un futuro solamente immaginato. È chiaro che per svolgere tale lavoro, e anche soltanto per comprenderlo quando viene svolto da altri compagni, dobbiamo fornirci di alcuni strumenti che sono elaborati dal capitale e che trovano libera circolazione negli ambienti del potere. Saremo costretti a fare soltanto chiacchiere da caffè se non possediamo oggi alcune nozioni fondamentali di economia (e forse qualcosa di più di qualche nozione). Il rifiuto a priori di approfondire lo studio di alcuni strumenti: economia, storia, filosofia, amministrazione dello Stato, finanza pubblica, tecnica delle imprese, ecc., non ha fondamento rivoluzionario, ma risiede in una scorretta interpretazione del momento distruttivo propugnato dall’anarchismo.
3) Nelle lotte intermedie gli anarchici si presentano spesso con mille ritrosie. La loro purezza di fondo li porta a fare cattivi sogni. Si immaginano di venire compromessi in rapporti non sempre puliti con altre forze politiche, di non potere competere con queste forze sul piano delle motivazioni parziali, a livello rivendicativo, finendo in balìa di sofismi politici. Tutto questo blocca molte iniziative alla sola fase della spinta informativa. Fatto ciò ci si ferma, confidando nella chiarezza del discorso anarchico, nell’evidenza della necessità del rifiuto della delega, nella impossibilità che dopo tante esperienze negative ci si continui a ingannare sul ruolo che le forze politiche svolgono come sostegno del capitale e dello Stato. Poi si resta sorpresi e quasi sdegnati del fatto che i proletari non hanno le idee chiare, non capiscono facilmente perché mai si dovrebbe fare a meno della delega e continuano, come sempre, a farsi ingannare dai mestieranti della politica. Queste situazioni tragicomiche sono molto evidenti nei dibattiti pubblici, nei convegni e nelle manifestazioni organizzate insieme alle cosiddette forze politiche di sinistra, più o meno rivoluzionarie. Gli anarchici partono con grande buona volontà, si fanno in quattro per organizzare la manifestazione (in genere quelle forze vivono di rendita proprio alle spalle degli anarchici), svolgono con precisione e chiarezza il proprio compito informativo (volantini, manifesti, interventi, comizi, conferenze, ecc.), poi si bloccano. Lasciano alle altre forze l’uso politico della manifestazione. In genere sono queste forze che biecamente sfruttano la spinta propagandistica del lavoro degli anarchici, inserendo mozioni, strumentalizzando organi di stampa, dando a intendere che sono loro la sola presenza capace di fare qualcosa contro il potere. Gli anarchici sono frattanto tornati nelle proprie sedi a chiedersi come mai anche stavolta non si sia riusciti a impedire una prevaricazione politica della propria iniziativa, ma in fondo si tengono pronti e disponibili a ogni futura richiesta di collaborazione. È evidente che in queste cose non ci si può fermare a metà. Una volta iniziate bisogna portarle avanti, impedendo, anche con mezzi politici, i tentativi di prevaricazione. Dopo tutto anche noi possiamo stendere in tempo una mozione, prima che ci mettano mano gli stalinisti, e anche noi, specie una volta che siamo proprio fra gli organizzatori della manifestazione, possiamo imporre che quella mozione passi in conclusione del convegno o della riunione, senza per questo sentirci più sporchi o più compromessi di quando avevamo cominciato il lavoro insieme con altri schieramenti politici di sinistra. Lasciando il passo su questi problemi che erroneamente vengono considerati marginali, credendo, in buona fede, che si tratti di compromissioni senza utilità, si rischia di perdere il frutto del lavoro intermedio, di apparire, agli occhi dei proletari, gli accidentali compagni di strada di formazioni politiche più organizzate di noi. Si ribadisce così fra gli sfruttati l’idea della guida indispensabile del partito, si aiutano gli stalinisti nel loro compito quantitativo, si distrugge da un lato quello che dall’altro si era cercato di edificare. Non bisogna avere paura di sporcarsi le mani ricorrendo al metodo della lotta intermedia, purché si mantenga, nella applicazione delle diverse strategie, una chiarezza sugli scopi degli anarchici, contrapposti agli imbrogli dei politici di mestiere e ai rischi del progetto autoritario. E gli scopi anarchici si possono raggiungere anche non indietreggiando nella disputa con i marpioni politici degli schieramenti autoritari.
4) Nella lotta clandestina armata non si può pretendere che tutto venga affidato all’improvvisazione e alla spontaneità del singolo o dei piccolissimi gruppi. Il metodo è estremamente articolato e si presta ad applicazioni di grande importanza all’interno di prospettive strategiche in cui intervengono anche gli altri metodi. Dal sabotaggio e dall’azione individuale, o di un piccolissimo gruppo, autonomo sotto tutti gli aspetti e staccato da contatti operativi con altri compagni o gruppi, si arriva a un accordo organizzativo a livello abbastanza ampio, capace di coinvolgere decine di gruppi e centinaia di compagni. Quello che qui importa notare è che lo sviluppo qualitativo dell’azione rivoluzionaria armata entra certamente in contraddizione con certe sue indispensabili necessità quantitative. Certo non si riesce a concludere molto se si è in pochissimi. Ma non si deve pensare che soltanto la crescita numerica permetta un impiego strategicamente corretto del metodo della lotta armata. In generale, quello che va ricercato nel momento organizzativo è lo sviluppo creativo delle idee, delle teorie, delle analisi, dei rapporti interpersonali, delle azioni, dei contatti con l’esterno, della diffusione del progetto strategico. Solo in forma subordinata e parallela si può dare vita a uno sviluppo quantitativo, il quale, a sua volta, darà conseguenze qualitative di notevole portata. Non bisogna eccedere in nessuna delle due direzioni: né in quella quantitativa, illudendosi che solo dopo si possa dare vita a processi creativi e qualitativi, né in quella qualitativa, illudendosi che la quantità è fatto che segue necessariamente ai bei propositi qualitativi. La contraddizione apparente diventa sostanziale solo quando non si considera il metodo nella sua concezione globale. Anche nell’applicazione del metodo dell’informazione, anche nell’analisi, anche nella lotta intermedia si propongono e si realizzano spesso aspetti del metodo della lotta armata, ma non sarà certamente l’obiettivo numerico che si vorrà perseguire. Il “taglio” che si sceglie nel fornire un’informazione, il ricorso a certi interventi definibili “più duri” nelle lotte intermedie, la chiarezza di alcune analisi, sono stimoli qualitativi per una presa di coscienza, contributi creativi a una crescita quantitativa che si prospetta futura ma che certo non può considerarsi del tutto superflua.
Le due cose vanno quindi sapientemente compenetrate. Dalla reciproca relazione vengono fuori quegli sviluppi essenziali che sono leggibili esclusivamente in chiave quantitativa o qualitativa.
Il rapporto con il livello dello scontro
Non siamo soli davanti al livello dello scontro. Come anarchici ci possiamo fare tutte le illusioni che vogliamo, illusioni di purezza e di voce nel deserto, ma dobbiamo, prima o poi, convenire che siamo in compagnia, in cattiva compagnia.
Ed è sui rapporti con questa cattiva compagnia che dobbiamo riflettere, tanto più essi ci sembrano scontati e risaputi, più risultano problematici e, proprio per ciò, forniscono il punto da cui partire.
Non siamo soli né sul fronte dell’informazione, né su quello della teoria, né sul campo delle lotte intermedie e nemmeno su quello della lotta armata.
La concezione autoritaria della lotta rivoluzionaria continua a inquinare dappertutto il corretto rapporto che le forze proletarie dovrebbero avere con lo scontro di classe. Continua a inquinare ma, nello stesso tempo, ne rappresenta una diretta espressione.
Non c’è dubbio infatti che lo sviluppo della rivoluzione è possibile solo a condizione che si irrobustiscano le forme autorganizzate di lotta. Ma non c’è nemmeno dubbio che il presente livello dello scontro di classe ha un basso sviluppo dell’autorganizzazione, e che a questo basso sviluppo corrisponde una preponderanza dell’azione degli autoritari nel campo dell’azione rivoluzionaria. Quando il livello si alza, queste organizzazioni vengono spazzate via dal vento impetuoso della rivoluzione, per ripresentarsi poi a riannodare le fila del partito e raccogliere i frutti delle altrui incapacità. Non possiamo farci illusioni. La sconfitta di un certo modello di intervento rivoluzionario ha fornito insegnamenti, ma una ripresa degli interventi non è detto che non ridarebbe spazio agli errori di una volta, sia pure riveduti e corretti.
Gli anarchici, al contrario, si sviluppano, anche come organizzazione, in parallelo con lo sviluppo dell’autorganizzazione delle lotte. Per loro, non essendoci l’equivoco quantitativo, la crescita del movimento nel suo insieme significa anche crescita in senso specifico e l’avvicinarsi del vento rivoluzionario non corrisponde mai al panico e all’apprensione ma alla gioia e allo scoppio della distruzione rigeneratrice.
A un basso livello dello scontro di classe sono quindi gli stalinisti a risultare più adeguati alla realtà sociale in movimento e si presentano come la sola forza capace di dare vita all’azione rivoluzionaria. Sono la punta visibile di un continente sotterraneo, la punta verso cui spesso si indirizzano le attenzioni, ma rappresentano ben poca cosa se paragonati alle capacità di quel continente sommerso che resta inattivo. Man mano che gli autoritari sviluppano la loro azione, questa ha conseguenze negative sul livello dello scontro, negative in quanto, per definizione, proponendo una centralizzazione delle strutture organizzative di lotta, finisce per abbassare ulteriormente il livello stesso. Solo che questo abbassamento è praticamente infinitesimale proprio a causa del basso livello in cui lo scontro si trova. A un livello alto la loro azione tende sempre verso lo stesso scopo (salvo camuffamenti vari del tipo: “tutto il potere ai soviet”), ma dato il clima euforico essa è ancora una volta trascurabile. Si potrebbe concludere, paradossalmente, che sono proprio gli autoritari a costituire quella pattumiera della storia in cui il massacratore Trotskij voleva gettare gli anarchici. Per quante cose facciano non hanno speranze se non come becchini della rivoluzione. Nel momento di modesto sviluppo delle lotte non possono certo farle peggiorare, nel momento di grande slancio vengono completamente cancellati.
Eppure anche loro hanno una funzione non trascurabile. Servono da banco di prova del negativo. Servono ai proletari per dimostrare, nei fatti, quello che non si deve fare, servono ai veri rivoluzionari per controllare con chiarezza un limite che non bisogna superare.
Ecco perché abbiamo evitato di combattere queste organizzazioni sul piano di una critica astratta e vuota, fondata sui punti di forza della teoria anarchica, critica che se poteva aprire brecce teoriche non poteva certo dimostrare qualcosa al di là del banale scontro sui modi diversi di interpretare la storia e la realtà. Ecco perché abbiamo preferito la verifica dei fatti. La misura degli errori autoritari si coglie sulla base dei loro limiti, partendo proprio dall’incapacità di comprendere lo svolgimento del conflitto di classe e le modificazioni del livello dello scontro.
Le cose fatte a metà
L’azione umana ha condizioni precise per essere definita tale: deve avere caratteristiche di compiutezza, cioè corrispondere alle intenzioni o, almeno, avere un rapporto con gli accidenti successivi che determinano lo scostamento dalle intenzioni. Un’azione che si ferma a metà, che tituba e resta incerta, un’azione che si dibatte in dilemmi non superati, che resta contraddittoria e parziale, non è una vera e propria azione umana, è un tentativo, un abbozzo, un progetto irrealizzato, un desiderio.
Nello scontro sociale le azioni dirette a modificare le condizioni esistenti del rapporto di classe risentono in modo particolare di questo statuto dell’azione. Qui le conseguenze di una incertezza o di una titubanza sono molto più gravi e si traducono in aspetti negativi, spesso opposti alle intenzioni che avevano ispirato l’azione e agli scopi che ci si prefiggeva.
Questo principio della “cose fatte a metà” vale per tutte e quattro le direzioni metodologiche dell’azione sociale. Una informazione incompleta, parziale o incerta, equivale a una informazione manipolata, tipico strumento del potere. Una teoria che si mantiene alla superficie dei problemi, che non ha il coraggio di penetrare in profondità, che ha paura delle conseguenze, che intende lisciare il pelo secondo il suo verso, finisce per risultare una specie di educazione al conformismo e alla servitù. Una lotta intermedia che perde di vista lo scopo rivoluzionario, per quanto lontano sia, è una lotta perduta in partenza, un immane spreco di forze sociali vive, un esperimento negativo capace solo di addormentare la coscienza del proletariato. Un progetto di lotta armata incapace di svolgere in ogni suo aspetto quanto le condizioni strategiche del livello di scontro consentono, è uno sforzo inutile, spesso controproducente, una sfrontata timidezza, un mettersi in pace con la propria coscienza individuale e un chiudere gli occhi davanti alla realtà del problema.
Fermarsi a metà in nome di una malintesa purezza è delittuoso. Tanto vale non cominciare nemmeno. Se non si è certi di potere andare fino in fondo, se si hanno remore inconfessate, tanto vale dedicarsi ad altro: produce meno danni e fa anche bene alla salute.
Non è vero che questo principio vale per la lotta armata e solo in secondo ordine vale anche per le altre direzioni metodologiche. I danni che possono derivare da un’informazione inadatta, per inefficienza o superficialità, possono essere altrettanto gravi dei danni politici e fisici che possono derivare da una cattiva organizzazione clandestina o da errori strategici nell’impiego del metodo della lotta armata.
Le cose ben fatte
L’azione rivoluzionaria che esaurisce le sue potenzialità operative e raggiunge gli scopi si può definire una cosa ben fatta. Spesso le potenzialità non sono individuabili a priori ed emergono nel corso dell’azione stessa. Altrettanto per gli scopi. La capacità creativa dell’azione sgomenta i rivoluzionari e provoca parecchi guasti, essa è causa non ultima delle cose fatte a metà. Molti apprendisti stregoni si impauriscono della grande capacità operativa e distruttiva della scopa che non sanno più fermare. Perché poi la dovrebbero fermare resta uno dei misteri della psiche del rivoluzionario.
L’individuo è la prima fonte della potenzialità rivoluzionaria. Non tutti gli individui sono uguali, come non tutti i compagni sono rivoluzionari. La ricerca dell’affinità è uno dei grandi problemi dell’attività rivoluzionaria. I discorsi e le teorie valgono molto, spesso moltissimo, ma, a volte, davanti a problemi del genere, entrano in ballo livelli diversi d’intesa. L’affinità può scaturire da un sentimento, da un affetto, da un gesto, uno sguardo, un modo di tacere o di ascoltare. Questa grande ricchezza può andare sprecata in pochi attimi. Una parola in più, un simbolo suggerito fuor di luogo, una sigla e si finisce per considerare estranea: un tentativo di arruolamento che non può non suonare odioso e settario. La potenzialità sprecata non si recupera più, la sensibilità di un momento degrada facilmente, la guardia si alza.
In un’altra dimensione anche un gruppo di compagni può sviluppare, a un certo momento, una particolare potenzialità. A spingerlo verso una presa di coscienza può essere un fatto, anche semplice ed esterno, una discussione, lo studio di un libro, l’approfondimento di un problema. Nel gruppo si crea un momento di particolare acutezza per la soluzione del problema. Se l’affinità fra i diversi membri è alta, questa acutezza può tradurre la potenzialità in operatività. Ma qualcosa può anche non andare per il suo verso. Sullo sfondo si può profilare l’ombra di un’organizzazione, di una sigla, di un progetto impacchettato e pronto all’uso. Il germe del sospetto, della diffidenza può svilupparsi facilmente. A nessuno piace essere strumentalizzato. Specie quando l’esperienza di un non lontano passato insegna che non è una difesa o una garanzia quello che la grande organizzazione propone, ma semplicemente un’etichetta e una bandiera.
Gli scopi sono evidenti. La sensibilità rivoluzionaria li coglie silenziosamente, quasi senza discutere. Il dibattito e l’approfondimento, molte volte, servono per tenerli lontani, per consentire di resistere alla tentazione improvvisa che ci prende di attaccare subito, qui, in questo stesso posto, all’angolo della strada, senza stare tanto a pensarci sopra. Ma l’analisi è giusta e importante. Se si perde l’occasione di attaccare subito si può guadagnare l’alternativa di un attacco ragionato, programmato, strategicamente più valido e significativo. E davanti a questa prospettiva si deve dare spazio all’argomentazione critica, all’approfondimento analitico.
Ma perché la cosa sia ben fatta occorre che lo scopo venga raggiunto, non solo lo scopo di partenza, ma quello che si è andato delineando nel corso dell’azione. Anche quando questo scopo interviene a correggere – amplificandolo o riducendolo – l’obiettivo di partenza. Solo a questa condizione siamo davanti a un’azione ben fatta, a un’azione rivoluzionaria.
L’autorganizzazione delle lotte
L’obiettivo principale che gli anarchici intendono raggiungere, nell’orientamento strategico che danno alle proprie direzioni metodologiche, è l’autorganizzazione delle lotte degli sfruttati.
Non per questo le loro azioni sono disorganizzate, prive di logica interna o mancanti di un aspetto minoritario ben definito. Affermare il contrario sarebbe negare la realtà. Oggi, in un momento di abbassamento del livello dello scontro, la tendenza all’autorganizzazione fra gli sfruttati è molto modesta. Si palesa qua e là, sporadicamente, ma non costituisce certo una delle condizioni più evidenti dell’intero movimento. Non per questo gli anarchici si adeguano alla situazione e fanno discorsi di accettazione supina delle condizioni dello scontro in atto. Essi affrontano spesso la corrente, tentando di risalirla. Pongono i proletari e gli sfruttati davanti alle loro stesse responsabilità, dimostrano i loro errori, indicano i tradimenti in corso, fanno azioni sostituendosi proprio a quei proletari e a quegli sfruttati imbambolati davanti ai trucchi del potere.
La lotta armata è uno dei metodi che gli anarchici possono impiegare, anche come organizzazione specifica minoritaria, sostituendosi all’azione autorganizzata degli sfruttati quando questa non esiste o si dimostra carente. Lo scopo di questa sostituzione è evidente: servire da stimolo, da detonatore, far vedere che la lotta è possibile anche in condizioni minoritarie, dimostrare che dal piccolo al grande il passaggio può avvenire improvvisamente, quando uno meno lo aspetta. Tacere e attendere, oppure criticare e fare opera di dissuasione con un atteggiamento cinico e scettico non è certamente quello che gli anarchici si devono prefiggere. La critica va bene. Dimostrare i limiti di un metodo, va bene. Ma ciò non nega la spinta all’entusiasmo, lo stimolo allo scontro anche impari. Il candore e l’ottusità di Don Chisciotte sono da preferirsi allo spirito critico e al misurino del bottegaio.
Quei discorsi preoccupati che si soffermano a misurare e a valutare presenze e contributi somigliano alla tesi di coloro che sono sempre disponibili a distruggere il mondo intero purché si sia in tanti, ben decisi e ben armati. Nell’attesa di queste tre condizioni ideali si finisce per far nulla, per aspettare, rodersi il fegato e magari concludere che c’è niente da fare. Quante potenzialità rivoluzionarie sono state sprecate in questo modo, quanti compagni spinti verso organizzazioni fittizie che offrivano apparenti sicurezze di progetti e di mezzi! Anziché approfondire gli aspetti di un’azione possibile, per quanto circoscritta, si è preferito dissuadere dall’azione, invitando all’attesa perché “quello non era il momento”, e disamorando dall’immediatezza del fare.
In fondo è sempre il momento dell’attacco. Il terrorismo statale e padronale è sempre in atto. Nessuna sottigliezza bottegaia potrà mai convincermi che esistono tempi per l’impiego di certi metodi e tempi per l’impiego di altri. Le scelte strategiche sono commisurate alle condizioni dello scontro ma non possono escludere di netto un dato metodo. Possono, al più, suggerire una diversa mescolanza dei metodi, un taglio più sfumato nei vari interventi. Mai la condanna di un metodo su presupposti princìpi a priori.
Noi siamo per l’autorganizzazione delle lotte degli sfruttati, ma ciò non ci impedisce di cominciare a organizzare, ora e subito, le nostre strutture d’intervento nello scontro sociale. Se l’autorganizzazione futura degli sfruttati saprà o meno coordinarsi con queste nostre strutture presenti, è un problema che pur non essendo secondario non potrà mai bloccare l’attività rivoluzionaria attuale. In caso contrario, finiremmo per rimandare tutto all’infinito, a quella situazione favorevole in cui la nostra azione finirebbe per diventare tanto facile da rischiare di essere inutile. Il popolo insorto non ha certo bisogno degli anarchici che facciano vedere come si realizza un’insurrezione. Al contrario, gli sfruttati, in condizione di soggezione e di apatia, hanno un grande bisogno di stimoli alla lotta, di chiarimenti, di informazioni. Bloccare a priori una parte di questi contributi – per esempio la lotta armata – è una pericolosa mutilazione del processo rivoluzionario globale.
Un possibile progetto organizzativo
L’attività rivoluzionaria anarchica non è uno scherzo, non può essere considerata qualcosa di piacevole, da fare di tanto in tanto, per riempire i vuoti della quotidianità. Nei riguardi del complesso dell’ideologia anarchica, così come risulta costruita nel corso del tempo dai diversi contributi teorici, la cosa è possibile. Un gran numero di brave persone si dedica all’amena lettura dei testi anarchici e, forse, in fondo al proprio cuore di borghesi amanti della distruzione e della violenza (fuori di casa), essi cercano così di trovare una compensazione più o meno remota alle proprie frustrazioni. Leggere le teorie di Bakunin, di Kropotkin, di Malatesta, aggiungere a questa lettura quella dei fatti avventurosi di Di Giovanni, Durruti, Ascaso, Mackno, Sabaté, ecc., conforta e aiuta ad affrontare gli ostacoli del quotidiano.
Ma non appena ci si impegna nel concreto della realtà dello scontro sociale non si può fare a meno di scegliere. Il baloccamento non basta più. Occorre impegnarsi. La polizia non scherza. La magistratura nemmeno. Per chi ha un posto al Comune o una piccola attività commerciale, sono questioni seccanti. Si finisce per fare i conti con processi, condanne, sequestri, brevi o lunghi periodi in prigione, discriminazione sociale, emarginazione, difficoltà di ogni genere. E non è vero che tutto questo accade solo a chi si indirizza verso l’impiego di metodi più vicini alla lotta armata. Compagni che si dedicano all’informazione, che pubblicano libri e opuscoli teorici, che sono impegnati in lotte intermedie, subiscono il tallone repressivo e devono farci i conti ogni giorno.
Giustamente il potere coglie il senso profondo dell’attività anarchica e rivoluzionaria non tanto nel metodo impiegato, quanto nelle conseguenze dell’azione. La pericolosità di una informazione, opportunamente scelta e messa in circolazione, può essere maggiore di un’azione di rappresaglia o di sabotaggio che, in un dato momento, può anche risultare incomprensibile ed estranea.
Ma sono proprio i rivoluzionari a non avere le idee chiare su di un problema tanto importante. Per essi vige uno statuto schematico che separa nettamente i metodi di lotta. In modo particolare, nei confronti della lotta armata, essi hanno idee chiarissime e divise in due categorie: a) Chi esalta incondizionatamente questo metodo, definendolo l’unico rivoluzionario e l’unico adatto a sconfiggere il potere. b) Chi lo denigra, considerandolo un metodo terroristico, degno soltanto del potere e dei suoi servitori, un metodo da non seguire, inquinato da spie e delatori, capace solo di portare a rovina tutto il movimento.
Queste due posizioni si scontrano nella più grande confusione con risultati a volte comici e a volte patetici.
Diciamo subito che non consideriamo il metodo della lotta armata sotto un’angolazione privilegiata, ma lo teniamo presente come metodo fra gli altri, capace di dare il proprio apporto al progetto rivoluzionario, purché sia all’interno di una strategia in grado di applicare metodi diversi in diverse combinazioni.
Ma diciamo anche, e con la stessa fermezza, che come è necessario – per il movimento anarchico nel suo insieme – darsi le migliori strutture di informazione, di analisi e di lotta intermedia, così è necessario darsi una struttura di lotta armata.
Ne deriva che se le strutture di informazione necessitano di tipografie, giornali, case editrici, ecc., se le strutture teoriche necessitano di libri, collane editoriali, studi e centri di studio, se le lotte intermedie necessitano di gruppi d’intervento, presenze organizzate nelle fabbriche, centri sociali nei quartieri, strutture di lotta nelle scuole, ecc., allo stesso modo la lotta armata necessita di mezzi e di una sua organizzazione.
Da un punto di vista oggettivo, guardando a quest’ultima organizzazione, non si riesce a vedere la sua reale differenza dalle altre simili organizzazioni, approntate dagli autoritari. Ma lo stesso discorso vale anche per una tipografia o una struttura di intervento. Passando davanti la porta di un gruppo di quartiere non si capisce molto se ci si ferma alla sigla o alla bandiera.
Su un problema del genere gli errori commessi in passato possono evitarsi in futuro, come invece continuano a negare tanti uccelli e uccellacci che starnazzano appollaiati sui rami più alti dell’albero. Allo stesso modo, le critiche, più o meno fondate, di molti avvoltoi non stanno certo a indicare la presenza di un cadavere. Una critica è una critica. Basta prenderla in considerazione senza stare a sentire le agghindature morali che il buon cuore del critico ama distribuire qua e là.
Certo, l’organizzazione specifica è uno strumento che presenta diversi punti pericolosi, ma la stessa cosa vale per molti altri strumenti. L’informazione utilizzata male sortisce effetto contrario e produce più danno che altro. La teoria, se è incapace di superare il momento astratto dell’analisi, si soffoca con le vesti accademiche e diventa sostegno e verniciatura della repressione. Le lotte intermedie, non convogliate verso una crescita progressiva della coscienza rivoluzionaria, si traducono in facili bocconi per i democratici e i trasformisti. La dinamite può esplodere nelle mani di chi non sa usarla. Non avere criterio per certe tecniche, acconsentire superficialmente all’uso di alcuni strumenti, senza un’opportuna preparazione, pensare, con leggerezza, che tanto si è portatori della verità rivoluzionaria, per cui qualsiasi cosa si faccia si deve essere capiti per forza, tutto ciò conduce alla cecità dell’azione, al dilettantismo approssimativo, alle dolorose disillusioni, allo scoramento, alla sconfitta.
Qui non si vuole cantare un inno alla specializzazione, anzi i difetti della chiusura maniacale delle tecniche sono al primo posto fra i lati negativi delle organizzazioni specifiche. Ma si vuole affermare che ogni cosa va fatta secondo determinate regole, determinate tecniche. Ignorarle a bella posta, oppure per incosciente superficialità, non è una risposta ai difetti della specializzazione, ma semplice balordaggine.
Un compagno intelligente e sensibile deve possedere qualità sufficienti che lo mettano in grado di usare, nel migliore dei modi, tutti i metodi che la lunga e dolorosa storia del movimento rivoluzionario mette a sua disposizione. Se è un bravo giornalista, e questa sua bravura si specializza nell’elaborazione delle informazioni, nella redazione di giornali, radio, volantini, ecc., deve fare di tutto per interessarsi anche agli altri metodi, inserendoli nell’àmbito del progetto strategico che lo vede impegnato. Egli deve fare ciò anche a rischio di vedere scadere la specializzazione che aveva finito per acquisire nel settore che lo vedeva padrone di tutti i problemi e di tutti gli strumenti. La specializzazione si combatte con un allargarsi del campo di interessi rivoluzionari, non con un invito al dilettantismo e all’approssimazione. Certo, quel compagno resterà sempre fondamentalmente un giornalista, perché tali saranno le sue caratteristiche individuali, ma i suoi nuovi interessi lo porteranno verso gli altri settori di intervento metodologico, dove potrà dare il suo contributo, forse meno significativo, ma non certo meno importante. Di più: sarà proprio questo superamento dell’attività di settore a garantire quella collaborazione tra diversi metodi che consente una serie di interazioni del tutto impossibili in un’ottica rigidamente sclerotizzata.
Quindi, progetto organizzativo significa compresenza di molteplici interessi, incontro di affinità individuali e collettive, materializzazione in programmi e analisi di idee e intuizioni, entusiasmi e conoscenze. Pensare l’organizzazione come un involucro chiuso ermeticamente, tanto più ermeticamente quanto più essa racchiude programmi e idee riguardanti la lotta armata, è umile e codista assuefazione ai luoghi tradizionali del partito armato, ripetizione di modelli cospirativi ormai fuori del tempo. Ma il contrario di tutto ciò non significa confusione, velleità, spontaneismo, rifiuto di ogni struttura, di ogni autodisciplina. Si ripete qui l’equivoco che per molti ha il pensiero anarchico. Immaginata come dominio assoluto della spensieratezza, l’anarchia, alla luce dei fatti, è ben altra cosa. La gioia non è sinonimo di stupidità, come la creazione non vuol dire rifiuto di ogni precedente conoscenza. L’autodisciplina è riconoscimento della necessità di sottoporsi a uno sforzo per ottenere un risultato che si considera importante. Solo con la nostra volontà possiamo ottenere quel risultato, piegando gli ostacoli che ci separano da esso. E questi ostacoli non sono solo muri da abbattere o sbirri da non far nuocere, ma possono anche essere problemi di natura personale, come, per esempio, un’incapacità a mettere ordine nei nostri programmi, nelle nostre idee, nei nostri gesti: una tendenza dispersiva all’improvvisazione, all’immediatamente gradevole, al superficiale, una paura dell’impegno, dell’approfondimento, della durezza del compito che ci sta davanti. Tutto ciò fa parte del problema dell’organizzazione specifica come fa parte della vita dell’uomo. Non possiamo cancellarlo solo perché riteniamo più facile continuare a fare chiacchiere sulla bellezza e la spontaneità dell’anarchia.
Secondo come viene vissuto, il rapporto con l’organizzazione può essere un’amara esperienza o un progetto creativo. La stessa organizzazione può dare vita a due rapporti diversi, con due compagni diversi, ma questi due rapporti, se veramente tali, non lasceranno l’organizzazione al punto di prima. Per un altro verso, un errore nell’impostazione dei rapporti determina conseguenze negative su tutta l’organizzazione e quindi su tutti i compagni che ne fanno parte.
Un gran lavoro critico è stato fatto sugli aspetti formali delle organizzazioni specifiche. Quando si è trattato di esperienze anarchiche, si sono criticati in esse i residui cospirativi e giacobini, le deformazioni autoritarie: elementi del tutto estranei al modo di agire e alle idee degli anarchici. Ma quante di queste critiche si sono fermate davanti la porta? Quante hanno avuto la capacità di cogliere il significato degli errori commessi, anche di quelli più evidenti?
Altre volte l’approfondimento critico c’è stato partendo da documenti considerati come fondamentali, per arrivare poi alle strutture organizzate. Ci pare legittima la domanda se dalla misura del fosso che passa tra il dire e il fare si può calcolare l’effettiva dimensione degli errori commessi.
In altri casi ancora si è fatto ricorso a paragoni tra situazioni storiche diverse (la Russia, la Spagna, il Messico, ecc.) per sviluppare critiche che oggettivamente giuste risultavano non costruttive davanti alla necessità di far vedere errori e deformazioni della struttura organizzativa.
Di alcune porte aperte
Sfondare porte aperte fa molto fracasso ma dà scarsi risultati. Per chi è più interessato al fracasso l’operazione può avere aspetti positivi.
Prendiamo il dibattito sulla “clandestinità”. Chi si trova in una situazione del genere è spesso portato a immaginarsi giustificazioni teoriche trovanti origine dalle necessità dello scontro di classe. Gli pare un poco riduttivo ammettere semplicemente che la clandestinità è un fatto contingente, legato a precise condizioni individuali e di gruppo, e non un fatto che si può collocare a un gradino più alto di una ipotetica scala di valori rivoluzionari. Dall’altra parte, chi critica giustamente questa scelta come fatto teorico, non è poi capace di ammetterla come conseguenza ineluttabile di alcune situazioni. Preferisce continuare nella critica alla teoria e non accettare i limiti di alcune necessità oggettive. In questo modo si sviluppa una polemica tra sordi. La clandestinità non è una delle prerogative essenziali della lotta armata, anzi ne costituisce uno degli aspetti negativi determinati spesso dalle condizioni dello scontro. Non può mai essere considerata una situazione privilegiata. Caso mai, la condizione privilegiata sarebbe quella della quotidianità attiva, dell’impegno rivoluzionario completo in una situazione caratterizzata da “status” sociali aperti.
Ciò non toglie che l’organizzazione armata deve essere clandestina, e che a una clandestinità rigorosa dell’organizzazione dovrebbe corrispondere una quotidianità attiva di tutti i partecipanti. Sono porte aperte che non sarebbe necessario sfondare ma che, vista la gran quantità di persone che insiste a sbattervi contro la testa, tanto vale aprirle una volta per tutte.
Lo stesso discorso pieno di equivoci si sviluppa spesso nei riguardi della quotidianità attiva, quindi anche armata. Possiamo rigettare – e con ragione – i luoghi comuni del cospiratismo giacobino, ma non possiamo affidarci all’occasionalismo del quotidiano, specialmente quando questo inizia con tanta buona volontà e poi si impantana nel labirinto privatistico, nelle piccole concessioni a un ideale di vita che magari fosse epicureo fino in fondo, almeno avrebbe di reale il riconoscimento della primordialità dei bisogni del singolo, e invece non è altro che una rivisitazione della solita storia. A un perbenismo reazionario si contrappone un perbenismo progressista. Cambiano i colori, i linguaggi, gli stereotipi. L’immobilità della logica dell’adeguamento resta intatta. Possiamo illuderci di cambiare il mondo imbracciando un mitra e finire dentro una cella rimuginando sugli errori commessi senza venirne a capo, e possiamo illuderci di cambiare il mondo imbracciando i problemi della nostra quotidianità, finendo fino al collo nella sopravvivenza. Stare a spellarci reciprocamente su chi ha ragione, mentre gli errori si accumulano da ambedue le parti, non porta a conclusioni positive.
Nessuno vuole, per definizione, fare la rivoluzione al posto del proletariato. Con tutto ciò non sono pochi coloro che si sono stufati di aspettare che il mondo si sollevi per insorgere anche loro. Non sono pochi coloro che credono che bisogna pure cominciare da qualche parte e che, anche da soli, si è sempre in grado di fare qualcosa per attaccare il nemico. Questa logica non è perdente. Anche quando non guadagna sul piano quantitativo, anche quando non “vince” sul piano militare, non vuol dire che sia perdente sul piano rivoluzionario. Altrimenti i critici e gli attendisti riconfermerebbero un’equivalenza tra efficacia militare e risultati rivoluzionari che essi stessi negano (giustamente) in linea di principio. Caso mai è perdente la logica inversa, quella che insegna l’attesa, il temporeggiamento, il compromesso, la mimetizzazione. La cattedra politica da cui viene questa predica è troppo compromessa per fornire indicazioni attendibili.
Nessuno s’immagina che il proletariato si lasci trascinare all’interno di una dimensione cospirativa. I tentativi di lotta armata devono guardarsi da questa prospettiva. L’autorganizzazione delle lotte è quotidianità attiva prorompente, creatività dell’azione sovvertitrice, irripetibile confrontazione che non trova modelli su cui adagiarsi o canoni da rispettare. L’azione rivoluzionaria di una minoranza, di fronte a questo dilagare in prospettiva, deve fare i conti con un’attesa che minaccia di farsi troppo lunga. Non può annegare in un lavoro di accumulazione a lunga scadenza, a rischio di rendere incomprensibile il proprio stesso discorso, a rischio di lasciarsi accomunare con le tante ciance che i gufi metafisici della politica militante trasmettono nella notte più fonda. Deve andare contro corrente. Risalire alla sorgente di un movimento antagonista che minaccia di adagiarsi sulle proprie possibilità. Tutto ciò non significa – anche se è stato affermato erroneamente – visione leninista della lotta rivoluzionaria. Non significa nemmeno un vano educazionismo applicato al proletariato nel suo insieme attraverso il metodo della lotta armata. Significa, più semplicemente, costruire l’organizzazione specifica anarchica, tra mille contraddizioni, per spingere gli sfruttati alla rivolta. Ciò si può realizzare in molti modi, quindi anche tramite il ricorso alla lotta armata. Se esistesse un motivo talmente fondato da dimostrare definitivamente la non praticabilità di questo metodo, lo stesso motivo sigillerebbe per sempre la pietra tombale sulla lotta rivoluzionaria nel suo insieme, in quanto dimostrerebbe, nello stesso tempo, la non praticabilità di qualsiasi altro metodo.
È grave limitazione ridurre lo scontro armato alla lotta tra bande rivali. E non solo per chi si racchiude all’interno di una sigla e da questo bozzolo pretende incutere paura allo Stato. Anche coloro che criticano questa visione parziale non si sforzano di individuare i motivi che hanno generato l’errore, per cui felicemente concludono, alzando le braccia, che il fallimento del metodo è ormai inevitabile. I primi difendono la propria pratica e, spesso, sono anche patetici nel loro almanaccare intorno a teorie che hanno ben poco a che vedere con l’autorganizzazione rivoluzionaria, i secondi sono in malafede, non avendo intenzione di contribuire a ridurre gli errori dell’azione rivoluzionaria, ma vogliono soltanto isolare un comportamento che individuano come pericoloso e coinvolgente per le loro tranquillità personali e per le loro uniformità teoriche. Gli errori pratici degli altri possono sconvolgere le acque del proprio modo di interpretare la realtà molto più seriamente di quanto non faccia la propria analisi critica.
La ripartizione tra apparenza e realtà, tra spettacolo e lotta di classe, tra azione rivoluzionaria reale e fittizia contrapposizione armata, può portare a conclusioni di grande interesse, ma può anche abortire in alternative prive di senso. Nessuna cosa è totalmente bianca o totalmente nera. Si tratta di problemi di tendenza, di orientamento, di azione diretta verso uno scopo. La statica contemplazione della verità non è affatto un atteggiamento positivo, finisce per distruggere la verità stessa trasformandola in un simbolo, in un modello ideale, in un cimitero dell’azione. Non è la “realtà” che qualifica la sostanza di un movimento, ma il suo disporsi verso la realtà. Ma questo muoversi è trasformazione in corso, azione rivoluzionaria che modifica il movimento in senso specifico e la realtà che riceve l’azione prodotta dal movimento. Immaginarsi una di queste due cose come immobili o come compiute, perfette in tutti i particolari, può essere utile ai fini analitici, ma ha poco a che vedere con l’effettivo svolgersi dei fenomeni sociali. Quando si parla di “apparenza” della lotta armata, di scontro fittizio e spettacolare, quando si accusano – giustamente – le organizzazioni armate di essersi arrogate il diritto di rappresentare il proletariato in lotta e di agire in nome di qualcosa che è lontano mille miglia, si dicono verità. Ma anche le cose vere possono essere errate, anzi spesso sono parzialmente non vere, ed è proprio questo aspetto di parziale verità che le rende interessanti e utili all’uomo. Le cose assolutamente vere sono banali tautologie, ripetizioni che non aggiungono niente ai mezzi che si possiedono per comprendere e trasformare la realtà. Ma una cosa vera in parte non può essere presa in considerazione solo per la parte vera, deve essere tenuta in conto per quello che il suo insieme significa: parte vera e parte non vera. Così, quando si dice che la lotta armata è una contrapposizione fittizia al capitale non si può negare che questa è un’affermazione che contiene una parte di verità, ma non è totalmente vera. È vera, in quanto l’organizzazione specifica segna il limite al libero sviluppo dell’autorganizzazione delle lotte, non è vera, in quanto di fronte a un modesto sviluppo di questa autorganizzazione essa vi si sostituisce e, senza riuscire in effetti a soppiantarla, alimenta un modesto nucleo da cui si possono avere sviluppi impensati. Questo ovviamente solo a condizione che non si cada negli equivoci del partito armato e della presa del palazzo d’inverno. Al di là di questi limiti e di queste aberrazioni, l’organizzazione armata specifica rappresenta, in concreto, quello che l’autorganizzazione delle lotte proletarie non diventerà mai, ed è bene che sia così. I rivoluzionari sono una piccola luce che scompare davanti al vivido sole delle lotte proletarie nel loro pieno sviluppo. Ma, nella carenza di lotta, oppure quando il sole tarda a sorgere, la piccola luce è sempre meglio di niente.
Come conseguenza della distinzione tra apparenza e realtà si è accusata la lotta armata di essere metodo esclusivamente politico, quindi fittizio. Anche qui siamo davanti a un’accusa che può essere facilmente generalizzata a qualsiasi metodo, a ogni genere di azione umana. Insisto nel dire che non si può accusare di mancanza di realtà un certo metodo, ma solo si possono sviluppare critiche riguardo le sue applicazioni strategiche. Queste scelte strategiche possono essere fondate su elementi politici tanto discriminanti da squalificare i significati sociali e rivoluzionari del metodo. Non c’è dubbio, per esempio, che le riforme costituiscono l’elemento forte su cui si basa la gestione socialdemocratica del potere. Per lo stesso motivo, non c’è dubbio che le lotte intermedie possono prestarsi a una strumentalizzazione politica. Eppure sono lotte che vengono realizzate e sostenute da molti compagni e tutte le critiche che le riguardano affrontano solo i pericoli della loro strumentalizzazione e non arrivano a negarle in quanto metodo perché inquinato politicamente. Purtroppo nei problemi riguardanti la lotta armata agiscono spesso motivazioni poco chiare, a volte di ordine personale, le quali impediscono una valutazione se non proprio distaccata, almeno sufficientemente obiettiva del problema.
C’è stata una certa componente infantile in alcune affermazioni che assegnavano il primato rivoluzionario alla violenza organizzata, ma si è trattato di una superficialità che andava approfondita, evitando il ricorso a reciproche punzecchiature velenose e prive di senso pratico. Da una parte si è sviluppata un’estensione gratuita della necessità della violenza liberatrice che ha finito per far diventare centrale il metodo della lotta armata. Dall’altra, nel tentativo di criticare gli aspetti paradossali di questa centralità, si è arrivati a buttare a mare tutto il patrimonio di lotte violente del movimento rivoluzionario, concludendo il viaggio nelle spiagge del pacifismo o nelle contraddizioni esistenziali di una incerta quotidianità. Se non c’è dubbio che solo con un ricorso alla violenza rivoluzionaria si potrà attaccare il nemico di classe e metterlo in difficoltà fino a sconfiggerlo nel corso dell’evento rivoluzionario, allo stesso modo non c’è dubbio che questo ricorso alla violenza non implica la esclusione degli altri metodi privilegiandone uno solo. E ciò anche perché non è vero che la violenza sia una prerogativa esclusiva del metodo della lotta armata. Anche l’informazione, la teoria, le lotte intermedie possono avere una impostazione violenta (cioè non essere semplicemente simboliche) e proporsi pertanto come stimolo a una presa di coscienza rivoluzionaria da parte degli sfruttati.
È stato definito velleitario il tentativo di ucciderne uno per educarne mille. Questa tesi ci sembra molto giusta. Ma il contenuto dell’azione che si prefigge di eliminare un nemico di classe non si conclude semplicemente in questa prospettiva. Non si può pretendere certamente di “educare” la struttura dello Stato. Anche accelerando il processo di eliminazione di alcuni funzionari dell’apparato repressivo e di reperimento del consenso non si smuove di un millimetro la funzione relativa. Ciò non nega però due fatti di grande importanza: primo, si tratta sempre di un nemico di classe in meno, secondo, si contribuisce a un altro processo educativo, ben differente e più ricco, quello diretto verso gli sfruttati che vedono possibile la progressiva eliminazione dei propri nemici di classe. Si è più volte sottolineata la limitatezza del primo di questi due motivi. Si è detto che morto un nemico, un altro ne prende il posto. Si è sostenuto che non bisogna attaccare la persona che ricopre una funzione, ma mettere sotto accusa la funzione stessa. Tutte queste ragioni non convincono. Saranno anche ragioni valide, ma ritengo ottusamente che sia sempre preferibile l’eliminazione di un nemico di classe a una semplice critica astratta alla funzione che lo stesso svolge. E poi non è detto che le due cose debbano per forza andare separate. Riguardo il secondo motivo è stato detto che non ci si deve occupare di sviluppare messaggi “educativi” diretti agli sfruttati. Anche su questo punto non sono d’accordo. Tutta l’azione rivoluzionaria è un progetto educativo di grande complessità. Le contraddizioni vengono fuori dal fatto che spesso si è costretti a prendere in considerazione gli aspetti parziali dell’azione stessa, e questi aspetti, quasi sempre slegati tra loro, contribuiscono alle malcomprensioni e alle inutili polemiche.
Nessuna illusione
Non mi faccio illusioni. Le parole sono comprensibili in funzione della situazione di fatto. Diamo loro spazio e credibilità solo se rientrano nei nostri schemi e nelle nostre certezze. I meccanismi di difesa si automatizzano e impediscono la ricezione stessa del messaggio. Se non fosse così gli illuministi avrebbero di già definitivamente cambiato il mondo da duecento anni.
Accade, per esempio, che se uno dice che l’organizzazione specifica ha bisogno di mezzi e che quindi deve farsi carico di procurarli, immediatamente il sordo che non vuole sentire, traduce nel suo linguaggio: finanziamenti occulti, presenza di servizi segreti stranieri, accozzaglia di ladri e grassatori, baldorie e champagne. Se uno dice che ci vuole un minimo di autodisciplina e che non si può abbandonare tutto all’improvvisazione, immediatamente lo stesso sordo traduce: ascetismo giacobino, rigidità da pubblico ministero, svalutazione della vita umana, mancanza di fondamento etico, strumentalizzazione degli altri, disumanizzazione. Se uno dice che l’eliminazione, anche fisica, del nemico di classe è un fatto corretto, dal punto di vista rivoluzionario, immediatamente il sordo traduce: pazzia sanguinaria, avallo dei comportamenti da tribunale militare, applicazione nei fatti della pena di morte, assenza di princìpi etici, incomprensione del meccanismo che riproduce la funzione al di là del funzionario.
Nessuna illusione quindi sul fatto che questi approfondimenti possano realmente modificare la sordità di coloro che non vogliono sentire.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Strategie e metodi rivoluzionari, in “Anarchismo” n. 40, 1983, pp. 27-32 e (A. M. Bonanno), Delle cose ben fatte e delle cose fatte a metà, in “Anarchismo” n. 41, 1983, pp. 28-37. Alcuni estratti tradotti in inglese si trovano in: A. M. Bonanno, Strategy & Methods, in “Insurrection” n. 2, 1984, pp. 2-5]
Parte seconda
I. “Sinistra Libertaria”
Premessa necessaria
Si tratta del primo tentativo organico realizzato da alcuni compagni che si richiamavano alla prospettiva insurrezionale. Tutto il materiale qui pubblicato è stato scritto da me e discusso con diversi compagni, di volta in volta, al momento in cui si rendeva necessario approfondire l’argomento in funzione delle necessità delle lotte. Non mi è parso indispensabile indicare, di volta volta, le eventuali modificazioni determinate da queste discussioni, anche perché condividevo le motivazioni politiche che le giustificavano.
Tra l’inizio del 1972 e la prima metà del 1973 sviluppammo in alcune zone italiane una serie di accordi tra compagni che ben presto si trasformarono in un “movimento rivoluzionario” embrionale, con gruppi più o meno informali che agivano in Sicilia, in Calabria, in Lombardia, nel Veneto.
Le posizioni teoriche furono discusse e trovarono una definitiva collocazione nello scritto Il nostro programma, che viene qui pubblicato. Si trattava di un tentativo di organizzazione che aveva un grosso difetto di partenza: si presentava con una notevole pesantezza ideologica. Esso proponeva il momento insurrezionale, ma lo proponeva direttamente, senza la costruzione di organismi specifici e senza l’individuazione di obiettivi insurrezionali sufficientemente determinati.
Anche l’indole dei rapporti con le altre forze cosiddette rivoluzionarie non era molto chiara. L’esperienza di Reggio Calabria aveva insegnato la diffidenza nei confronti dei militanti di “Lotta Continua”, ma ciò non bastava.
Risultano comunque molto evidenti i problemi della repressione, della concezione libertaria della lotta armata, dello scontro di classe.
Quello che invece non potevamo immaginare e che costituisce uno degli esempi più evidenti e dolorosi del modo in cui il movimento anarchico organizzato si comporta davanti alle sollecitazioni nuove e ai tentativi di uscire dal solito luogo comune della lotta delle opinioni, fu la repressione “interna” che dovemmo subire.
Non appena pubblicato il giornale venimmo attaccati dal gruppo “Franco Serantini” di Catania, appartenente alla FAI, con un infame documento in cui – in pratica – ci si considerava come provocatori e come fascisti. Il documento venne distribuito con un volantino da parte del gruppo “Serantini”, ma venne anche pubblicato da “Umanità Nova” (del 22 luglio 1972) e da “L’Internazionale” (del 15 agosto 1972). In esso si leggeva: «… cogliamo l’occasione per dissociarci completamente dalle posizioni avventuriste e per noi oggettivamente provocatorie del gruppo “Sinistra Libertaria” … Crediamo utile nel momento in cui ci costituiamo in gruppo anarchico “Franco Serantini” precisare le nostre posizioni nei confronti del gruppo “Sinistra Libertaria” di Catania onde evitare spiacevoli confusioni tra gruppi apparentemente simili ma che in realtà non hanno nulla a che spartire tra di loro. La “Sinistra Libertaria” la cui linea politica è in netta e inconciliabile antitesi con la strategia anarcosindacalista del gruppo anarchico “Franco Serantini” (ex Lega Comunista Libertaria) di Catania … non si identifica con il movimento anarchico catanese che, in più occasioni, ha fermamente condannato i discorsi oggettivamente provocatori di chi in buona o cattiva fede sostiene al momento attuale la logica del “solo sparando si vince”. (Cfr. “Sinistra Libertaria”, numero unico 1972, p. 2) e del confusionarismo ideologico su parole d’ordine ibride e contraddittorie … La teorizzazione della guerriglia in mancanza di un forte movimento rivoluzionario e proletario, è solo il segno di una impotente disperazione che diviene uno degli strumenti propagandistici principali oggettivamente al servizio della repressione antipopolare … Non con la teorizzazione astratta di pseudo-guerrigliette urbane o appiccicando sulle “A cerchiate” bombe, fucili o bazooka (che starebbero molto meglio sotto le fiamme tricolori del MSI) si portano avanti oggi le lotte degli sfruttati ma con l’impegno costante di ogni giorno e il coerente lavoro politico tra le masse».
Il documento venne, per la precisione, pubblicato integralmente da “L’Intenazionale” sotto forma di lettera firmata da uno dei componenti il gruppo “Serantini”, mentre “Umanità Nova” toglieva via il passo sul MSI ma firmava il documento in questione come “Dichiarazione del gruppo Franco Serantini””.
Dall’apparizione di questo volantino a Catania e dalla relativa divulgazione a livello nazionale effettuata dai due giornali anarchici sopra ricordati, cominciò un processo repressivo interno nei nostri confronti che ci portò da un lato a essere rinchiusi in un ghetto criminalizzato costruito attraverso i “sospetti” che continuamente venivano alimentati contro di noi e, dall’altro, a dovere affrontare la repressione della polizia senza il sostegno del movimento anarchico. Alla fine di ottobre, infatti, venni arrestato a Catania per incitamento alla rivolta e vilipendio della magistratura, processato e condannato a due anni e due mesi di reclusione.
Solo dopo molti anni si riuscì a smantellare il castello di infamie che alcuni individui del gruppo “Serantini” di Catania avevano costruito alle nostre spalle, e ciò fu possibile solo perché la nostra attività rivoluzionaria, sotto forme diverse, continuava e si andava diffondendo. Non certo per una particolare apertura mentale del movimento anarchico ufficiale che a cominciare dalle nostre risposte al documento infamante del gruppo “Serantini” si rifiutò di chiarire come stavano le cose.
Comunque, tutta questa storia è ancora da scrivere, e forse lo faremo in futuro. Sarà senz’altro una storia molto istruttiva per tutti quei compagni che vogliono rendersi conto di come reagisca – a livello poliziesco e repressivo – un movimento che si definisce rivoluzionario quando è minacciato nel proprio perbenismo e nella continuazione dei propri sogni a occhi aperti.
Non è questo il luogo per pubblicare tutti i documenti e le lettere che possediamo, o per descrivere nei minuti particolari l’opera di effettiva provocazione, delazione e intimidazione che venne realizzata nei nostri confronti, con la copertura e con l’acquiescenza della FAI che non seppe e non volle mai mettere in chiaro simili iniziative denunciandone pubblicamente i promotori. Adesso che alcuni di questi elementi hanno fatto la fine più squallida che si poteva immaginare, andando a chiudere i loro giorni nelle braccia del Partito socialista, resta solo un modo di agire poliziesco e repressivo ingiustificabile fra compagni anarchici.
Una valutazione complessiva di tutto il lavoro di “Sinistra Libertaria” deve essere fatta inquadrando la situazione del momento e considerando anche il punto analitico da cui partivano le forze del movimento anarchico che si rifiutavano di accettare la logica dell’attesa e della semplice discussione.
Il problema più grave e più difficile da risolvere era quello dei rapporti con le forze della sinistra definita “extraparlamentare”. Esperienze recenti e meno recenti ci spingevano a considerare con sospetto alcune collaborazioni, specie a livello di collettivi, che si erano rivelate perdenti in modo particolare nella lotta di Reggio Calabria, dove una situazione a noi favorevole venne sprecata anche per colpa delle incapacità operative e analitiche dei militanti di “Lotta Continua”. In sostanza, a Reggio Calabria si poteva, fin dai primi giorni delle manifestazioni, capovolgere la situazione, rintuzzando la propaganda fascista e incanalando le rivendicazioni di massa su obiettivi più concreti e non sostanzialmente a carattere campanilistico se non proprio nazionalistico. Di più. Noi avevamo una presenza notevolissima di compagni anarchici nella zona, non proprio a Reggio Calabria, ma nella fascia che va da Villa S. Giovanni fino a Siderno. Questo movimento si poteva fare intervenire con notevole efficacia nella lotta di Reggio Calabria, ma per farlo si dovevano avere le idee chiare e un minimo di mezzi a disposizione.
Quello che era mancato nella lotta dei compagni calabresi era stata l’organizzazione, e a questo problema cercava di porre rimedio “Sinistra Libertaria”, non risolvendo però alcune contraddizioni di fondo. Prima tra tutte, la contraddizione derivante dai rapporti di collaborazione con le forze della sinistra che si definiva rivoluzionaria. Un altro punto che non veniva chiarito era quello relativo al modo in cui l’organizzazione specifica anarchica si sarebbe dovuta muovere nella realtà delle lotte, cioè se doveva farlo direttamente o correndo alla creazione di strutture minime di base. Questo concetto, come si vede dai testi pubblicati, emerge qua e là, ma non è chiaro. Infine, un ultimo punto non approfondito bene era quello relativo al concetto di insurrezione, che veniva considerata come momento necessario allo sviluppo del progetto rivoluzionario, ma, nondimeno, veniva lasciata alle sue possibilità di sviluppo spontaneo, senza la presenza di un sia pure tenue tracciato programmatico.
Il nostro programma
Le tesi da cui parte “Sinistra Libertaria” sono fondate sulla constatazione che accanto a un intensificarsi della repressione si ha un progressivo indebolimento del rivoluzionarismo militante, a causa della crescente insoddisfazione di molti compagni nel vedersi costretti a restare legati a schemi di comportamento decisamente inadeguati.
L’analisi di questa situazione ci ha portato a stendere queste tesi che proponiamo a tutta la Sinistra che si richiama agli intendimenti libertari, allo scopo di aprire un discorso quanto più ampio possibile, una vera e propria apertura all’azione diretta che costituisce in definitiva l’obiettivo comune di ogni rivoluzionario.
1) L’efficacia dell’azione rivoluzionaria, nel distruggere la dittatura dei padroni, è fondata unicamente su due presupposti: l’unione delle forze della sinistra rivoluzionaria e la chiarezza nelle premesse ideologiche, presupposti che rendono possibile l’azione diretta.
2) Le vecchie indicazioni di una sinistra chiusa all’interno delle varie ripartizioni settarie non possono più essere utilizzate. Il capitalismo maturo e la società consumistica determinano una realtà molto diversa da quella della fine del secolo scorso. La società permissiva, consentendo ogni critica nei limiti del giuoco democratico, finisce per ammorbidire le varie forze rivoluzionarie che riescono difficilmente a superare il processo di inglobamento. Questo pericolo è gravissimo per i gruppi della sinistra extraparlamentare che restano impigliati in un rapporto di coabitazione con il potere costituito e, a causa del settarismo ideologico, finiscono per sprecare la forza d’urto della contrapposizione iniziale. Ciò determina, per conseguenza, un progressivo distacco di quei rapporti con le masse che fin dall’inizio costituirono lo scopo principale dell’azione rivoluzionaria di questi gruppi.
3) Dobbiamo convincerci che è in corso una guerra spietata, una guerra che ha avuto le sue vittime (Pinelli, Feltrinelli) e altre ne avrà in futuro, una guerra priva di scrupoli che determina tutte le conseguenze tipiche di un conflitto armato. L’azione diretta che proponiamo deve quindi inserirsi in questo contesto di lotta ai ferri corti. I resti di quell’organismo che continua a spacciarsi per democrazia, che stanno puzzando di cadavere in quasi tutto il mondo, sono ormai sulla strada per consolidarsi come dittatura, dittatura dei padroni, dittatura in nome del diritto di spartire e di sfruttare. Non ha significato, quindi, l’atteggiamento del rivoluzionario che poi finisce per nutrire le stesse speranze nella forza soprannaturale della democrazia, allo stesso modo del più reazionario dei borghesi.
4) L’azione diretta, che costituisce il punto centrale e unificatore, di tutti noi di “Sinistra Libertaria”, deve essere intesa quindi come anticamera della lotta di liberazione, lotta violenta in nome della libertà, lotta che gli sfruttati hanno da sempre avuto il diritto di condurre con tutti i mezzi a loro disposizione. Lo sfruttamento può essere camuffato in modo apparentemente innocuo ma, prima o poi, finisce per venire alla luce. Qui risiede la giustificazione della violenza che caratterizza le lotte degli sfruttati, che dirige e regola l’azione diretta. La violenza difensiva deve essere diretta non solo contro chi ci attacca, ma pure contro chi potenzialmente è in grado di attaccarci, anche se al momento non lo fa, se al momento, con molta abilità, non ci fa capire che si prepara ad attaccarci. L’istituzione repressiva, per il semplice fatto che esiste, deve essere combattuta, anche quando si trova inerte, perché quello è il momento in cui è più pericolosa, il momento in cui sta preparando il colpo più grave, l’intrigo più odioso. Lasciarsi fermare dalle vecchie illusioni della nonviolenza significa dimenticarsi che siamo in guerra, che dobbiamo lottare contro un nemico fornito di carri armati e cannoni, addestrato alla lotta aperta e alla controguerriglia, un nemico che segue corsi speciali di aggiornamento, che ingrossa continuamente le sue fila sfruttando l’ignoranza e la fame di tanti che non vedono altra alternativa al loro futuro di diseredati. Un nemico, infine, che assolda e mantiene con fior di milioni i suoi servi fedeli in camicia nera, che camuffa continuamente sotto sigle fantasma e sotto uno pseudo-rivoluzionarismo di destra, uno squadrismo ogni giorno più florido, che assassina impunemente e si prepara a impadronirsi del potere in forma definitiva.
5) Ma il vero fondamento dell’azione diretta dobbiamo trovarlo anche sul piano ideologico. Proprio per questo abbiamo sentito il bisogno di parlare di “Sinistra Libertaria”. L’assurda ricerca della “Libertà” in assoluto, fatta con interessata cocciutaggine all’interno di una società classista e straziata da lotte intestine, è stato il sogno inutile dell’Illuminismo borghese, ritentarne oggi, con le esperienze di questi ultimi anni di lotte proletarie, l’esperimento, sarebbe delittuoso. Parliamo invece di libertarismo in termini di lotta, parliamo di libertà in termini di conquista di una nuova dimensione attraverso la lotta, attraverso l’azione diretta, attraverso la distruzione dei privilegi dei padroni, solo così il termine libertà può avere un significato, solo così la lotta di classe assume una dimensione libertaria. Al di là ci sarà la società futura, quella per cui tutti lottiamo, quale sarà la dimensione che questa prenderà, al momento non ci è dato sapere, sappiamo solo che la lotta per la libertà, nella libertà, non potrà non darci una società libera ed egualitaria.
6) L’organizzazione della lotta riceve anch’essa, com’è logico, una luce particolare dalla nuova dimensione in cui essa è condotta. Una chiusura rigidamente legata ai soliti presupposti autoritari, finirebbe per usare uno strumento non commisurato allo scopo che si vuole raggiungere. Il militante di “Sinistra Libertaria” non è soltanto qualcuno che lotta per le rivendicazioni e contro i padroni, ma è un militante libertario, cioè un uomo cosciente della propria dimensione di classe, che lotta contro gli avversari in modo cosciente, quindi senza quelle chiusure mentali, quelle sovrastrutture, quelle coperture che necessitano agli autoritari. La coscienza e la maturazione sono le garanzie sufficienti perché egli possa affrontare, in maniera libertaria, tutti i problemi dell’organizzazione e della funzione che è chiamato a svolgere all’interno del gruppo in cui lavora. Nessuna burocratizzazione, nessuna struttura autoritaria, ma la funzionalità di un’organizzazione pronta ed efficace nel colpire e che nella lotta stessa trova la forza per andare avanti e colpire ancora.
7) L’azione diretta, così come l’abbiamo esposta, necessita però, nei militanti, di una disponibilità che deve essere coltivata e resa sempre maggiore nel tempo. Di fronte al dilagare della repressione e al conseguente intensificarsi della lotta, la disponibilità dei militanti è talmente importante da coinvolgere l’essenza stessa di un movimento. L’apertura che noi di “Sinistra Libertaria” ci proponiamo è intesa principalmente in questo senso, cioè nel senso della necessità di raggruppare tutti i militanti disponibili per l’azione diretta, tutti i militanti della sinistra che non arretrano davanti allo spauracchio della repressione o al manganello del fascista. Una forza di questo genere, una volta costituita, rappresenterà una potenza d’urto importantissima, nella geografia politica italiana di oggi, specie nel meridione, sempre di più diretto a diventare riserva di caccia della reazione agraria e dei fascisti.
8) La ricerca dei programmi, delle lotte da condurre, delle azioni da portare a compimento, costituisce compito precipuo di ogni singolo militante, in funzione, appunto, di quel concetto libertario dell’organizzazione che caratterizza “Sinistra Libertaria”. Ciò non toglie, ovviamente, la costante ricerca di una verifica comune degli obiettivi, da operarsi armonicamente tra tutti i gruppi di “Sinistra Libertaria”, ricorrendo a quegli strumenti che di volta in volta gli avvenimenti renderanno necessari (convegni, riunioni, lettere, comunicazioni di altro genere). Tutto ciò resta legato alle condizioni di ambiente dettate dalla repressione. Nel momento in cui questa scatenerà la classica “caccia alle streghe” il militante deve essere pronto a continuare la sua attività nei modi e nei termini che l’intervenuta situazione di clandestinità renderà necessari.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Il nostro programma, in “Sinistra Libertaria”, numero unico, maggio 1972, pp. 1-2. Lo scritto è stato realizzato in collaborazione con un altro compagno, con cui sono state discusse preventivamente tutte le tesi. In seguito, comunque prima della pubblicazione, il documento è stato discusso con moltissimi compagni anarchici calabresi e palermitani in diverse riunioni tenutesi sull’onda del precedente lavoro fatto in Calabria prima e nel corso dei fatti di Reggio]
Repressione poliziesca e disponibilità rivoluzionaria
In effetti la spirale repressiva che si è posta in atto dalla morte di Feltrinelli in poi, spirale che per molti aspetti ricorda quella posteriore alla Strage di Stato, è un prodotto diretto della paura che la borghesia si è presa davanti alla possibilità che i suoi migliori servitori, quei fascisti che in definitiva sono stati autori della strage, potessero essere denunciati apertamente. Occorreva che si contrapponesse un valido argomento alla violenza della destra fascista, un argomento capace di fare restare ben chiaro nella mentalità del lettore medio il vecchio concetto degli opposti estremismi. Poi, se questo argomento aveva anche la virtù di servire da espediente per una magnifica caccia alle streghe, tanto meglio.
Ma, oltre l’aspetto contingente, ci interessa in questa sede cogliere l’aspetto più importante che, per noi di “Sinistra Libertaria”, è quello della diretta relazione che passa tra scopi che la borghesia reazionaria e retriva intende raggiungere e sistema repressivo.
Questa relazione è fondata sugli interessi economici della classe dominante, interessi intaccati da una congiuntura sempre più sfavorevole, da un ricorso al consumo signorile sempre più controproducente in termini di bisogno sociale, da un riemergere delle lotte proletarie a qualsiasi livello. Tutto ciò determinerà nei prossimi mesi un vero e proprio terrore nella borghesia, tenendo conto specialmente del fatto che si andrà incontro al rinnovo dei contratti, quindi a un nuovo autunno caldo.
Aumento della repressione, pertanto, tentativo di stroncare nel pieno della loro nascente rigogliosità i movimenti rivoluzionari più efficaci, tentativo di inglobare con manovre più o meno scoperte, con beghe elettorali e altre amenità, le frange rivoluzionarie presenti anche nei partiti istituzionali della sinistra. Questa situazione è molto visibile nel meridione. Qui i fascisti hanno da tempo attuato un piano di conquista delle varie zone, sistematico e costosissimo. In alcune regioni il successo è stato maggiore, in altre un poco minore. Reggio Calabria è stato il punto di maggiore successo, seguono, nell’ordine, ma con varietà qualitative molto diverse, Messina e Catania. In questi posti l’attività repressiva della polizia è molto ridotta – almeno a livello di intervento nelle piazze (se si esclude il caso dell’uccisione dei bambini all’Ospedale Vittorio Emanuele di Catania) – perché i fascisti stanno facendo un enorme lavoro. Nelle zone, invece, dove l’azione dei fascisti è meno agevole, allora interviene la polizia, come a Gela, Siracusa, Ragusa, ecc.
Sempre nel meridione un largo uso repressivo è stato fatto dello spauracchio della delinquenza, agitato davanti agli occhi dei borghesi, nel tentativo spesso riuscito di farli votare per la destra nazionale, in nome di un ritorno all’ordine e alla normalità. A questo proposito, vastissimo il lavoro della polizia e dei fascisti. Da canto suo la magistratura ha prestato la sua opera condannando questi valorosi sostenitori dell’ordine a pene lievissime e perseguendo violentemente i compagni anche per un banale volantinaggio o una innocua affissione di manifesti.
È ancora sotto il segno fascista che il meridione ha vissuto questi ultimi mesi, fino a vedere indicati addirittura i nominativi dei “proconsoli” destinati a prendere il comando al momento dell’attuazione del colpo di Stato che la destra sta preparando.
Siamo quindi di fronte a una duplice forma di repressione: quella condotta in avanscoperta dai fascisti, con l’appoggio sotterraneo della polizia e della magistratura, come, appunto, nel meridione, e quella condotta direttamente dalla polizia, come nel milanese, in Piemonte, in Liguria e in Toscana, zone dove l’appoggio dei fascisti era troppo debole e troppo ben contrastato dalle forze della sinistra rivoluzionaria.
Un argomento di riflessione per noi di “Sinistra Libertaria” è quello che riguarda la nostra posizione nei confronti dell’accentuarsi della repressione fascista e poliziesca. La lotta contro questi strumenti dei padroni avverrà in futuro in condizioni sempre più proibitive, per cui saranno necessarie una maggiore disponibilità di tutti i militanti e un sempre migliore approfondimento degli elementi ideologici di fondo che sostengono e rendono possibile la repressione.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Repressione poliziesca e disponibilità rivoluzionaria, in “Sinistra libertaria”, cit., p. 4]
Un volantino contro le elezioni
Elezioni: i padroni hanno vinto, per gli sfruttati resta soltanto la rivoluzione.
I risultati delle elezioni ci hanno indicato ancora una volta, con la maggiore evidenza possibile, che i partiti della sinistra tradizionale non hanno saputo rispondere alle aspettative delle masse. Queste, deluse profondamente dalla lunga attesa riformista, hanno incominciato a perdere la fiducia in questi grossi raggruppamenti di sinistra.
Prima che sia troppo tardi, prima che il popolo cada nell’equivoco proposto dai fascisti, prima che i padroni mettano definitivamente la museruola alle residue forze popolari, è il momento di prendere la via insurrezionale.
Solo con l’azione diretta, con la forza delle armi è possibile ottenere tutto e subito. Solo per questa strada è possibile fare in modo che lo sfruttamento cessi nelle campagne e nelle fabbriche, che le morti bianche finiscano, che i padroni trovino la loro fine, che i loro servi al governo vedano resi inutili gli sforzi di gettare fumo negli occhi del popolo.
Accanto al popolo in armi la sinistra rivoluzionaria deve essere pronta a svolgere la sua funzione di chiarimento e di suggerimento, di responsabilizzazione e di sostegno.
Non bisogna avere paura della repressione, solo sparando si vince.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Elezioni: i padroni hanno vinto, per gli sfruttati resta soltanto la rivoluzione, in “Sinistra libertaria”, cit., p. 2. Questo testo è stato sviluppato da un precedente appunto, sostanzialmente uguale, da me redatto a Milano per la stesura di un volantino]
Feltrinelli
Dalla Strage di Stato siamo arrivati all’omicidio di Stato. I termini del problema sono gli stessi. Ancora non siamo in possesso di tutti gli elementi per potere arrivare a conclusioni documentate ma, fin d’ora, possiamo affermare che ci troviamo davanti a un’altra colossale mistificazione.
Al centro di questa immensa ragnatela, il cadavere di Feltrinelli. Di tutto si è discusso sui giornali della reazione, in questi ultimi tempi, tranne delle vecchie intenzioni della magistratura milanese di arrivare alla spiegazione della morte dell’editore. Sono venute invece alla luce troppo chiare incriminazioni contro organismi di estrema sinistra, di colpo diventati non soltanto avventuristi, ma bombaroli, dinamitardi, attentatori, il tutto con tanto di etichetta e di bandierine segnaletiche. Perché stupirsi di tanta sagacia? Basti ricordare l’altrettanto pronta sagacia messa a punto quando si trattò di incolpare gli anarchici per la strage di piazza Fontana, per avere la certezza che la guerra continua.
Oggi ci resta soltanto un assassinio, non ha molta importanza stabilire se Feltrinelli sia stato ucciso prima o nel corso dell’ “operazione” al traliccio di Segrate, non ha importanza stabilire nemmeno da chi è stato ucciso, restando questo un compito che la magistratura porterà a compimento nei modi e nella soluzione più comodi agli interessi della classe dominante, a noi basta sapere che un militante rivoluzionario è morto nello svolgimento della propria attività. Ogni altro lato della questione è superfluo in quanto equivale ad aspettarsi che veramente la giustizia borghese sia in grado di giungere a mettere in chiaro la verità, cosa che rassomiglia molto a una fede nella forza della democrazia, tipico atteggiamento reazionario. Il rivoluzionario può restare per un momento indeciso davanti a tanta congerie di fatti e di montature, di deduzioni e di volti nuovi che compaiono giornalmente sul palcoscenico di quest’altra grande vicenda nazionale, ma in fondo non deve in alcun modo concedere spazio all’illusione borghese della giustizia. In nessun caso la magistratura, come organismo della repressione, potrà arrivare alla verità, perché sarà sempre soggetta alle direttive di fondo che condizionano e rendono possibile il suo stesso operare. È per questo che il rivoluzionario non deve concedere all’organizzazione del potere che combatte – magistratura, parlamento, ecc. – credito alcuno. Non soltanto la giustizia borghese non ha il diritto di giudicarci, ma facendolo compie uno dei soprusi più chiari e uno degli atti tipici della repressione.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Feltrinelli, in “Sinistra libertaria”, cit., p. 2. Questo testo trae origine da una proposta di volantino discussa e approfondita a Milano con alcuni compagni vicini a “Sinistra Libertaria”]
Valpreda
L’inclusione di Valpreda nelle liste del “Manifesto” ha determinato, all’interno dello schieramento della sinistra rivoluzionaria, una grossa frattura tra coloro che in essa hanno visto una strumentalizzazione a scopo elettorale da parte dei dirigenti del “Manifesto” e coloro che vi hanno visto un estremo rimedio, dettato dallo stato di prostrazione e di sfinimento, in cui si è venuto a trovare un militante allo stremo delle proprie forze.
In effetti, il discorso sulla fondatezza delle due tesi contrarie non ha fondamento rivoluzionario. Non ha senso, infatti, chiedersi se vi sia stata una manovra elettoralistica da parte del “Manifesto”, in quanto in sede di elezioni questo schieramento – per il solo fatto di partecipare al gioco democratico elettorale – viene meno al suo compito rivoluzionario, come pure non ha senso chiedersi se la presentazione di Valpreda sia da considerarsi un “estremo rimedio” a una situazione insostenibile: cosa quest’ultima che se ha un valore per la “persona” Valpreda, non ce l’ha per il problema rivoluzionario nel suo complesso.
È per questo che non comprendiamo come un problema tanto marginale possa avere determinato un simile fiume di inchiostro e tante controverse interpretazioni. Per noi di “Sinistra Libertaria”, la valutazione del fatto è soltanto una: la decisione di Valpreda, sia essa strumentalizzazione del “Manifesto” o prodotto di cosciente valutazione, è un fatto che deve restare a livello personale: un fatto dell’uomo Valpreda, posto da solo di fronte a una sofferenza forse troppo grande per la sua fibra e per la sua resistenza. Al di là di questo episodio marginale resta il problema rivoluzionario, alla soluzione del quale siamo tutti chiamati.
Questo resta intatto: i padroni sono ancora là, la repressione è più efficace che mai, gli intrighi polizieschi sono continuamente orditi. Dalla strage di Stato si è passati all’omicidio di Stato. Nulla è cambiato che possa farci valutare diversamente il nostro programma futuro, anche se Valpreda, un compagno anarchico, si trova nelle liste di un partito che si presenta alle elezioni.
Ancora una volta è nell’azione diretta, nella lotta precisa e contro obiettivi precisi, che devono vertere le discussioni e le valutazioni. Su questi argomenti possiamo ammettere le interpretazioni diverse e – al limite – anche le spaccature determinate da diversi punti di vista, per quanto dolorose siano, ma per il problema della candidatura di Valpreda non possiamo giustificarle.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Valpreda, in “Sinistra Libertaria”, cit., p. 2]
Risposta al Gruppo anarchico “Franco Serantini” di Catania
Siamo venuti in possesso del ciclostilato [vedere sopra a pp. 128-129]. Il tono isterico e il contenuto velenoso dello scritto confermano le prevenzioni, destituite di qualsiasi fondamento, che i componenti il gruppo “Serantini” hanno nei riguardi di alcuni elementi del gruppo catanese di “Sinistra Libertaria”.
Alla pubblicazione del nostro numero unico contenente le tesi programmatiche sono seguite molte repliche di compagni in disaccordo con la nostra linea politica, repliche dirette a sviluppare un’analisi in contrasto con la nostra e a portare elementi probanti e validi per un dibattito utile a tutto il movimento nel suo insieme. A questi abbiamo risposto precisando e approfondendo le nostre tesi.
Al contrario, il gruppo “Franco Serantini” di Catania ha creduto suo preciso dovere fare conoscere a tutti i compagni e non solo a questi, visto che il ciclostilato è stato spedito a tutte le organizzazioni di sinistra e quindi a elementi autoritari che non possiamo certamente considerare compagni, quale era la sua opinione sul nostro lavoro.
Innanzi tutto “Sinistra Libertaria” non è un gruppo locale ma un movimento rivoluzionario che al momento opera in diverse zone del territorio nazionale. Non è vero che è sorto su “discutibile” iniziativa di alcuni ex-compagni allontanati dalla Lega Comunista-Libertaria (precedente nome del gruppo “Serantini”) per “incompatibilità politica”. Questo per quanto riguarda gli errori di fatto. Riguardo l’ottusità e l’incapacità di impostare una critica oggettiva del nostro modo di vedere il problema rivoluzionario, il gruppo “Serantini” ha veramente toccato il fondo.
Partendo dal livore personale di alcuni elementi che hanno visto messa in serio pericolo la loro ridicola posizione di ducetti, si è arrivati a scambiare un astio personale per discorso politico.
Ma la stesura del documento che inviamo a tutti i compagni perché venga meditato, ha tradito i veri scopi di questa gente che non possiamo più chiamare compagni. Il loro eccessivo zelo li ha denunciati per quello che sono: impotenti masturbatori minacciati nella loro pacifica attività di contemplatori da chi vuole muoversi in modo più conseguente all’attuale situazione politica anche a rischio della propria incolumità.
Arrivare a chiamarci fascisti dovrebbe sembrare troppo a chiunque, arrivare a dire che il nostro pugno con il fucile mitragliatore sulla A cerchiata sarebbe roba fascista è soltanto il farneticare di chi, nel desiderio di non dispiacere ai padroni, ha perso il senso dell’attività rivoluzionaria.
Adesso, dopo lo straordinario documento messo in circolazione, ad appena pochi giorni dal convegno anarchico che si deve tenere a Catania [il 30 luglio 1972], con il chiaro proposito di denigrarci agli occhi di tutti senza darci il tempo materiale di intervenire con tempestività e smentire le accuse rivolteci, ci vediamo costretti a ritirare la nostra partecipazione.
Peraltro, in coerenza con la nostra linea politica di collaborazione con tutti i gruppi e compagni anarchici, di fronte alla prospettiva che il convegno proposto dal gruppo “Serantini” di Catania, si trasformi in un’inutile arena di battibecchi personali, proponiamo un contro-convegno, sempre sul tema dell’organizzazione, aperto a tutti i compagni e gruppi anarchici, come pure ai simpatizzanti, a tutti quelli cioè che hanno veramente l’intenzione di stabilire un confronto diretto con il Movimento Rivoluzionario “Sinistra Libertaria”, nella prospettiva di un lavoro comune.
[Questo documento fu inviato a tutti i gruppi anarchici italiani e stranieri, oltre a essere diffuso capillarmente da tutti i gruppi aderenti a “Sinistra Libertaria” nelle diverse zone dove questi ultimi si trovavano a operare. Lo stesso però non venne pubblicato da “Umanità Nova”]
Risposta a “Umanità Nova” e “L’Internazionale”
Avendo letto su… avevamo risposto con una nota ciclostilata inviatavi tempestivamente, ma che non avete ritenuto opportuno pubblicare…
Vi alleghiamo copia di detta nota lasciando a voi la decisione se pubblicarla o meno. Intanto vi precisiamo quanto segue, certi che questa volta, trattandosi di un vostro preciso dovere, non mancherete di pubblicare:
1) Il nostro simbolo lo riteniamo pertinente a un movimento anarchico che si ispira all’azione diretta e si muove in una prospettiva rivoluzionaria. Peraltro non è la prima volta che viene usato all’interno del movimento italiano…
2) Non si fa una critica costruttiva prendendo una singola frase, come “solo sparando si vince” e citandola disinserita dal contesto che la ospita e la giustifica. In questo modo si fa soltanto della polemica fine a se stessa e non si portano avanti gli interessi di tutto il movimento.
3) Il nostro lavoro non si basa sulla teorizzazione astratta della guerriglia ma, come abbiamo dimostrato recentemente, su di una progressiva penetrazione nelle masse operaie e contadine attraverso un lavoro lento che sta dando i suoi frutti in molte zone italiane. Chi volesse maggiori chiarimenti su questo punto, e non si accontentasse delle vaghe affermazioni denigratorie che si vanno facendo contro di noi all’interno del movimento, può prendere contatto direttamente con noi o con uno qualsiasi dei gruppi “Sinistra Libertaria” in Italia.
Cogliamo l’occasione per denunciare che ci è giunta notizia che a Catania, a opera di alcuni elementi del gruppo “Serantini”, sono state messe in circolazione delle voci calunniose riguardo alcuni compagni di “Sinistra Linertaria”, definiti fascisti, agenti provocatori e ex fascisti che usano il gruppo per rifarsi una “verginità politica”. All’occasione potremo indicare i compagni, anche di altri gruppi extraparlamentari, ai quali queste insinuazioni sono state fatte.
Nel respingere nel modo più categorico queste voci che in definitiva costituiscono un danno per tutto il movimento anarchico, richiamiamo tutti i compagni a un maggior senso di responsabilità, mentre, nel caso che queste voci si dovessero ripetere, ci riserviamo qualunque altra azione.
[Si tratta di alcune precisazioni fondamentali che furono inviate, come per la nota precedente, a tutti i gruppi ma non uscirono né su “Umanità Nova”, né su “L’Internazionale”. La vicenda del rifiuto della pubblicazione da parte di “Umanità Nova” è veramente incredibile e quando un giorno la pubblicheremo, in dettaglio, si vedrà in che modo si sia cercato di mettere a tacere la cosa, sostenendo le infami accuse che ci venivano rivolte contro e impedendoci di chiarire le nostre motivazioni su quegli stessi organi su cui le accuse venivano pubblicate. In una lettera del 26 settembre 1972 il “Collettivo redazionale” giocava sull’equivoco rifiutando la pubblicazione e affermando che il gruppo di Catania di “Sinistra Libertaria” aveva lasciato loro libertà di pubblicare o meno. Ma come si vede noi ci eravamo limitati a lasciare a discrezione della redazione la pubblicazione della prima nota contro le infamie propagate dal gruppo “Serantini” di Catania, mentre sollecitavamo la pubblicazione delle precisazioni. Nella stessa lettera, faccenda veramente incredibile, ci si diceva che per chiarire “i motivi del dissenso”, potevamo “chiedere l’intervento della Commissione di corrispondenza della FAI”. Alla nostra richiesta ci veniva però risposto che la domanda non potevamo farla noi, ma che “per norma congressuale la C. di C. poteva intervenire solo se richiesta da un gruppo o federazione aderente alla FAI”]
Risposta al settimanale “L’Espresso”
Nel numero scorso del vostro settimanale abbiamo letto la nota sul Movimento Rivoluzionario “Sinistra Libertaria” e siamo obbligati a un chiarimento che vi preghiamo di pubblicare.
“Sinistra Libertaria” si pone come raggruppamento di militanti anarchici (e quindi ci sembra per lo meno dispersivo parlare di “neoanarchici”) i quali vogliono portare l’attuale indirizzo generale della sinistra rivoluzionaria che si ispira agli intendimenti libertari verso l’azione diretta, interrompendo quella coabitazione col potere che ormai contraddistingue buona parte dei gruppi anarchici ed extraparlamentari di sinistra in genere.
Nell’azione diretta, nella lotta nelle fabbriche, nei campi, nelle scuole, nei quartieri, nella preparazione a quello scontro che i fascisti e la repressione padronale non solo minacciano da tutte le parti, ma attuano con fermezza, noi di “Sinistra Libertaria” vediamo l’unico compito logicamente rivoluzionario degli anarchici e degli altri compagni che, sia pure sotto etichette diverse, hanno un fondamento libertario.
Ormai siamo sotto una dittatura neofascista non solo di nome, ma anche di fatto. Che vale meravigliarsi per le strane sentenze di questi giorni, per i tribunali speciali, per le perquisizioni, per gli arresti a migliaia, se nello stesso tempo non si corre ai ripari preparandosi a quello che sarà lo sbocco logico del momento che stiamo vivendo?
Per quanto riguarda la Federazione anarchica italiana, occorre precisare che essa non rappresenta in alcun modo né il Movimento anarchico, né gli anarchici italiani in genere, essa è semplicemente una delle tante organizzazioni anarchiche. Pertanto non ha alcuna veste per riconoscerci essendo, come noi, una semplice componente del Movimento anarchico.
Viceversa, sono molti i gruppi di varie parti della penisola che hanno manifestato la loro adesione alla nostra linea d’azione. Al momento non possiamo comunicare questi accordi ma i singoli gruppi, se credono, possono farlo autonomamente.
[Il settimanale “L’Espresso” nel numero del 18 giugno 1972 aveva riportato la notizia della nascita del nuovo movimento rivoluzionario della A cerchiata con il pugno chiuso e il fucile mitragliatore, cadendo però in un grave errore di prospettiva per quanto riguardava la nostra posizione all’interno del movimento anarchico e nei riguardi delle altre organizzazioni rivoluzionarie extraparlamentari]
Costruzione nella lotta dell’organizzazione insurrezionale
Verso quali prospettive si indirizza l’organizzazione operaia considerata dal punto di vista autonomo? Anche i tentativi recenti [ottobre-novembre 1972] di concordare a livello nazionale la costruzione di una realtà autonoma operaia organizzata, sulla base dell’esempio di Milano, sono andati a finire nell’ipotesi del partito, con indicazioni politiche ben precise e precostituite.
Al recupero in senso autoritario di queste realtà ha contribuito anche “Soccorso Rosso”, agendo, appunto, da racket minoritario, con lo scopo di far passare per decisione autonoma della classe quello che era invece una posizione politica di vertice. Ciò conferma la necessità di un’organizzazione rivoluzionaria che sia realmente autonoma.
Le diverse esperienze di questi ultimi anni, nelle fabbriche, nelle scuole e nei quartieri hanno dato risultato negativo a causa del rapporto impreciso e approssimativo col territorio. Non si è, in sostanza, riuscito a superare il limite settoriale, ricucendo le esperienze nell’àmbito della realtà dello scontro. Grave, per esempio, l’ostacolo – e spesso gravissima la contrapposizione – tra zone produttive e zone dormitorio della stessa città.
Considerando la cosa nel senso contrario, è proprio nel territorio che si constata l’azione repressiva e di reperimento del consenso.
Abbiamo quindi bisogno di superare la settorialità e la particolarità degli organismi di massa che nascono e muoiono impossibilitati a stabilire contatti rivoluzionari.
In questo senso possiamo parlare della necessità di strutture territoriali, con una indicazione politica sufficientemente unitaria.
La funzione dello Stato oggi ha carattere di prevenzione, di coordinamento delle attività produttive, di integrazione nei difetti del progetto capitalista e di controllo nella circolazione delle idee e dei comportamenti.
Per attaccare lo Stato occorre una strategia complessiva che passa attraverso l’insurrezione come elemento di sviluppo del processo rivoluzionario.
Il compito del rivoluzionario anarchico è quindi quello della costruzione dell’organizzazione insurrezionale, attraverso il lavoro di massa e legando le strutture minimali di intervento alle singole realtà territoriali.
È stato detto che tutto ciò somiglia molto a una specie di universalizzazione del classico “servizio d’ordine”. Niente di più sbagliato. Col termine “insurrezione” intendiamo la creazione, nella classe operaia, di nuclei insurrezionali. Ciò è possibile solo attraverso una estensione di massa delle strutture che esistono, fin da ora, all’interno del movimento. Prepararsi per una difesa militare del territorio, per vincere nello scontro contro la polizia e contro i fascisti.
Questo è il senso in cui parliamo di costruzione dell’organizzazione dell’insurrezione nella lotta e nel territorio.
[Scaletta di alcuni interventi e conferenze tenuti nel Veneto e in Friuli nel corso del mese di settembre 1972]
Risposta alle critiche
Il problema dei rapporti con gli altri gruppi e con la base del PCI deve essere visto in funzione dell’incidenza della componente libertaria. Tranne i casi patologici degli autoritari in assoluto (“Movimento studentesco”, “Servire il popolo” e qualche altro schieramento meno importante), gli altri gruppi e movimenti, oltre alla base del PCI, sono davanti a noi per un discorso che si può e si deve aprire.
L’instaurazione di queste collaborazioni è stata fatta, fino a oggi, nei piccoli centri, a livello di collettivi e non ha dato buoni risultati. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che ogni partecipante al collettivo è rimasto chiuso all’interno della sua linea politica e non ha cercato veramente una collaborazione e tanto meno una prospettiva di azione comune su fatti concreti.
La chiarezza delle premesse ideologiche è l’altro elemento che, mi sembra, rende possibile l’azione diretta. Essa deve essere cercata sempre e continuamente nei raffronti periodici con le altre organizzazioni e gruppi anarchici, come pure nei rapporti con i movimenti dell’estrema sinistra non anarchica. Noi siamo anarchici e rivoluzionari. Il nostro programma è chiarissimo. La prospettiva della lotta armata, dell’azione diretta, del rifiuto di ogni analiticità spinta fino all’eccesso, la ricerca di ogni occasione insurrezionale, sono i nostri strumenti di contatto e di penetrazione nelle masse. Il nostro messaggio è diretto sempre alle masse, non alle avanguardie rivoluzionarie che possono facilmente trasformarsi in minoranze autoritarie, restrittive delle libertà individuali. È un messaggio che realisticamente si pone il problema di arrivare alle masse veramente e non soltanto teoricamente.
La prova che questo modo di proporre il messaggio rivoluzionario alle masse è l’unico possibile, è data dal fatto che è l’unico modo colpito con sistematicità e intensità dal potere. Quando oggi un gruppo anarchico si presenta davanti a una fabbrica per un’azione generica di volantinaggio, per lo più diretta a inculcare alcuni princìpi generali di lotta contro il padrone, princìpi che possono anche essere oggettivamente validi, ma che mancano di quella prospettiva generale di sostegno e di aiuto concreto che l’operaio in lotta si aspetta, si ottengono due risultati: l’operaio legge il volantino, inizia qualche discussione con i compagni, forse sente per la prima volta parlare di anarchia, ma poi ritorna ad ascoltare la voce più suadente e tranquilla dei sindacati. L’altro risultato è che il potere costituito manifesta chiaramente la sua adesione a questo tipo di lotta, e lo fa non intervenendo, conscio com’è del fatto che, in definitiva, non c’è niente di grave a fare i rivoluzionari in quel modo.
Nel caso in cui il messaggio venisse inviato in forma indiretta, a seguito dell’attuazione di un fatto insurrezionale, di un fatto concreto di natura rivoluzionaria, la ricezione da parte delle masse sarebbe immensamente più grande. D’altro canto, anche più grande sarebbe la repressione.
In effetti, con quali possibilità ci possiamo presentare sul piano delle prospettive delle lotte operaie e contadine se abbandoniamo la nostra matrice rivoluzionaria e accettiamo la prospettiva del più tradizionale sindacalismo? Il nostro discorso potrebbe essere recepito come discorso nuovo, ma finirebbe ben presto per cadere nella vacuità delle parole se non appoggiato da fatti concreti che, a posteriori e sul piano del lavoro sindacale vero e proprio, la nostra organizzazione non potrebbe mai attuare. Avremmo ancora una volta parlato al vento e sprecato quel tanto di penetrazione che si era raggiunta nelle masse attraverso i sacrifici personali dei singoli militanti.
Sentivamo, non molto tempo fa, il discorso amareggiato di un compagno operaio a Milano, che aveva lavorato per quasi un anno nel quartiere delle case popolari e che aveva visto crollare tutto il suo lavoro, in pochi giorni, a causa dell’oggettiva impossibilità del movimento di impedire un comizio fascista nel quartiere e di partecipare attivamente alla lotta per l’occupazione di un caseggiato da parte di alcune famiglie senza casa. Si tratta delle solite carenze. Da un lato si preferisce la strada più facile – quando si tratta di lavorare sulla propria pelle – ed è quella delle parole e della penetrazione attraverso la semplice propaganda, dall’altro poi si chiudono gli occhi davanti alle incapacità e alle impossibilità evidenti dei nostri gruppi, e si finisce per ritornare sugli stessi passi e ripetere gli stessi errori.
La chiarezza ideologica deve essere pertanto anche chiarezza sui limiti e sulle prospettive, come pure sui compiti. Al momento non siamo un movimento che annovera migliaia di militanti. La nostra penetrazione nelle masse è ancora allo stato iniziale. Le nostre prospettive di lavoro, sul piano della semplice propaganda, sono almeno a tempi lunghi. Ma, d’altro canto, il nostro è un compito rivoluzionario. Noi non siamo quelli che parlano sempre di rivoluzione, per poi accettare il compromesso del Parlamento o delle altre istituzioni borghesi. La nostra attività deve restare sempre coerente e, se coerente, rivoluzionaria. Non possiamo aspettare che le nostre forze crescano per poi dare inizio all’azione, ma all’inverso le nostre forze cresceranno in funzione dell’azione rivoluzionaria che sapremo portare avanti.
Non basta inoltre un discorso genericamente di critica alle istituzioni per fare, oggi, un discorso rivoluzionario. Lo Stato democratico moderno si fonda sulla critica e trova in essa il proprio alibi per coprire lo sfruttamento e il genocidio. Ma deve trattarsi di una critica fatta in un certo modo e con certe garanzie di inefficienza concreta. Guai se un movimento rivoluzionario cade nella trappola di questa critica: da un lato rende inefficace il suo discorso verso le masse, perdendo il contatto con queste ultime, dall’altro si abitua alla coabitazione con il potere, smarrendo ogni forza d’urto rivoluzionaria. Invigliacchendosi fino a questo punto, i compagni finiscono spesso per perdere il senso della prospettiva anarchica e, come qualsiasi borghese, si indirizzano verso quei valori contro i quali dovrebbero combattere accanitamente. Non è raro il caso di trovare compagni anarchici che svolgono una professione o hanno un impiego statale o privato, che hanno preoccupazioni scolastiche o di carriera, che sono proprietari di aziende e sfruttatori loro stessi. È logico che tutti costoro non possono di certo essere militanti, salvo a ipotizzare una consorteria di tipo massonico o mafioso che consenta l’azione sotterranea in un certo senso e una superficiale patina di ufficialità in senso opposto, cosa assolutamente da escludersi nel caso dell’azione anarchica. Ma il caso più strano è che alcune di queste persone finiscono per indirizzare molta parte del movimento in senso riformista, cioè nel senso di dare il meno fastidio possibile al potere costituito, ingenuamente – vogliamo sperarlo – sovrapponendo i propri interessi personali o la propria personale visione dei valori della vita, agli interessi e alla prospettiva rivoluzionaria. I giovani, da canto loro, quelli che entrano adesso nelle nostre fila, di fronte a un’alternativa più radicale, finiscono per trovare più comoda la prima – quella della coabitazione con il potere – e finiscono per meravigliarsi e spaventarsi se qualcuno parla loro della seconda alternativa, cioè di lotta armata o di azione diretta, ecc. In questa prospettiva una semplice visita della polizia diventa un dramma, un semplice interrogatorio una catastrofe che quasi sempre coinvolge altri compagni e così via.
Il nostro rapporto con lo Stato e il capitale deve essere mantenuto nei termini in cui da questo nostro nemico possiamo trarre il sostentamento per noi e per quelle persone a noi vicine cui dobbiamo provvedere. Se un certo tipo di rapporto – poniamo un impiego a un certo livello o un impiego statale – ci pone certe condizioni e certi rapporti col potere, deve essere immediatamente scartato e si deve preferire un altro lavoro. Ritenere che si possano far coesistere i due estremi è sbagliato. Prima o poi si finisce o per romperla definitivamente o per accettare la scala dei valori voluta dal potere. Caso tipico è quello degli insegnanti. Da un lato credono di riuscire, tramite il posto che occupano, a trasmettere ai loro allievi un certo messaggio, dall’altro finiscono per smussare questo messaggio – proprio allo scopo di renderlo possibile – al punto che non lo si può riconoscere per un messaggio libertario. Nel caso non siano sufficientemente bravi nello smussare il messaggio, il potere provvede immediatamente a metterli fuori gioco. Si tratta di un caso emblematico che serve per ogni tipo di rapporto con il potere.
Bisogna quindi capire, quando parliamo di agibilità politica, che lo spazio che ci illudiamo di possedere non è tanto quello che ci siamo conquistati, ma quello che ci è stato dato in pagamento delle nostre prestazioni. Noi abbiamo collaborato con il potere e siamo stati pagati con la possibilità di esistere. Ma esistendo in un certo modo, cioè nel modo determinato dalla logica dei padroni e dalla loro cosiddetta democrazia, la nostra esistenza equivale alla morte. Perdendo la nostra incidenza rivoluzionaria diventiamo codisti nello schieramento riformista tradizionale, parenti poveri nemmeno presi in considerazione e, quel che è peggio, nemmeno considerati dalle masse.
Il nostro spazio lo dobbiamo invece conquistare attraverso la lotta e attraverso il fatto insurrezionale. Se, dato il rifiuto della coabitazione, verremo attaccati dovremo rispondere con i mezzi che la guerra richiede, senza mezzi termini e senza titubanze. Faremo così un discorso alle masse, spingendole a impadronirsi di ciò che loro spetta, dei mezzi di produzione e spiegando loro come il metterli in comune sia l’unica soluzione libertaria praticabile. Ma per fare questo dovremo essere costantemente presenti nel fatto insurrezionale, gestirlo per quanto possibile con le nostre forze attuali, studiare sempre fatti nuovi, educare alla lotta armata e alla rivolta permanente contro lo Stato.
Identifichiamo con precisione il nemico che dobbiamo combattere: l’istituzione in senso generico e le persone che la concretizzano in senso specifico. Se dicessimo, come affermano alcuni compagni: noi combattiamo la polizia e non i poliziotti, saremmo ipocriti o imbecilli. Una distinzione del genere non è possibile. Noi combattiamo la polizia e i poliziotti, anche se, sul piano dell’origine sociale, questi ultimi possono essere facilmente proletari e sfruttati. Indirizzare a questa gente un discorso critico è tempo sprecato, esso ha poche speranze di venire recepito, dato il grave stato di inglobazione. Quando vediamo i poliziotti davanti alle fabbriche, nelle piazze, davanti alle scuole, nelle scure stanze della questura, pronti a buttarci dalla finestra e a torturarci, pronti a ucciderci brutalmente come hanno fatto con Franco Serantini, allora vediamo chiaramente nei poliziotti il nostro nemico. Lo stesso discorso vale per la burocrazia, la magistratura, l’esercito e ogni altra istituzione repressiva al servizio del padroni.
Riguardo la classe dei capitalisti in modo specifico non sono mancati quei compagni che hanno avanzato un’acuta analisi sul capitalismo attuale, spiegandoci come ormai non si possono più identificare dei padroni. Le società multinazionali hanno fatto diventare evanescente il concetto di padrone. Siamo davanti al solito tentativo di alzare una cortina di fumo davanti alla forza distruttiva delle masse sfruttate. Purtroppo i padroni non fanno sofismi, non vanno per il sottile. La loro regola è l’ingiustizia e lo sfruttamento. Le nostre lotte saranno sempre giuste fin quando le sapremo mantenere contro questa realtà. Ogni atto che porteremo a compimento contro i nostri sfruttatori e contro i loro servi sarà sempre giusto.
La situazione in cui ci troviamo in Italia è obiettivamente una situazione di guerra. I nostri nemici attaccano nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole, attaccano con tutti i mezzi: con quelli della loro legalità e con quelli della loro illegalità, quando non sono più sufficienti le leggi attaccano con le bombe e con le stragi, dal canto nostro continuiamo a baloccarci con i se e con i forse, con le analisi più o meno categoriche, con i princìpi sacri dell’anarchismo, con tante altre cose che sono bellissime ma che non sposteranno di un centimetro l’ingiustizia e lo sfruttamento.
Altre formazioni rivoluzionarie, in particolare i marxisti, hanno capito prima di noi la necessità di combattere con armi vere il fronte padronale e non solo con quelle a lunga gittata dell’educazionismo e del chiarimento ideologico, e sono andati avanti dal loro punto di vista. Noi siamo rimasti indietro. Nel caso di uno scontro armato oggi non si avrebbe una vera e propria componente libertaria, per quanto minima.
Intendiamo per azione diretta la presenza costante nelle lotte operaie e contadine, presenza intesa in senso effettivo e non solo come contributo di idee. La tecnica di partecipazione a queste lotte potrà essere assai diversa, a seconda del momento e del settore, ma avrà sempre la caratteristica rivoluzionaria della lotta diretta contro il padrone, della spinta verso l’espropriazione, dell’autogestione e dell’organizzazione in comune e su basi libertarie.
Allo stesso modo intendiamo per azione diretta il fatto insurrezionale. Continuamente presenti nelle lotte operaie e contadine, cercheremo di proporre, di volta in volta, quando se ne presenterà l’occasione, lo sbocco insurrezionale della lotta. Non crediamo a tutte quelle analisi che, partendo da luoghi comuni o da preconcetti di origine borghese, affermano categoricamente che questo non è un momento adatto per sollecitare il fatto insurrezionale. Può essere che questi teorici siano nel giusto quando dicono che le forze oggi in gioco sono senz’altro più complesse di quelle che si avevano cent’anni fa, ma questi compagni dimenticano che la storia viene fatta dalla volontà dell’uomo e non soltanto dai fatti. Volere la rivoluzione non è un atteggiamento avventuristico più di quanto sia avventuristico affermare che questo non è il momento della rivoluzione, solo che questa seconda eventualità è di gran lunga più comoda.
La proposta insurrezionale diventa pertanto strumento propedeutico alla rivoluzione. Diventa un modo di educarsi alla rivoluzione, un modo di prospettarsi la rivoluzione come una cosa possibile e non come roba che si studia sui libri, che i nostri predecessori hanno magari tentato – sempre per una loro particolare ottusità d’indagine – ma che oggi è ormai da mettersi in soffitta. Quando poi tra i nomi di questi nostri predecessori troviamo Bakunin, Kropotkin, Malatesta e altri, allora si ricorre all’alibi della differente condizione economico-politica dell’epoca e a tante altre storie per allungare il brodo.
Abbiamo detto che il punto centrale di unificazione, per noi di “Sinistra Libertaria”, è la lotta diretta. In questo modo trova chiarificazione il nostro concetto organizzativo.
Pensiamo che un’organizzazione per non trasformarsi in breve in un apparato burocratico deve essere funzionale, cioè costantemente diretta allo scopo per cui fu creata, impedendo le sovrastrutture e le incrostazioni che finiscono per spingere l’organizzazione stessa a cercare di sopravvivere, prima di tutto, come organizzazione e poi cercare di raggiungere lo scopo iniziale. In questa prospettiva la lotta diretta costituisce lo scopo dell’organizzazione che risponde al nome di “Sinistra Libertaria”. Pertanto non è la vasta rete di gruppi, che finisce per trasformarsi in una grossa struttura centralizzata e burocratica, quella che cerchiamo di costituire, ma un’organizzazione di gruppi autonomi sotto ogni punto di vista – sia per quanto concerne il nome del gruppo che per quanto si riferisce alle componenti ideologiche – uniti soltanto dall’ispirazione libertaria e dalla fiducia che l’azione diretta costituisce l’unica strada verso la rivoluzione e la formazione di una società futura capace di reggersi su basi libertarie.
[Si tratta della traccia, più volte discussa con molti compagni, di un articolo teorico che sarebbe dovuto uscire nel secondo numero di “Sinistra Libertaria”, numero mai pubblicato sia a causa della repressione poliziesca che a causa delle tremende polemiche e diffamazioni messe in giro, all’interno del movimento anarchico e rivoluzionario, da un ben concertato gruppo di infami]
Un documento dei gruppi friulani di “Sinistra Libertaria”. Per i contratti
La situazione attuale alla vigilia della conclusione delle lotte contrattuali [settembre 1972] presenta alcune caratteristiche ben precise:
1) La decisa svolta a destra del governo ha consentito una risposta in prima persona dello Stato nelle lotte attraverso un notevole aumento della repressione. Questa si sta attuando con un aumento dei contingenti di polizia e una serie di iniziative della magistratura, il tutto diretto a ottenere un clima intimidatorio favorevole ai padroni. La polizia attacca i picchetti degli scioperanti, intervenendo duramente nel corso delle manifestazioni. La magistratura colleziona denunce come quella contro i cinquecento compagni di Torino. I fascisti, da canto loro, rispondono all’appello dello Stato intensificando le azioni contro le lotte di massa.
2) Le centrali sindacali, dopo l’esperienza delle lotte degli operai, condotte negli ultimi tempi con una notevole spinta al di fuori degli schemi e delle direttive centralizzati, hanno per tempo proposto una piattaforma rivendicativa sicuramente perdente, definita dal capobanda dei capitalisti Guido Carli: “una scelta responsabile”.
3) I padroni hanno interesse al rilancio della produzione per continuare lo sfruttamento. Per fare questo devono: da un lato, ottenere dallo Stato la massima protezione contro le rivendicazioni della classe proletaria, dall’altro, devono ottenere dai sindacati la garanzia che la piattaforma presentata sia veramente inefficiente e che possa essere immediatamente riassorbita da un aumento del livello generale dei prezzi, cosa che raggiungerà vertici eccezionali in occasione dell’entrata in vigore dell’IVA.
Il nostro programma di lotta per le prossime scadenze contrattuali si articola su questi obiettivi:
a) sviluppo degli organismi e della socializzazione delle lotte (grandi e piccole fabbriche, quartieri, paesi, contadini poveri, braccianti, disoccupati, scuole),
b) salario garantito, per unificare le lotte degli occupati e dei disoccupati,
c) 36 ore a parità di paga (già chieste nel ‘69) per diminuire il lavoro, la disoccupazione e la nocività,
d) eliminazione delle categorie e dei livelli di qualificazione, per unificare i dipendenti di una stessa fabbrica,
e) gratuità dei costi sociali (casa, mensa, trasporti, scuole, asili, ecc.),
f) controllo proletario sui prezzi, come momento di unificazione tra lotte di fabbrica e lotte sociali.
Ma questi obiettivi costituiscono un programma di massima che resterebbe sulla carta se venisse affidato soltanto alla pura rivendicazione sindacale. Si tratta di conquiste che vanno ottenute con la lotta violenta e con l’espropriazione.
Molte forme di lotta attuate fino adesso sono state facilmente recuperate dal sistema: occorrono quindi forme di lotta diverse. Se la polizia attacca i picchetti di operai che impediscono l’azione vergognosa dei crumiri, dobbiamo attaccare la polizia. Se i fascisti si presentano davanti alle fabbriche chiamati dal denaro del padrone, dobbiamo attaccare i fascisti. Se i padroni non vogliono capire che è venuto il momento di uno scontro ben diverso da quelli che si sono fatti in passato, dobbiamo costringerli con la forza alle concessioni e procedere all’espropriazione rivoluzionaria di quanto non viene concesso.
Il proletariato ha già capito la necessità di questo tipo di lotta e l’ha già attuata in moltissime occasioni. Nel luglio del ‘70 a Trento i proletari mettono alla gogna i fascisti responsabili dell’accoltellamento di alcuni compagni: solo la polizia li salva da una giustizia sommaria. Nell’agosto del ‘70 a Porto Marghera la polizia spara sugli operai e questi reagiscono con le barricate mettendola in fuga. Nel ‘71 gli operai della Zanussi picchiano a più riprese i crumiri e gli impiegati della sede di Oderzo. E moltissimi altri esempi potremmo elencare.
I sindacati hanno potuto recuperare queste esplosioni spontanee di lotta avanzata perché mancava una chiara coscienza politica alla base delle masse proletarie. Adesso ci si può rendere conto che queste lotte debbono essere organizzate, al di fuori dei sindacati, dagli stessi operai, visto che la situazione politica non consente altro tipo di lotta.
Dalle fabbriche ai quartieri, dalle caserme alle campagne ci dobbiamo organizzare negli organismi di massa attaccando decisamente i padroni e i loro servitori in divisa e senza divisa, per eliminare lo sfruttamento e gettare le basi della futura società comunista e libertaria.
[Si tratta di un volantino distribuito a Pordenone nel corso di una lotta alla Zanussi, nel settembre del 1972, e poi utilizzato come base per la redazione di altri volantini, dello stesso tipo, redatti nel corso di altre lotte verificatesi in altre zone del Friuli e del Veneto]
Bozza di un volantino realizzata nel corso dell’occupazione delle case a Milano
Nel corso delle lotte più recenti, ormai purtroppo in via di conclusione, sono emersi alcuni elementi che devono fare riflettere.
In negativo si colloca l’eventualità di continuare una lotta basata sui mezzi che si sono rivelati perdenti fino a oggi, come, per esempio, lo sciopero dell’affitto senza sbocco politico, l’autoriduzione e anche la stessa occupazione isolata e spesso causa di contrasti tra sfruttati, determinati dalla scarsa coscienza rivoluzionaria che non siamo stati in grado di far crescere.
In positivo si delinea un tipo di lotta più organizzata, che tiene conto degli errori passati che si possono riassumere tutti nel restare isolati e nel non riuscire – tranne casi sporadici – a legare con le lotte nelle fabbriche e nelle scuole.
Un altro elemento da considerare è quello che deriva dalla incapacità di organizzare efficacemente la difesa delle occupazioni, non solo contro la polizia, ma anche contro le infiltrazioni e le provocazioni dei fascisti.
Da tutto quanto precede occorre quindi puntualizzare che:
1) siamo contro l’isolazionismo delle lotte per la casa,
2) siamo contro la settorialità che impedisce un allargamento alle lotte delle fabbriche e delle scuole,
3) siamo contro le alleanze interclassiste proposte dalle forze che si dicono sostenitrici delle lotte per la casa ma che sono al servizio di interessi esclusivamente politici,
4) siamo favorevoli alla creazione di un’organizzazione rivoluzionaria anarchica che possa sostenere dall’esterno le lotte di tutti coloro che hanno bisogno della casa,
5) siamo favorevoli a estendere la lotta dal settore pubblico al settore privato, sviluppando un’organizzazione che leghi insieme gli occupanti con gli inquilini delle case vecchie,
6) siamo favorevoli all’occupazione delle sedi di organismi pubblici (municipio, ecc.) responsabili del problema della casa, purché si evitino le pessime esperienze e le approssimazioni dell’occupazione di Palazzo Marino dell’aprile di quest’anno [1972],
7) siamo favorevoli alla continuazione della lotta.
[Bozza di un volantino realizzata a Milano alla fine di novembre 1972 e discussa con alcuni compagni nel corso di un intervento nella lotta per la casa. Il gruppo di compagni si rifaceva in modo informale a “Sinistra Libertaria”]
Relazione al Convegno pisano di “Sinistra Libertaria” [22-23 aprile 1973]
Questo convegno di Pisa cerca di porsi come base per un discorso di chiarificazione che, muovendo da una certa sigla o da un certo raggruppamento, tenta di aprirsi a una strategia alternativa all’assenteismo e al riformismo ormai imperanti nelle componenti faiste del movimento anarchico.
Col termine “faisti” indichiamo qui, secondo la nostra analisi, tutti quei gruppi e quei singoli militanti che, sia pure aderenti o non aderenti alla FAI, perseguono, in sostanza, una politica di attesa – non si sa di che – e di cautela portata all’estremo del ridicolo, giungendo a eccessi che non è il caso qui di precisare ma che riteniamo caratteristici di una posizione quanto meno “riformista” se come tutti consideriamo l’anarchismo quella dottrina dell’azione e della spinta rivoluzionaria all’interno delle masse, continuamente perseguita, che è sempre stato, in qualsiasi momento della sua storia.
Ci è stato detto: perché “Sinistra Libertaria”? Perché parlare di “sinistra” quando l’anarchismo non si pone problemi di schieramenti parlamentari? E, poi, non è quanto meno controproducente parlare di “Sinistra Libertaria”, pretendendo poi di fare un discorso di apertura agli altri gruppi rivoluzionari? Pur partendo dal presupposto che ogni critica ha un certo fondamento di verità, e pur considerando la scelta della sigla cosa puramente marginale, in quanto noi siamo prima di ogni cosa ed essenzialmente anarchici, quindi operiamo all’interno e con la logica del movimento anarchico, dobbiamo precisare che “Sinistra Libertaria” ha una sua ragion d’essere in quanto oggi, nella prassi politica, dobbiamo affermare che l’anarchismo si pone, come dottrina e come azione, accanto alle sinistre rivoluzionarie, sebbene da queste si discosti, fondamentalmente, per la sua irriducibile tematica antiautoritaria, di autogestione e di crescita sociale. Non è che qui si voglia fare del parlamentarismo – come alcuni compagni, specie gli anziani, hanno temuto, sentendo parlare di “sinistra” – ma solo si vuole evitare che alcuni mestatori politici ripresentino la vecchia storia di un fantomatico anarchismo di destra, oltre a potere evitare che, di volta in volta, nelle piazze e nelle lotte, si sia costretti a precisare che noi siamo dalla parte degli sfruttati e degli operai e quindi, secondo una nomenclatura ormai entrata nell’uso, siamo “di sinistra”.
All’indomani delle elezioni del ‘72, dopo il clamoroso assassinio di Feltrinelli, dopo l’intensificarsi della repressione, specie nel meridione, usciva il nostro numero unico “Sinistra Libertaria”, contenente le nostre tesi e una serie di articoli nei quali analizzavamo gli avvenimenti più importanti del momento: il fatto Feltrinelli, il fatto Valpreda e altri fatti non meno sintomatici, anche se meno noti.
La proposta di fondo, che appariva chiaramente dal foglio, era che il fallimento della tesi riformista del PCI aveva determinato, specie in Sicilia, una grossa ripresa del partito neofascista, con punte massime a Catania, a Messina e in altri piccoli centri. Se a questo si aggiungeva la situazione di Reggio Calabria, si aveva una misura abbastanza vicina alla realtà delle responsabilità di questo grosso schieramento che ormai ha tradito la matrice ideologica di partenza. Accanto al tradimento del PCI, emergeva anche una chiara indicazione negativa verso il responso elettorale, capace di dare spazio solo alle forze che vivono alle spalle del popolo, e questo lo abbiamo denunciato chiaramente, indicando la strada verso una realizzazione più concreta ed efficace delle prospettive proletarie: la strada del fucile, cioè la strada della rivolta, dell’insurrezione, dell’organizzazione antistatale e quindi antigovernativa e antiburocratica, della organizzazione antimilitarista, in una parola, della lotta contro il potere in tutte le sue forme, lotta concretamente poggiata sulla base di un’organizzazione che al limite prevedesse anche l’attacco frontale contro lo Stato e le sue emanazioni.
Uno dei punti chiave della nostra analisi e, sotto certi aspetti, uno dei punti forse meno approfonditi, era la proposta generica di una collaborazione di lotta con le altre forze rivoluzionarie. Purtroppo, subito dopo l’uscita delle tesi non ci fu possibile approfondire l’argomento, certo molto importante, lasciando, quindi, campo libero a tutti coloro che, nella genericità della nostra affermazione, hanno voluto vedere chissà quali cedimenti e chissà quali compromessi.
Siamo dell’opinione che, al di sopra di certi dissensi insanabili di fondo, una possibilità di collaborazione sulla base di un programma insurrezionale è possibile costruirla con la sinistra rivoluzionaria che si ispira a intendimenti libertari. Ma bisogna intendersi bene su queste parole. Non vogliamo un’unione che accomuni prospettive autoritarie e prospettive anarchiche e quindi antiautoritarie, sappiamo bene quanto queste unioni valgano ai fini concreti in termini di risultati acquisiti dal proletariato. Viceversa, però, siamo anche convinti che la rivoluzione non la facciamo noi anarchici, come non la fanno le avanguardie marxiste: la rivoluzione la fa il proletariato, l’intero popolo, di cui gli anarchici sono una piccola minoranza, come lo sono gli autoritari marxisti e i cosiddetti marxisti libertari.
Non vedere oggi [1973], con le prospettive che continuamente ci vengono dalla piazza, spesso in mano alle manovre fasciste, con una situazione economica decisamente sfavorevole a una ripresa del ciclo capitalistico e quindi costretta a mezzi che, di solito, non vengono usati che in casi di estrema gravità, non vedere la necessità di un discorso di collaborazione, riteniamo sia gravissimo per il movimento anarchico. Significa non essere presenti nel momento in cui possibili modificazioni nella stessa strategia autoritaria potrebbero essere imposte dallo scontro di classe, sensibilizzando proprio quelle frange più titubanti e meno legate agli schemi rigidi del marxismo-leninismo. Queste modificazioni potrebbero verificarsi e rendere allora molto significativo il processo di collaborazione iniziato oggi, in momenti in cui ancora tutto è possibile. Al contrario, potrebbero non verificarsi e allora i nostri critici saranno i primi a gridare ai quattro venti di avere avuto ragione, ma noi riteniamo che valga la pena di proporre queste analisi. Restare isolati significherebbe o staccare dalle lotte proletarie la pur piccola minoranza di sfruttati che oggi si richiamano agli ideali libertari e, fatto anche più grave, staccarci noi stessi, come movimento, dalle lotte effettive, e restare in un canto, a guardarci le unghie o a rovistare nelle nostre vecchie glorie.
Il fatto insurrezionale ha anche, a nostro avviso, una notevole componente costruttiva, oltre l’ovvia componente distruttiva. Si presenta come fatto propagandistico di notevole livello, come fatto che trasmette idee e che può essere utilizzato per approfondire e chiarire idee trasmesse in precedenza e rimaste bloccate nella forma tradizionalmente nebulosa delle ipotesi astratte. Non neghiamo validità ai modi consueti di fare propaganda (volantini, manifesti, ciclostilati, comizi, conferenze, dibattiti, manifestazioni, ecc.), tutt’altro, questi modi vanno impiegati e approfonditi, ma al di là di essi deve essere tenuto presente il modo principale, per un anarchico, di fare propaganda costruttiva: essere presente attivamente nel fatto insurrezionale, coglierne i segni premonitori, sentire quasi fisicamente l’emergere della ribellione, essere presente fisicamente e idealmente all’esplosione popolare, non indietreggiando davanti al pericolo e lottando contro ogni forma di strumentalizzazione dell’insurrezione da parte di ristrette avanguardie di ogni genere.
Togliendo questo, con quali possibilità ci possiamo presentare sul piano delle lotte operaie e contadine? Abbandonando la nostra matrice rivoluzionaria non ci resta forse soltanto l’accettazione supina e infelice del più trito dei sindacalismi, proprio perché diventerebbe, nelle nostre mani, il più efficiente strumento riformista? Le nostre idee e la nostra propaganda – tutte belle parole – potrebbero anche essere recepite come un discorso nuovo, ma finirebbero ben presto per cadere nel vuoto senza l’appoggio di fatti concreti: avremmo ancora una volta parlato al vento sprecando quel tanto di penetrazione che si è raggiunta nelle masse attraverso i sacrifici personali dei singoli compagni.
[Testo parziale della mia relazione al Convegno di “Sinistra Libertaria” del 22-23 aprile 1973, tenutosi a Pisa]
La politica come scienza del mantenimento di uno stato di malattia non estremamente grave
L’analisi frettolosa di chi giudica “in via di decomposizione” l’attuale struttura socio-economica italiana, analisi che possiamo leggere direttamente o tra le righe di molte considerazioni politiche, non coglie un punto focale: il rapporto tra degenerazione economica e risorgenza di certe forme reazionarie che sembravano definitivamente sepolte sotto gli orpelli costituzionali.
Affermare, come è stato fatto, che le norme costituzionali bastano da sole a garantire ogni tentativo di colpo di Stato o di svolta a destra verso regimi che, ovviamente, non possono definirsi democratici, ci sembra oltremodo assurdo.
In questo senso, cioè nella prospettiva di una strategia della tensione attuata dai fascisti in Italia – sulla cui esistenza non è più legittimo chiudere gli occhi – sorgono spontanee alcune domande che, purtroppo, non trovano risposta.
Vediamo di elencarle:
1) Perché il meridione è teatro più ampio e fruttuoso delle gesta fasciste (non ultimo l’assalto in grande stile alla sede del Partito comunista a Catania)?
2) Perché decine di processi contro militanti della sinistra, per la maggior parte sulla base del reato di vilipendio a mezzo stampa o di incitamento alla rivolta?
3) Perché nei discorsi dei procuratori generali dei capoluoghi del meridione non è stato fatto cenno a questo fenomeno che pure occupa tempo dei magistrati e denaro dello Stato?
4) Perché pubblicazioni sostanzialmente identiche nel contenuto vengono lasciate circolare liberamente al Nord e perseguite, con denunce e arresti, al Sud?
In sostanza ci troviamo di fronte a una struttura statale malata. Non è vero, come è stato sostenuto, che alcuni individui, rivoluzionari per virtù dello spirito santo, si dedicano a sobillare il popolo che, passivamente, accetta il loro discorso “facendo” la rivoluzione. Questo concetto è almeno vecchio di un secolo e mezzo. Il popolo non si lascia tanto facilmente “manomettere” o sobillare. Solo le condizioni oggettive di sfruttamento e di vergognosa schiavitù in cui è ridotto dalla rapina capitalista lo dispongono verso una eventuale soluzione rivoluzionaria. Coloro che si fanno interpreti di questo dato di fatto, chiarendolo con la parola e lo scritto, precisandone i contorni e le problematiche, non sono “rivoluzionari calati dall’alto”, ma semplici portavoce delle masse, componenti essi stessi la massa.
Si spiega così come una società malata produca l’istinto di rivolta nel popolo, come gli sfruttatori si coalizzino chiamando a raccolta, in difesa del loro denaro, tutte le forze peggiori della società che, per comodità di termine, indichiamo come fascisti, si spiega anche come alcuni uomini del popolo, in nome di quest’ultimo e insieme a quest’ultimo, traducano in forma intelligibile il sentimento di rivolta popolare, il desiderio di una nuova forma di vita, di una nuova organizzazione di lavoro, più umana e ugualitaria.
Da canto loro gli organi dello Stato, e in modo particolare quelli chiamati all’applicazione e all’interpretazione di norme cristallizzate nel tempo e spesso poste dall’evolversi del costume fuori di ogni logica storica, si trovano davanti a problemi non facilmente risolubili. Il loro compito, come ci viene assicurato, non è quello di fare politica, non è quello di dare una interpretazione di “parte” alla norma, ma non si può negare che, in quanto uomini, finiscono per risentire del clima generale e subiscono l’evolversi della situazione sociale presa nel suo insieme. La loro prima reazione è quindi quella di schierarsi a difesa della struttura statale. Non essendo però loro compito quello di costruire i mezzi per migliorarla, non hanno altra prospettiva che quella di utilizzare i mezzi esistenti per garantire la persistenza del dominio e fronteggiare la forza rivoluzionaria che vuole sconvolgere l’assetto capitalistico della società. In questo senso, anche gli addetti alla produzione di nuove norme hanno il grosso limite di dovere produrre elementi correlati a un sistema complesso di altre norme che finisce per risultare insuperabile in quanto solo nel suo insieme e nell’armonia delle sue parti è garanzia di continuità dell’istituzione stessa. Una norma che modifichi realmente lo stato delle cose è pura utopia, allo stesso modo della decisione di un giudice che vada al di là del contesto codificato.
Questa gente non ha alcuna intenzione di curare il male della società, essi sono semplici operai che lavorano a puntellare un edificio che sta crollando. Questo è il loro compito e non possono darsene un altro.
Risulta quindi evidente che solo il mantenimento di uno stato costante di “malattia non estremamente grave” dà loro la possibilità di assicurare il processo di accumulazione capitalista e il relativo processo di sfruttamento.
Ne nasce un conflitto insanabile. Per curare la società, gli organi che pretendono rappresentarla dovrebbero uccidersi come tali, rifiutandosi di farlo (fatto ineluttabile per tutte le strutture organizzate), perpetuano il male della società stessa e quindi finiscono per preparare il terreno a quella classe che, nella persistenza del male sociale, vede la propria stessa possibilità futura di liberazione.
La repressione di oggi, con le sue ottusità e i suoi limiti, con i suoi eccessi e le sue incertezze, deve essere conosciuta fino in fondo. Solo a questa condizione possiamo costruire gli elementi della liberazione di domani.
[1972]
Editoriale di “Anarchismo”
Ancora una volta il problema della pubblicistica anarchica. In Italia, come pure in altri Paesi, con sfumature diverse, il problema è lo stesso. Difetto nell’interpretazione di certe realtà di lotta e di certi problemi, carenza nello sviluppo delle analisi, approssimazione nelle prospettive di lavoro teorico.
Accanto a queste carenze si ha la sopravvivenza di certi strumenti (riviste e giornali) che hanno fatto il loro tempo e la nascita di nuovi strumenti che spesso finiscono per ricalcare difetti e limitazioni dei precedenti.
Da ciò emerge chiaramente la necessità di ulteriori tentativi che possono anche non colpire nel segno la prima volta ma che devono, proprio per questa necessità di fondo che tutti individuiamo, essere ripetuti diverse volte in condizioni diverse.
È in questa direzione che tempo addietro iniziammo la pubblicazione del numero unico “Sinistra Libertaria” che doveva trasformarsi in periodico ma che venne immediatamente stroncato dall’ostilità e dall’incomprensione di certi compagni e dalla repressione poliziesca e giudiziaria. Ed è con intendimenti simili che facciamo adesso nascere questo nuovo strumento diretto alla chiarificazione di problemi teorici essenziali proposti all’attenzione dalla contingenza di certi accadimenti. Speriamo che questa rivista possa mantenersi a un livello di analisi sufficientemente elevato evitando di scadere nella teoria per la teoria, costruendo un discorso coerente capace di individuare la vera matrice dell’anarchismo, che non è soltanto un vacuo rammaricarsi, che non è la dottrina del mugugno, ma è penetrazione analitica in vista della preparazione alla lotta, direzione precisa di pensiero, mantenuta costante anche quando può apparire sgradevole.
In questo modo si ha la possibilità di costruire, nel tempo, un punto di riferimento per tutti i compagni che vogliono uscire dall’apatia dei fogli periodici tradizionali, come pure dal patetico fallimento di quei fogli che con tanta buona volontà si presentavano, all’inizio, come una nuova soluzione.
Certo, un foglio è una grossa arma ideologica, per cui torna, costante, la preoccupazione del gruppo redazionale di non trasformarsi in un gruppo di potere, di diventare, in altre parole, il portavoce di se stesso, finendo per parlare un linguaggio da iniziati per nulla capace di agire sugli altri. È per questo che abbiamo cercato di allargare, per quanto possibile, la collaborazione a livello internazionale, allo scopo di ottenere un continuo ricambio di idee che riteniamo non mancherà di dare i suoi frutti all’interno della dimensione italiana. La cosa non impedirà la trattazione di quei problemi che sono fondamentali per la nostra situazione, in particolare quelle analisi di fondo che rendono possibile l’azione stessa formando la base necessaria per la penetrazione a livello di massa.
Il resto, per il momento, non può essere che buona volontà.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Editoriale, in “Anarchismo” n. 1, 1975, pp. 1-2]
Il coraggio delle proprie azioni
La lotta che da molti anni portiamo avanti in qualità di anarchici e di rivoluzionari ha incontrato, in ogni momento, diverse difficoltà attribuibili alle istituzioni del potere (sfruttamento organizzato dai padroni, magistratura, polizia, burocrazia, ecc.). In questa prospettiva la nostra lotta ha potuto assumere un significato preciso, identificando un nemico di classe contro cui andavano rivolte le analisi che le nostre varie esperienze ci portavano a produrre.
Nella nostra stessa situazione, in quanto gruppo e in quanto singoli militanti, si sono trovati certamente tutti coloro che, come noi, in un clima orchestrato dalla violenza fascista e statale e dall’acquiescenza delle forze di sinistra, intendevano fare qualcosa per uscire dalla merda.
Non volendo risalire più oltre, è chiaro che almeno dal 1968 in poi questi sforzi sono stati molteplici e non tutti coronati da successo. Spesso le speranze di penetrare il fitto tessuto reazionario e criminale sono state nientificate, spesso si era proprio sul punto di scoraggiarsi e di interrompere l’attività, ma poi si trovava in un modo o nell’altro la forza per andare avanti.
Eppure, specialmente adesso che siamo impegnati in uno sforzo notevolissimo per pubblicare la rivista “Anarchismo” e fare uscire le edizioni della rivista stessa e in modo particolare i Classici dell’anarchismo, ci accorgiamo di individuare, oltre alle forze reazionarie e criminali che costituiscono la controparte, elementi che avremmo pensato – senza ombra di discussione – che stessero da questa parte della barricata, elementi che mai avremmo pensato stolidamente e ottusamente legati a una critica diffamatoria che finisce per fare il gioco del potere.
In questo modo, oltre alle forze tradizionali della reazione, facilmente riconoscibili, siamo costretti ad ammettere l’esistenza di forze oscure, sotterranee, difficilmente individuabili, che impiegano la diffamazione individuale non avendo il coraggio di parlare chiaramente e pubblicamente contro questo o quel compagno, questo o quel gruppo.
Siamo a conoscenza, e ne possediamo la documentazione, che da diversi anni è sistematicamente attuata a danno di alcuni compagni facenti parte del nostro gruppo un’opera di diffamazione e di sabotaggio. E poiché, anche ultimamente, alcuni compagni, specialmente fra i giovani, si sono sentiti ripetere accuse di ogni genere, sempre basate su semplici “si dice”, riteniamo indispensabile aprire il discorso in pubblico, in modo chiaro e senza possibilità di dubbi.
Sappiamo pure che simili provocazioni sono state messe in atto e sono tuttora a carico di altri compagni e di altri gruppi, provocazioni che in alcuni casi si sono concluse con interventi repressivi della polizia, interventi determinati proprio dai “si dice” e dai “sappiamo”, senza alcun fondamento se non quello di una ottusa polemica di cortile.
Da parte nostra, poiché abbiamo il coraggio delle nostre azioni e poiché non abbiamo nulla da nascondere, insistiamo nel chiarire la nostra posizione politica, per quanto essa emerga chiaramente da tutto il lavoro che abbiamo svolto negli ultimi anni e, con maggiore puntualità, dalla rivista “Anarchismo”.
Noi siamo per l’approfondimento del problema organizzativo anarchico, per il riesame critico di strutture organizzative di lotta che risultano, a nostro avviso, inadeguate ai tempi. Siamo contro ogni venatura autoritaria che queste organizzazioni possono assumere, venatura derivante da posizioni piattaformiste, a loro volta prodotto della disillusione di un certo momento storico e non valide in assoluto. Siamo per una verifica critica delle formule anarcosindacaliste e per uno studio approfondito degli inconvenienti autoritari che possono determinare. Siamo a favore dell’autonomia operaia, costruita a partire dalla base, sul fondamento dell’autogestione delle lotte e della produzione (quando possibile). Siamo per l’azione diretta, nel senso dell’organizzazione delle lotte nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole, nei quartieri, come pure nel senso della difesa armata di questa organizzazione. Siamo sempre aperti a uno studio non fazioso delle esperienze altrui, anche marxiste, in quanto siamo certi della validità della metodologia anarchica e libertaria, che rigetta malconnesse costruzioni come il marxismo libertario, ma non chiude gli occhi davanti a realtà di lotte concrete il cui patrimonio non può andare disperso. Siamo per l’autogestione intesa rettamente nel senso di contemporanea autogestione delle lotte e della produzione, e siamo, infine, per il pluralismo anarchico, visione della vita e metodologia di lotta che ci pare la più valida per la realizzazione della rivoluzione sociale futura.
È su questa base che riteniamo ammissibili e valide le critiche. Che i compagni i quali ritengono sbagliato il nostro lavoro si facciano avanti, che i compagni i quali ritengono di possedere sufficienti e provate documentazioni per chiarire eventuali azioni o comportamenti di singoli o di gruppi, si facciano avanti, che si ponga fine a questo chiacchiericcio da portinaie, che ognuno assuma fino in fondo il coraggio delle proprie azioni.
Il presente documento è diretto all’attenzione sia di quei gruppi che vengono, come noi, attaccati da questa maligna erba che è la smania del corridoio, sia di tutti quei compagni che si sentono “suggerire” critiche o apprezzamenti nei riguardi di un altro compagno. Che questi compagni insistano nei confronti del “critico sotterraneo” perché documenti le sue affermazioni, non essendo sufficiente il “si dice” o il “te lo dico io perché lo so da fonte sicura” o il “credimi io lo conosco bene” e simili formule. Accettare senza reagire, senza pretendere una spiegazione, senza cercare una spiegazione, è un comportamento privo di maturità politica. Ogni rivoluzionario deve sentire il bisogno di documentarsi prima di accettare per buone le calunnie degli involontari servitori della reazione e dei furbi opportunisti che si sono infiltrati fra di noi.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Il coraggio delle proprie azioni, in “Anarchismo” n. 4-5, 1975, pp. 193-194]
II. I nuclei autonomi di base
Un chiarimento necessario
Le analisi sui nuclei autonomi di base sono state sviluppate in diversi articoli, usciti anche in opuscolo, che adesso si trovano sistemati nel mio libro Autogestione e anarchismo, Catania 1981, pp. 25-30.
Alla base di quei ragionamenti c’era un sospetto, fortemente radicato, contro il sindacalismo, non tanto nel senso di una sua “involuzione”, quanto nel senso più grave di una sua naturale e congenita incapacità a sollevarsi al di sopra della coscienza unionista semplice. [Su questo argomento vedi il mio libro Critica del sindacalismo, Catania 1998].
L’ipotesi organizzativa descritta si pone nella linea dell’intervento “intermedio”, cioè capace di inserirsi nelle lotte rivendicative per sviluppare le condizioni insurrezionali. Il “nucleo” ha quindi l’aspetto esteriore di un organismo rivendicativo, con alcune peculiarità molto importanti: l’autonomia da forze politiche esterne, la conflittualità permanente nei riguardi degli sfruttatori, l’orientamento di attacco che presuppone la presa di iniziativa nell’azione diretta.
Questi elementi caratteristici del “nucleo” dovrebbero garantire la sua integrità rivoluzionaria pur nel suo inserimento all’interno di realtà di lotte intermedie. Il rapporto tra il “nucleo” e le organizzazioni specifiche anarchiche esterne a esso – ma con esso aventi contatti di vario tipo – è molto complesso. In genere gli anarchici si fanno promotori del “nucleo”, senza per questo avanzare questioni di ideologia o di dettaglio anarchico. Ne seguono le prime lotte, suggeriscono i primi obiettivi, illustrano gli aspetti repressivi e i risultati che si otterranno raggiungendo e colpendo gli obiettivi stessi.
Uno dei pericoli maggiori è quello di volere a tutti i costi fare i professori di “anarchia”. La crescita del “nucleo” avrà caratteristiche politiche sue proprie, non potrà essere sollecitata se non pagando il prezzo altissimo di un suo completo snaturamento.
Nel frattempo, però, l’organizzazione specifica anarchica si deve fare carico di quelle azioni che possono servire da supporto all’attività del “nucleo”: reperimento di mezzi, attacco specifico contro strutture o individui dello sfruttamento, elaborazione e controllo delle strategie militari precedenti a ogni azione (anche la più semplice) decisa dal “nucleo”, difesa contro i tentativi esterni di inquinamento ideologico e politico.
La premessa metodologica dell’autonomia, della conflittualità permanente e dell’attacco consentirà, prima o poi, di formulare con maggiore chiarezza lo scopo insurrezionale del “nucleo”. Ma questa formulazione deve avvenire come naturale conseguenza delle azioni intraprese, delle analisi svolte e delle premesse metodologiche liberamente accettate.
Da evitare assolutamente ogni discorso a priori – vago e astratto – sul valore liberatorio della violenza o sull’insurrezionalismo. Questo tipo di discorsi ingenera subito in chi li ascolta una vaga sensazione di pericolo che spesso può anche essere piacevole, solleticando il gusto dell’avventura che tutti abbiamo più o meno latente in noi stessi, ma non porta certo a una crescita della coscienza rivoluzionaria di un’organizzazione di lotta. Il singolo, immediatamente catapultato in questi discorsi, si immagina barricate e assalti alla Bastiglia, tutte cose che non hanno riscontro immediato nella realtà delle lotte, la quale, molto più spesso, è semplicemente e prosaicamente fondata sulla diffusione delle idee, sulla propaganda e sullo scontro politico.
A poco a poco, invece, man mano che le idee si sviluppano, con il contributo dei compagni, si può fare un chiarimento su che cosa intendiamo per insurrezione.
Solo dopo questo periodo di maturazione, man mano che l’intervento nelle lotte diventa più significativo, si è realmente in grado di capire come il “nucleo” possa diventare elemento insurrezionale, punto di riferimento per la massa, centro operativo dell’azione.
In questo modo il passaggio dalla realtà delle lotte intermedie allo scontro più generalizzato, di carattere insurrezionale, può avvenire in qualsiasi momento, quando la realtà stessa lo sollecita, sia pure con una piccola spinta “esterna” dell’organizzazione specifica anarchica. Infatti, qui diamo per scontato che la sensibilità dei compagni anarchici, facenti parte dell’organizzazione specifica, sia sufficientemente sviluppata da percepire il modificarsi della realtà. Ma ciò potrebbe non essere vero. Comunque, con spinta esterna o senza spinta esterna, il passaggio del “nucleo” dalle lotte intermedie alla fase insurrezionale si deve progettare come un passaggio naturale e spontaneo, libera conseguenza del lavoro svolto e delle scelte metodologiche di fondo.
Ogni altra prospettiva non farebbe altro che snaturare il “nucleo” e riportarlo all’interno dell’organizzazione specifica anarchica. Non avremmo più sfruttati che si uniscono insieme in vista dell’azione (dapprima difensiva e poi offensiva) ma militanti anarchici che preparano un’insurrezione. E questo tipo di attività, isolata, è sistematicamente destinata al fallimento.
Uno strumento minimo di intervento per ricucire il tessuto delle lotte
L’analisi degli strumenti di lotta non può prescindere dalla contemporanea considerazione delle condizioni dello scontro. Apprestare uno strumento capace di attaccare e sconfiggere il progetto padronale richiede quindi uno sforzo analitico più ampio di quello che tecnicamente i limiti dello strumento lascerebbero presupporre.
I nuclei autonomi di base sono uno strumento minimo di intervento nella realtà delle lotte. Sono la forma organizzativa più ridotta che consente di ricucire – a livello di movimento rivoluzionario – il tessuto individuale che corre sempre il rischio di sdrucirsi a contatto con le sollecitazioni quotidiane della soggettività. Strumento vecchio o strumento nuovo di lotta? La risposta non è facile. L’antichità dello sfruttamento richiede la ricomparsa ottusa di forme che spesso vengono negate in una certa fase dello scontro per poi risorgere ulteriormente ed essere ancora una volta negate. Solo un occhio estraneo può scambiare questi “ritorni” per riverniciature di vecchi trofei del passato. In sostanza, uno strumento di lotta assume un senso (e non solo un senso “nuovo”) quando fissa un rapporto significativo con lo stato dello scontro in atto. In caso contrario, esso non solo non sarà mai “strumento nuovo”, ma non sarà uno strumento per nulla, sarà soltanto un riflesso condizionato dal potere stesso.
Oggi la fase spettacolare del dominio capitalista tende a retrocedere. L’elemento della rappresentatività, che consentiva di trasferire la vita dentro i limiti prefissati del tempo di scambio, trasformando l’uomo e le sue cose in astrazioni simboliche, assume adesso la forma della ripetitività. Il segno dell’equivalenza dei rapporti di scambio, sotto cui si costruiva la presunta armonia dei rapporti, si trasferisce nel segno della ripetizione che cambia non solo il rapporto dell’uomo e delle sue cose col processo di produzione, ma anche il rapporto dell’uomo col tempo. In un certo senso, con l’avvento del dominio della ripetitività, il tempo viene messo in magazzino, impacchettato.
Prendiamo due casi limite. L’organizzazione del supporto ideologico della produzione era diretta a “far credere” a un’accettazione del mondo, facendo in modo che la violenza rientrasse in uno spettacolo di eliminazione della violenza nell’armonia della produzione. La fabbrica era un modello miniaturizzato di società armonica in cui i conflitti sociali si risolvevano in una risoluzione più o meno approssimata (ma sempre soddisfacente) del problema tecnico dell’imprenditore. La produzione assumeva aspetti fideistici. Lo scambio mercantile veniva vissuto come la razionalizzazione quantitativa del sapere scientifico. Lo spettacolo della produzione diventava così spettacolo di armonia. Non solo serviva a creare le condizioni dell’ordine stabilito, ma consentiva di “credere” alla sua esistenza e al suo valore universale. L’operaio tipo veicolava perfettamente queste condizioni di esistenza e, in cambio di una parte del prodotto sociale, accettava di difendere il proprio stato di servitù. Gli esclusi, in base allo stesso processo di differenziazione che il capitale rende indispensabile, quantificavano una rabbia in termini di “mancata accettazione”, rendendo possibili violentissime esplosioni distruttive e progressivi inglobamenti nell’area di salarizzazione.
All’interno dell’esemplificazione che stiamo facendo (regno dello spettacolo) si disponeva una ulteriore minoranza: i cercatori di fuoco, progenitori degli attuali negatori radicali di ogni condizione di scambio. Il riferimento al drogato è d’obbligo. Il cercatore di fuoco, oltre che ristrettissima minoranza iniziatica, costituiva la risposta più coerente al dominio formale del capitale e al suo assetto rappresentativo e spettacolare. Lo stesso consumo della droga esigeva una cornice chiusa, come la fabbrica, luogo obbligatorio in cui la ricchezza veniva prodotta o distrutta (che è la stessa cosa). Drogarsi all’aperto sarebbe stato impensabile, come impensabile era la costituzione delle “isole” di produzione o la giornata lavorativa fissata a proprio gradimento. Il denaro era la massima forma del significante, inteso sia come forma astratta della ricchezza concreta che come strumento dello scambio spettacolare.
La fabbrica e la fumeria d’oppio avevano in comune la necessità di mettere insieme lo spettacolo dell’esorcizzazione della violenza. Il sacrificio mitico veniva consumato (e per molti aspetti viene ancora consumato in condizioni di capitalismo più arretrato) per impedire la reale esplosione della violenza (per scopi produttivi solo in secondo luogo). Infatti, ben altre canalizzazioni il potere avrebbe dovuto costruire per frenare la grande forza rivoluzionaria dei produttori, come ben altre forme concrete di intervento, diverse dalla realtà piatta e sterile, chi si drogava avrebbe dovuto cercare per trovare quelle aperture esperienziali che con relativa facilità trovava nella droga.
Vediamo il secondo caso limite. La produzione non è più soltanto diretta a “far credere” accettabile un mondo di valori che al di là dello spettacolo dell’assurda armonia prestabilita non ha senso alcuno, ma si programma uno scopo più immediato e quantificabile: la ripetitività. Non più ricomposizione dei contrasti qualitativi in una presupposta armonia globale, ma assommazione delle uniformità quantitative. Se prima si era spinti a comprare la televisione, adesso si è spinti a comprare i programmi integrati televisivi, gli stoccaggi delle trasmissioni sportive, culturali, culinarie, musicali, ecc. Il modello di valore sarà proprio questa accumulazione. Il corrispettivo del consumo annegherà in questo bisogno generalizzato di sempre maggiori unità di prodotto. Tutti i vestiti saranno uguali, tutte le auto uguali, tutti i film uguali, uguali tutti gli atti sessuali, uguali i gesti, uguali le parole. La stessa capacità di cogliere le differenze si affievolirà fino a scomparire. I fumetti ci hanno educato già da tempo a questa magia della reiterazione. Non gustiamo una striscia di Charlie Brown per la sua novità ma per come dice la sua novità all’interno di una ripetitività assoluta e mortificante: Diabolik docet. Le carceri di grande sorveglianza applicano in pieno questa tecnica: non sono luoghi dove il sangue imbratta le pareti, ma dove la ripetitività ossessionante dei gesti si è quasi del tutto sostituita alla rappresentatività granguignolesca delle torture del passato. La ripetitività è un fattore incredibile nella scala di integrazione tra produzione e consumo. Originariamente momenti separati dell’intero ciclo rappresentativo dello scambio, oggi si riuniscono insieme fino a confondersi. In questo modo il potere normalizza il diverso, centralizza lo specifico, omogeneizza il dissociato.
La maggior parte dei consumatori di ripetitività (ancora una volta il drogato è d’obbligo) non è più costituita da cercatori di fuoco. La volontà di penetrare l’ignoto si è spenta. Non c’è più la ricerca dell’apertura dei piani esperienziali: la ripetitività ha sostituito la rappresentatività. Il capitale non ha più bisogno di “far credere”, adesso può far tacere semplicemente spingendo la gente a produrre-consumare per essere “come gli altri” e non “per distinguersi dagli altri”. Il consumatore consumando produce se stesso in quanto consumatore appartenente a un gruppo sociale di consumo-produzione, non se stesso in quanto individuo-consumatore-produttore-isolato. L’identità del consumo rende intelligibili solo le differenze del gruppo sociale, non più quelle all’interno del gruppo stesso. Non c’è più vergogna a indossare, a migliaia, a milioni, lo stesso paio di jeans. Anzi, l’accettazione di questa uniformità – programmata dal capitale – viene ricercata e valutata con un processo di fascinazione che la ricerca del diverso non aveva mai avuto in passato.
Affrontiamo adesso, la seconda parte di questo scritto che vuole meglio chiarire le condizioni operative dello strumento di lotta che ho chiamato nucleo autonomo di base.
L’anima del sindacalismo rivoluzionario che, cercando bene, si ritrova sempre in queste forme organizzative autonome di base, ci pare che debba tendere, oggi, di fronte a un’analisi delle condizioni del capitale come quella sopra riportata, a scomparire per sempre. Ogni lotta sul piano rivendicativo sottintende un dialogo col padronato sulla base di una possibile (per quanto temporanea) ricomposizione del contrasto salariale. L’errore commesso in passato è stato quello di considerare positivamente l’impegno in questa direzione perché un risultato utile dava una maggiore capacità di azione ai produttori stessi. Questa maggiore possibilità è stata invece incanalata dal capitale dapprima verso la rappresentatività sacrificale della negazione della violenza, poi verso l’omogeneizzazione del comportamento bifronte di consumatori-produttori.
Questo non significa negare ogni validità al principio di conflittualità permanente. Lo scontro di classe segna il limite drastico al di là del quale vi sono le nebbie sanguinose dell’interclassismo reazionario. Solo che il nostro nemico ha seminato di trappole il percorso e non bisogna caderci dentro. Una di queste trappole è la nientificazione dell’aumento nominale nel meccanismo del salario reale. Non è vero che si possono comprare più cose con un aumento salariale, si comprano le stesse cose a un prezzo maggiorato. Ma la trappola più grossa è che si comprano le “stesse cose”. Di più, una trappola ancora più grossa è che si sia felici e contenti di comprare le stesse cose che comprano gli altri.
L’uniformità dell’equazione produzione-consumo consente di realizzare un fronte di lotta mai resosi possibile prima. Oggi non esiste più la figura del “produttore” privilegiato, dell’operaio che si contrapponeva al diseredato o sottoproletario. Sul piano tecnico della produzione, distinzioni del genere sono ancora operative, ma su quello dell’integrazione verticale del dominio di classe stanno scomparendo. Martellando sulla necessità della ripetizione il potere ha avuto il grosso risultato di staccare i produttori privilegiati da consumi che sarebbero stati “signori” nei confronti di minoranze sempre più consistenti, col risultato di consentire lo scatenarsi di conflitti sociali sempre più difficili a controllare, ma ha anche dovuto pagare lo scotto di riaprire la strada a una ricomposizione del fronte di classe. Lo scompenso di produzione (e quindi di consumo), la cosiddetta crisi, dovrebbe avere effetti molto più gravi adesso di quanto non ne abbia avuto nella fase del dominio formale, in cui il processo di rappresentatività poteva mantenere separate le fasce produttive da quelle espulse dalla salarizzazione. L’improvviso spezzarsi dell’uniformità potrebbe produrre fenomeni di ribellione di massa da non avere paragoni con le piccole crisi isteriche che si verificavano nelle fumerie d’oppio del passato.
La lotta rivendicativa per l’aumento del salario reale viene, pertanto, perseguita in modo diverso: obbligando quelle forme istituzionali del dominio di classe a cedere sul terreno che consente l’annullamento degli aumenti nominali. Dalla ripresa individuale all’esproprio collettivo, dal cattivo lavoro alle tecniche dell’assenteismo, dalla riduzione collettiva alla distruzione collettiva, dal sabotaggio alla denuncia pubblica, dalla controinformazione alla ricerca delle proprie capacità di autorganizzazione, tutto deve essere impiegato in funzione antipadronale. Ma l’elemento vitale di trasformazione deve collocarsi nel tentativo di distruggere il grandioso apparato della ripetitività, della omogeneizzazione del privato. Spezzando questo apparato repressivo si mette in pericolo lo stesso rapporto consumo-produzione, si realizzano quelle condizioni minime di attacco che consentono di salvaguardare la creatività della lotta.
Le mitologie del passato: le sigle, gli slogan, le analisi che tutto spiegavano, i mostri sacri di un tempo che sembrava prossimo alla rivoluzione, devono essere sostituite con l’inventiva, la semplicità, la modestia, la coscienza dei propri limiti e delle proprie possibilità. Un nucleo non è una palestra della rivoluzione, non è il punto di riferimento che sconvolgerà l’assetto del capitale, forse non è nemmeno uno strumento di lotta sufficiente, ma può diventare tutto questo e molto di più, molto di più: può diventare il piccolo granello di sabbia che incepperà la macchina del capitale.
[Cfr. (A. M. Bonanno), I nuclei autonomi di base, in “Anarchismo” n. 30, 1980, pp. 20-22]
Movimento autonomo di base ferrovieri del compartimento di Torino. Organizzazione del nucleo autonomo di base
La situazione attuale è caratterizzata dall’alleanza tra padroni, sindacati e partiti riformisti.
I primi fanno ricorso all’aiuto dei sindacati e dei cosiddetti partiti della sinistra per cercare di continuare lo sfruttamento, trovando il modo di fare pagare la crisi ai lavoratori attraverso un notevole quantitativo di soldi che lo Stato versa agli industriali (riconversione) mettendoli in grado di sopravvivere per qualche anno ancora. Per completare, intervengono i partiti della sinistra (PCI in testa) chiedendo ai lavoratori di sacrificarsi per salvare i padroni e i loro servitori.
La caratteristica attuale dei sindacati e dei partiti riformisti è quindi la collaborazione con i padroni, il loro compito più importante è quello di spegnere le spinte della base, suggerendo sacrifici e condannando i lavoratori disposti a una lotta più dura con le solite calunnie (provocazioni).
In queste condizioni non ci pare più utilizzabile il sindacato come strumento di lotta.
Le tre centrali sindacali SFA, SAUFI e SIUF realizzano la loro collaborazione vendendo la pelle dei ferrovieri all’Azienda, attraverso un chiaro progetto di ristrutturazione, che si realizza in maggior carico di lavoro per gli occupati (aumento della produttività), in meno soldi (blocco e congelamento dei salari), in aumento della disoccupazione.
Questi obiettivi antioperai vengono sostenuti con frasi demagogiche e con la più dura condanna delle iniziative divergenti. In questo modo si vuole far passare la tesi che l’Azienda non può caricarsi aumenti salariali, che per mantenere la produttività deve restare inalterato il numero di ore lavorative, che si deve lottare contro le tendenze al cosiddetto fenomeno dell’assenteismo, che per controllare meglio il lavoratore si deve ristrutturare il processo di qualifica funzionale, la mobilità del lavoro e la professionalità.
È chiaro che si vuole distruggere ogni volontà di lotta, creando una situazione finanziaria insostenibile per i più, donde il ricorso allo straordinario, arma di ricatto da parte di capi e capetti, perfezionata dall’impiego dei meccanismi di selezione che impediscono l’avanzamento a chi non è capace e disciplinato, cioè a chi non si lascia utilizzare e a chi rifiuta il rispetto assoluto ai capi.
Il sindacato autonomo FISAFS sviluppa una lotta che si pone in contrapposizione alle tre centrali maggioritarie e che pretende qualificarsi come autonoma.
La FISAFS tenta di sfruttare la rabbia e il malcontento della base per dimostrare adesioni di massa alla sua linea corporativa e, per molti versi, reazionaria. Il sindacalismo di questa organizzazione cosiddetta autonoma è un ulteriore elemento di ritardo delle reali possibilità di lotta della base che, in questo momento, sono molto forti. L’unico scopo della FISAFS è quindi quello di incanalare i lavoratori in una logica corporativa necessaria all’azienda, ai partiti, al governo e al capitale per perpetuare e consolidare lo sfruttamento.
In questo modo la FISAFS, dovendo tutelare gli interessi padronali, non può impiegare quelle metodologie di lotta che caratterizzano e qualificano l’autonomia dei lavoratori. Le risulta quindi impossibile, sul piano delle alleanze e delle scelte politiche, differenziarsi da quelle organizzazioni sindacali che, con altra visuale politica, si contrappongono alle tre centrali maggioritarie (a esempio, la USFI-CISNAL).
L’ autonomia proletaria vera è la sola soluzione possibile per continuare la lotta contro i padroni e i loro servitori. Per realizzarla occorre cominciare a costruire i Nuclei Autonomi di Base. Questi nuclei, come quello che vogliamo costituire fra i ferrovieri del Compartimento di Torino, se nascono all’interno di una realtà produttiva precisa, devono considerarsi come un punto in costante riferimento con la realtà esterna, intesa in senso globale, coinvolgente il quartiere, la scuola, la campagna.
Partendo da una giusta considerazione dell’autonomia proletaria, si eliminano due pericoli sempre presenti in ogni lotta settoriale e sindacale:
a) la burocratizzazione della struttura sindacale,
b) la tendenza corporativa.
Il Nucleo Autonomo di Base si organizza autonomamente da partiti e sindacati, per migliorare e difendere l’esistenza del lavoratore in quanto uomo. La sua prospettiva organizzativa e di lotta tiene conto della duplice necessità di impostare lo scontro al livello della produzione (salario, normativa contrattuale, ecc.) e al livello della vita del singolo lavoratore (rischio sul lavoro, alienazione, necessari collegamenti tra quartiere e posto di lavoro, scuola, ecc.).
L’autonomia è quindi rivalutazione dell’uomo nel lavoratore, con una lotta chiara, diretta a salvaguardare quelle condizioni oggettive che rendono possibile la vita e il lavoro stesso.
A– Caratteristiche del Nucleo Autonomo di Base:
– Si pone come organizzazione che intende distinguersi dai sindacati confederali e anche dai sindacati autonomi.
– La sua autonomia qualifica la struttura che intende darsi in senso antiburocratico.
– È basato, quindi, sull’eliminazione della delega permanente e sulla negazione della professionalità dei rappresentanti.
– Tutta la base è impegnata nella lotta contro i padroni e i loro servitori.
– Questo impegno di lotta è costante e non è limitato solo ai periodi di sciopero fissati da organismi precisi.
– Ogni componente del Nucleo Autonomo di Base si considera perennemente in lotta contro il padrone e i suoi servitori, come appunto questi sono perennemente in lotta contro i lavoratori nel tentativo di perpetuare lo sfruttamento.
– Il Nucleo Autonomo di Base non è legato a nessuna ideologia sindacale o partitica, mentre la propria posizione antipadronale lo qualifica, in modo chiaro e senza dubbi, come strumento che i lavoratori si danno per la propria emancipazione.
– L’attività di propaganda e la realizzazione di lotte precise, dirette a ottenere risultati ben identificati, e oltre all’impiego di certi mezzi per realizzare queste lotte – mezzi di pressione sulla controparte –, costituiscono un elemento di ulteriore chiarificazione sia per coloro che entrano a far parte del Nucleo Autonomo di Base, sia per i padroni che intendono considerarlo, insieme ai loro servitori, come un nemico di classe.
– L’adesione al Nucleo Autonomo di Base è la logica conclusione per tutti coloro che si considerano traditi dai vari organismi sindacali e desiderano continuare la lotta contro lo Stato-padrone, allargandola in una prospettiva che non può essere in alcun modo quella delle forze sindacali.
B – Metodi.
– La repressione attuata dai padroni con l’aiuto dei loro servitori è costante. Si esercita su di noi in molti modi: diminuendo il potere d’acquisto dei salari, negandoci i legittimi aumenti, costringendoci a lavorare di più per non assumere altro personale, aumentando i rischi del lavoro, annullando le nostre lotte attraverso la politica sindacale di recupero. Questa repressione deve essere combattuta con una lotta che sia al tempo stesso costante. Quindi: a repressione permanente, conflittualità permanente.
– I compagni aderenti ai Nuclei Autonomi di Base devono aver chiaro il senso della lotta che bisogna condurre contro lo sfruttamento. Il padrone colpisce il lavoratore come membro di un tutto (la collettività produttiva), colpendolo quindi come ferroviere l’Azienda intende adeguare lo sfruttamento alla situazione generale della produzione. Pertanto, non ha senso una lotta settoriale e corporativa. Il metodo dell’autonomia si basa sull’esportazione della lotta, anche se gli effetti immediati (economici e normativi) restano all’interno del settore produttivo.
– Quindi il metodo da seguire è quello della conflittualità permanente e del portare all’esterno le lotte.
– Gli obiettivi verso l’esterno sono gli utenti del servizio ferroviario, specie i pendolari, che devono essere costantemente tenuti al corrente dell’evolversi del conflitto all’interno dell’Azienda, e così per gli altri settori produttivi immediatamente vicini a quello delle ferrovie (aerei, camion, spedizioni, poste, telefoni, settore appalti, ecc.).
– Da qui la grande importanza che la conquista dell’informazione ha per l’organizzazione autonoma delle lotte. È ovvio che all’inizio questo metodo di lotta dovrà realizzarsi con mezzi inadeguati, se posti in rapporto con quelli delle confederazioni sindacali al servizio dei padroni, comunque, anche facendo ricorso al volantinaggio, quello che importa è lavorare nella giusta direzione, intervenendo costantemente verso gli utenti, che devono essere, a poco a poco, sensibilizzati alla prospettiva di lotta dei ferrovieri, come pure verso i settori collaterali, con i quali bisogna prendere contatti, favorendo, dove possibile, la nascita di Nuclei Autonomi di Base che possano fare lo stesso tipo di lavoro.
– Lo sciopero, come mezzo di lotta, in questa prospettiva mantiene la sua validità, ma deve essere visto criticamente, non come un mezzo che mette in moto la conflittualità operaia a un dato momento, quando a deciderlo sono i vari capi e capetti sindacali. Lo sciopero, in questo senso, è uno strumento che spegne la conflittualità che è invece un elemento costante nei lavoratori. Così utilizzato, a comando dei sindacalisti, lo sciopero torna comodo al padrone e a tutti coloro che hanno interesse a spegnere le lotte concrete.
– Un altro elemento che deve fare considerare criticamente lo sciopero in quanto mezzo di lotta è dato dal fatto che si presenta come strumento saltuario e non permanente, quindi come strumento del cui impiego la controparte è sempre avvertita preventivamente, potendo, quindi, ricorrere a sistemi di intervento (a esempio, riducendo il personale dei merci e trasferendolo sui treni viaggiatori).
– Ma esistono altri mezzi che possono essere impiegati collateralmente allo sciopero, oppure al suo posto, mezzi che attaccano direttamente le possibilità produttive dell’Azienda e che costituiscono una efficace minaccia.
– Delle norme tecniche sono fissate dalle stesse confederazioni sindacali durante lo sciopero. Leggendo queste norme si resta sbalorditi dell’accuratezza con cui si vuole evitare qualsiasi danno all’Azienda. Ma, al contrario, in che modo l’Azienda cerca di ridurre lo sfruttamento del lavoratore? Tutte queste cautele riducono la capacità effettiva dello sciopero di costituire arma di attacco contro i padroni, e la responsabilità di tutto ciò è anche delle smanie legalitarie e conservatrici dei sindacati. A repressione dura e costante, lotta senza mezzi termini e senza cautele, lotta dura e costante.
– La scelta dei metodi da impiegare in una certa lotta e l’impostazione di fondo da dare alle informazioni che devono essere messe in circolazione costantemente verso l’esterno viene fatta su decisione di tutti gli appartenenti al Nucleo Autonomo di Base, a tale scopo riuniti periodicamente.
C – Prospettive.
– Le prospettive concrete su cui sviluppare la lotta devono essere valutate, di volta in volta, nella loro oggettiva possibilità di essere realizzate e non servire da scudo a impostazioni ideologiche vaghe e inconcludenti.
– L’aumento salariale è uno dei punti più importanti della lotta, perché consente al lavoratore una capacità di resistenza più larga e una possibilità di affrontare, con un certo margine, altre battaglie, che sono altrettanto essenziali alla sua esistenza. Non è questo il punto che necessariamente qualifica la posizione dei Nuclei Autonomi di Base, sebbene, per ovvi motivi, non può essere considerato come un punto di secondaria importanza.
– La lotta per una diversa organizzazione del lavoro è senz’altro più interessante perché consente di avere, per via indiretta, supplementi di salario reale che non possono essere facilmente ripresi dal meccanismo della svalutazione. Questi supplementi di salario indiretti costituiscono elementi di grande valore nel corso del conflitto. Una riduzione delle ore di lavoro, un rifiuto della mobilità e del cumulo delle mansioni, la copertura totale degli organici, il miglioramento degli ambienti di lavoro, la modifica della normativa e dell’orario di lavoro per il personale di macchina e viaggiante, il potenziamento degli impianti, delle linee, dei mezzi di trazione, delle carrozze, ecc., sono tutti elementi che rendono migliore la posizione generale del ferroviere e possono entrare a far parte di quel salario reale che è di molto inferiore al salario nominale, scritto sulla busta paga (listino).
– La prospettiva di fondo, su cui impostare una lotta a lungo termine, è quella di riportare la gestione sotto il controllo diretto della base, sottraendola progressivamente all’arbitrio di capi e capetti, attestati in posti di tutta sicurezza anche con la compiacenza dei sindacati. Si potrebbe cominciare a dimostrare così, attraverso una serie di proposte di modifica della gestione, la capacità organizzativa della base, denunciando le responsabilità che rendono possibili i disservizi di oggi a danno dell’utenza e di tutti.
– Capillare penetrazione, per spiegare l’errata posizione di lotta dei sindacati, le loro necessità di collaborazione con l’azienda, l’impossibilità di prevedere una modificazione, a breve scadenza, e un ritorno sulla linea operaia. Lotta contro le strutture e i burocrati sindacali, non lotta contro i lavoratori iscritti al sindacato.
– Prospettiva conclusiva è quindi l’autonoma gestione delle lotte, sia salariali che normative, sia riguardo la progressiva presa di controllo della gestione nel suo insieme. Resta chiaro che questa autonomia di lotta può sorgere solo attraverso una giusta valutazione critica della posizione collaborazionista dei sindacati.
In conclusione il Nucleo Autonomo di Base è un organismo di lotta per la difesa dei ferrovieri che intende affermare il principio dell’autonomia della lotta. Per questo nega validità ai sindacati e denuncia la loro collusione col potere.
In base al principio dell’autonomia, il Nucleo Autonomo di Base afferma la necessità della conflittualità permanente all’interno della realtà produttiva e la necessità di esportare le caratteristiche essenziali della lotta verso l’esterno, onde sfuggire alla chiusura corporativa. Gli obiettivi di questa comunicazione all’esterno sono l’utenza e i settori produttivi collaterali.
I metodi necessari alla realizzazione degli scopi di difesa degli interessi della categoria e quindi dell’intera collettività produttiva sono scelti in armonia col principio di autonomia e di conflittualità permanente, restando inteso che l’utilizzo dello sciopero, come arma di lotta, va considerato criticamente, mentre, una grande attenzione va posta nella ricerca di altri mezzi di lotta più efficienti, perché non facilmente controllabili da parte dell’Azienda.
Le prospettive del Nucleo Autonomo di Base sono quelle costanti della rivendicazione salariale e normativa, allo scopo di salvaguardare quel salario reale che è la base per ogni lavoratore.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Movimento autonomo di base ferrovieri compartimento di Torino, Organizzazione del nucleo autonomo di base, Edizioni MAB, Torino 1977]
III. Per l’organizzazione specifica
Chiarimenti necessari
La prima di queste due proposte organizzative specifiche riguarda la costituzione della Scottish Anarchist Federation, ed è stata sviluppata nell’aprile del 1977. Discussa con alcuni compagni non ha poi trovato un concreto sbocco operativo, tranne la stesura di un volantino contenente una “Dichiarazione di princìpi”. La seconda proposta è molto più recente, essendo stata sviluppata alla fine del 1983 e spero che verrà più attentamente considerata da quegli stessi compagni con i quali l’ho di già discussa (e ovviamente da altri che non l’hanno mai vista e che mi auguro la leggeranno in questa sede).
In un’ottica insurrezionale questi progetti sono fortemente riduttivi. Diversi hanno avanzato critiche di questo tipo che sono, naturalmente, molto ben architettate. Ma si tratta di critiche che sfondano porte aperte. Uno degli strumenti di cui bisogna poter disporre nella preparazione di un progetto insurrezionale è lo strumento specifico, costituito da un’organizzazione anarchica più o meno articolata ed efficiente. Quando questa manca occorre costituirla. Nel caso in cui ci si trovi davanti a organizzazioni già esistenti ma articolate sulla base di programmi d’oltretomba, assolutamente di retroguardia e aspiranti solo alla quiete del sopravvivere, allora la critica diventa indispensabile, anche la più feroce e penetrante. Ma dove non c’è nulla anche il re perde i suoi diritti.
Nessun elemento dello scontro di classe può essere lasciato da parte, e l’organizzazione specifica anarchica costituisce uno di questi elementi, anche se qualche volta gioca un ruolo di ritardo e di compromesso.
È molto importante adeguare le proposte organizzative alle realtà in cui le strutture che nasceranno andranno a inserirsi. Ciò può dare, a volte, l’impressione di progettare strutture arretrate, chiaramente superate da esperienze fatte altrove e ormai entrate nella memoria collettiva dei compagni. Non bisogna commettere questo errore – che, per altro, è comune – come è accaduto con molti compagni che hanno esaminato la proposta organizzativa della Federazione scozzese.
Ma anche nelle realtà meno sviluppate, quando le condizioni dello scontro non consentono quella maturazione delle coscienze che è la sola condizione perché ogni discorso di classe diventi comprensibile, vi sono elementi minimi che non vanno mai dimenticati. Mi riferisco all’autonomia dell’organizzazione, alla conflittualità permanente, all’azione diretta, alla conquista dell’informazione, alle tecniche di intervento nelle lotte intermedie, alla critica del sindacalismo, agli obiettivi insurrezionali.
E ciò appare anche in queste due proposte organizzative che, per motivi diversi, si rivolgevano a realtà non certamente evolute dal punto di vista dello scontro di classe.
Di questa proposta venne realizzato un ciclostilato in lingua inglese che ebbe una circolazione limitata alla Scozia. Purtroppo non si andò molto oltre le discussioni iniziali e qualche riunione ristretta, senza riuscire ad allargare l’interesse a molti compagni. L’iniziativa pratica di cominciare un lavoro nel settore dei lavoratori delle costruzioni navali non poté realizzarsi.
Proposta organizzativa della Federazione Anarchica Scozzese
Sentiamo tutti la necessità dell’organizzazione, sappiamo benissimo che senza organizzazione non solo non ci è possibile far conoscere il nostro ideale anarchico, ma nemmeno fare la più piccola delle azioni: senza organizzazione non possiamo vivere.
Ma c’è organizzazione e organizzazione. Essendo il nostro scopo quello della liberazione definitiva di tutti gli sfruttati, della distruzione di ogni forma di autorità, della costruzione di una società liberata, dobbiamo pensare a realizzare questo scopo attraverso una struttura che, fin d’adesso, nella realtà autoritaria in cui domina lo sfruttamento, nella realtà che viviamo, ci dia delle garanzie di portare avanti il nostro messaggio di liberazione.
Il capitalismo ha subìto, specialmente negli ultimi anni, molte modificazioni, facendo in modo di continuare lo sfruttamento e l’estrazione del profitto. Non è possibile parlare di liberazione e di anarchia, di società nuova e di felicità e benessere per tutti, senza rompere il cerchio capitalista dello sfruttamento e del profitto. Per questo dobbiamo lavorare sul posto di lavoro e sul posto della disoccupazione. Questa è la realtà che definiamo realtà delle lotte. Il posto di lavoro è costituito dalle fabbriche e dalle campagne, il posto della disoccupazione è costituito dalle scuole e dalle università, come pure dai ghetti.
Adesso questa realtà di sfruttamento è nelle mani delle trade union, che realizzano a livello sindacale quello che il Partito laburista realizza a livello politico. La “pace sociale” è pagata con la pelle dei lavoratori, con gli incidenti sul lavoro, con le malattie professionali, con le morti sul lavoro.
Per meglio garantire questo “assopimento” dei lavoratori e portarli di nuovo ogni giorno sul posto di lavoro, davanti allo sfruttamento, i padroni hanno realizzato un sistema generale di “istupidimento”. La televisione, lo sport, le piccole abitudini di ogni momento, ci hanno quasi convinto che, in definitiva, i nostri padroni fanno di tutto per farci stare bene.
Ci hanno quasi convinto, ma non convinto del tutto. Compito degli anarchici è quello di risvegliare la coscienza dei lavoratori, di rendere chiaro il processo sotterraneo di “istupidimento”, di far vedere come tutto concorra a rendere possibile lo sfruttamento.
Per far questo gli anarchici hanno bisogno di analisi della realtà delle lotte. Non analisi economiche elaboratissime, coperte di numeri e di dati. Non tutto questo. Essi hanno bisogno dello stretto necessario per comprendere il fenomeno del lavoro, oggi, in una realtà capitalista come la nostra. Quindi, analisi brevi e semplici, analisi che sono l’anticamera dell’azione.
Come entrare nella realtà delle lotte non è un problema di facile soluzione. Il lavoro di “istupidimento” che le trade union e il Partito laburista hanno condotto rende le cose più difficili. Si è venuta creando una mentalità corporativa nei lavoratori. Questi, quasi sempre, vedono il conflitto sul posto di lavoro come un fatto della loro realtà, come qualcosa che comincia e finisce dentro le mura della fabbrica.
Allo stesso modo gli studenti, specie gli universitari, non si rendono conto di essere semplicemente disoccupati che lo Stato sovvenziona per alleggerire la pressione della domanda di lavoro. Si considerano, qualche volta, privilegiati, ma devono, prima o poi, rendersi conto che il loro destino di sfruttati li accomuna ai lavoratori, facendo in modo che i problemi di questi siano anche i loro problemi.
Gli anarchici, al momento, sono al di fuori delle lotte. Tranne casi specifici, a livello individuale, sono tutti in questa situazione. E, poiché non si può certo partire dai casi singoli per costruire una strategia globale di intervento sulla realtà, occorre dire che gli anarchici sono tutti in questa condizione.
Per questo motivo proponiamo il seguente progetto organizzativo.
A – “Dichiarazione di princìpi”.
A tutti i lavoratori, a tutti i disoccupati, a tutti gli sfruttati.
La liberazione definitiva dal giogo dello sfruttamento deve essere opera dei lavoratori stessi. Finché esisteranno i padroni non ci sarà libertà, finché esisteranno le trade union e i partiti non ci sarà la possibilità di lottare per la libertà.
Gli anarchici sono contro i padroni, contro lo sfruttamento del lavoro, contro l’elemosina che viene fatta ai disoccupati.
Gli anarchici vogliono lottare per l’emancipazione della società, perché si viva in modo che tutti possano lavorare senza essere sfruttati e tutti possano godere del prodotto del proprio lavoro.
Negli altri paesi, in Italia, in Francia, nella stessa Spagna, i lavoratori si stanno organizzando in modo autonomo per la lotta. Lo stesso deve avvenire in Scozia. Le ricchezze del nostro paese non devono affluire più nelle tasche dei ricchi, ma nelle mani di tutti i lavoratori.
Per far questo occorre essere coscienti dello sfruttamento che si subisce. Occorre organizzarsi per lottare. Occorre considerare come traditori le trade union e tutti i partiti politici.
Né servi né padroni.
B – Considerazioni organizzative.
La “Dichiarazione di princìpi”, redatta in forma semplice, costituisce uno strumento informativo di massima sugli scopi politici dell’intervento nella realtà delle lotte che l’organizzazione anarchica vuole realizzare.
Sarebbe molto buono che a sottoscrivere questa “Dichiarazione” fosse la Federazione Anarchica o, quanto meno, alcuni gruppi a essa appartenenti.
Il dettaglio di questa “Dichiarazione” dovrebbe far comprendere ai lavoratori e ai disoccupati gli scopi generali di rigenerazione e di liberazione degli anarchici, oltre gli scopi concreti che l’organizzazione scozzese si propone. Cioè dovrebbe: a) far conoscere i principali princìpi di azione anarchica, b) far conoscere gli scopi dell’organizzazione scozzese, i suoi obiettivi immediati, le forme del suo realizzarsi in quanto forza politica.
I lavoratori hanno oggi bisogno di un’alternativa all’unica strada possibile che si apre loro davanti, quella della collaborazione con i padroni, strada che viene suggerita dalle trade union e dal Partito laburista. Questa strada alternativa non deve sembrare qualcosa di troppo vago o di troppo utopistico, ma deve dare l’impressione di qualcosa che pur essendo piccola può crescere, svilupparsi, principalmente col loro contributo, con la loro partecipazione attiva, con la loro lotta.
Per impostare correttamente il lavoro politico partendo dalla “Dichiarazione di princìpi” occorre individuare per ogni zona – a cominciare da quella in cui risiediamo noi stessi – un certo numero di realtà di lavoro (fabbriche, cantieri, università, servizi pubblici), e divulgare all’interno di queste realtà la “Dichiarazione” suddetta.
Il documento dovrebbe essere stampato per facilitare la lettura, possibilmente in caratteri abbastanza leggibili.
In occasione di ogni distribuzione del documento, in una o più realtà lavorative (possibilmente vicine), si dovrebbe indire, per qualche giorno dopo, scelto evitando di contrastare con le ore lavorative, una riunione in un locale della città. L’indicazione di questa riunione si potrebbe fare in margine allo stesso documento, facendo in modo, al momento della stampa, di lasciare uno spazio bianco. Su questo spazio, di volta in volta, si potrebbe ciclostilare l’indicazione della riunione.
Non bisogna lasciarsi scoraggiare nell’impiego di questo metodo. Di regola i lavoratori sono abbastanza diffidenti verso le forze politiche e, almeno subito, non sono in grado di vedere chiare differenze tra le forze che li tradiscono e quelle che vogliono emanciparli. Quindi è del tutto possibile che la risposta a questo invito non sia massiccia, come pure potrebbe mancare del tutto. Ma bisogna insistere perché è la sola possibilità che abbiamo, in quanto organizzazione, di penetrare all’interno della realtà delle lotte, in una situazione come quella nostra.
Di regola, in una realtà di sfruttamento (fabbrica, campagna, università, quartiere), vi sono molti individui che hanno una sensibilità più elevata degli altri, alcuni di essi soffrono di più a causa dello sfruttamento, spesso non sapendo cosa fare per uscirne, per trovare una soluzione. Sono i cosiddetti malcontenti, i più violenti, spesso facinorosi, non ben visti dai capi ai quali non danno molta collaborazione sui posti di lavoro. Ma proprio perché sono così, proprio perché inconsciamente sono sempre in lotta, sono ben visti e amati dai loro compagni. Saranno, quasi sicuramente, questi individui che si avvicineranno al nucleo formativo dell’organizzazione, che verranno a chiedere chiarimenti, a fare domande, saranno proprio loro a partecipare alle prime riunioni, a chiedere e a dare indicazioni preziose per continuare il lavoro, per penetrare veramente all’interno delle realtà di lotta.
A questo punto la “Dichiarazione” usata all’inizio non sarà più sufficiente. Questi compagni (perché adesso avranno preso un minimo di coscienza) faranno richieste precise. Cioè vorranno fare qualcosa non soltanto dal punto di vista teorico ma da quello pratico per migliorare la loro situazione all’interno del posto di lavoro e, con la loro, quella degli altri.
Si renderà allora indispensabile la stesura di un progetto di intervento nelle lotte, passo decisivo che l’organizzazione anarchica deve compiere insieme ai compagni che sono venuti e con cui è entrata in contatto attraverso la prima mossa iniziale.
Questo passo richiederà la stesura di un documento più ampio, capace di servire da base per la continuazione del lavoro.
Ecco i punti essenziali, i concetti guida di questo documento che, al momento opportuno, saranno chiariti meglio:
a) autonomia dell’organizzazione da qualsiasi forma d’ingerenza delle trade union, shop-steward, o partiti,
b) lotta costante contro i padroni. Siccome la repressione è costante, la lotta deve essere costante e non legata alle decisioni di qualche gruppo di potere che indice gli scioperi o altre agitazioni,
c) esportazione della lotta all’esterno della realtà di lavoro, per coinvolgere le altre realtà collaterali e per evitare la chiusura corporativa,
d) conquista dell’informazione riguardante l’organizzazione del lavoro, le forme di lotta e tutto quello che interessa il lavoratore, in modo da evitare l’ingerenza dei centri sindacali o partitici.
e) attacco diretto contro le strutture produttive della realtà di lavoro, per obbligarla ad accettare le rivendicazioni,
f) rivendicazioni salariali. Evitare le rivendicazioni nominali che fanno solo aumentare il salario ma, attraverso l’aumento dei prezzi, lo fanno poi tornare al punto di prima. Avanzare queste rivendicazioni insieme ad altre che fanno aumentare veramente il salario (a esempio: riduzione delle ore di lavoro, rifiuto della mobilità, copertura degli organici, miglioramento degli ambienti di lavoro, ecc.). Insomma tutto quello che costituisce, insieme alla paga, il salario reale.
Comunque, questo progetto dovrà essere discusso in dettaglio al momento di stendere un piano preciso di intervento nelle realtà lavorative.
Parallelamente alla crescita del lavoro, a partire dall’iniziativa dei gruppi promotori, dovrà essere sviluppata l’organizzazione anarchica specifica in quanto tale. Questa sarà una conseguenza della penetrazione stessa all’interno della realtà delle lotte. Man mano che tanti nuovi compagni verranno all’interno dell’organizzazione, questa crescerà e dovrà anche aver cura di sviluppare le proprie strutture interne, in forma federativa, evitando quelle involuzioni autoritarie che sono state spesso segnalate, in passato, in altre organizzazioni anarchiche, una volta pervenute a un certo grado di sviluppo.
Agli inizi, come si è appunto in questo momento, suggeriamo di diffondere il documento che uscirà dalla presente riunione agli altri gruppi e alle altre individualità che vivono e lavorano in Scozia. Chiedendo, nello stesso tempo, il loro appoggio, le loro critiche, le loro opinioni.
A questo scopo sarebbe bene che un compagno abbia la possibilità di spostarsi nel nostro paese, andando a parlare con gli altri compagni, nelle altre città, proponendo il piano organizzativo che uscirà dalla presente riunione.
Lo sviluppo delle strutture interne dell’organizzazione anarchica specifica non è secondario allo sviluppo del lavoro politico all’interno delle realtà di lotta. Le due cose devono camminare di pari passo.
In quest’ultima direzione, a uso quasi esclusivamente interno, si suggerisce la stesura di un bollettino in cui si potranno trattare argomenti di natura organizzativa, non vaghi o teorici, ma specifici, cioè riguardanti lo stato di penetrazione di ogni gruppo nella realtà di lotta che gli sta davanti.
Speriamo, con questo contributo, di aver fatto cosa utile alla crescita del movimento anarchico scozzese.
[1977]
Schema di discussione per la stesura di un documento organizzativo della Federazione Anarchica Siciliana
Nella realtà siciliana agisce in pratica un doppio sfruttamento. Oltre al meccanismo del capitale che realizza la formazione del valore a livello planetario e a livello zonale, esiste un altro meccanismo, coordinato col primo, ma avente sue caratteristiche ben precise.
Quest’ultimo meccanismo, a seconda del lato da cui lo si guarda, si può chiamare: sottosviluppo, segregazione etnica, inferiorità culturale, subordinazione decisionale, ecc. In ogni caso, esso è produttore di alcuni mali che finiscono per diventare, a loro volta, cause di altri mali per la Sicilia e i Siciliani.
Gli anarchici devono dare, nelle loro analisi, un ampio spazio ai problemi di natura economica che costruiscono le condizioni del sottosviluppo siciliano, ma devono anche fare capire in che modo agisce quest’altro meccanismo di ghettizzazione, in quanto non sarà certamente soltanto da una trasformazione economica che arriverà la liberazione definitiva della Sicilia, ma da un processo complesso e ricco di componenti.
In Sicilia si ha un accentramento delle élite di potere molto più accentuato di quanto non si riscontra altrove. Le strutture locali di dominio hanno un forte carattere mafioso, cioè clientelare e di delega, che finisce per diventare il denominatore comune del rapporto tra dominanti e dominati.
Ciò comporta una difficoltà concreta nello sviluppo di movimenti di antagonismo, i quali, per radicarsi nelle forze vive degli sfruttati, devono spezzare il cerchio vizioso della delega clientelare. Questo non può ovviamente accadere soltanto con parole o vaghe indicazioni ideologiche, ma deve partire da punti di riferimento precisi, da soluzioni pratiche, da possibilità operative.
Il quadro si completa tenendo presente l’influenza degli elementi culturali che stratificandosi si trasformano in valori di riferimento: senso di inferiorità, senso di subordinazione nei confronti della lingua italiana, sentimento del ghetto (claustrofobia, disperazione, rivolta, ecc.), supervalutazione della tradizione e del ricordo storico, deformazione del sentimento etnico. Tutto ciò costituisce un amalgama che non è facile separare in una lotta di settore che pretenda imporre modelli di comportamento magari validi altrove ma in Sicilia decisamente destinati a fallire.
I princìpi generali di un’organizzazione anarchica si possono riassumere in due versanti: uno distruttivo e uno costruttivo.
Gli anarchici sono contro:
– lo Stato – organizzazione centralizzata del potere a tutti i livelli (amministrativo, finanziario, politico, militare, ecc.),
– il governo – organo politico esecutivo dello Stato che prende tutte le decisioni in materia di repressione, sfruttamento, controllo, reperimento del consenso, ecc.,
– il capitale – processo produttivo in corso di realizzazione in quanto formazione del valore, identificabile nei singoli capitalisti, nella loro attività, nei loro progetti, nelle loro complicità,
– gli elementi dello Stato e del capitale – polizia, magistratura, esercito, scuola, giornali, TV, sindacati, mafia, grandi imprese multinazionali, ecc.,
– la famiglia – nucleo essenziale su cui si fonda la struttura statale,
– la struttura politica – tutti i partiti, il parlamento che è espressione della democrazia capitalista, l’ideologia politica che serve a nascondere i problemi reali degli sfruttati,
– i fascisti – strumenti della repressione nelle mani dello Stato e dei capitalisti,
– la religione e la Chiesa – potenti alleati della repressione,
– l’esercito – corpo armato da usare per intimidire gli sfruttati,
– le carceri – istituzione repressiva per la segregazione delle parti più povere delle classi sfruttate,
– i manicomi (anche quelli nascosti) – elementi di repressione del diverso.
Gli anarchici sono anche contro:
– il riformismo – che pretende sistemare i mali della società con le leggi, i partiti, i parlamenti, i referendum, il voto, ecc.,
– l’efficientismo – che riduce l’uomo a un automa,
– l’umanitarismo – che declama per la pace e la salvezza dell’uomo astratto ma non fa nulla per attaccare gli sfruttatori,
– il patriottismo – che alimenta l’idea assurda di una patria da preferirsi alle altre nazioni, mentre gli sfruttati non hanno patria e sono tutti fratelli,
– il militarismo – che giustifica ed esalta la funzione degli eserciti,
– il razzismo – che definisce superiore una parte degli uomini,
– il maschilismo – che riduce la donna a oggetto sessuale,
– la delega – che allontana gli sfruttati dall’azione diretta,
– la gerarchia – che educa alla stratificazione sociale,
– l’obbedienza – che reprime ogni originalità e impone l’accettazione del potere,
– l’autorità – che impedisce lo sviluppo autonomo dell’individuo.
Il secondo versante di cui parlavamo sopra, quello costruttivo, si basa su:
– Abolizione dello Stato, del governo, del capitale, della famiglia, della religione, dell’esercito, delle carceri, dei manicomi e di ogni forma di potere che con l’autorità delle leggi obblighi a fare qualcosa. Negazione di qualsiasi forma di Stato “operaio” o “socialista”, come di qualsiasi forma di “dittatura del proletariato”.
– Eliminazione della proprietà privata della terra, degli strumenti di lavoro, delle materie prime e sussidiarie, delle macchine, delle fabbriche, delle campagne e della proprietà privata di tutto ciò che occorre per la produzione di quanto è necessario alla vita.
– Sostituzione della famiglia tradizionale con la convivenza fondata sull’amore, l’affinità reciproca e la reale uguaglianza dei sessi.
– Organizzazione della produzione e del consumo partendo da libere associazioni di base, differenziate secondo i diversi problemi da affrontare, gli interessi da garantire e le affinità da sviluppare. L’insieme di queste organizzazioni si strutturerà per zona, per gruppi di comuni, per allargarsi a una federazione più ampia, fino a raggiungere il massimo sviluppo possibile contrassegnato dai limiti delle zone liberate dalla rivoluzione in corso.
– Educazione libera avente lo scopo di svegliare le attitudini individuali.
– Diffusione dell’ateismo e della propaganda antireligiosa e anticlericale in modo da chiarire problemi che anche la rivoluzione può affrontare solo in modo parziale.
– Continuazione della rivoluzione sociale fino alla definitiva liberazione dell’uomo e la relativa scomparsa di ogni sfruttamento.
L’elemento propulsivo principale di questo progetto è il “gruppo anarchico” che è la struttura organizzativa più importante su cui si basano tutte le iniziative di lotta a qualsiasi livello sempre che siano impostate su di una metodologia libertaria.
La prima condizione essenziale che deve essere assolutamente tenuta presente in un gruppo anarchico è l’assoluta autonomia del singolo. Tutte le decisioni saranno quindi prese tenendo conto di questa autonomia, senza che sia la maggioranza a schiacciare la minoranza e senza nemmeno che la minoranza strumentalizzi il suo dissenso per bloccare le iniziative del gruppo nel loro significato più ampio.
Dall’affinità dei partecipanti al gruppo e dalle opportune considerazioni operative si potrà procedere alla scelta riguardo le attività da intraprendere e l’impiego dei mezzi più idonei per realizzare i vari programmi.
In quanto minoranza specifica il gruppo anarchico è costituito da compagni coscienti, in grado di sviluppare, nel corso delle lotte, un’affinità personale e politica allo scopo di spingere gli sfruttati alla ribellione e all’autorganizzazione di classe.
Questi due compiti esteriormente si manifestano con una serie di interventi di grande varietà: dalla propaganda all’intervento minoritario specifico, dal giornale all’organizzazione di strutture di lotta autogestite.
Per chiarezza dividiamo in due categorie questi interventi:
a) La ribellione. Propagandare il rifiuto della delega e dell’autorità, della subordinazione e dell’obbedienza significa invitare alla ribellione. Fare vedere le responsabilità del potere nel suo insieme, e dei singoli uomini che realizzano lo sfruttamento, significa fornire indicazioni in merito al nemico contro cui ribellarsi. Quanto più dettagliate queste informazioni sono, tanto più la rivolta si profila concreta e possibile. Nessuno si ribella se non vede chiaramente perché e contro chi ribellarsi. Anche nella realizzazione di lotte intermedie (salariali, di settore, nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche, contro la disoccupazione, contro il nucleare, contro l’esercito, contro le basi missilistiche, ecc.) occorre sviluppare una metodologia insurrezionalista cercando di realizzare, tutte le volte che sarà possibile, rivolte concrete, attacchi precisi contro il nemico di classe. Se possibile, queste rivolte dovranno organizzarsi con la più grande partecipazione popolare, in caso contrario, quando questa dovesse mancare, potranno essere portate a compimento anche dai soli compagni anarchici che hanno cominciato la lotta.
b) L’autorganizzazione. La realizzazione di strutture organizzative di ogni tipo, aventi le caratteristiche dell’autogestione, della conflittualità permanente e dell’attacco, è una delle condizioni principali dell’autorganizzazione degli sfruttati. Queste strutture autonome sono la negazione in atto di ogni forma burocratica che intenda incanalare le lotte nel senso voluto, da un partito o da un sindacato. Non hanno natura resistenziale e quindi non possono mai andare a finire nel pantano corporativo. Hanno sempre uno scopo preciso e ben determinato.
Il secondo livello organizzativo, dopo il gruppo anarchico, è dato dalla federazione, struttura fondata su patti e accordi liberi e reciproci in base ai quali i diversi gruppi di una zona determinata si collegano tra loro per studiare insieme un intervento nelle lotte, per trasferirsi reciprocamente le esperienze fatte, per fronteggiare la repressione, per diffondere le informazioni di cui sono in possesso, ecc.
La Federazione Anarchica Siciliana dovrebbe raccogliere tutti i gruppi anarchici e tutte le individualità che agiscono in Sicilia e che si riconoscono nei princìpi sopra indicati e nel programma essenziale.
Occorre, come prima cosa, dar vita a un gruppo promotore per la costituzione della FAS, allo scopo di discutere questo schema di “documento organizzativo”, prendendo contatti con i diversi gruppi e individualità in Sicilia interessati a un approfondimento della discussione. Nel caso vi fossero delle risposte favorevoli a questa iniziativa si potrebbero fare dei convegni preparatori di un futuro Congresso costitutivo della FAS.
[Di questa proposta di discussione, avanzata nel 1977, sono state diffuse solo poche copie fotocopiate. In pratica non si andò avanti con quanto ci si era proposto di fare, in particolare con la serie di incontri a livello regionale, da cui sarebbe dovuta uscire una proposta organizzativa più dettagliata di questa]
IV. La lotta insurrezionale a Comiso contro la base missilistica
Premessa necessaria
Quello di Comiso [1982-1983] è stato certamente il tentativo insurrezionale più dettagliato (e quindi più contraddittorio) realizzato in Italia negli ultimi anni.
Non è possibile fare una storia articolata di tutto lo svolgimento della lotta. Per altro sono ormai state scritte centinaia di pagine e le sciocchezze che si trovano in circolazione, a opera di vecchi e nuovi imbecilli, non è possibile cancellarle con una semplice messa a punto. Non è mio mestiere fare lo storico e non mi alletta raddrizzare le gambe ai cani.
Non bisogna dimenticare che lo scopo di questo libro è quello di documentare l’applicazione di un metodo (almeno, lo scopo della seconda parte del libro) e non quello di ricostruire la sequenza storica di fatti che, con un poco di buona volontà, i compagni possono indagare personalmente con uno sforzo minimo. Per tale motivo vengono qui tralasciate indicazioni di persone e cose, citazioni di articoli e lettere che se avrebbero dato maggiore luce a tutta la vicenda, avrebbero appesantito il lavoro snaturandone lo scopo.
Quando, in qualche nota, viene approfondito un certo argomento lo si è fatto perché lo si riteneva essenziale, senza mai entrare in polemica diretta e senza mai pretendere di avere detto l’ultima parola sull’argomento.
Tutti i documenti e gli articoli qui inseriti sono stati redatti da me e poi discussi con i compagni. Lo stesso dicasi per il Documento organizzativo che ho scritto – come ci si accorgerà – tenendo conto dell’esperienza precedente dei MAB di Torino.
Che dire delle reazioni isteriche seguite all’intervento a Comiso? Nulla. Che dire di coloro che si dichiaravano più impegnati degli altri, più rivoluzionari degli altri e, al momento dell’azione, sono stati colti dai dubbi? Nulla. Che dire di coloro che da lontano indirizzavano altrove i compagni per impedire che la gestione restasse nelle mani di chi voleva raggiungere un obiettivo insurrezionale che non riuscivano a capire? Nulla. Che dire delle miserie e delle piccolezze di tanti bottegai della rivoluzione? Nulla.
Il lettore non è nato ieri.
La costruzione della base missilistica a Comiso si può impedire
Perché Comiso e la Sicilia? La scelta dell’imperialismo USA di collocare i missili Cruise a Comiso, nel centro della Sicilia e del Mediterraneo, ha un significato strategico sul piano militare che è facilmente intuibile. Al di là della propaganda filoamericana che vuole spiegare questa decisione criminale come necessaria per mantenere l’equilibrio con le dislocazioni di missili sovietici ai confini orientali dell’Europa, e quindi anche al di là di una spiegazione puramente tecnica sul piano militare, c’è il fatto che la decisione della costruzione della base si pone nell’ottica di quel progetto di “prepararsi alla guerra per mante nere la pace” che è sempre stato il cavallo di battaglia di tutti gli Stati e quindi di tutti coloro che vedono nella guerra la soluzione delle difficoltà del dominio e della continuazione dello sfruttamento.
Perché Comiso? La risposta non è difficile. Oltre a motivi strettamente militari ci sono motivi economici e politici. La Sicilia, come il Friuli, la Campania e la Sardegna – altre zone scelte per l’insediamento delle armi atomiche americane – sono realtà sottosviluppate in cui è possibile prevedere tre prospettive molto favorevoli al dominio del capitale: a) la militarizzazione del territorio in modo intensivo, fino ad arrivare alla chiusura di vaste zone e anche alla loro “desertizzazione”, b) la presenza di una organizzazione di lotta affidata solo ai partiti della cosiddetta sinistra, con cui è sempre possibile entrare in dialogo e realizzare compromessi, c) il forte bisogno di lavoro, se non altro per evitare la prospettiva dell’emigrazione, su cui si fonda il ricatto più forte per strappare il consenso di massa alla costruzione delle basi.
Ecco perché Comiso, ed ecco anche delineate le difficoltà cui va incontro qualsiasi intervento rivoluzionario di lotta che intenda stravolgere e sconfiggere il progetto dell’imperialismo di costruire la base di Comiso.
Una delle leve del consenso su cui l’imperialismo americano può contare in Sicilia è costituita da una certa mentalità di delega e di fatalismo che si è insinuata negli strati popolari, specialmente delle campagne, e che trova riscontro nella mentalità mafiosa di chi gestisce un potere alternativo a quello dello Stato e spesso più efficace ed energico di quest’ultimo.
Il capitalismo locale ha, in Sicilia, forti connotati mafiosi e si vale di rapporti clientelari, sia con gli strati intermedi che con la popolazione più povera, che sono sostanzialmente rapporti sostitutivi del potere dello Stato, spesso visto come qualcosa di lontano, raggiungibile solo attraverso l’intermediario mafioso. Il Comune, la Provincia, la Regione, i diversi enti assistenziali sono usati in una prospettiva esclusivamente clientelare e servono a reggere una struttura del consenso che è capillare ed efficiente. La burocrazia non ha ancora raggiunto i livelli tecnologici che la caratterizzano altrove, ma ha quella grande tradizione borbonica e di trapianto piemontese che la rendono insostituibile elemento di manovra del potere politico-mafioso e del raccordo tra mafia politica e mafia economica.
I concentramenti industriali hanno una realtà anomala, la maggior parte della classe operaia isolana non ha una specificazione industriale ma, prevedendo con la caratteristica astuzia dei poveri che quegli insediamenti erano praticamente un tranello del capitale, non ha perso il contatto con le realtà contadine originarie, venendosi a trovare, adesso, nella situazione che non è né classe operaia e neppure strato contadino o bracciantile. Da questo lato, la debolezza di lotta – a livello unionista – è qualcosa che colpisce in modo lampante.
I lavoratori delle campagne sarebbero, in fondo, la realtà proletaria più combattiva, anche perché legati a situazioni di sopravvivenza molto difficili e spesso minimali. Il PCI, e anche il PSI, e perfino la DC, cercano di convogliare il latente dissenso di questo strato in organizzazioni produttive – come le cooperative – che prospettando la possibilità di un lavoro continuativo, garantiscono un migliore consenso, salvo poi ad andare incontro a momenti di maggiore tensione sociale quando non si possono mantenere le promesse fatte. Nel ragusano la situazione presenta caratteristiche più complesse a causa del settore produttivo delle serre, in cui accanto al proprietario di un appezzamento particolarmente redditizio si colloca la figura del bracciante a mezzo servizio, contemporaneamente salariato e piccolo proprietario, nominalmente disponibile per la lotta ma sostanzialmente legato alla prospettiva del guadagno, alla prospettiva della piccola proprietà e quindi dei compromessi col potere che potrebbe garantire o distruggere le condizioni che rendono produttiva la piccola impresa contadina specifica della coltivazione a serra.
Lo strato sottoproletario è molto fluttuante. Si ingrossa nelle fasi di aumento della disoccupazione edile, come pure quando si restringono le possibilità di lavoro dei settori industriali. I braccianti e i giornalieri rientrano anch’essi in questo strato senz’altro interessante e, dentro certi limiti, disponibile per la lotta, ma che non ha caratteristiche costanti. La fonte di reddito per il sottoproletariato del ragusano è molto varia: dall’assistenza al lavoro nero, dalla cassa integrazione al doppio lavoro nelle campagne, dalla piccolissima attività commerciale (ambulanti, piccoli trasportatori, sensali di poco probabili affari immobiliari, ecc.) alla vera e propria sopravvivenza. Questo strato è abituato alla miseria e alla sofferenza. Nel ragusano anche la spinta verso la criminalità organizzata, tipica del palermitano e del catanese, è più ridotta e questo potrebbe costituire un canale ragguardevole di assorbimento quando – nella prospettiva della base – dovessero intervenire in zona in modo massiccio le grandi organizzazioni mafiose.
È stato fatto il discorso del “benessere” che gli Americani porterebbero nella zona di Comiso, discorso parallelo agli scarsi pericoli rappresentati dall’installazione della base.
Si tratta di un discorso che attira sempre l’attenzione degli sfruttati. Questi sono in grado di capirlo perché il concetto di sacrificio – di qualsiasi natura – è per loro connaturato al concetto di lavoro. Lo Stato è lontano, per cui quando si vuole ottenere qualcosa bisogna sempre rivolgersi alle clientele locali, ma quando lo Stato si avvicina per proporre un progetto di grandi dimensioni allora si riaccendono le antiche illusioni.
I poveri sperano di risolvere il problema, anche se per qualche tempo, i ricchi sanno con certezza che aumenterà la loro ricchezza. L’esercito di coloro che non sono né poveri né ricchi cerca di trarre la massima utilità possibile dall’avvenimento.
In questa prospettiva il capitalismo internazionale propone l’affare, il capitalismo nazionale mobilita le strutture mafiose che garantiscono il funzionamento delle clientele, gettano le basi per la realizzazione concreta. Gli sfruttati cercano di trarre tutto l’utile possibile. Il ricatto del salario precario, degli affari commerciali, dell’aumento delle vendite per i bottegai, raggiunge livelli incredibili.
Le conseguenze sono gravissime: rottura dell’omogeneità culturale contadina che sola poteva garantire un progressivo sviluppo della lotta e quindi anche del benessere collettivo, stravolgimento del mercato locale (rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità, degli affitti, sviluppo abnorme della circolazione del denaro e delle merci), militarizzazione del territorio che può anche arrivare alla chiusura di ampie zone, ai controlli a tappeto periodici e continuativi, alla presenza di grossi contingenti dell’esercito e delle varie polizie, impossibilità di sfruttare anche quei minimi vantaggi che la stessa dissennata attività imprenditoriale e commerciale garantiva sia pure dentro grossi limiti, razionalizzazione delle clientele mafiose sul modello palermitano, presenza di conflitti mafiosi gravissimi con centinaia di omicidi, aumento di rapine, estorsioni, furti, ecc., razionalizzazione e incremento del mercato delle droghe pesanti (eroina e cocaina), diffusione e controllo mafioso della prostituzione.
La “pace sociale” viene costruita dai padroni proprio facendo ricorso alle armi, ai conflitti dichiarati e potenziali, all’installazione dei missili, agli eserciti, alle polizie, alla mentalità militarista e mafiosa. Questa pace è simile alla pace dei cimiteri. Man mano che dalla fase del dominio formale del capitale si passa alla fase del suo dominio sostanziale, si verifica una diminuzione delle contraddizioni tipiche del capitalismo concorrenziale, dilaniato dalla prospettiva del profitto a qualsiasi costo, e un aumento dell’intervento statale nel campo economico. Questo intervento trasforma le condizioni della concorrenza economica, fa passare in secondo piano l’obiettivo del profitto, razionalizza lo sfruttamento, centralizza il dominio pur nel rispetto formale del gioco democratico e rappresentativo.
La produzione del valore si subordina alla produzione di “pace sociale”. Il reperimento del consenso diventa l’industria principale attorno alla quale ruota tutto il meccanismo statale che viene così diretto esclusivamente a garantire al capitalismo internazionale la realizzazione dello sfruttamento su scala planetaria. Il vero e proprio problema economico locale passa in seconda linea di fronte agli equilibri e ai progetti multinazionali. L’assistenzialismo si sostituisce a poco a poco alla logica della produzione.
Ma la soluzione delle contraddizioni del capitale, specialmente a livello regionale e locale, non è raggiungibile se non si supera di fatto una condizione oggettiva del capitalismo attuale che è molto spesso di arretratezza. In questa condizione i conflitti sociali sono ancora acuti e possono anche tendere ad acutizzarsi di più, e ciò come conseguenza della necessità di estendere via via il progetto del dominio reale in tutte le parti del mondo. Per questi motivi le difficoltà della produzione di “pace sociale” sono ancora alte. Ed è in questa direzione che si devono indirizzare gli sforzi di coloro che lottano contro il dominio, contro lo Stato e contro il Capitale. Il nostro nemico di classe ha interesse a prepararsi per il definitivo annientamento di ogni opposizione e di ogni dissenso rivoluzionario, ma per far ciò deve migliorare le condizioni dello sfruttamento che, allo stato attuale causano solo in Italia un morto ogni ora e un ferito ogni cinque minuti. Questo miglioramento renderà più razionale lo sfruttamento e quindi diversa e più complessa la lotta di classe, ma per realizzarlo occorrerà del tempo. Nell’attesa sarà sempre necessario per i padroni fronteggiarsi nello scontro internazionale, sul piano economico e sul piano militare in senso stretto. Ciò porta tragicamente a scelte nucleari, a scelte belliche atomiche e a scelte di genocidio (Libano, Afghanistan, S. Salvador, ecc.), la qual cosa riapre il problema del livello dello scontro di classe.
In questo modo il capitalismo lavora per la guerra e parla di pace, costruisce, vende e impiega armi tradizionali e armi atomiche ma afferma di farlo perché non c’é altro mezzo per salvaguardare la pace. Di questa “pace” dei padroni gli sfruttati non sanno cosa farsene.
Limitandosi al problema della costruzione della base missilistica di Comiso è possibile individuare alcune responsabilità fondamentali.
Il capitalismo internazionale e il suo corrispettivo nazionale e locale hanno interesse alla difesa armata dei propri progetti di dominio. La NATO, in quanto organismo specificamente creato per questa difesa, è il gendarme armato che interviene sia per frenare le situazioni di pericolo per il capitale, sia per impedire che si creino, in prospettiva, situazioni di conflitto sociale. Per fare questo vengono utilizzati sia mezzi militari (coordinamenti tra i diversi eserciti, armamenti nuovi, esercitazioni comuni, dislocamenti di contingenti militari), sia mezzi politici.
Nella prospettiva politica la DC è il partito che si è rivelato incapace di svolgere il compito di tutela degli interessi del capitale internazionale. Per tale motivo è stato inserito, nell’orbita governativa, il PSI, che è diventato sempre di più il partito degli Americani e la forza politica più adatta, a livello tecnocratico e dirigenziale, per fare quello che la DC – troppo legata alle clientele mafiose – non riusciva a fare.
Ma la copertura definitiva ed essenziale la fornisce il PCI. È questo partito che si fa carico di frenare lo slancio degli sfruttati, che organizza il recupero di ogni forma di dissenso, che spezza la combattività dei lavoratori delle campagne tramite le cooperative e gli altri imbrogli di compartecipazione agli utili delle aziende, che incanala le speranze giustissime di coloro che non hanno avuto mai niente per svuotarle del loro contenuto conflittuale. Si è visto chiaramente come, per Comiso, sia stata messa in moto tutta la gigantesca macchina di questo partito per sviluppare un dissenso formale e platonico, con le marce, con le firme, con gli scioperi della fame, il tutto per impedire che prendesse forma un dissenso reale ed efficace, fondato sull’occupazione, sul sabotaggio, sull’attacco agli interessi dei padroni, sull’apprestamento di mezzi idonei a impedire la costruzione della base.
Un altro strato pesantemente responsabile nei riguardi del progetto di rapina e di morte che si vuole realizzare a Comiso è quello dei bottegai. Il loro miserabile interesse di aumentare le vendite, di vedere circolare dollari a posto delle solite quattro lire, è stato esaltato come un beneficio di cui godrebbe tutta la collettività della zona, mentre è drammaticamente evidente che questo loro interesse, circoscritto e personale, verrebbe pagato pesantemente dalla povera gente se non altro con un immediato e notevole rialzo dei prezzi: dagli affitti ai beni di prima necessità. Non vi può essere dubbio che uno degli ostacoli con cui bisognerà fare i conti nella lotta contro la base sarà proprio l’organizzazione dei bottegai della zona.
Un’altra categoria che ha le sue responsabilità è quella dei piccoli proprietari, che si è adeguata immediatamente alle indicazioni di lotta del PCI, proprio perché convinta che questa strategia non aveva lo scopo immediato di fare qualcosa di reale. Infatti, i piccoli proprietari, anche quelli danneggiati direttamente dalla costruzione della base, hanno lo scopo di impedirne la costruzione, ma questo scopo è subordinato a una eventuale proposta, da parte degli organi responsabili, di un adeguato indennizzo. In altri termini, la loro lotta è legata a una condizione sospensiva: vogliono prima vedere come si comporteranno lo Stato e la Regione, e solo dopo saranno disponibili a lottare realmente, salvo a venire meno al loro impegno una volta che la proposta degli organi responsabili tornasse di nuovo conveniente.
Ma c’è un’ultima categoria che potrebbe avere le sue responsabilità se non dovesse rispondere coerentemente alle proposte dei portatori di morte: la categoria dei lavoratori, specie i manovali del settore edilizio, e ancora, più precisamente, quel folto numero di disoccupati che sono stati messi sul lastrico proprio in questi ultimi mesi allo scopo di creare una sollecitazione favorevole alla costruzione della base (portatrice di lavoro e di benessere!). Non dovrebbe essere difficile capire l’imbroglio. La stessa consistenza e durata del lavoro è praticamente minima, i benefici che se ne ricaverebbero avrebbero durata limitata e sarebbero presto riassorbiti dall’aumento dei prezzi, per cui la soluzione sarebbe ancora quella di restare disoccupati o partire per ingrossare l’emigrazione. Tanto vale imporre subito le proprie condizioni, fissare subito i termini della lotta, mettendo i portatori di morte davanti all’impossibilità del ricatto del salario. Occorrerà fare molta chiarezza su questo argomento. Lottando subito e in modo efficiente si ottengono due risultati: si blocca la costruzione della base e si obbligano i padroni e i politici a trovare una soluzione al problema della disoccupazione con altre iniziative che saranno tanto più prontamente realizzate quanto più efficace sarà la lotta contro la base.
La nostra “proposta organizzativa” – così come è stata sviluppata nell’intera provincia di Ragusa, e quindi anche nei centri di Vittoria, Modica, Ispica, Scicli, Giarratana, Monterosso, ecc. – si può dividere in tre fasi.
La prima fase ha sviluppato, e continua a sviluppare, un contatto diretto con le diverse realtà, tramite comizi e tramite volantinaggi. Gli argomenti scelti per sviluppare i comizi e per la stesura dei volantini sono stati espressamente semplificati, evitando analisi molto dettagliate e complicate per incentrare il discorso su di un unico punto. La costruzione della base missilistica si può impedire, a condizione che si apprestino e si impieghino mezzi idonei a impedirla. I mezzi suggeriti e messi in pratica dal PCI non sono adatti a impedire la costruzione della base. Con le marce colossali ma inefficaci, con gli scioperi della fame, coraggiosi ma isolati, con la raccolta delle firme che verrà smontata dagli imbrogli di potere, non si raggiunge lo scopo. Questi mezzi del PCI sono mezzi fittizi che non vogliono veramente impedire la costruzione della base. Bisogna impiegare mezzi più duri ed efficaci. I padroni e i loro servitori capiscono un solo linguaggio: quello della paura. Bisogna quindi far loro paura, come è già accaduto in passato. Basta pensare all’occupazione delle terre, che ha rotto la prepotenza del latifondo. Quindi bisogna ricorrere ai mezzi dell’occupazione, del sabotaggio, dell’attacco duro e frontale.
La seconda fase del nostro intervento è incentrata nell’organizzazione di un Convegno internazionale anarchico [tenutosi il 31 luglio e il 1 agosto 1982 al campo sportivo comunale di Comiso, n.d.r]. Sarà un’occasione fondamentale perché tutto il movimento anarchico, insieme agli strati più sensibili dei lavoratori delle campagne, dei proletari e dei sottoproletari, contribuisca ad approfondire il problema della lotta a Comiso contro la base. Da questo Convegno dovrebbero uscire indicazioni di metodo, indicazioni analitiche e indicazioni di lotta più generalizzata, in quanto il problema di Comiso presenta il rischio grossissimo della parcellizzazione, cioè di venire chiuso come lotta specifica all’interno di una zona precisa della Sicilia e all’interno di quel tipo di lotte che si richiamano all’antimilitarismo, alla lotta contro la guerra e alle lotte contro il nucleare. Il passaggio alla generalizzazione degli interventi anche in altri settori, e quindi la discussione e l’approfondimento dei metodi da impiegare nella lotta a Comiso contro la base, possono essere realizzati solo con un contributo analitico e creativo di tutto il movimento anarchico nel suo insieme.
La terza fase ha preminenti caratteristiche organizzative. Non è necessariamente successiva alle prime due, ma si sviluppa parallelamente. Il nostro scopo è quello di suggerire la creazione (e quindi anche di contribuire a creare), nei diversi centri, di Leghe autogestite contro la base di Comiso, che possano prendere in prima persona la continuazione della lotta, determinare le caratteristiche dello scontro, decidere le diverse cose da fare. A nostro avviso, e basandoci sui risultati della prima fase di intervento, possiamo essere sufficientemente certi che esiste nelle diverse realtà della provincia di Ragusa e particolarmente a Comiso un forte dissenso all’interno della base del PCI in merito ai metodi di lotta suggeriti da questo partito. Di più, esiste anche un non trascurabile dissenso nella base del PSI che non condivide le scelte di Craxi e di Lagorio, e questa componente è molto forte, specialmente tra i vecchi braccianti. In più si può contare su di un dissenso non politicizzato che potrebbe, se opportunamente sensibilizzato, con un intervento capillare nei quartieri periferici dei diversi centri, coinvolgere le donne proletarie in modo particolare. In una lotta come quella di Comiso la funzione che potrebbe svolgere questo strato sociale non deve essere trascurata.
In conclusione, i nostri sforzi ci sembra che debbano essere diretti a favorire la nascita e la crescita di queste strutture organizzative di base, con caratteristiche autogestite. Lo sviluppo della lotta, che prevediamo deve necessariamente indirizzarsi versi livelli più duri e acuti, avrebbe allora una base su cui contare, una base che sarebbe autonomamente in grado di operare quella selezione di classe che rende possibile il buon risultato dell’impegno rivoluzionario.
[Cfr. (A. M. Bonanno), La costruzione della base missilistica a Comiso si può impedire!, Numero unico, luglio 1982]
Il movimento anarchico italiano e la lotta contro i missili a Comiso
Guardando con attenzione e senza preconcetti la presente situazione del movimento anarchico italiano si deve convenire che essa possiede quelle stesse caratteristiche di inadeguatezza al livello dello scontro di classe che sono rinvenibili, spesso in forme più gravi, anche nelle altre componenti del movimento rivoluzionario nel suo insieme.
Perché questa inadeguatezza? I motivi sono tanti. Dal fallimento complessivo del progetto politico imposto dalle scelte del movimento rivoluzionario egemonizzato dalle concezioni marxiste, progetto politico a cui seppure estranei teoricamente avevamo dato il nostro assenso, all’incapacità nostra di sostituire per tempo a un progetto politico fondato sull’azione ideologica e illuminata della minoranza specifica, un’azione sociale e rivoluzionaria che partisse dal concreto della realtà dello scontro, mettendo in moto le forze che la società impegna sempre e costantemente nella lotta di classe.
Ma il fallimento marxista e autoritario è andato più oltre. Ha fatto vedere come non fosse in grado non solo di gestire un corretto rapporto con gli sfruttati, ma come non fosse neppure in grado di dare vita a una pratica di contrapposizione armata minoritaria senza correre il rischio di trasformarsi in una guerra fra bande. Tutte le conseguenze negative del mito terzomondista, del guevarismo, della rivoluzione che si estende a macchia d’olio, hanno alimentato illusioni e hanno smontato, pezzo per pezzo, un movimento rivoluzionario che ha avuto il suo apice teorico e pratico nel 1977. La fase decrescente è lastricata di pietosi tentativi di recupero, di sbandamenti massicci sulla strada della droga pesante, di una tumultuosa alimentazione delle organizzazioni armate di matrice più o meno stalinista che stanno, in questi ultimi tempi, mostrando i limiti di un progetto politico e la sua incapacità a inserirsi nella realtà dello scontro di classe.
Anche gli anarchici hanno avuto le loro esperienze fallimentari. In chiave più ridotta, se si vuole, ma le hanno avute. E non si può affermare – come è stato fatto – che le minori conseguenze delle delusioni siano dipese esclusivamente da una minore presenza numerica all’interno del movimento rivoluzionario nel suo complesso. Sarebbe un discorso sbagliato. In fondo gli anarchici hanno salvato qualcosa dal generale e diffuso smantellamento del progetto rivoluzionario: hanno salvato il loro genuino e insostituibile modo di porsi nei confronti dello scontro di classe, modo che per le sue caratteristiche antiautoritarie non poteva essere accomunato al generale fallimento del progetto stalinista e autoritario. Ed è stata proprio l’estraneità dell’anarchismo alle illusioni degli autoritari che oggi ci mette in grado di presentare – praticamente intatta – la nostra spinta rivoluzionaria che trova il proprio radicamento tra le masse sfruttate e non parte con l’obiettivo circoscritto e autoritario di una crescita quantitativa del movimento e di un successivo adeguarsi delle necessità dello scontro di classe alle possibilità del movimento stesso. Le vecchie fantasie da mosca cocchiera, mutuate da mal digerite letture rivoluzionarie di matrice marxista, sono state – per decisione propria o per forza maggiore – messe definitivamente da parte.
Ma potrebbe esserci una differenza notevole tra quelle che sono le nostre possibilità oggettive e la nostra capacità di renderci conto delle stesse. Come più volte è successo negli ultimi quindici anni, abbiamo avuto occasioni diverse – a partire dal ‘68 in poi – per costituire un punto di riferimento sia per la gran massa di coloro che accumulano disillusioni su disillusioni nei confronti delle gestioni politiche del passato, sia nei confronti dello stesso livello dello scontro di classe, livello su cui non siamo mai realmente riusciti a incidere e da cui non abbiamo fatto altro – tranne rare eccezioni – che mutuare impulsi e suggestioni.
In questo caso ci siamo trovati più volte, e ci troviamo ancora, nella necessità di “ricostruire” quello che vicende a noi estranee hanno distrutto. Non è certo la potenzialità dell’anarchismo che va ricostruita, ma le condizioni minime di intervento nello scontro di classe, le quali, anche se non finalizzano la crescita quantitativa del movimento – come abbiamo detto – partono pur sempre da un certo numero di compagni che si impegnano e lavorano in senso rivoluzionario e anarchico, senza di cui non esiste più niente in assoluto che si possa veramente e specificamente chiamare anarchico. Ma questo mettere mano, ancora una volta, a un lavoro di “ricucitura” non deve essere – come spesso è stato in passato – il lavoro minimo, la cosa che possiamo fare, il nostro solo obiettivo da perseguire, e tutto ciò in attesa che migliorate condizioni dello scontro di classe ci consentano di fare altro. Ciò sarebbe un vano leccarsi le ferite, un autocommiserarsi improduttivo. Ci sembra che non sia possibile una “ripresa” del movimento anarchico sulla base di un programma minimo e con l’esclusivo scopo di ritrovarsi fra compagni, di rinsaldare le nostre fila.
Se la nostra potenzialità rivoluzionaria è intatta, se non abbiamo messo da parte nessun punto essenziale del nostro essere anarchici, se lo scontro di classe nella sua profonda realtà ci vede lontani ed estranei, la sola cosa che resta da fare è indirizzarci verso la realtà di questo scontro, inserirci immediatamente e senza inutili attese che le cose vadano meglio. La nostra crescita deve avvenire nella lotta e non deve essere propedeutica alla lotta stessa. In caso contrario continueremo ancora una volta a cercare di mangiarci la coda.
Un elemento fondamentale dell’impalcatura ideologica – a noi sostanzialmente estranea –, di cui dobbiamo liberarci subito, è l’abitudine a partire da un progetto politico. In questa abitudine è insita l’autovalutazione di noi stessi come forza politica, portatrice di un’interpretazione della realtà – certo la migliore fra le tante in circolazione.
Il capovolgimento di un simile punto di partenza ci porta a concepire il nostro modo di disporci nei confronti della realtà dello scontro non come una interpretazione, ma come una trasformazione in corso. Il nostro progetto di intervento diventa, pertanto, non più politico ma rivoluzionario e quindi diventa progetto sociale, capace di generare subito (e non poi, alla fine della sua realizzazione) conseguenze di natura e di portata sociale. La nostra stessa crescita, in quanto movimento specifico, se posta correttamente all’interno del progetto sociale, diventa una crescita del movimento reale nel suo insieme, un apporto che la realtà dello scontro consegna alla specificità del movimento anarchico, e non un avulso e separato affastellarsi di esperienze diverse e privilegiate, capaci di condurre singolarmente e personalmente a un’accettazione dell’ideologia anarchica.
Non stiamo discutendo – tanto per intenderci – di quei miserabili espedienti che la tradizione politica ha suggerito qualche anno fa per camuffare iniziative politiche sotto l’etichetta delle iniziative sociali: creazione di centri sociali, costituzione di comitati, formazione di collettivi. Stiamo parlando di un rapporto più immediato e diretto con la realtà dello scontro e di una partecipazione, appunto, immediata e diretta con le forze vive che agiscono all’interno dello scontro di classe, per fare produrre a queste forze quegli organismi e quelle strutture di base e di lotta che sono specificamente proprie di queste forze e non sono soltanto il portato ideologico di movimenti politici.
Appare quindi evidente che i soli ad avere le carte in regola per capovolgere il progetto politico in progetto sociale sono gli anarchici, i quali, anche per scelta ideologica, condividono pienamente l’efficacia di queste strutture di base e la loro rispondenza alle necessità rivoluzionarie dello scontro di classe, pur restando convinti dell’efficacia dell’intervento minoritario e specifico. Solo che quest’ultimo convincimento non è lo scopo unico e fondamentale della loro azione, ma diventa lo scopo mediato attraverso cui arrivare ad approfondire e allargare l’azione delle forze che si trovano all’interno di questa realtà dello scontro.
È stato detto che Comiso può costituire uno “spiraglio” per il movimento anarchico. Ciò è esattamente quello che riteniamo non debba in nessun modo essere la lotta a Comiso per impedire la costruzione della base.
Il problema di Comiso è un problema sociale. Intacca e sensibilizza la realtà sociale delle zone ragusana e siciliana in modo diretto, ma significa qualcosa di molto importante anche per le altre realtà sociali, sia pure le più lontane. Le forze politiche governative, le forze progressiste di qualsiasi colore, con in testa il PCI e in coda i brandelli di quello che fu una volta il movimento rivoluzionario di matrice marxista, hanno presentato i loro progetti politici riguardanti Comiso. Gli anarchici si sono rifiutati di fare altrettanto. Anche in questi giorni un coacervo di queste forze gestisce un presidio a qualche chilometro di distanza da Comiso, tentando – con la presenza del PCI – di ripresentare il proprio progetto politico. Gli anarchici non hanno nulla da spartire con una posizione politica che intende proporre interventi esterni alla realtà sociale del problema di Comiso.
Lo scontro sociale che qui si sta svolgendo vede certamente presenti anche gli anarchici, ma l’azione che il movimento – o almeno la parte di movimento che partecipa in questi due giorni al Convegno – deve svolgere non è certo quella di porsi come punto di riferimento privilegiato per la realtà dello scontro di classe a Comiso in questo momento. Se dovessimo fare così verremmo travolti e confusi con il manto di Arlecchino delle proposte in circolazione in questo momento qui a Comiso.
Abbiamo quindi capovolto la modalità dell’intervento. Ci siamo presentati come anarchici e come gruppi anarchici di Ragusa e di Catania abbiamo svolto il nostro lavoro (comizi, mostre, volantinaggi, manifesti, discussioni con la gente), non ci siamo cioè camuffati sotto la pelle pretestuosa di un qualsiasi Comitato o Collettivo, ma abbiamo contemporaneamente detto chiaro che le proposte concrete che noi facevamo riguardo i metodi di intervento nella lotta per impedire la costruzione della base erano quelle che venivano indicate dall’inefficienza stessa delle proposte suggerite dalle forze politiche, mentre per mettere in atto queste proposte, questi metodi di lotta più efficaci e significativi, si dovevano costituire le Leghe contro la costruzione della base, Leghe che, in quanto organismi di base autogestiti dai contadini, dai braccianti, dagli operai, dai disoccupati, dai giovani, dalle donne proletarie, avevano tutte le carte in regola per passare dalla fase ideativa alla fase operativa.
Riteniamo che non tutti coloro che sono interessati al discorso di fare qualcosa per impedire la costruzione della base sono disposti, allo stato attuale, a partecipare alla lotta che – se dovrà essere efficiente e significativa – dovrà necessariamente concludersi con l’occupazione e la distruzione della base. Avere la pretesa di mettere insieme le grandi masse anche su di un tema che trova l’assenso e il convincimento di larghi strati ci è sembrato fuor di luogo. D’altro canto, non potevamo filtrare il nostro discorso attraverso la lente riduttiva di un’operazione ideologica che avrebbe immediatamente scelto un referente più piccolo – poniamo il sottoproletariato fluttuante, i braccianti, i contadini poveri, i disoccupati, i giovani e le donne proletarie – per escludere tutto il resto. Questa operazione avrebbe avuto il significato, ancora una volta, di un progetto politico elaborato altrove e poi calato, con la tipica pesantezza ideologica di questo modo di procedere, nella realtà delle lotte.
Per altro restava incombente e primaria la necessità di una selezione, visto che gli interessi del referente generico – poniamo: bottegai, proprietari di serre, piccoli e medi proprietari della zona, intellettuali borghesi con posti governativi più o meno retribuiti, residui sparpagliati di quel movimento di sinistra a coloritura rivoluzionaria che in queste zone ha una sua storia non proprio edificante, ecc. – non collimavano con quelli del referente specifico visto prima. E questo non collimare poteva portare dapprima a una coincidenza – su obiettivi minimi – e poi, al primo sorgere delle difficoltà dello scontro, a una separazione e a un contrasto con conseguenze gravissime.
Da qui la scelta del discorso generico, però fatto attraverso la proposta selettiva dell’intervento metodologicamente corretto e “diverso” (occupazione, sabotaggio, lotta violenta contro la base e i suoi sostenitori), discorso generico indirizzato a un progetto organizzativo di fondo: la costituzione delle Leghe autogestite contro la costruzione della base missilistica di Comiso, progetto che è ancora in corso e su cui diremo qualcosa subito dopo. Siamo sicuri che proprio attraverso questa struttura organizzativa di base si arriverà – anche con la nostra presenza – a selezionare quel referente rivoluzionario capace, in un futuro vicino, di fare quanto necessario per attaccare e distruggere la base.
L’altro problema che vogliamo discutere riguarda le Leghe. Queste, al momento, sono in embrione. In molti centri del ragusano e del comisano, e anche in altre località più distanti, si sta discutendo come fare per farle nascere e per farle agire. Anche qui, in questo Convegno, sono presenti compagni e proletari interessati a un discorso del genere, i quali sono venuti apposta per trovare un’indicazione.
Proponiamo di fare nascere a Comiso, nei prossimi giorni, un punto di riferimento, un Coordinamento delle Leghe autogestite contro la base missilistica, avente un recapito telefonico e quindi costituente un elemento indispensabile per la decisiva fase di costruzione di questi organismi, fase che segnerà il culmine nei prossimi mesi. Alla realizzazione di questo punto di riferimento si potranno impegnare sia le forze del movimento anarchico nel suo insieme, sia le forze proletarie della zona le quali stanno scegliendo coscientemente questa struttura organizzativa e daranno vita, in concreto, alle Leghe.
Un’altra proposta viene lanciata in questa sede per realizzarsi a partire dal prossimo mese di ottobre, se non prima. Si tratta della costituzione di una radio a Comiso per trasmettere tutte le notizie riguardanti le fasi della lotta e le iniziative che i padroni prenderanno per difendere e realizzare il loro progetto di morte. Alla costituzione e alla collaborazione con questa radio chiamiamo tutto il movimento e tutti quei compagni e proletari che dovessero ritenerla strumento indispensabile per coordinare le lotte in corso contro la base. La radio sarebbe uno strumento di grande importanza come punto di canalizzazione di tutte quelle iniziative che si realizzeranno a Comiso e altrove, in Italia e all’estero, dirette a sviluppare il sostegno della lotta in corso contro l’installazione dei missili.
Nei prossimi mesi, infine, come gruppi anarchici locali, ritorneremo a sviluppare il giro di comizi e interventi – con volantinaggi, mostre e diffusione di stampa anarchica – nelle zone del ragusano e del comisano, estendendo possibilmente l’intervento anche alle altre zone siciliane.
Queste iniziative, che proponiamo alla discussione e all’approfondimento del Convegno, necessitano dell’appoggio personale e finanziario di tutti i compagni. Lanciamo perciò la proposta di una collaborazione personale a quei compagni che fossero disponibili a venire qui a lavorare con noi anche per un periodo di tempo limitato – da qualche giorno a qualche mese –, e lanciamo pure la proposta di una sottoscrizione per realizzare i progetti sopra descritti.
Occorrerà infine che la lotta a Comiso riceva il conveniente appoggio degli organi di stampa del movimento, in particolare di “Umanità Nova” che, in quanto settimanale, apprestandosi alla nuova gestione, potrebbe, e a nostro avviso dovrebbe, dare risalto agli interventi del movimento anarchico a Comiso.
In conclusione, quindi, non “spiraglio” ma intervento nella lotta e progetto rivoluzionario, questa la lettura da dare allo scontro di classe in corso di svolgimento a Comiso.
Compito del movimento anarchico dovrebbe essere, a nostro avviso, quello di impedire con ogni mezzo la chiusura “settoriale” di questa lotta, la sua derubricazione a lotta nello specifico dell’antimilitarismo e dell’antinucleare. In tal senso spingono le strutture cosiddette democratiche che intervengono anche loro a Comiso e che cercano di fare evolvere la situazione verso soluzioni interlocutorie e riduttive.
Lo scontro di Comiso è scontro di classe che parte da una oggettiva contraddizione sociale: la pretesa del capitale e dello Stato di trovare sostegno e consenso attorno a un progetto di morte e di distruzione. Ricollegando questa pretesa alla più generale pretesa dei nostri nemici di ridurre le nostre capacità di lotta, di settorializzarle, di qualificarle con etichette sempre riduttive, e quindi di sviare l’attenzione e la comprensione dei proletari verso il progetto complessivo e generale del capitale e dello Stato che è e resta quello dello sfruttamento, abbiamo il grosso risultato di potere portare nella lotta strati sociali sempre più ampi e fasce geografiche sempre più lontane dall’epicentro contraddittorio di Comiso.
Ma per fare ciò occorre l’intervento di tutto il movimento in modo che si possa costruire un raccordo tra le diverse situazioni di lotta, appunto settorializzate nel territorio e nel sociale dal progetto egemonico del capitale e dello Stato. Solo così si potrà far comprendere a tutti qual è veramente il significato generale dello scontro di Comiso.
Quali che siano gli esiti dello scontro e della lotta sul piano oggettivo, qui a Comiso, si avrà una immediata eco e una rispondenza effettiva negli strati proletari anche di altre zone, eco che non potrà non significare un punto di appoggio e un sostegno per quello che qui, nella specifica contraddizione che abbiamo davanti, i proletari e i rivoluzionari riusciranno a realizzare.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Relazione introduttiva al Convegno Internazionale Anarchico del 31 luglio e 1 agosto 1982, ciclostilato, agosto 1982. Pubblicato col titolo: Un problema sociale in “Senzapatria”, ottobre-novembre 1982, pp. 6-8]
Documento organizzativo delle Leghe Autogestite
La decisione di costruire a Comiso una base per i missili americani Cruise si colloca all’interno degli equilibri politici e militari tra le due grandi superpotenze. La giustificazione che è stata data a questa impresa di morte è che bisogna, con tutti i mezzi, contrapporsi alle basi atomiche russe schierate contro l’Europa.
Di fatto, non è possibile frenare le iniziative criminali dell’Unione Sovietica che, in quanto superpotenza militare, ha tradito gli ideali antimilitaristi del proletariato internazionale, con iniziative altrettanto criminali di quelle prese dagli Stati Uniti e dai loro servitori europei. La crescita delle basi atomiche non difende dagli attacchi di nessuno ma costituisce una grave minaccia per la sopravvivenza di tutto il pianeta. La lotta deve essere diretta a impedire le nuove basi (come quella di Comiso) ma anche a distruggere le basi già esistenti, anche quelle russe e di tutti gli altri Stati.
Comiso è destinata a diventare la più grande base atomica europea, l’inizio della costruzione di altre basi che saranno realizzate in Spagna, Germania, Gran Bretagna e altrove. Se non riusciremo a impedire questo progetto criminale, noi siciliani saremo i primi ad avere la responsabilità di vedere costruita nella nostra terra la più grande centrale di bombe atomiche oggi esistente in Europa.
Questo triste primato si accompagnerà a una serie di altre conseguenze negative che la venuta dell’esercito di occupazione americano (si calcola l’arrivo di 15.000 militari USA) causerà immediatamente. Aumento dei prezzi, circolazione delle droghe pesanti, aumento della prostituzione, militarizzazione del territorio, presenza nelle nostre zone delle organizzazioni mafiose che venderanno agli Americani la droga, che gestiranno il giro della prostituzione, che speculeranno sugli appalti. Tutto ciò farà aumentare le violenze e le relative restrizioni delle libertà individuali (controlli, posti di blocco, zone militarizzate, ecc.).
Il Partito socialista si è dimostrato un vero servitore degli interessi americani, accettando l’imposizione USA e approvando con il suo ministro Lagorio l’ordine di costruire la base in Sicilia. La Democrazia Cristiana si è subito data da fare per gestire, a livello mafioso, gli appalti di costruzione degli alberghi, delle case, dei ristoranti che saranno necessari agli Americani e anche di tutti gli appalti per costruire la base stessa.
Il Partito comunista ha dato inefficaci e saltuarie indicazioni di lotta, dimostrandosi indeciso, debole e inefficiente. Le marce (anche di centomila persone), le raccolte di firme, gli scioperi della fame non impressionano più.
La lotta contro la costruzione della base missilistica di Comiso ha bisogno di altri mezzi e di altri metodi.
Per questo motivo si devono organizzare le Leghe autogestite.
A– Caratteristiche della Lega.
– È un’organizzazione autonoma di lotta che raccoglie tutti coloro che hanno realmente e sinceramente l’intenzione di impedire la costruzione della base.
– Non è un’organizzazione burocratica. Non ha statuti, regole associative, documenti costitutivi, ecc. Può anche non avere una sede permanente.
– Le singole Leghe, diffuse nel territorio, nascono spontaneamente e hanno come solo punto comune i princìpi generali appresso specificati.
– La Lega è quindi un organismo di lotta che rifiuta di dare deleghe permanenti ai suoi rappresentanti e pertanto nega una specifica professionalità a questa rappresentanza.
– La Lega è costantemente impegnata contro la costruzione della base.
– Ogni componente della Lega si considera in lotta contro la base e contro gli interessi che la vogliono e la realizzano, riconoscendo che questi interessi sono quelli degli sfruttatori e dei loro servitori.
– La Lega non è un’organizzazione di difesa degli interessi di questa o di quella categoria di lavoratori. Non è quindi un’organizzazione sindacale o parasindacale.
– L’attività di propaganda e di lotta di ogni singola Lega sarà preferibilmente coordinata con quella delle altre Leghe, ferma restando la possibilità di iniziative indipendenti, aventi caratteristiche locali, ma sempre e solo nell’obiettivo di impedire la costruzione della base e nel rispetto dei princìpi comuni.
– L’adesione alla Lega è la logica conclusione di chi non condivide né la politica criminale di coloro che stanno realizzando questo progetto di morte, né le inefficaci iniziative di coloro che cercano una contrapposizione fittizia.
B – Princìpi generali.
– Conflittualità permanente. La lotta contro la costruzione della base può avere risultati solo a condizione che sia costante, ininterrotta ed efficace. Una lotta saltuaria, sporadica, legata a interventi occasionali, finirà per risultare perdente.
– Autogestione. Le Leghe sono autogestite, cioè non dipendono da alcuna organizzazione, partito, sindacato, clientela, ecc. Non ricevono soldi se non provenienti dalle sottoscrizioni spontanee degli stessi aderenti alle Leghe. Su questa loro autonomia si fonda la loro forza.
– Attacco. Le Leghe rifiutano i discorsi di mediazione, di pacificazione, di sacrificio, di accomodamento, di compromesso. Esse sostengono la necessità di un attacco contro gli interessi padronali che stanno realizzando il progetto criminale degli USA.
C – Metodi.
L’impegno dei padroni e dei criminali americani è costante. Essi non si danno soste. Intendono realizzare in breve tempo il loro progetto di morte. La loro azione si allarga contro di noi in mille modi: con la disoccupazione, con l’aumento dei prezzi, con le intimidazioni e con la repressione. Domani – se la base dovesse essere costruita – questa repressione raggiungerebbe il massimo dell’insopportabilità e ci verrebbe tolta anche la libertà di pensare. A repressione costante la conflittualità permanente.
Tutte le categorie del lavoro sono interessate a impedire la costruzione della base. Le categorie meno abbienti, ma anche quelle che stanno un po’ meglio: anche i bottegai, che se possono pensare di incassare qualcosa di più con l’arrivo degli Americani, devono pure mettere in conto il racket mafioso delle estorsioni che si organizzerà a loro spese nella zona. Anche i contadini che sono sotto la minaccia delle espropriazioni e che vogliono destinare a un uso produttivo le terre. L’altro metodo che le Leghe impiegano è quindi l’allargamento del fronte di lotta.
La controinformazione sulla situazione reale a Comiso è un ulteriore metodo di lotta. Manifesti, volantini, giornali, radio, televisione, ecc., tutti questi strumenti devono essere indirizzati non soltanto verso gli abitanti della zona ma anche verso tutta la Sicilia, l’Italia e il mondo intero. Oggi Comiso e il problema della base sono al centro dell’attenzione mondiale. Sviluppando questa attenzione è possibile vincere con la nostra lotta i criminali e i loro servitori. Ma questa gestione dell’informazione deve essere autonoma, cioè deve essere contro il racket dell’informazione di cui un grosso esempio, proprio nella zona, è dato dal giornale “La Sicilia” e dai pennivendoli al suo servizio.
Raggiungere gli strati che restano fuori della conoscenza del problema: le donne proletarie, le casalinghe, i bambini, i vecchi. Tutti costoro hanno il diritto di sapere il grave pericolo che corrono ed è giusto che possano portare il proprio contributo alla lotta sociale che si svilupperà contro la costruzione della base.
Accettare gli equivoci delle chiacchiere, dell’attesa, delle promesse del potere, significa dare più tempo ai criminali per realizzare il loro progetto. Dobbiamo scegliere il metodo dell’intervento immediato e non rinviare all’infinito quello che va fatto subito.
Non dimentichiamo che per essere costruita, la base di Comiso necessita della nostra accettazione, dell’accettazione di coloro che vi lavoreranno, che consentiranno il passaggio dei materiali, che lavoreranno nelle aziende che produrranno i materiali con cui si costruirà la base. Bisogna quindi allargare il campo della lotta, farvi partecipare anche i lavoratori di queste aziende, perché con i loro scioperi e i loro ostacoli ritardino prima e impediscano dopo la costruzione.
Il metodo che le Leghe ritengono definitivo, tale da impedire realmente la costruzione della base, è la sua occupazione. Ma questa occupazione deve essere una decisione cosciente presa dalle Leghe e realizzata con tutti i mezzi che saranno necessari, al momento opportuno. Dobbiamo rispondere all’incoscienza e alla criminalità degli imperialisti americani e dei loro servitori nostrani con una grande responsabilità e una altrettanto grande decisione.
Ogni singola Lega si riunisce quando e come crede, con la periodicità che ritiene opportuna e nel luogo che meglio si addice alla sua struttura e alla sua collocazione. Le iniziative prese – se lo si ritiene necessario – vengono fatte conoscere alle altre Leghe tramite il Coordinamento che, allo scopo, redige un bollettino periodico, dove trovano posto le decisioni delle singole Leghe.
Periodicamente si riuniranno a Comiso, in un locale da destinarsi, i rappresentanti di tutte le Leghe per un dibattito e per uno scambio di prospettive.
Il primo compito di ogni Lega è l’intervento verso l’esterno per realizzare la propria crescita quantitativa.
La Lega è un’organizzazione di massa, quindi, in quanto tale, può assumere la forma di Lega di settore (Lega di braccianti, di contadini, di bottegai, di studenti, di operai, di camionisti, di professori, ecc.), oppure la forma di Lega intersettoriale (Lega di città, di paese, di frazione, di quartiere, di zona, di interzona, ecc.).
La scelta della lotta da condurre viene periodicamente decisa nelle singole Leghe dalle riunioni assembleari. Nell’assemblea dei rappresentanti delle Leghe si prendono poi le decisioni più importanti.
D – Prospettive.
– Le Leghe non sono organismi corporativi. Non hanno la prospettiva di difendere gli interessi di una categoria o di un paese o di un gruppo di persone.
– Sono strutture di massa che hanno lo scopo di impedire la costruzione della base.
– Ogni tentativo esterno o interno, diretto a incanalare le Leghe verso obiettivi elettoralistici, di potere, clientelari, sindacali, di semplice resistenza, ecc., deve essere impedito.
– Le Leghe sviluppando le varie iniziative possono fare sentire il proprio peso a livello di organismi di massa, imponendo al potere la decisione di non costruire la base.
E – Il Coordinamento.
– Il Coordinamento delle Leghe autogestite ha sede a Comiso ed è un ufficio tecnico che serve da punto di riferimento per tutte le Leghe costituite e per quelle in corso di formazione.
– Il Coordinamento è in grado di dare indicazioni sulla situazione complessiva della lotta, sugli interessi che intorno a essa si vanno sviluppando, sugli obiettivi padronali, sulle aziende che hanno gli appalti, sugli arrivi dei contingenti americani di occupazione, sulle aziende che lavorano a produrre i materiali per la base, sulla presenza degli Americani nella zona.
– Esso può anche fornire gli strumenti per allargare la conoscenza in Sicilia, in Italia e all’estero della situazione di Comiso.
– Provvede a redigere un bollettino periodico con le varie decisioni e le varie proposte delle singole Leghe, come pure sulla loro formazione e sul loro sviluppo.
– Organizza le assemblee periodiche dei rappresentanti delle varie Leghe, assemblee da tenersi a Comiso.
– Esso è realizzato a rotazione dai componenti delle varie Leghe, quindi è un organismo formato e costituito dalle Leghe stesse che si devono far carico delle spese relative al suo funzionamento (affitto, telefono, materiale di propaganda, spese di sopravvivenza degli incaricati).
In conclusione, la Lega autogestita è un organismo di lotta per impedire la costruzione della base missilistica di Comiso. Essa si fonda sul principio dell’autonomia della lotta e sulla conflittualità permanente. Il metodo che sceglie è quello dell’attacco contro la costruzione della base e contro gli interessi di coloro che la stanno realizzando.
Spetta all’assemblea delle Leghe la decisione di dare indicazioni precise di lotta e di fissare i metodi e i tempi di quanto necessario per impedire la costruzione della base missilistica di Comiso.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Documento organizzativo delle leghe autogestite, Catania ottobre 1982. Pubblicato anche in “Umanità Nova” del 24 ottobre 1982, p. 5]
Volantino agli operai dei servizi. (ENEL, SIP, Acquedotto e Nettezza urbana)
Chiarimento necessario
Il seguente volantino è uno dei tanti che sono stati redatti e distribuiti, a decine di migliaia, nel corso di tutto l’intervento contro la costruzione della base missilistica a Comiso, in un periodo di tempo che va dai primi del 1982 alla fine di luglio del 1983.
All’origine di questa analisi, come i compagni potranno constatare, fortemente schematizzata, si colloca il volantino redatto nel luglio del 1982 col titolo, poi diventato una specie di parola d’ordine, di: “La costruzione della base missilistica a Comiso si può impedire”. Ho già pubblicato questo documento nel mio libro: Sicilia: sottosviluppo e lotta di liberazione nazionale, Catania 1982, pp. 150-151. Lo schema del ragionamento fu volutamente semplificato al massimo. In tutti i volantini, come quello agli operai delle fabbriche, agli studenti, ai disoccupati, alle donne proletarie, ecc., esso veniva ripresentato sempre identico, preceduto dalle modificazioni necessarie in funzione del diverso referente cui ci si indirizzava. Questo modo di procedere è stato seguito anche nei comizi a proposito dei quali c’è da dire una cosa. Si possono individuare in essi tre periodi: il primo, in cui si parlava a nome dei gruppi anarchici promotori dell’iniziativa e si suggeriva la costruzione delle Leghe e si faceva un cenno, appena velato, a un metodo di azione diretta ben diverso dai metodi inefficienti impiegati dal PCI, il secondo periodo, in cui si parlava a nome del Coordinamento delle Leghe autogestite (di già costituito), in cui si sviluppava l’analisi complessiva tratteggiando le conseguenze sociali della presenza della base missilistica a Comiso, e il terzo periodo, in cui si parlava chiaramente dell’occupazione della base, per arrivare agli ultimi comizi in cui si davano le indicazioni operative più o meno precise, compreso i giorni in cui si sarebbe tentata l’occupazione. Non riporto qui, come in un primo tempo avevo pensato, un comizio tipo per ognuno di questi periodi per non appesantire troppo il libro. Il lettore potrà farsene un’idea tenendo presente che lo schema analitico restava sempre lo stesso, variando soltanto gli elementi che si traevano dagli avvenimenti quotidiani della lotta in corso. Rinvio a una futura storia di questa lotta la pubblicazione di una parte di questi comizi, che sono stati registrati nella loro quasi totalità, come pure di altri documenti tutti interessanti per capire i limiti e le possibilità del modello di azione insurrezionalista.
Si avvicinano i mesi più duri dell’attacco padronale ai nostri salari. Il potere di acquisto scenderà ancora mentre i prezzi saliranno alle stelle. Il governo non ha alcuna intenzione di porre rimedio ai guai che una politica di spoliazione e di clientele ha causato. Ci invitano sempre a pazientare e a fare sacrifici. I sindacati sono ormai ridotti a portavoce delle decisioni degli sfruttatori. I partiti della sinistra o tacciono o sostengono apertamente gli interessi della produzione.
Mentre questo quadro disastroso si va facendo sempre più chiaro, a Comiso una banda di assassini e di mafiosi sta realizzando la più grande base missilistica atomica d’Europa. I missili USA Cruise sono stati imposti dalla logica imperialista americana e vengono sostenuti in Italia dai traditori del PSI e dai mafiosi della DC.
Invece di creare lavoro pulito e produttivo, invece di risolvere il gravissimo problema della disoccupazione e del rincaro dei prezzi, i nostri padroni costruiscono le basi atomiche e missilistiche per consentire all’imperialismo americano di fare la guerra all’imperialismo russo. Oltre al grosso rischio di morte cui andiamo incontro, in questo modo ci costringono a ripartire per l’emigrazione e ci riducono al silenzio con l’elemosina della cassa integrazione.
Nelle nostre zone, con l’arrivo degli Americani, si svilupperanno le speculazioni della mafia per cui aumenteranno i prezzi delle case, aumenterà la circolazione delle droghe pesanti e il fenomeno della prostituzione. Queste saranno le conseguenze più gravi e immediate.
Noi operai dei servizi possiamo contribuire a fermare questo progetto di morte. Per portare a termine la base i padroni nostrani e l’esercito di occupazione americano avranno bisogno di energia elettrica, di telefoni, di acqua, di servizi di nettezza urbana, ecc. Saremo noi a decidere se consegnare loro la nostra collaborazione, rendendoci complici di un progetto di assassinio, oppure ostacolare il loro intento con la nostra unione e il nostro attacco.
Da sempre i lavoratori sono stati contro i progetti militaristi, contro le guerre, contro gli arricchimenti padronali. Da sempre hanno fatto ricorso agli strumenti della resistenza e dell’attacco operaio per raggiungere gli scopi di un salario più decente e di una vita più felice. Non sarà questa la prima volta che i ladri, i profittatori e i mafiosi sentiranno il peso dell’iniziativa operaia.
Organizziamo subito le Leghe autogestite degli operai dei servizi contro la costruzione della base. Le indicazioni del PCI non sono sufficienti per impedire la strategia padronale. Davanti alla futura prospettiva della miseria, della disoccupazione, dell’emigrazione e anche della morte, ribelliamoci ora e subito.
La costituzione di una Lega degli operai dei servizi – Lega cui possono anche aderire altri lavoratori, disoccupati, studenti, braccianti, ecc. – non ha bisogno di procedure burocratiche, basta la volontà e l’accordo comune di tutti i partecipanti.
Gli scopi principali sono: una lotta ininterrotta contro la costruzione della base, un metodo di intervento duro e concreto e non basato sulle marce, sulle raccolte di firme o sugli scioperi della fame. I padroni non temono per nulla le dichiarazioni vaghe e generiche. Soltanto i fatti li fermano e li fanno retrocedere. E noi operai dei servizi abbiamo nelle nostre mani gli strumenti adatti per sventare il loro progetto di morte.
A Comiso si è formato un Coordinamento delle Leghe autogestite contro la costruzione della base. Si tratta di un punto di riferimento tecnico cui tutte le iniziative che riguardano la formazione delle Leghe possono indirizzarsi.
Uniamoci nelle Leghe. È arrivato il momento di battersi. Le parole hanno ormai fatto il loro tempo.
Lotta a Comiso e proposta di un Convegno Nazionale Anarchico
Premessa necessaria
Il seguente articolo, da me scritto per essere pubblicato su tutti i giornali anarchici italiani e stranieri, venne bloccato per la sopravvenuta decisione dell’assemblea delle Leghe, tenuta a Comiso il 28 novembre 1982, di non approvare la proposta di fare un Convegno nazionale anarchico destinato a fissare una scadenza per l’occupazione della base missilistica di Comiso.
A questo proposito venne indirizzata la seguente lettera circolare a tutti i giornali anarchici che avevano di già ricevuto il dattiloscritto dell’articolo: «Vi preghiamo di non pubblicare l’articolo Lotta a Comiso e proposta di un Convegno nazionale anarchico. Se lo credete opportuno potete pubblicare la richiesta di sottoscrizione e il bilancio, come pure le vostre considerazioni sulla lotta oggi a Comiso. Restiamo a vostra disposizione per ogni chiarimento e per la documentazione sul prosieguo della lotta, documentazione che ci impegniamo a farvi avere tempestivamente. L’assemblea del Coordinamento delle Leghe, tenutasi a Comiso oggi, è giunta alla conclusione che non pare utile indire un Convegno nazionale una volta che non si è d’accordo con l’ipotesi di fissare ufficialmente una data dell’occupazione della base missilistica. Evidentemente resta sempre valida l’ipotesi di un sostegno, del movimento anarchico nel suo insieme, alla lotta che il Coordinamento delle Leghe e i compagni anarchici stanno conducendo a Comiso». [La lettera di cui sopra portava la data stessa della citata riunione dell’assemblea delle Leghe, cioè il 28 settembre 1982].
Sempre in pari data un’altra lettera veniva indirizzata a tutti i compagni e a tutti i gruppi con cui eravamo entrati in contatto prima, in vista dell’organizzazione del Convegno Nazionale: «Vi comunichiamo che l’assemblea del Coordinamento delle Leghe, in data odierna, non ha approvato la nostra proposta di fare un Convegno nazionale anarchico per fissare una scadenza per l’occupazione della base missilistica di Comiso. Cade pertanto anche il discorso aggiuntivo che abbiamo fatto successivamente. Evidentemente resta sempre valida l’ipotesi di un sostegno del movimento anarchico nel suo insieme alla lotta che il Coordinamento delle Leghe e i compagni anarchici stanno conducendo a Comiso».
Questo accenno a un “discorso aggiuntivo” merita una spiegazione. Con diversi compagni, italiani e stranieri, e con diversi gruppi, si era potuta concordare una azione comune per i giorni dell’occupazione della base che ancora dovevano essere fissati. Ognuno era libero di scegliere il tipo di azione da realizzare nell’àmbito della propria situazione di lotta, purché fosse contemporanea e coordinata con l’occupazione della base. Voglio qui ricordare che a causa di una nostra dimenticanza non vennero avvertiti della modificazione di programma i compagni anarchici di Edimburgo (Scozia) i quali, appresa successivamente, attraverso la stampa anarchica, la data dell’occupazione della base, per quei giorni organizzarono l’occupazione del consolato italiano di Edimburgo.
L’attuale situazione della lotta che stiamo conducendo a Comiso, in seno al Coordinamento delle Leghe Autogestite contro la costruzione della base missilistica, ci consente di fare alcune riflessioni che non vogliono essere un consuntivo e non vogliono esprimere un giudizio di valore su metodi impiegati e su analisi sviluppate, quanto vogliono far conoscere ai compagni tutti alcune possibilità oggettive che si aprono davanti al nostro intervento.
Il momento di diffusione delle idee e della controinformazione si può dire concluso, almeno nella sua prima fase, che è stata caratterizzata sia dal Convegno anarchico internazionale del 31 luglio e 1° agosto, come pure dalla lunga serie di comizi che abbiamo fatto in tutta la zona (una quarantina, circa). A questo si deve aggiungere un costante intervento a Comiso con manifesti murali trattanti argomenti specifici, e una serie di volantinaggi in tutte le zone del ragusano, accompagnati da piccoli comizi volanti nelle scuole, nelle fabbriche e nei quartieri popolari.
Nei prossimi mesi abbiamo in programma di realizzare una serie di conferenze-dibattito in tutti i centri della zona di già raggiunti con i comizi, allo scopo di interessare alle nostre analisi e alle relative proposte tutti gli strati sociali che, di solito, non vanno ad ascoltare i comizi. Contemporaneamente realizzeremo manifestazioni culturali (teatrali, recital di poesie, concerti, ecc.) sempre con lo scopo di allargare quanto più possibile il raggio d’intervento.
Questo lavoro sarà condotto parallelamente alla controinformazione (tramite radio, manifesti murali e volantini) sulle modificazioni giornaliere della situazione a Comiso (appalti, imbrogli, arrivi degli Americani, affitti delle case, contratti di trasporto, militarizzazioni di strade e territori vicini alla base, ecc.).
Tutto ciò consente, anche adesso, di trarre una prima considerazione. Allo stato attuale delle cose, e certamente molto di più nei prossimi due-tre mesi, siamo in grado di mobilitare una non trascurabile parte delle forze sociali presenti nella zona: gli studenti di una parte delle città e dei paesi vicini (al completo gli studenti di Comiso e Vittoria), le donne proletarie, gli operai di alcune fabbriche (una parte degli operai dei servizi) e certamente una parte degli operai dell’ANIC di Gela. Siamo anche certi che, con un opportuno approfondimento in questo senso, si potrebbero mobilitare i camionisti della zona (specie di Vittoria), i braccianti di Comiso e di Vittoria, i serricoltori di Vittoria, di Pedalino e di Ragusa, e alcuni lavoratori di attività collaterali.
Una seconda considerazione che facciamo subito è che queste possibilità non potranno restare in eterno sulla lama di un coltello, ma prima o poi ci si dovrà decidere nel senso di un intervento concreto, capace di dare una indicazione precisa e uno sbocco operativo. In caso contrario, tutto il lavoro fin qui fatto si dissolverà in brevissimo tempo mentre la nostra presenza, come pure la nostra proposta, verrebbero a essere confuse e travolte da altre proposte avanzate dai tanti chiacchieroni politici (dal PCI ai pacifisti).
Non va trascurato il fatto, a nostro avviso grossissimo, che in questo momento, a Comiso, l’unica realtà effettivamente e operativamente contro la base è costituita dal Coordinamento delle Leghe autogestite che raccoglie lo sforzo di una decina di Leghe già costituite e di diverse altre in via di formazione, oltre che l’adesione e la simpatia di una considerevole parte della popolazione di Comiso e delle zone vicine.
Riteniamo quindi indispensabile che si decida al più presto un Convegno nazionale anarchico da tenersi in una città come Roma o come Napoli, Convegno a cui potrebbero partecipare anche i delegati delle singole leghe e in cui si potrebbe discutere e approfondire la proposta operativa da realizzarsi – sempre in tempi brevi – diretta a impedire la costruzione della base missilistica di Comiso.
Sosteniamo, come abbiamo fatto altre volte, la centralità oggi della lotta di Comiso nell’insieme delle lotte che i compagni stanno portando avanti in Italia e, convinti di questo, sottolineiamo la grande valenza anarchica che l’organizzazione autogestita delle leghe finisce per assumere anche sul piano di una crescita e di uno sviluppo in Sicilia e in Italia delle lotte libertarie.
Per questi motivi siamo dell’opinione che tutti i compagni anarchici si esprimano in un Convegno nazionale e quindi portino la ricchezza delle loro esperienze e delle loro analisi consentendo così di arrivare, tutti insieme, all’elaborazione di quelle indicazioni operative che sono lo sbocco naturale e obbligato della lotta intrapresa in Sicilia contro il progetto di morte che vogliono realizzare a Comiso.
[1982]
Verso l’occupazione della base missilistica
Premessa necessaria
Questo articolo segna bene il passaggio a una seconda fase di intervento. A seguito delle divergenze venute a galla nel corso dell’assemblea delle Leghe del 28 novembre 1982, l’intervento a Comiso finì per subire profonde modificazioni. Alcuni compagni si ritirarono, altri si disillusero, altri continuarono. La posizione dettagliata in questo articolo è pertanto quella dei compagni che intendevano andare avanti verso l’occupazione della base, insistendo perché venisse fissata una data. Purtroppo non era più possibile realizzare la cosa attraverso il mezzo di un Convegno nazionale anarchico preventivo capace di rilanciare l’iniziativa a livello nazionale e internazionale (per quanto sempre all’interno dei nostri limiti) e non era nemmeno più possibile utilizzare l’appoggio iniziale di molti gruppi di compagni stimolati, spesso, dall’entusiasmo.
Si è praticamente conclusa una prima fase della lotta a Comiso contro la base missilistica. È stata una fase fondata sia sulla controinformazione che sulla creazione di una rete organizzativa di Leghe autogestite estesa a tutta la zona del comisano. Alcune Leghe di sostegno sono nate in altri posti, in Italia e all’estero, come per esempio a Catania e a Londra.
Adesso occorre passare alla fase operativa diretta concretamente a realizzare l’occupazione dell’aeroporto “Magliocco”, occupazione che realizzerà nei fatti le indicazioni di metodo da noi sostenute fin dal maggio del 1982.
Questa seconda fase si fonderà in modo essenziale sulle caratteristiche di autonomia e autogestione delle diverse Leghe. Saranno queste, infatti, a programmare e a fissare le scadenze e le azioni necessarie a portare a termine l’occupazione reale dell’aeroporto.
L’azione simbolica dell’occupazione che è stata realizzata dai pacifisti qualche mese fa, anche con la nostra partecipazione, aveva – almeno per noi – l’unico scopo di dimostrare che l’occupazione è possibile e che nelle condizioni politiche attuali (Stato democratico, presenza di una sinistra comunista che deve salvare la faccia, occhi del mondo su Comiso) non è possibile che la polizia metta mano alle armi, specie trovandosi davanti a un’occupazione con larga presenza di donne, studenti, lavoratori, ecc. E questo risultato è stato chiaramente raggiunto.
L’azione autogestita delle Leghe potrà realizzare l’occupazione senza ricorrere a sostegni esterni o a collaborazioni con forze politiche cosiddette di sinistra che, di tanto in tanto, ci fanno l’occhiolino incuriosite o impaurite delle nostre iniziative e della nostra potenzialità di mobilitazione popolare. Ciò comporta anche il fatto che tutti coloro i quali, in modo più o meno interessato, si sognano occulte trame organizzative, centrali strategiche capaci di mettere mano a piani organizzativi dettagliati, direzioni politiche in grado di dare indicazioni su quanto va fatto, tutti costoro sognano favole del tutto inesistenti.
L’occupazione pacifica dell’aeroporto “Magliocco” sarà realizzata dalla gente attraverso il punto di riferimento delle Leghe autogestite, senza l’intervento del cappello politico di nessuna direzione strategica o militare. La gente non ne ha bisogno. Possiede le sue organizzazioni spontanee e autogestite, che sono le Leghe, e non accetterebbe ipoteche politiche, come non ha accettato i diversi tentativi di egemonizzazione che sono stati fatti dagli sporadici e malinconici interventi di Lotta continua per il comunismo, di PdUP, di DP, del Partito radicale e di altri tristi abitatori del palazzo dei fantasmi.
A quanti sostengono meravigliati e disgustati che la gente di Comiso non si muoverà mai perché abituata a soffrire in molti modi e ad accontentarsi di poco (anche delle miserabili offerte di un lavoro striminzito in più), rispondiamo che non conoscono il popolo siciliano e, in fondo, non conoscono il popolo lavoratore di ogni parte del mondo. Ogni sopportazione ha un limite.
Ma per muoversi i proletari di Comiso hanno bisogno di vedere chiaro. Le nostre analisi e le nostre controinformazioni sono state pienamente recepite. Adesso occorre fare vedere con grande chiarezza due cose: che l’occupazione reale (non soltanto simbolica) è possibile, e che si è in tanti (centinaia, migliaia), decisi a portarla avanti.
Siamo entrati, in questo modo, nella seconda fase del nostro lavoro. Qui, come compagni di strada, avremo soltanto i proletari del comisano, gli sfruttati delle nostre zone, tutti coloro per i quali la costruzione della base significa soltanto un ulteriore rafforzamento del proprio sfruttamento. Avremo, al nostro fianco, tutta la gente decisa a impedire questo progetto. Avremo le donne con la loro carica dirompente accumulata da secoli, avremo gli studenti con il loro entusiasmo. Tutte queste forze non hanno bisogno di una direzione politica, di nessun tipo di direzione politica. Non saprebbero cosa farsene. Lo scontro che si prospetta è uno scontro sociale che non ammette imbrogli o tentennamenti.
Il tempo delle attese è veramente finito. Occorre passare all’azione.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Comiso. Verso l’occupazione della base missilistica, in “Umanità Nova”, 17 marzo 1983, pp. 1 e 8]
Lettera aperta al movimento anarchico da parte dei compagni anarchici attivi all’interno delle Leghe autogestite contro la base missilistica di Comiso
Premessa necessaria
Quello che segue è il documento con cui si stringevano le condizioni di collaborazione col resto del movimento. Le polemiche e i malintesi erano ormai sempre più diffusi. L’ostracismo di una parte del movimento, per un attimo sopito quando si avanzò la nostra proposta di un Convegno nazionale, proprio per non correre il rischio di restare tagliata fuori da una iniziativa che stava per diventare grossissima, tornò a fare la sua comparsa. Su una buona parte della stampa anarchica ci si limitava a pubblicare i comunicati. Nessun approfondimento, nessun contributo critico, nessuna analisi. C’è da dire che il documento in questione, da me redatto, venne approvato all’unanimità dall’assemblea delle Leghe tenutasi a Vittoria il 10 marzo 1983.
Noi compagni anarchici, attivi all’interno delle Leghe autogestite contro la costruzione della base missilistica di Comiso, dichiariamo, con questa lettera aperta diretta ai compagni del movimento anarchico italiano, quanto segue:
considerando che da quasi un anno siamo impegnati nella lotta a Comiso diretta a organizzare un movimento di massa con l’obiettivo di occupare la base missilistica americana in costruzione,
considerando che il nostro sforzo individuale e collettivo – sia come presenza fisica che come apporto finanziario – è stato costante e considerevole,
considerando che non possiamo continuare a lungo nel nostro impegno senza andare incontro a breve scadenza alla concreta impossibilità di continuare il nostro lavoro a Comiso per mancanza di forze e per mancanza di soldi,
considerando che la lotta in corso a Comiso è vicina a realizzare gli obiettivi che ci prefiggevamo e che ha bisogno, proprio per questa sua maturità politica e organizzativa, di uno sforzo finale a tutti i livelli in mancanza del quale si finirebbe per nientificare quello che è stato fatto finora,
considerando l’importanza e la centralità di Comiso nel quadro generale delle lotte che il movimento sta conducendo in Italia in questo momento,
siamo arrivati alla conclusione che se la situazione dovesse restare com’è oggi, saremo costretti a interrompere il nostro intervento, a chiudere il Coordinamento delle Leghe e a ridurre l’attività delle Leghe stesse a quanto esse, spontaneamente e separatamente, potranno produrre, e ciò per due ordini di motivi:
1) limitata presenza fisica dei compagni anarchici,
2) mancanza di soldi.
Riteniamo pertanto di avere bisogno entro il 31 maggio 1983 della presenza di almeno 100 compagni anarchici a Comiso, per un periodo di permanenza individuale di non meno di un mese, possibilmente in gruppi non superiori a 15-20 compagni, e di almeno trenta milioni di sottoscrizione per affrontare le spese di abitazione, sopravvivenza, benzina, telefono, luce, postali, ciclostile, inchiostro, carta, manifesti, ecc., per organizzare una propaganda capillare in vista dell’occupazione (stampa di un manifesto a grande tiratura), per la realizzazione di un’altra serie di comizi, per l’acquisto di un furgone, per la messa in opera di una radio, per la stampa di un bollettino locale, ecc.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Lettera aperta al Movimento anarchico da parte dei compagni anarchici attivi all’interno delle Leghe autogestite contro la base missilistica di Comiso, in “Umanità Nova”, 21 aprile 1983, p. 7]
Insurrezionalismo e organizzazione di massa a Comiso. La lotta contro la base missilistica
Prima che qualche agiografo cominci il lavoro di santificazione della lotta in corso di svolgimento a Comiso, mi sembra necessario sviluppare alcuni appunti di critica che dovrebbero risultare utili a tutti i compagni.
L’impostazione data alla lotta da parte dei compagni anarchici presenti all’interno del Coordinamento delle Leghe autogestite ha incontrato determinati ostacoli, sia all’interno del Coordinamento stesso che all’interno del movimento anarchico nel suo insieme, ha determinato alcune contraddizioni a livello delle forze politiche che si dicono – a parole – contrarie alla costruzione della base, ha prodotto alcuni risultati. Su queste tre linee di analisi si svilupperà quindi il presente intervento che, in quanto intervento critico, non avrà il taglio dei soliti articoli di cronaca che anche io ho spesso redatto e che sono stati pubblicati su diversi giornali anarchici. Questa volta si tratterà di un’analisi fuori dei denti, diretta a cogliere i limiti di un intervento e, se possibile, le sue potenzialità residue.
Mi sembra ormai superato il periodo delle cose dette in modo poco chiaro, dirette apposta a determinare la massima coesione possibile tra forze diverse e tra diversi compagni. È tempo che ognuno si assuma le proprie responsabilità e procuri di mettere a profitto l’esperienza fatta.
Esaminiamo le caratteristiche dell’intervento iniziale.
Dopo alcuni mesi di lotta – tra lo scorcio dell’ ‘81 e l’inizio dell’ ‘82 – divenne chiara a Comiso l’insufficienza del metodo sottolineato dal Comitato promotore, organismo dove si trovavano diversi compagni anarchici. Le carenze di questo metodo si collocavano quasi tutte nella sua pregiudiziale politica. Il Comitato, in quanto organismo politico, voleva intervenire nella realtà comisana con un’analisi e una proposta, spingendo poi, in un secondo tempo, la gente a muoversi contro la base.
All’inizio ci si limitò allo sviluppo di questa analisi che, in quanto prodotta da un organismo politico, avrebbe dovuto avere un taglio di classe molto più accentuato di quello che invece finì per avere. Nella pratica non si andò mai al di là di queste proposte analitiche, culminanti in un grosso Convegno, tenuto nell’ottobre dell’ ‘81, proprio a Comiso, Convegno a cui parteciparono le forze della cosiddetta estrema sinistra italiana, anarchici compresi, e in cui ci furono i soliti tentativi di egemonizzazione portati avanti da Lotta Continua per il comunismo, tentativi che però furono rintuzzati efficacemente.
I risultati di questo lavoro non potevano che essere modesti. Il primo guaio che si produsse fu quello di dare fiato agli zombi di Lotta Continua che, guidati da un ducetto locale, cercavano in tutti i modi di riacquistare credibilità dopo che si erano squalificati a livello nazionale. Proprio questo squallido personaggio, che in queste prime battute della lotta a Comiso veniva a riacquistare un certo credito, si era abbassato fino a partecipare alle elezioni locali e non era mai riuscito a nascondere le sue strane connivenze con i socialisti di Comiso, gli stessi che sostenevano la necessità di costruire la base. Per completare il quadro, altri appartenenti a Lotta Continua per il comunismo, sempre in quel periodo, denunziavano alla polizia – in una cittadina non distante da Comiso – dei compagni anarchici “colpevoli di avere fatto alcune scritte sui muri”.
Fu proprio a questa gente che si dette respiro con gli errori commessi nella impostazione iniziale della lotta a Comiso. Ma, in fondo, non erano certo soltanto i compagni anarchici che partecipavano al Comitato promotore a non avere le idee chiare. In quel periodo, il movimento anarchico nel suo insieme non brillava per acutezza di analisi. Di questa affermazione chiunque può convincersi, basta che dia un’occhiata agli articoli pubblicati in quelle settimane in “Umanità Nova”.
La conseguenza di questa incapacità e di questa strana coabitazione fu che il baratro tra il Comitato e la gente del luogo si fece sempre più ampio ed evidente. L’approssimativa analisi interclassista e fumosamente politica non bastava a coprire i limiti di una scelta non ben ponderata.
A questo punto si costruì un intervento diverso. Abbandonando il Comitato al suo destino politico – rivelatosi poi quello dell’inefficienza e della stasi – gli anarchici scelsero la strada del contatto diretto con la gente del comisano, del vittoriese e del ragusano.
A questo scopo organizzarono una serie di comizi nelle varie cittadine e anche in piccolissimi centri. Alla fine di ogni comizio si sviluppava una discussione diretta con la gente allo scopo di sentire dal vivo le opinioni del maggior numero di persone riguardo la costruzione della base.
L’ipotesi analitica di intervento era strutturata su alcuni semplici punti:
a) pericolo di morte,
b) pericoli collegati alla costruzione della base:
– speculazione edilizia,
– aumento della droga pesante,
– diffusione della prostituzione,
– militarizzazione del territorio,
– riduzione degli spazi per qualsiasi tipo di lotta sociale.
La critica di quanto veniva fatto ufficialmente contro la base era impostata sui seguenti punti:
a) inefficienza delle indicazioni del PCI,
– scioperi della fame,
– grandi marce periodiche,
– raccolta di firme,
b) tentativi di strumentalizzazione da parte delle formazioni minori, a sinistra del PCI (PdUP, DP, Radicali, Lotta Continua per il comunismo),
c) confusione analitica e propositiva del movimento pacifista.
L’indicazione di lotta era quella fondata sull’occupazione di massa della base, facendo risalire questa indicazione a esempi precisi:
a) i fasci socialisti siciliani,
b) l’insurrezione del ragusano per il “non si parte” nel ‘45,
c) l’occupazione delle terre agli inizi degli anni ‘50.
Una proposta come quella dell’occupazione di massa, fondandosi su una metodologia insurrezionalista, escludeva, fin dall’inizio, metodi diversi, seguiti da altre formazioni politiche, come, per esempio, il metodo del “presidio” davanti all’aeroporto “Magliocco”, o il metodo della pressione politica parlamentare a livello di partiti e sindacati.
Impostando direttamente il contatto con la base dei lavoratori, dei disoccupati, degli studenti, delle donne, si operava un salto di qualità che tagliava fuori ogni tipo di analisi strategico-militare e, a livello internazionale, ogni accentuazione del problema antimilitarista in senso stretto, per dare il massimo spazio al problema della salvaguardia del territorio, della difesa contro le prevaricazioni mafiose e statali, della tutela dell’omogeneità etnica e popolare delle zone colpite dal progetto della base missilistica.
Da qui la necessità di costruire gli organismi di massa più adatti. Non senza contrasti ci si orientò per le Leghe autogestite, sia perché questa struttura si collega con la tradizione del movimento siciliano dei lavoratori, sia perché non è facilmente assumibile da formazioni politiche come partiti o movimenti di tipo partitico.
Fare, a priori, piazza pulita di ogni ciarpame politico, di ogni analisi internazionale sofisticata e dirigersi verso la gente, con analisi e proposte in grado di toccare i loro bisogni, le loro necessità più impellenti, si rivelò subito come un grosso strumento per organizzare la gente in strutture di massa e per indirizzare queste strutture verso l’occupazione della base.
Non si capì invece con la stessa agilità il significato reale che questa occupazione assumeva. Molti di noi, se non proprio tutti, non si resero conto che si stava lavorando a preparare una insurrezione popolare e che questo lavoro non poteva essere fatto con leggerezza o superficialità, ma doveva essere affrontato con alcune cautele e secondo metodi ben precisi.
La verità è che siamo molto bravi a sviluppare teorie, poi, quando ci troviamo davanti alla realtà precisa in cui queste teorie prendono corpo, abbiamo una forte tendenza a recalcitrare. Ci facciamo prendere dai dubbi politici, dalle angosce morali: è giusto intervenire con un’organizzazione specifica all’interno di un’organizzazione di massa? È giusto politicizzare un movimento che dovrebbe essere spontaneo? Idiozie del genere se ne sono dette a centinaia.
Da parte loro i compagni lontani, anche quelli che condividevano l’ipotesi insurrezionale, non capivano la situazione. Alcune obiezioni che mi facevano personalmente lasciavano vedere con chiarezza la loro incapacità di rendersi conto della strategia insurrezionale in corso di attuazione. Come spiegare? Non certo tramite gli scritti. A parole? E quando mai le parole sono riuscite veramente a far capire quello che l’altro non vuole capire?
Ci volevano soldi. Come si organizza un’insurrezione senza soldi? Ma soldi non se ne trovavano. Il movimento anarchico credo non sia stato mai così parco come nelle sottoscrizioni dirette a Comiso. Forse inconsciamente capiva quello che a livello razionale gli restava incomprensibile, e, capendolo, lo avvertiva come cosa pericolosa e coinvolgente, da prendersi con le pinze, da tenersi a distanza.
Eppure non mancavano gli elementi per interpretare meglio la realtà, bastava volerlo fare. Per esempio, le Leghe presentavano un documento organizzativo che vietava loro qualsiasi evoluzione in senso difensivistico, rivendicativo e quindi corporativo. Perché la loro attività veniva ridotta, fin dall’inizio, al solo scopo di lottare contro la base? Come si può spiegare questa mutilazione se non con il progetto insurrezionale che le sorreggeva? Un altro sintomo si poteva vedere nel discorso privo di una discriminante di classe esercitata in modo diretto e preventivo. La proposta delle Leghe sembrava – per certi aspetti – ricalcare quella del Comitato promotore, che era stata tanto criticata da noi stessi. Ma questa volta c’era un motivo ben preciso: si volevano coinvolgere le masse della zona all’interno delle Leghe per poi, in un secondo tempo, selezionare un referente di classe – tramite la spinta politica del Coordinamento – referente in grado di servire da detonatore per l’azione insurrezionale contro la base. Se non ci fosse stato questo obiettivo, diciamo nascosto, non si sarebbe potuto accettare in alcun modo la bislacca impostazione del documento organizzativo. Un altro sintomo si sarebbe potuto cogliere nella nascita preventiva del Coordinamento, prima della costituzione delle Leghe stesse, nascita che non poteva non indirizzare la riflessione sulle chiare intenzioni dei compagni anarchici di stimolare la nascita delle diverse Leghe e, nello stesso tempo, di indirizzarle verso l’obiettivo dell’occupazione della base.
Ma qualche solone, lontano e vicino, non riuscendo a vedere al di là del proprio naso, non poteva trattenersi dall’avanzare perplessità. Cosa significa occupare la base? Ecco la domanda intelligente che veniva fatta un po’ dappertutto, generalmente da compagni in disarmo o da compagni immersi fino al collo nella propria merda o nelle proprie attività di grande interesse teorico. Cosa significa? Assolutamente nulla. Ma è proprio nell’assolutamente insignificante che si riassume il senso massimo del significato. Ogni azione può non avere senso da per se stessa e, comunque, non ha mai un senso valido per tutti o valido per sempre. Il suo senso lo possiede quando si inserisce nel livello dello scontro, causa modificazioni in questo livello (possibilmente facendo crescere le contraddizioni nell’avversario – ho detto possibilmente!), dimostra l’applicabilità di un certo metodo, fa vedere i limiti e gli errori dei metodi avversari.
Ora non c’è chi non veda che una insurrezione a Comiso, anche se circoscritta e limitata all’azione contro la base missilistica, almeno uno di questi obiettivi poteva raggiungerlo.
D’altro canto, cosa ci si può aspettare dal metodo insurrezionale? Una cambiale firmata in bianco che dalla sua applicazione venga fuori la rivoluzione e, per giunta, quella buona? Non occorre dire che vi sono stati compagni che avrebbero gradito moltissimo assicurazioni in questo senso.
Eppure possiamo garantire a quanti non hanno vissuto con noi l’esperienza di questa lotta a Comiso che, proprio nella preparazione di questo progetto insurrezionale, si sono fatte esperienze di grande portata, si sono visti limiti che nessuna analisi critica avrebbe potuto scoprire.
In futuro potremo forse riprendere questo discorso in merito al rapporto tra insurrezionalismo e organizzazioni di massa, discorso che, in pratica, è stato solo sfiorato dalla realtà della lotta a Comiso.
Vediamo, adesso, le contraddizioni a livello di movimento anarchico che si sono scatenate a seguito della nostra lotta a Comiso. Il primo tentativo di coinvolgere il movimento fu fatto tramite un Convegno [vedi alle pp. 228-238 di questo libro la Relazione introduttiva] tenutosi a Comiso il 31 luglio e il 1 agosto 1982. Lo scopo del Convegno era quello di discutere il problema dell’occupazione a livello più ampio, approfondendo anche il grave punto della centralità di Comiso nell’insieme delle lotte oggi in Italia.
In pratica lo sviluppo delle lotte anarchiche a Comiso e la prospettata costruzione degli organismi di massa trova il movimento anarchico, nel suo insieme, in una fase molto delicata di arretramento delle lotte e degli interventi nella realtà di classe. Quasi in tutta l’Italia si sentono gli effetti dell’ondata inarrestabile del riflusso. Il ‘77 è lontanissimo. Il ‘68 addirittura preistorico. Il fallimento del tentativo anarcosindacalista si fa catastrofico. Le scuole sono insofferenti a ogni tentativo di penetrazione dei gruppi anarchici. Per altro, le idee di questi gruppi sono per niente brillanti. Molti compagni non sanno cosa fare. L’unico settore in cui c’è qualche “spiraglio” di intervento è proprio la lotta antimilitarista. Per tale motivo Comiso, anche al momento degli interventi all’interno del Comitato promotore, era stato visto come un’occasione per rilanciare le lotte del movimento.
Ma la nuova ipotesi che viene dal Sud: quella della costruzione degli organismi di massa, delle Leghe, per poi arrivare a un’occupazione della base, trova molti dubbi e titubanze. Il movimento è più disponibile a capire la logica di un intervento politico, a opera di un comitato, perché questo è quanto si continua a fare quasi dappertutto – per altro, con risultati assai modesti – ma non gli risulta chiara l’intenzione collocata dietro un intervento che pretende agire direttamente sul sociale attraverso, appunto, la costruzione di strutture di massa come le Leghe.
Il movimento anarchico risponde quindi con riluttanza. Al Convegno di Comiso la presenza è scarsa (150 compagni), e ancora più scarsa viene indicata dai redattori della rivista “A” che fanno della facile ironia parlando di qualche decina di compagni barcollanti in una fantomatica marcia verso la base sotto il sole. La disinformazione di quest’organo della stampa anarchica è macroscopica. In effetti la marcia si svolse di notte e questo dà la misura della considerazione che una parte del movimento anarchico aveva per il nostro lavoro a Comiso. Ma i compagni della redazione della rivista “A” vanno ancora più oltre. Nel corso di una riunione a Bologna, tenutasi qualche tempo dopo il Convegno di Comiso, riunione indetta dalla commissione antimilitarista della FAI, si assumono la grande responsabilità di dichiararsi non disponibili a sostenere la lotta contro la base e sviluppano la loro tesi contraria alla “centralità” di Comiso. A giustificazione di questa loro presa di posizione nei confronti di tutto il lavoro che si andava svolgendo contro la costruzione della base, dichiarano pubblicamente di avere delle remore e dei motivi di natura “personale”. I redattori di “Umanità Nova” si dichiarano disponibili a pubblicare i comunicati e le cronache delle diverse lotte, ma non andranno mai al di là di questa loro “asettica” ospitalità, evitando accuratamente di prendere posizione.
Gli unici che si impegnano veramente e seriamente sono i compagni della commissione antimilitarista della FAI che, fin dal Convegno di Comiso, si erano dichiarati assertori della importanza della lotta a Comiso. Sono in pratica i soli a mantenere gli impegni presi. I compagni della FAI di Bologna, per esempio, si erano impegnati a sostenere la lotta ma poi se ne sono disinteressati in modo assoluto.
In fondo ognuno ha i suoi problemi. Il movimento vivacchia. Non bisogna dimenticare che è carico di tutte le contraddizioni tipiche di un movimento politico. “Umanità Nova” è lo specchio fedele delle residue velleità di lotta che sistematicamente vengono penalizzate dai fatti. Si attraversa un periodo di stasi che alimenta il disinteresse e il pessimismo.
In questa situazione lo sviluppo, davvero impensato, che la lotta di Comiso riesce a prendere, la crescita delle Leghe, la risposta della gente, il moltiplicarsi degli interventi nel territorio, tutto questo, viene vissuto in modo estraniato e spettacolare, attraverso “Umanità Nova”, attraverso qualche telefonata, qualche contributo finanziario sporadicamente spedito “laggiù”, qualche rapidissima visita ai “luoghi” dello scontro.
Anche le conferenze e i dibattiti organizzati dai compagni in diverse città proprio allo scopo di sviluppare il discorso di Comiso sono certamente lodevoli, ma risultano slegati e poco produttivi.
A un certo punto ci rendemmo conto in diversi compagni che si doveva arrivare all’occupazione con un coinvolgimento del movimento anarchico nel suo insieme e con una dichiarazione ufficiale – pubblicizzata quanto più possibile – della data dell’occupazione. I risultati positivi di questa mossa “politica” potevano essere diversi.
Si pensò di indire un Convegno da farsi in una grande città (Roma, per esempio) con la partecipazione del maggior numero possibile di compagni e di delegati delle diverse Leghe, in modo da fare uscire la data dell’occupazione come una decisione del Convegno. Nello stesso tempo, organizzare nelle diverse città delle azioni dimostrative da realizzare contemporaneamente all’occupazione della base a Comiso.
Gli accordi con diversi compagni, anche con i redattori della Rivista “A”, vennero presi in questo senso e ci si accorse che anche questi ultimi avevano cambiato idea riguardo a Comiso (o erano venute meno le loro remore personali) e pertanto si dichiaravano disponibili a sostenere sul loro giornale la lotta in corso di svolgimento.
Si trattava, com’è facile capire, di un progetto politico diretto a scatenare una contraddizione all’interno delle forze cosiddette di sinistra in Italia e, in particolare, all’interno del PCI. Dopo tutto, l’occupazione dell’aeroporto “Magliocco” l’avremmo fatta, in massima parte, con la base di questo partito e quindi non era credibile che in via delle Botteghe Oscure si potessero dormire sonni tranquilli. Una contraddizione del genere poteva scatenare conseguenze non facili a gestirsi e certamente impossibili a controllare isolati da soli a Comiso: da qui la necessità di un intervento di tutto il movimento anarchico nel suo insieme.
Sfortunatamente questa proposta non venne accettata dall’assemblea delle Leghe a causa della tenace opposizione di quattro compagni anarchici che si dichiararono contrari. Ciò rese necessario interrompere i diversi contatti operativi col movimento, impedì la realizzazione del Convegno, rese inattuabili le diverse azioni coordinate a causa della mancata volontà di fissare una data e – cosa non ultima – determinò un clima di disillusione fra i compagni, clima che non mi pare sbagliato riportare all’origine dell’attuale situazione di stallo dell’intervento a Comiso.
Ma occorre anche far capire la natura delle “contraddizioni” che sorsero all’interno del Coordinamento. Perché non si riuscì a comprendere la grande importanza dell’operazione “politica” che si voleva realizzare con il Convegno nazionale, con l’indicazione della data dell’occupazione, con il coinvolgimento del movimento anarchico e la realizzazione delle diverse azioni periferiche?
In pratica i compagni anarchici presenti nella zona e a Comiso erano alcune individualità di Ragusa, di Giarratana e di Vittoria e il gruppo “Rivolta e Libertà” di Catania: in tutto una ventina di compagni e compagne.
Si trattava, e si tratta, di compagni con un’esperienza di lotta e una capacità analitica fortemente eterogenee. Il gruppo di Catania, in più, si era costituito da pochi mesi e aveva avuto, in sostanza, la sola esperienza della lotta antimilitarista svoltasi al momento della diserzione del compagno anarchico Orazio Valastro. Ma, quello che è più grave, non si possedeva (e forse non si possiede neanche ora) una sufficiente chiarezza teorica di fronte a molti problemi, specialmente di tipo organizzativo.
Ciò comportava notevoli ritardi nelle decisioni da prendere. Scontri e polemiche non sempre piacevoli, non sempre fondati. Spesso incomprensioni terminologiche venivano scambiate per posizioni diverse. Giorni e giorni perduti per chiarire in che modo si doveva proporre l’analisi dell’aumento dei prezzi e della diffusione della droga pesante a causa dell’arrivo degli Americani. Non si capiva, per esempio, che questo tipo di analisi non può avere l’approfondimento e la sottigliezza che richiede un’analisi economica sul meccanismo dei prezzi o un’analisi sociale sul problema della droga pesante. Spesso ci si deve accontentare di una maggiore approssimatività quando lo scopo è quello di muovere la gente verso un obiettivo insurrezionale e quindi diverso da quello che emerge da una valutazione obiettiva dell’analisi.
Per esempio, un tragico e prolungato dibattito – durato settimane – coinvolse tutti i compagni sul problema di cosa doveva nascere prima: il Coordinamento o le singole Leghe? Il classico problema dell’uovo e della gallina. Alcuni sostenevano che non vi poteva essere Coordinamento se non di qualcosa che già esisteva, quindi prima dovevano nascere le Leghe e poi queste ultime potevano mettersi d’accordo fra loro per coordinarsi. Altri, al contrario, sostenevano che il Coordinamento doveva farsi prima in quanto costituiva un punto di riferimento per la nascita delle Leghe. Ma i primi ribadivano che così facendo, nei fatti, gli anarchici avrebbero costituito una specie di Comitato centrale, con tutte le conseguenze del caso. Vi fu chi scomodò anche Marx e il Comitato londinese della Prima Internazionale. Bastava un minimo di chiarezza teorica per capire che le organizzazioni di massa non nascono da sole e che le organizzazioni specifiche si devono fare carico, a un dato momento dello scontro di classe, di creare quelle strutture minime che consentono e favoriscono le organizzazioni di massa.
Altre settimane furono perdute dietro al dilemma: le Leghe devono essere organismi di resistenza, oppure organismi di massa con un unico scopo? Nel primo caso sarebbero state una forma di “mini-sindacato” e quindi avrebbero affrontato tutti i problemi del momento, dall’aumento dei prezzi alla disoccupazione, dall’inquinamento alla politica internazionale, nel secondo caso avrebbero avuto soltanto lo scopo di impedire la costruzione della base missilistica. Non si capiva, tra l’altro, che la presenza di fortissimi interessi locali e di settore (per esempio, i contadini), avrebbe trasformato gli organismi di resistenza in strutture corporative senza rimedio. Non si capiva, in fondo, che si era davanti a un tentativo, sia pure embrionale, di organizzare una lotta insurrezionale.
Un’altra lunga discussione fu quella originata dal malinteso intorno al terreno più propizio per la propaganda delle Leghe: la zona, la città, il piccolo centro, oppure il settore lavorativo, il quartiere, la scuola, ecc. Si poteva o no dare vita a Leghe di settore? Anche questa volta vi furono accuse di corporativismo (per le Leghe di settore), mentre è evidente il fatto che solo la Lega di resistenza può andare incontro al pericolo del corporativismo, specialmente quando diventa Lega di settore, mentre una Lega specifica, come quella contro la costruzione della base, non corre questo rischio nemmeno nel caso della Lega di settore.
Molte critiche vennero rivolte all’analisi di fondo che reggeva tutto il discorso dai comizi iniziali alla costituzione delle Leghe. Questa analisi veniva considerata – giustamente – inadeguata all’azione di un gruppo anarchico, il quale proponendo un’analisi si qualifica sulla base della stessa. Ma occorreva tenere presente che anche se l’attività dei compagni anarchici appartenenti a organizzazioni specifiche era preponderante, si trattava sempre di organizzazioni di massa, caratteristica questa che non poteva essere considerata secondaria. Nei fatti l’analisi era carente proprio per alcuni di quei motivi che avevano causato il fallimento dell’analisi del vecchio Comitato promotore. Ma, mentre quella carenza nell’azione di un gruppo politico non poteva non avere conseguenze letali, la stessa carenza nell’azione di un organismo di massa che bisognava spingere verso obiettivi insurrezionali poteva presentare aspetti positivi.
In effetti quello che mancava nell’analisi era una precisa individuazione del referente di classe, cioè di quella minoranza che prima o poi avrebbe trovato la strada per arrivare all’occupazione e alla distruzione della base missilistica. Non è difatti pensabile che l’occupazione venga fatta dalla popolazione della zona con una partecipazione indiscriminata. Questa constatazione risulta tanto più vera quanto più ci si allontana da una concezione spontaneista della lotta in questione, concezione che, agli inizi, poteva anche sembrare perseguibile ma che man mano, col passare del tempo, finiva per risultare meno probabile lasciando il posto alla necessità di un’organizzazione ben precisa del fatto insurrezionale. Non era quindi una contraddizione dell’analisi quanto un momento organizzativo indiretto, uno stimolo del referente di classe attuato attraverso lo strumento di massa. Le Leghe, difatti, avrebbero dovuto, in concreto, selezionare, al proprio interno, quel referente di classe più avanzato e più combattivo, capace di realizzare l’occupazione. Nostre carenze in merito a questo problema hanno determinato non solo ritardi notevoli nello sviluppo del movimento delle Leghe, ma anche una difettosa costituzione di queste ultime. Spesso accadeva che queste nascevano come gruppi informali di compagni di diversa origine politica nell’àmbito della sinistra e con la caratteristica comune del riflusso e della disillusione delle passate esperienze. Spesso vi era una partecipazione di persone con nessuna esperienza di lotta, giovani e meno giovani, per cui si aveva un certo adeguamento alle indicazioni dei compagni con una esperienza maggiore. Non si riusciva però a fare sviluppare coerentemente l’aspetto quantitativo della partecipazione alle Leghe con l’aspetto qualitativo e selettivo di una formazione di gruppi diretti a individuare i compagni e le persone più avanzate sul piano di una reale decisione di porre fine alla costruzione della base di Comiso.
In molti di noi riprendeva consistenza (o continuava ad averla) la vecchia mentalità politica di intervento. A testimoniare questa carenza era la costante preoccupazione di seguire i comportamenti altrui, specie dei pacifisti partecipanti al campo della pace. Alcuni compagni sostenevano la necessità di partecipare al campo, di gestirlo insieme a loro, di partecipare alle loro lotte. Non ci si rendeva conto che questi pacifisti erano completamente tagliati fuori nei riguardi della gente, che il loro confuso e contraddittorio messaggio religioso e politico era respinto e penalizzato dagli abitanti della zona. Non ci si rendeva conto infine che eravamo noi ad avere in mano la carta vincente, che eravamo noi quelli che la gente vedeva come possibili realizzatori delle condizioni necessarie a impedire la costruzione della base. Il grave errore commesso era quello di non riuscire a liberarsi da una mentalità di minoranza politica e di non capire la logica dell’azione insurrezionale di massa. I pacifisti facevano interventi nell’ottica dell’azione simbolica, diretta ad attirare l’attenzione dei grandi mezzi di informazione e, attraverso di questi, quella della gente. Ma venivano considerati extraterrestri in visita di cortesia con un fossato scavato intorno dall’indifferenza e ciò contemporaneamente al fatto che le loro azioni venivano ospitate e trovavano rispondenza in giornali e televisioni, proprio a causa della loro valenza simbolica molto gradita al potere perché indice di sostanziale inefficacia.
Abbiamo stentato a capire questa profonda differenza di intervento e la grande importanza di distanziarci da loro e dai loro tentativi simbolici. La nostra proposta aveva un fondamento concreto che invece non esisteva nelle loro azioni. La nostra proposta voleva portare la gente dentro la base, loro si limitavano e si limitano a “fare vedere” che è possibile fare qualcosa contro la base, qualsiasi cosa: dalla costruzione di un muro di cartone all’occupazione fittizia della durata di pochi minuti, dalla preghiera in raccoglimento al blocco stradale, dal girotondo al rito buddista, ecc. La gente allontana ironicamente da sé riti e simboli che non significano nulla, non si interessa a tematiche pacifiste, si insospettisce vedendo vescovi e cardinali, drizza le orecchie davanti a esponenti di partiti politici nazionali o esteri, non è disponibile a impegnarsi su cose più serie (come un blocco stradale) con gente confusa, senza un minimo di strategia e di organizzazione, senza idee chiare.
Perché allora misurarci con i pacifisti, partecipare alle loro iniziative, seguirle, dare a intendere di non essere staccati da loro? Tutto cioè era frutto di un residuo di mentalità politica da cui non riuscivamo a liberarci. Difatti, non è un caso che un compagno che, di tanto in tanto, si fa vedere al Coordinamento (non per colpa sua, ma perché vive e lavora a più di mille e cinquecento chilometri di distanza), recentemente scriveva su “Sicilia Libertaria” che sarebbe il caso di organizzare un “presidio” di compagni davanti l’aeroporto. Anche lui non ha avuto modo di rendersi conto della effettiva realtà della lotta a Comiso e delle sue valenze insurrezionali. Sostenere ancora oggi la necessità di un “presidio” (come è stato fatto da un altro compagno – altrettanto lontano dalla realtà di Comiso – sulle colonne di “Umanità Nova”) significa non vedere in che modo la gente penalizza queste iniziative e in che modo si possono realmente mobilitare le zone del comisano, del vittoriese e del ragusano per attaccare e distruggere la base.
C’è un’altra cosa, infine, che non si è capito bene e la cui mancata comprensione ha avuto conseguenze importanti sulla situazione in cui ci troviamo: gli aspetti “politici” di un fatto insurrezionale. Chi pone mano, nei fatti e non nella tranquillità teorica delle discussioni, a realizzare le condizioni per una insurrezione di massa, si accorge, prima o poi, che non è possibile fare quanto va fatto senza tenere conto degli equilibri politici presenti nella realtà in cui si opera. Ora, nella zona di Comiso la realtà che bisogna spostare, per avere un minimo di possibilità di organizzare un’insurrezione contro la base, non è quella del PSI o della DC, partiti favorevoli alla costruzione e, tutto sommato, abbastanza avulsi dal contesto proletario e contadino, quanto invece quella del PCI, partito che più di tutti convoglia dentro di sé questi strati popolari più combattivi e più disponibili ad attaccare l’aeroporto per bloccare la base missilistica. Inoltre, questo partito, per motivi facili a capirsi, non può usare metodi repressivi diretti (chiamare la polizia) quando qualcuno cerca di lottare in modo corretto (almeno apparentemente, in quanto non è certo considerato corretto dai burocrati del PCI organizzare un’insurrezione) e coinvolge all’interno di questa lotta la base stessa del partito. Ma, per fare prendere al PCI una posizione ufficiale, anche se di retroguardia e con lo scopo di recuperare le lotte, si doveva minacciarlo in qualche modo, minacciarlo cioè di mobilitare la gente e quindi di fargli correre il rischio di restare tagliato fuori. Questo non è stato capito dai compagni, non ci si è resi conto della grande importanza di realizzare un’insurrezione che partisse con un avallo indiretto del PCI e che poi potesse svilupparsi – sotto la spinta della nostra presenza e del nostro lavoro – verso obiettivi di natura distruttiva e costruttiva assolutamente non più controllabili da parte di questo partito. Non capire queste cose significa non avere la minima cognizione di come si organizza, nei fatti e non nelle astratte immaginazioni, un’insurrezione popolare e di massa. Si può essere bravissimi ad andare sulle barricate, ad affrontare la polizia, ad assaltare un municipio o la sede di un partito, ma si sarà bravissimi da soli. Quando si vogliono creare le condizioni perché a queste azioni partecipi anche la parte più irriducibile degli sfruttati, occorre darsi da fare, avere le idee chiare e non arretrare davanti a luoghi comuni e a falsi tabù. A quei compagni che obiettavano che loro erano disponibili per un lavoro rivoluzionario e non per accordi politici, posso tranquillamente rispondere che non hanno capito il lavoro di Comiso e l’impostazione insurrezionale alla quale loro stessi hanno dato un considerevole contributo. A quei compagni che erano d’accordo con i tentativi di coinvolgere il PCI ma avanzavano dubbi sulle nostre capacità di fare un’operazione del genere, posso rispondere che ciò è accaduto diverse volte (per esempio, a Catania per i fatti del 4 marzo 1982, cioè gli scontri del Cinema Mirone nel corso dell’arresto di Orazio Valastro, e poi a Gela, davanti l’ANIC, quando gli operai obbligarono il PCI a correre in nostra difesa presso la polizia che ci aveva fermato, ecc.). A quei compagni che avevano dubbi sul fatto che il PCI si facesse coinvolgere e invece pensavano che se ne stesse zitto (!), oppure che chiamasse la polizia, posso rispondere che la loro ingenuità è pari all’incompetenza teorica che dimostrano nel fare un’affermazione del genere.
Concludendo posso dire che la lotta a Comiso si avvia, in pratica, alla sua conclusione. Non si può parlare di fallimento anche se non si realizzerà l’occupazione, non si può parlare di successo. Vi sono stati risultati di grande importanza sul piano locale e anche sul piano nazionale. Risultati importanti perché hanno fatto vedere le possibilità dei compagni anarchici di fronte alla realtà delle lotte, lontano dalle beghe fittizie e dalle inutili discussioni sul sesso degli angeli. Da un altro lato, hanno fatto vedere alcune limitazioni, alcune incomprensioni, alcune incapacità. Non mi pare corretto che su queste si stenda un velo pudico mentre sui risultati positivi si suoni la grancassa. L’importanza della lotta a Comiso sta proprio nella capacità che essa ha avuto di fornire indicazioni e insegnamenti di diversa natura.
Per esempio, si è visto in che modo reagisce il movimento anarchico, si è ammirata la sua natura squisitamente politica, il suo agire e disporsi come coacervo di piccole chiese e di racket in lotta l’uno contro l’altro. Questo aspetto squallido non cancella la buona volontà, l’impegno, la dedizione, l’entusiasmo e le capacità del singolo compagno, anzi li esalta al massimo, come qualità indistruttibili che si sviluppano anche in situazioni non precisamente positive come quella del movimento nel suo complesso.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Insurrezionalismo e organizzazione di massa a Comiso. La lotta contro la base missilistica, in “Anarchismo” n. 40, aprile 1983, pp. 20-26]
Per un’occupazione di massa della base
L’assemblea delle Leghe autogestite contro la costruzione della base missilistica a Comiso, tenutasi nella sede del Coordinamento in data 29 maggio 1983, ha approvato all’unanimità un programma di lotte da realizzarsi nel corso dei mesi giugno-luglio a Comiso, lotte che culmineranno nella occupazione dell’aeroporto “Magliocco” prevista per i giorni 22-23-24 luglio.
L’appello rivolto a tutto il movimento anarchico con la nostra “lettera aperta” pubblicata in “Umanità Nova” del 21 aprile scorso ha avuto una risposta molto incoraggiante riguardo la partecipazione dei compagni che si sono impegnati a venire a Comiso a lavorare con noi e, in questo senso, siamo certi che si supererà il numero di 100 compagni che ritenevamo necessario.
Meno incoraggiante è stata invece la sottoscrizione che non ha raggiunto i 30 milioni previsti ma che si è fermata a qualche milione (come specificheremo nel bilancio che sarà pubblicato nei prossimi numeri di “Umanità Nova”). La sottoscrizione comunque continua, mentre da diverse parti giungono al Coordinamento dimostrazioni di solidarietà e di sostegno, oltre alle legittime richieste di chiarimenti a causa degli equivoci generati dalla pubblicazione di alcune voci dissenzienti dall’impostazione data alla lotta dall’assemblea delle leghe che decise la stesura della “lettera aperta” di cui sopra.
La sensibilizzazione degli sfruttati continua, la partecipazione alle leghe si va ricostituendo, anche se spesso non assume l’aspetto di una adesione direttamente dichiarata.
Nel periodo che ci separa dalla data dell’occupazione, intensificheremo l’attività di propaganda con comizi, volantinaggi e manifestazioni di ogni genere. Alcuni compagni punk hanno assicurato la loro presenza a Comiso per partecipare attivamente all’organizzazione della lotta e anche per suonare in diversi punti della città e nei paesi vicini.
Abbiamo provveduto a stampare un manifesto a tiratura nazionale.
Come abbiamo sempre sostenuto, l’occupazione della base di morte in corso di costruzione segnerà l’inizio di tutto un altro ciclo di lotte che riteniamo potrà partire dalla volontà concreta della gente di Comiso di lottare contro la base missilistica.
La presenza del più grande numero possibile di compagni anarchici disponibili a partecipare insieme alla gente di Comiso e delle zone vicine all’occupazione della base il 22-23-24 del mese di luglio sarà elemento indispensabile per dare alla nostra lotta un significato preciso, concretamente visibile e quindi privo di equivoci.
L’occupazione la realizzeremo con la gente, con la nostra presenza massiccia al loro fianco. Questa presenza, in un momento tanto delicato e significativo, sarà indispensabile sia per la riuscita dell’occupazione stessa nel pieno significato del termine, sia per impostare, immediatamente dopo, una continuazione delle lotte e una difesa dei risultati.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Per un’occupazione di massa della base, in “Umanità Nova”, 9 giugno 1983, pp. 1 e 8. Pubblicato anche in “Dialogo”, giornale regionale di Modica, giugno 1983, p. 4]
Cosa bisogna fare per Comiso
Tutto il movimento anarchico italiano e buona parte di quello internazionale sa perfettamente qual è la situazione della lotta a Comiso.
Noi del Coordinamento delle Leghe autogestite abbiamo da più di un anno svolto una vasta opera di propaganda e di controinformazione con una serie imponente di comizi, volantinaggi, mostre, conferenze, discussioni, ecc.
Abbiamo spiegato in tutti i modi come sia perdente la strategia del PCI di insistere sulle sole marce, sulle raccolte delle firme e sugli scioperi della fame. Abbiamo sempre parlato di occupazione come sola soluzione possibile.
Adesso siamo arrivati al dunque. L’occupazione della base missilistica in costruzione la stiamo organizzando con la gente di Comiso e con quella dei dintorni. La realizzeremo – come ormai tutti i compagni sanno – nei giorni 22-23-24 luglio.
L’occupazione la realizzeremo con la gente, ma la nostra presenza massiccia al loro fianco, in un momento tanto delicato e significativo, sarà indispensabile sia per la riuscita dell’occupazione stessa, sia per impostare immediatamente dopo una continuazione delle lotte e una difesa dei risultati che sarà possibile ottenere.
Cari compagni, leggete accuratamente l’allegato volantone. Vedrete che stiamo cercando di coinvolgere le forze politiche che, in un modo o nell’altro, si sono dichiarate contrarie alla base. Sappiamo che la loro è un’opposizione fittizia e quindi non ci facciamo illusioni, ma sappiamo anche che il loro coinvolgimento sarà la chiara indicazione della forza del nostro progetto. Tanto più questa gente vedrà pericoloso il nostro progetto, tanto più cercherà di farsi coinvolgere apparentemente per tentare di recuperarlo.
È evidente che a noi non interessa l’adesione di strutture politiche come il PCI o i sindacati, e neppure di baracconi come il CUDIP o il campo della pace. A noi interessano i compagni di base che, in un modo o nell’altro, si trovano in contatto con queste strutture e ne subiscono le influenze. È su questi compagni che contiamo per realizzare l’occupazione. In gran parte la gente del comisano e del ragusano, che si è dichiarata disponibile a partecipare all’occupazione, fa parte del PCI, è iscritta ai sindacati, conosce i pacifisti e sa che cos’è il CUDIP.
Ma per portare avanti una lotta come questa occorre essere in tanti. Ed è per ciò che riteniamo indispensabile la presenza di tutti i compagni anarchici a Comiso per quel periodo.
[Cfr. (A. M. Bonanno), volantino diretto a tutto il movimento anarchico italiano e tradotto in tedesco, spagnolo, francese e inglese. Praticamente spedito a tutti gli indirizzi conosciuti del movimento anarchico internazionale. Pubblicato, col titolo: Cosa bisogna fare per Comiso, anche in “Umanità Nova”, 23 giugno 1983, pp. 1 e 8]
Perché siamo per l’occupazione
L’occupazione di massa della base di Comiso è una concreta manifestazione di dissenso, cioè un modo di porsi – nei fatti – contro un progetto del capitale e dello Stato, progetto che gran parte della gente e delle forze politiche non condividono (per diversi motivi) ma nei confronti del quale restano più o meno inerti, aspettando che la cosa si risolva in un modo o nell’altro.
Con questa indicazione abbiamo rotto gli indugi, abbiamo posto il dissenso sul piano dell’azione diretta. Dal momento in cui siamo scesi concretamente su questo terreno, abbiamo potuto parlare con maggiore chiarezza alla gente, facendo vedere come sia possibile scendere sulla strada e indirizzarsi verso l’aeroporto “Magliocco”, come sia possibile forzare le difese che i servi del capitale stanno approntando, entrare dentro e distruggere tutto quello che fino a questo momento è stato fatto in attesa di ricevere i missili.
La gente di Comiso si sente un poco rincuorata dalla certezza che esistono intenzioni operative precise, un progetto di massima (anche se non chiaro in tutti i dettagli), la presenza di molti compagni che sosterranno l’azione di massa. Ciò, ovviamente, non significa garanzia assoluta che all’ultimo momento la gente verrà in piazza a partecipare a tutte le azioni che saranno via via decise.
All’ultimo momento potremmo avere la sorpresa se non di un rifiuto chiaro e netto, almeno di una serie di titubanze e di ostacoli. Si potrebbe verificare che le forze delle clientele comuniste riescano a frenare quel certo numero di persone che si è dichiarato disponibile all’azione contro la base.
Se ben si riflette, questo è il vecchio dilemma che si pone davanti a tutte le azioni sollecitate da una minoranza anarchica agente. Quest’ultima – come sappiamo – non agisce come un partito che fissa accordi preventivi sulla spartizione del potere. Indica obiettivi, chiarisce situazioni, fornisce informazioni e analisi. La sua sollecitazione all’azione diretta e allo scontro di classe deve andare più avanti, cioè deve muoversi per apprestare quel minimo indispensabile di strutture operative capaci non certo di sostituirsi all’azione popolare, ma almeno di innescarla.
Cosa fare quando questo minimo di potenzialità operativa, malgrado tutte le condizioni preventive dell’intervento siano state realizzate, non riesce a operare l’innesco?
A mio avviso ci si deve fare carico in prima persona di continuare la lotta. Non perché questa conclusione sia dettata da moventi di correttezza morale o di astratta consequenzialità ai propri princìpi, ma perché anche iniziando da soli la lotta si può, nel corso della lotta stessa, verificare l’attimo in cui si realizza l’innesco, improvvisamente.
Certo non bisogna agire nel senso che se il contatto e la partecipazione non si verificano a priori, o fin dal primo momento, bisogna allora disinteressarsi della gente e procedere avanti come se si fosse realmente e definitivamente soli. Occorre continuare nella lotta ma anche occorre continuare nei contatti e nel fornire quelle informazioni e quelle indicazioni che si sono sempre fornite. Anzi occorre intensificare questo aspetto della propaganda, non limitandosi a pensare che tanto l’azione parla da sé e tutti la possono capire.
A circa venti giorni della data fissata per l’occupazione non si può dire che il Coordinamento delle Leghe autogestite, che si è fatto promotore dell’iniziativa di lotta, abbia le idee chiare. Queste idee e con esse i progetti e le strategie da attuare, si chiariranno nel corso dei prossimi giorni con la partecipazione di tutti i compagni che saranno presenti e di tutte quelle persone del posto che si uniranno alla lotta.
Chi pensa di trovare un’organizzazione precisa in grado di dire cosa fare a tutti i compagni presenti avrà una grossa disillusione. Occorrerà rendersi conto per tempo della situazione e partecipare alle riunioni e ai dibattiti che ci saranno. Quello che fin da adesso è disponibile a Comiso è un centro operativo in grado di fornire indicazioni di massima, tra cui: livello dei contatti con la gente del posto, situazione con le diverse forze politiche presenti e che – a parole – si dicono contro la base, livello della propaganda già realizzata nella zona, livello della repressione in atto, controlli in corso di realizzazione, ecc.
Il resto lo dovremo fare insieme.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Perché siamo per l’occupazione, in “Crocenera” n. 27, luglio 1983, pp. 3-4]
Gli anarchici e la base del Partito comunista
Premessa necessaria
Questo articolo lo avevo preparato per “Crocenera” ma poi non l’ho passato in stampa perché l’evolversi dei fatti lo rendeva superato. Le malcomprensioni purtroppo non eravamo riusciti a evitarle. Lo spunto l’avevo avuto da alcune considerazioni pubblicate da “Crocenera” stessa nel suo numero 27 del luglio 1983, in merito al pericolo di una “collaborazione” col PCI o di un suo possibile “coinvolgimento”. Purtroppo il fatto che anche “Crocenera”, giornale redatto da compagni che erano senz’altro in grado di capire cosa stava accadendo a Comiso, avesse pubblicato un pezzo in cui risorgevano le solite preoccupazioni, certamente fondate, ma del tutto fuori luogo per quanto riguardava la lotta a Comiso, mi faceva rendere conto della necessità di chiarire il problema. Sfortunatamente non si fece a tempo.
Il PCI è una delle forze più efficienti della ristrutturazione capitalista oggi in Italia. Su questo non ci sono dubbi. Ogni rapporto tra il partito e i nostri compagni inseriti in una lotta specifica può essere soltanto basato sulla reciproca diffidenza e sul sospetto politico. Per altro non è mai interesse dei compagni intraprendere, per primi, la strada di questo rapporto. Il nostro compito sono le lotte degli sfruttati, non quello di far andare d’accordo cose che tra loro non hanno la minima somiglianza. Il problema sorge però non appena queste lotte sono avviate, non appena, cioè, i compagni si trovano a realizzare quelle strutture organizzative di base (in qualsiasi settore d’intervento) che mobilitano la gente. In quel momento anche le gerarchie del PCI si mobilitano, allo scopo di recuperare e annullare il lavoro dei compagni.
Il motivo di questo disturbo che il PCI si prende è da cercarsi nel fatto che noi riusciamo, qualche volta, a mobilitare – evidentemente con obiettivi diversi – una parte della sua base, rendendo poco agevole il rapporto tra questa base e il vertice del partito, rapporto su cui si basa il funzionamento del centralismo democratico.
In alcune lotte la posizione del PCI è quella della ristrutturazione del potere per un progressivo cambiamento della gestione della cosa pubblica. Questa politica necessita spesso di posizioni contrarie ai desideri e ai bisogni della base. Ovviamente una posizione contraria netta non è possibile. Allora il partito ripiega sull’impiego di metodi collaudati per la loro assoluta inefficienza, come, per esempio, le grandi manifestazioni, le marce, le raccolte di firme, gli scioperi della fame, ecc. I desideri di lotta della base del partito sono così se non soddisfatti almeno addormentati, mentre i bisogni vengono, in qualche modo, rinviati a data da destinarsi.
Questa politica non può essere denunciata – come meriterebbe – come semplicemente reazionaria e filo-padronale. Un concetto così lineare potrebbe non essere capito da quella grossa parte del movimento degli sfruttati che crede ancora (e ha interesse a credere) che i partiti della sinistra (PCI in testa) difendano i suoi diritti. Bisogna allora che la nostra critica (se vuole essere ascoltata) ripieghi sul concetto meno esatto, ma più produttivo, di “inefficienza”. I suggerimenti di lotta del partito sarebbero “inefficienti”. Questa critica è comprensibile e, se ben fatta, in modo chiaro, martellante, continuo, in una zona non ampia (visti gli scarsi mezzi che possediamo) e nei riguardi di un problema specifico, finisce per raggiungere il suo scopo. Mobilita una parte della base del PCI e, quindi, scatena (o incomincia a scatenare) una serie di contraddizioni.
È del tutto palmare che la mobilitazione che gli anarchici ottengono in questo modo ha una validità limitata (essendo condizionata dal concetto di “inefficienza”, e non da una vera e propria critica del PCI e della sua politica), ma è qualcosa su cui si possono basare le nostre proposte di azione diretta e su cui si possono costruire i nostri tentativi insurrezionali.
I mezzi di cui dispone il PCI per recuperare sono diversi, ma non tutti sono impiegabili spensieratamente. Alcuni di essi hanno costi che il partito, in un certo momento, non può permettersi. Uno di questi mezzi sarebbe la dimostrazione di maggiore “efficienza”, alzare cioè il livello delle lotte. Ciò porterebbe immediatamente in testa allo scontro i leader del partito e noi saremmo risucchiati indietro per conseguenza della stessa logica quantitativa. Però, una maggiore efficienza richiede fatti concreti e non solo parole e la controparte può anche prendere provvedimenti notevolmente pesanti (repressione), contro cui il partito dovrebbe fare i conti, ecc. Si potrebbe mettere in moto un processo repressivo che spesso il partito non può correre il rischio di affrontare.
Resta il mezzo dell’attesa, del dare corda, dello stare alla finestra. Mezzo da politici raffinati. Fare prendere le castagne dal fuoco agli altri. Ma le mani degli anarchici dovrebbero essere abituate a maneggiare il fuoco e quindi non saranno certo le grandi responsabilità che si assumono a fermare la loro azione, specie quando questa è chiara e l’obiettivo indiscutibilmente evidente. È quindi rischioso per il partito fare prendere agli anarchici le castagne dal fuoco, questi potrebbero veramente riuscire a tirarle fuori e allora il rapporto con la base potrebbe entrare pericolosamente in crisi.
Il mezzo della denuncia e dell’emarginazione (terroristi, provocatori, ecc.) è impiegabile solo a condizione che il lavoro di propaganda sia ancora agli inizi, oppure che l’obiettivo non sia particolarmente evidente e la lotta non facilmente condivisibile dalle grandi masse.
Come si vede il partito ha alcune possibilità di recupero e di attacco contro i compagni, ma non è del tutto padrone del campo. I limiti che incontra, occorre ripeterlo, sono dati dalla nostra azione di propaganda e organizzazione.
Ora su questa azione occorre intendersi.
Se noi siamo sprovveduti davanti al compito che ci aspetta, saremo facilmente recuperati, criminalizzati o minimizzati. Occorre allora rendersi conto che la lotta insurrezionale e rivoluzionaria, fatta con gli occhi aperti, è altro dalle ingenuità per bambini che molti compagni spacciano per purezza rivoluzionaria.
Anche noi abbiamo mezzi che possiamo usare. Tutto sta nel saperli e nel volerli usare.
Per cominciare c’è il nostro metodo. L’azione diretta degli sfruttati. Poi le nostre strutture organizzative. Staccate da ogni influsso politico, partitico, rivendicativo, ecc. Poi la continuità dell’impegno, della conflittualità. Tutti terreni su cui il PCI non può seguirci, ma gli sfruttati sì.
Il primo mezzo da impiegare “contro” il PCI, in queste situazioni di lotta di massa con obiettivi insurrezionali, è quello di evitare ogni discussione esclusivamente ideologica. Il confronto va portato solo sui fatti e sulle azioni di lotta. La critica si deve limitare a quello che noi proponiamo e a quello che il partito propone. La gente, in questi casi, capisce perfettamente, ma non è disposta a seguirci in una critica radicale alla politica e alla funzione del PCI oggi nel suo complesso.
Il secondo mezzo è quello di programmare una serie di lotte gradualizzate, con un crescendo che non intimorisca troppo né la fascia disponibile di sfruttati, né lo stesso partito (allo scopo di evitare un’azione repressiva fin dall’inizio, quando si è troppo deboli).
Il terzo mezzo è quello di dichiararsi disponibili a una lotta “comune”, purché “efficiente”, finalizzata agli obiettivi proposti. Evitando di fare capire che sappiamo bene come il partito non possa accettare simili condizioni.
In una situazione di lotta specifica (nel senso del territorio e dell’obiettivo) dobbiamo sbarazzarci della nostra mentalità minoritaria e agire come una forza capace di risolvere i problemi, di passare all’attacco, di prendere l’iniziativa. Questo non è facile. Spesso le esitazioni causano fratture e impediscono la riuscita positiva del lavoro insurrezionale nel suo insieme.
Un’altra cosa che non dobbiamo dimenticare è che non siamo soli. Il piccolo gruppo di compagni che inizia la lotta ha dietro di sé tutto il movimento rivoluzionario. Mi si dirà che, allo stato attuale delle cose, ciò è discutibile, ma non sono d’accordo. Il resto del movimento (anarchico e rivoluzionario in genere) sonnecchia o rifluisce secondo ritmi suoi, ma davanti a una lotta precisa, capace di trovare nuovi sbocchi e nuovi stimoli, risorge sempre dalle sue stesse ceneri. La lotta, in quel caso, diventa elemento di crescita di tutto il movimento e questo, intervenendo, contribuisce allo sviluppo della lotta stessa.
I nostri rapporti col PCI sono quindi esclusivamente rapporti di forza. E non mi si dica che si tratta di uno scontro perso in partenza perché siamo il moscerino contro l’elefante. Anche l’elefante può essere messo in difficoltà, senza scomodare gli esempi classici della lotta dei piccoli che mette in difficoltà i grandi.
Il nostro scopo è lo sbocco insurrezionale. Limitato e circoscritto all’obiettivo che si è scelto e su cui si è lavorato. Su un territorio ben preciso e davanti all’impiego dei nostri mezzi (che, se pure pochi, diventano visibili data la limitatezza spaziale e l’intensità qualitativa dell’intervento), il PCI ha mezzi anch’essi limitati.
In questi termini va posto il problema del nostro rapporto con questa forza reazionaria che, però, allo stato attuale gestisce una delle parti più significative del movimento degli sfruttati.
Cosa significa occupazione di massa
Occupazione di massa della base missilistica di Comiso significa interruzione di un progetto di morte che minaccia – se realizzato – di coinvolgere tutti in una situazione di pericolo mortale, oltre che in una situazione in cui saranno portati al loro massimo punto la militarizzazione del territorio, i controlli, le speculazioni e la gestione mafiosa della cosa pubblica.
Occupazione di massa significa, in parole povere, entrare in massa dentro la base in costruzione e liberare così il territorio che ci appartiene dall’occupazione americana, sventando i progetti speculativi dei mafiosi di ogni tipo.
Occupazione di massa della base di Comiso significa rifiuto concreto – e non soltanto a parole – di assecondare quanto di politico democristiani e socialisti vogliono imporre alla gente, cioè rifiuto concreto di un progetto che tende a trasformare le nostre zone in un deserto militarizzato dove circoleranno solo mezzi militari e poliziotti di ogni genere.
Occupazione di massa significa anche critica, nei fatti, delle indicazioni insufficienti e generiche date dal PCI, indicazioni che non hanno affatto interrotto i lavori, che non hanno impedito che si sia andato avanti nella costruzione. Non sono le grandi manifestazioni quelle che impensieriscono i mafiosi e i politicanti al servizio degli Americani.
Occupazione di massa significa rifiuto della guerra, rifiuto dei missili atomici e di ogni altro tipo di armamento, rifiuto dei missili americani e di quelli russi, affermazione concreta che bisogna smilitarizzare qui e subito, a partire dalle nostre zone, dove vogliono collocare questi ordigni mortali, per poi estendere la lotta a tutte le zone dove si parla di missili da mettere o dove i missili sono già stati collocati.
Occupazione di massa della base missilistica in corso di costruzione significa, concretamente, trovarsi nei giorni 22, 23 e 24 luglio, tutti insieme, mettersi d’accordo su che cosa fare, darsi dei punti di riunione, marciare tutti uniti contro la base – tutti: giovani studenti e donne proletarie, braccianti e contadini, operai e disoccupati – entrare dentro e cominciare a trasformare la destinazione di morte che vogliono imporre gli Americani, in una destinazione di vita.
Occupazione di massa significa entrare dentro la base e cominciare a coltivare pomodori, melanzane, peperoni, piantare tutto ciò che è possibile piantare in questo momento, le bandiere della libertà al posto delle bandiere dell’oppressione e della vergogna, i simboli della pace al posto dei simboli della guerra.
Occupazione di massa significa sconfitta dei progetti della mafia locale e internazionale di portare a fine la speculazione edilizia, la diffusione della droga, significa sconfitta di quelle forze contro cui apparentemente lo Stato lotta e poi, nei fatti, sostiene e finanzia proprio attraverso operazioni come la costruzione della base di Comiso.
Occupazione di massa significa trovarsi tutti insieme, le forze proletarie e contadine, al di là di possibili divisioni ideologiche, tutti insieme, al di là dei diversi metodi di lotta, per manifestare concretamente la decisione di imporre la trasformazione dell’aeroporto “Magliocco” in un’opera di pace e non di guerra.
Occupazione di massa significa chiedere “lavoro pulito”, imporre la realizzazione di tutti i progetti di opere sociali sempre promesse e mai mantenute, senza sottostare al vile ricatto della disoccupazione che i padroni impongono ai lavoratori in cerca di lavoro e senza far passare la posizione possibilista e sostanzialmente traditrice dei sindacati che si dicono a parole contro la base ma poi non riescono a trovare altro metodo di lotta che quello di richiedere lavoro dentro la base per i disoccupati comisani.
Occupazione di massa significa porre fine all’incubo che da tanti mesi grava su Comiso, significa possibilità di pensare a un futuro diverso, senza la presenza americana e senza la presenza di questi terribili ordigni di morte.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Cosa significa occupazione di massa, in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 1. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 4]
Gli Americani sono già arrivati
Arrivano gli Americani. Si tratta di una invasione studiata in ogni dettaglio. Arrivano cautamente, pronti a fraternizzare con la popolazione del luogo. Una volta, quando sbarcarono nel corso dell’ultima guerra, dividevano cioccolato e scatolette di carne e fagioli. Oggi si mimetizzano cercando di passare inosservati.
Hanno avuto l’ordine di non creare grossi traumi, di non ubriacarsi nelle osterie e nei bar. Sanno che devono andare cauti nel corteggiare le ragazze e, se proprio non ne possono fare a meno, hanno avuto istruzioni di parlare di un possibile matrimonio a breve scadenza.
Per il momento sono qualche centinaio, la maggior parte giovani. La sera se ne vanno in giro e vengono guardati con sospetto dalla gente, per quanto non si possa parlare di astio o di acredine. In fondo, la nostra gente è contraria alle invasioni – ne ha subite decine nel corso della sua storia – ma non riesce a vedere l’invasore come un nemico. Almeno, non vi riesce subito. La nostra gente, in fondo, è buona e si aspetta che anche gli invasori facciano qualcosa per apportare un poco di benessere, di lavoro, di pace.
Ma questi giovani, aitanti e forti, questi ragazzi che camminano dinoccolati e noncuranti per le strade di Comiso e dei paesi vicini, con il loro aspetto inoffensivo, questi ragazzi sono portatori della più micidiale arma di distruzione che l’uomo abbia mai inventato: i missili Cruise. Questi stessi ragazzi saranno quelli che metteranno al loro posto gli ordigni di morte, che li custodiranno, che ci costringeranno a dormire con un simile pericolo sotto il cuscino.
Sorridono per nascondere la vera maschera che copre il loro volto: quella dei servitori dell’imperialismo USA. Considerarli amici in visita di cortesia sarebbe un gravissimo errore che ci costerebbe molto caro.
Americani, tornatevene a casa. Qui non vi vogliamo.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Gli Americani sono già arrivati, in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 1. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 4]
La mafia è già a Comiso
Premessa necessaria
Nel corso delle lotte a Comiso ho pubblicato in “Umanità Nova” del 12 dicembre 1982 il seguente articolo sul problema della mafia in relazione alla costruzione della base.
«Va emergendo in questi giorni un impressionante spaccato dei rapporti e delle complicità tra Stato e mafia in Sicilia. La classe politica isolana appare fortemente compromessa – come per altro era a conoscenza non certo di pochi – e, nello stesso tempo, appaiono con chiarezza le fondamenta mafiose della grande maggioranza delle attività imprenditoriali dell’isola, specialmente nel settore dell’edilizia e delle commesse governative.
«Lo Stato mafioso si identifica con la mafia specifica del settore edilizio e del settore della droga: Catania e Palermo appaiono sempre più i centri propulsori di una gestione mafiosa del potere e di una gestione politica delle attività mafiose.
«Mettendo da parte il significato reale delle forze che, in modo più o meno occulto, hanno consentito queste denunce e gestiranno (con la tecnica del minor danno possibile) le future indagini c’è da dire qualcosa riguardo il grosso affare che si chiama costruzione della base.
«Allo stato attuale si prevedono lavori per 450 miliardi, di cui appena 3 sono stati appaltati da una ditta di Pisa che – come di regola – si affretterà a passare la mano a un’impresa mafiosa che opera in zona o a pagare tangenti.
«Non è forse questo uno dei modi che lo Stato utilizza per finanziare le attività mafiose? E non è questo uno dei sistemi che denunciano con maggior chiarezza il fondo mafioso su cui poggia il potere, qualsiasi potere? La mafia locale ha interessi se si vuole immediati, gestisce attività altamente lucrative con i metodi dell’intimidazione e dell’assassinio. Ma da sola non potrebbe svolgere la propria attività. Per questo si accorda con la classe politica (che a sua volta gestisce il potere) per avere gli appalti, le concessioni, i finanziamenti, i favoritismi e gli imbrogli che le necessitano, fornendo in contraccambio voti, sostegni e alleanze. Tutti i partiti sono invischiati in questa logica.
«Anche il PCI? Certamente! anche lui. A Catania il PCI ha la sede in un palazzo di proprietà della ditta Costanzo, uno degli imprenditori colpiti da mandato di cattura in questi giorni, e da ben 16 anni non paga l’affitto. Sarà una piccola cosa, a paragone con i grandi imbrogli degli altri partiti, ma è il segno del riconoscimento che le strutture mafiose fanno del potere contrattuale del PCI. Niente toglie che in futuro non si riescano a stipulare più lucrose e significative imprese. Dopo tutto l’apertura verso il governo delle sinistre non troverà certamente impreparata la mafia!
«Ma la connivenza del PCI ha livelli ancora peggiori. Si vede proprio adesso, nelle dichiarazioni incerte e contraddittorie rilasciate da Pecchioli (ministro degli interni del governo ombra italiano) il quale ha più o meno detto, tra la DC ci sono i mafiosi ma non tutti sono mafiosi, lo stesso per il PSI che certamente ha tra le sue file persone oneste, tra gli imprenditori siciliani anche è dato trovare persone oneste e quindi non tutti sono mafiosi. Morale della favola: non è possibile colpire un pacchetto imprenditoriale catanese che dà lavoro a qualcosa come 27.000 dipendenti (un quinto della FIAT). Bisogna pertanto andare adagio, pesare pro e contro, agire con prudenza, ecc.
«E per Comiso? Neanche una parola!
«Da parte loro i “cavalieri del lavoro” (Costanzo, Rendo, Graci e Finocchiaro) [tutti arrestati nei primi mesi del 1985, insieme ad altri imprenditori dello stesso calibro, n.d.r.], accusati di essere mafiosi, si sono difesi dicendo che non si vuole, con questa manovra, colpire il giro di centinaia di miliardi che viene gestito dalla mafia palermitana con la droga, mettendo in mostra le piccole malefatte del giro degli appalti, che sono appena poche decine di miliardi. Una specie di confessione indiretta. La mafia più piccola che si lamenta di essere stata attaccata per tutelare la mafia più grande e, anche questo viene detto chiaramente, per dare più spazio alla mafia palermitana degli appalti che si presenta come forza emergente contro i catanesi.
«Sembrerebbe quindi che, per bene che vadano le cose (incriminazione e smantellamento delle strutture mafiose catanesi, mandanti dell’uccisione di La Torre e implicate in quella di Dalla Chiesa), le commesse per la costruzione della base di Comiso andranno alla mafia palermitana. E con ciò ci saremo messi il cuore in pace.
«Lottare per impedire la costruzione della base missilistica a Comiso diventa, in questo momento, anche un aspetto – il più significativo – della lotta contro la mafia, contro qualsiasi mafia. Ed è per questo che viene considerato con sospetto da tutte quelle forze che solo a parole sono per la libertà e la cosiddetta democrazia. Riuscire a impedire oggi il progetto di morte atomica che gli Americani vogliono realizzare in Sicilia significa spezzare il giro delle connivenze mafiose e costringere le forze fiancheggiatrici che si danno una coloritura di sinistra a uscire allo scoperto.
«In fondo la lotta di Comiso, man mano che va avanti, riesce a sviluppare tutti quegli aspetti sociali che consentono di far comprendere agli sfruttati il grado di reciproca integrazione delle forze reazionarie, la diversa articolazione del potere in Sicilia e ciò che bisogna fare per intraprendere la strada della reale liberazione».
Con gli Americani sono arrivate le organizzazioni mafiose del palermitano e del catanese. La speculazione edilizia le ha attirate come mosche il miele. Adesso le zone in corso di lottizzazione per costruire alberghi, villette e palazzine sono diverse decine. I monti Iblei che per millenni erano rimasti incontaminati, quegli stessi monti cantati da Pindaro, adesso vengono trasformati in un formaggio svizzero di villette e “residence”. La base è il più grosso affare degli ultimi anni, e, come sappiamo tutti, ma nessuno lo dice con chiarezza, questo genere di affare – almeno in Sicilia – non si porta a buon fine se non tramite la mafia.
Costruire la base significa fare arricchire la mafia. Questo arricchimento significherà ulteriori investimenti nel settore più produttivo delle attività mafiose: quello della droga. Avremo quindi, come naturale conseguenza della venuta degli Americani, una maggiore richiesta e una maggiore circolazione di questo prodotto. I quattrocento tossicodipendenti di Vittoria sono destinati ad aumentare di numero. A quali cifre si arriverà?
Oggi stiamo dicendo queste cose. Domani potrebbe essere troppo tardi, sia per dirle ancora una volta che per fare qualcosa.
Chi non si muove oggi per impedire la costruzione della base è connivente con chi specula e si arricchisce e con chi distribuisce la droga. Chi oggi accetta di vendersi per il misero ricatto di qualche mese di lavoro bracciantile alla base e smette di lottare per ottenere un lavoro pulito, è corresponsabile allo stesso modo di chi chiacchiera inutilmente dando indicazioni sbagliate e inefficaci.
È finito il tempo delle attese e delle parole inutili. È finito il tempo delle grandi manifestazioni, della raccolta delle firme, degli scioperi della fame. Occorre passare all’azione, occorre occupare la base per impedire, in modo definitivo, la sua costruzione.
[Cfr. (A. M. Bonanno), La mafia è già a Comiso, in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 1. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 5]
Sindacati e lavoro pulito
I sindacati, i quali sulle prime si erano schierati contro la costruzione della base a Comiso, adesso, davanti alla miserabile prospettiva di qualche mese di lavoro per una piccola parte dei circa duemila disoccupati del comisano, hanno fatto una prudente marcia indietro. Si dichiarano – a parole – contro la base mentre, nei fatti, sostengono la precedenza dei disoccupati di Comiso per andare a lavorare dentro la base. Ciò significa rifiuto della lotta per ottenere un lavoro diverso e pulito.
I lavoratori possono farsi un’opinione facilmente. Accettando il ricatto miserabile di lavorare qualche mese alla costruzione della base di morte si rendono complici non solo dell’invasione americana, che porterà morte e distruzione, ma anche delle conseguenze che abbiamo più volte illustrato: diffusione della speculazione edilizia, diffusione della droga e della mafia, diffusione dei controlli militari sul territorio, aumento indiscriminato dei prezzi, ecc. La loro forza nella giusta richiesta del lavoro dovrebbe essere diretta a costringere i responsabili a investimenti in settori diversi, anche a ottenere che dell’aeroporto “Magliocco” si faccia un progetto se non altro utile all’economia della zona e non un monumento alla morte per installarci i missili atomici.
Non dimentichiamo che queste stesse forze sindacali che oggi si sono calate le brache rompendo il fronte di una lotta che poteva svilupparsi verso azioni più reali e significative sono le stesse che ieri sfilavano in grandi manifestazioni contro la base. Cosa si deve concludere? Che quelle manifestazioni le vedevano presenti proprio perché inutili e fittizie, oppure che è cambiata la posizione dei lavoratori?
Noi pensiamo che si possa impedire la costruzione della base di Comiso con un’occupazione di massa che ponga definitivamente un ostacolo popolare al progetto e che installi dentro l’aeroporto un presidio di occupazione capace di imporre una destinazione diversa, produttiva e pacifica.
In questa lotta i sindacati dovrebbero essere presenti, come rappresentanti dei lavoratori, per imporre anche loro un’alternativa e per chiedere lavoro pulito, anche a cominciare dallo stesso aeroporto “Magliocco” per poi passare a un’azione concordata che possa fare ottenere lavoro in altri settori produttivi.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Sindacati e lavoro pulito, in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 2. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 5]
Pacifismo non vuol dire attesa e rassegnazione
L’occupazione di massa è un’azione legittima e giusta, fondata sul diritto della gente di sostituirsi ai comportamenti di chi governa quando questi risultano lesivi dei princìpi fondamentali della vita e della sicurezza personale.
Davanti a questa prospettiva siamo certi che cadranno definitivamente i distinguo fondati su un mal riposto problema di lotta pacifica e una altrettanto mal definita distanza nei confronti di un ipotetico intervento violento.
Noi non siamo violenti, come non lo è la gente del comisano insieme alla quale realizzeremo l’occupazione della base. Riteniamo comunque che non sia questo il momento per intraprendere un’ulteriore discussione sui concetti di violenza e di pacifismo. Questo approfondimento lo rinviamo a tempi diversi. Per il momento occorre decidersi davanti a una scadenza che non è più rinviabile: l’occupazione della base fissata per i giorni 22, 23 e 24 luglio.
Siamo certi che la buonafede e l’apertura mentale della maggior parte dei militanti pacifisti supererà la chiusura mentale di qualche politico che si è infiltrato nel movimento pacifista per inquinarlo a favore di questo o quel partito. Siamo certi che partendo da questa buonafede sarà possibile intenderci per una lotta comune, sia pure circoscritta, al momento, a una partecipazione massiccia all’occupazione di massa. Il resto corre il rischio di restare lettera morta, vana farneticazione, se davanti un momento come questo si dovesse restare da parte in attesa di meglio chiarire le proprie posizioni ideologiche, queste costituirebbero un vero e proprio peso, una zavorra che frena l’azione e non uno stimolo e un punto di partenza.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Pacifismo non vuol dire attesa e rassegnazione, in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 2. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 5]
La realtà delle Leghe autogestite
Le Leghe autogestite contro la costruzione della base di Comiso hanno avuto, in questi ultimi mesi, un certo calo nel loro sviluppo, dovuto anche alle difficoltà di ogni genere che andavano sorgendo di fronte alla necessità di dare uno sbocco concreto alla lotta contro la base.
Da qualche settimana, con la definizione del progetto dell’occupazione di massa, si registra, in diverse zone, un rinnovato interesse per una partecipazione alle Leghe, per quanto non si possa dire che – allo stato attuale delle cose – questo interesse possa portare a una crescita numerica di questi organismi di lotta.
In molti casi la gente ritorna a prendere contatto con i compagni che hanno dato vita alle singole Leghe allo scopo di mettersi d’accordo, sul piano organizzativo, su come fare per partecipare alle manifestazioni di luglio e all’occupazione della base.
Ci sembra che le Leghe siano, in questo momento, un elemento di grande importanza non tanto come supporto di un progetto a lunga scadenza, comprendente tra l’altro una chiarificazione di natura ideologica, quanto come punto di riferimento concreto e organizzativo.
Appare comunque evidente che lo stesso ridimensionamento numerico delle Leghe potrebbe manifestare una inversione di tendenza subito dopo l’occupazione della base, per cui questi organismi potrebbero, subito dopo, tornare a svolgere un ruolo più complesso, sia come elementi di raccordo con la popolazione, sia come nuclei di chiarificazione teorica sui progetti e sulle lotte da realizzare l’indomani dell’occupazione.
[Cfr. (A. M. Bonanno), La realtà delle leghe autogestite, in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 2. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 5]
Discorso al PCI
È finito il tempo delle grandi marce e delle manifestazioni ricche di folclore e di partecipanti. Adesso è venuto il momento della resa dei conti.
Noi delle Leghe autogestite mobiliteremo la gente di Comiso e dei paesi vicini per occupare in massa la base in costruzione.
Nei giorni 22, 23 e 24 luglio ci muoveremo da Comiso e, tutti insieme, ci indirizzeremo verso l’aeroporto “Magliocco”. Entreremo dentro e impediremo che questa triste e delittuosa farsa continui.
Certo non saremo soli in questa azione che riteniamo giusta e improrogabile. Accanto a noi ci sarà la gente della zona, compresi alcuni militanti di base del PCI, in pratica tutti coloro che si sono detti disponibili e che hanno avanzato dubbi radicali nei confronti delle indicazioni di lotta del vostro partito. Di più: insieme a noi saranno compagni di ogni parte d’Italia e d’Europa, convenuti per una scadenza che non è estranea ai sentimenti di libertà e di giustizia di nessun uomo oggi nel mondo.
E voi cosa farete? Resterete ancora una volta ai bordi della strada, sui marciapiedi ad almanaccare su una possibile risoluzione a livello governativo e internazionale di un problema che ormai sta soffocando la gente di Comiso? Oppure verrete con noi, con la gente delle nostre zone che ha finalmente deciso di mettere fine a questo sconcio?
Non crediamo possibile che in una scadenza come questa il Partito comunista si possa tirare indietro, andando a sostenere – nei fatti – le forze più retrograde della reazione del capitale nazionale e americano. Oggi è finito il tempo delle chiacchiere e delle attese. Bisogna decidersi chiaramente e senza mezzi termini.
O partecipate insieme alla gente all’occupazione della base di Comiso in costruzione, o chiamate la polizia.
A voi la decisione.
[Cfr. (A. M. Bonanno), Discorso al PCI, in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 2. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 5]
Tutti a Comiso. Volantino per l’occupazione
Il tempo delle attese è finito. È finito il momento delle grandi manifestazioni, degli scioperi della fame e della raccolta delle firme.
La base missilistica di Comiso la stanno costruendo.
Gli Americani sono arrivati.
La mafia della speculazione edilizia e della droga è già al lavoro.
I controlli militari sul nostro territorio aumentano ogni giorno.
Che cosa aspettiamo?
È ormai giunto il momento di muoversi, tutti insieme, e di occupare l’aeroporto “Magliocco” interrompendo la costruzione della base di morte.
È ormai giunto il momento di dire basta alle chiacchiere e alle promesse di politici e imbroglioni di ogni specie: dai venduti agli Americani a coloro che, per motivi elettorali e politici, frenano l’azione popolare di massa.
È ormai giunto il momento di passare all’azione.
[Volantino distribuito in migliaia di copie nel ragusano. Tradotto in francese, tedesco, spagnolo e inglese. Spedito a tutti gli indirizzi conosciuti del movimento anarchico internazionale. Pubblicato in “Tutti a Comiso, 22-23-24 luglio”, Numero unico, giugno 1983, p. 2. Pubblicato anche in “Umanità Nova”, 7 luglio 1983, p. 5]
La lotta a Comiso. Elementi di critica e autocritica
In quei tre giorni bisogna riconoscere che, per diversi motivi, tra noi e la gente di Comiso e dei paesi vicini, ma particolarmente tra noi e la gente di Comiso, si è operata una frattura. Loro non si sono mossi, noi ci siamo mossi in modo errato e approssimativo. Alle nostre incapacità è corrisposta un’immagine infelice di quello che rappresentavamo, del motivo per cui eravamo lì, di quello che volevamo fare. Se a questo si aggiunge l’azione disgregante degli sciacalli del PCI, dell’IMAC e del CUDIP, si può incominciare a capire meglio quello che è successo.
Cominciamo subito col dire che non è certo facendo ricorso all’ironia, alla critica superficiale, al sospetto e all’acredine che si può capire quello che è accaduto a Comiso. Occorre andare più avanti, mettere da parte l’improvvisazione dell’humor e scendere – se possibile – nei fatti.
No, la gente non si è mossa. Di più, non è rimasta nemmeno a guardare. A un certo momento è addirittura scappata via, specialmente quando è apparso evidente che avevamo subìto una sconfitta militare nello scontro con la polizia e che non potevamo mettere sul piatto della bilancia che i nostri feriti e la nostra rabbia. Cosa significa tutto ciò? Bisogna pensare che la gente di Comiso sia arrivata alla conclusione che sono meglio i missili che uno scontro perdente con la polizia? Che sono meglio gli Americani in casa che gli anarchici e punk che scorazzano impunemente nelle vie cittadine? In effetti le cose non stanno così.
Ma andiamo con ordine.
Da diverse parti ci è stata mossa l’accusa di avere “gonfiato” il fenomeno organizzativo delle Leghe, di averle fatte sembrare più grosse quantitativamente di quello che in effetti fossero. Un trionfalismo da piazzaioli che sembra – a dire di taluno – ci abbia preso la mano finendo per fornire ai compagni un’immagine distorta della realtà.
In un giornale inglese si parla di “disinformazione”, altri hanno parlato di “ottimismo trionfalista”, altri di “falso”, ecc.
Altri ancora hanno fatto i conti con carta e penna e sono arrivati alla conclusione che le “Leghe” erano un fantasma che metteva insieme qualche compagno sparso qua e là.
Insomma, ce le eravamo inventate di sana pianta.
Su questa linea di ragionamento diversi compagni, venuti per quei tre giorni a Comiso, si aspettavano di trovare le masse con noi davanti all’aeroporto, pronte a dar battaglia, e non vedendo nessuno, o pochissima gente, parlando poi casualmente nel bar con questo o con quello, accettando un passaggio in autostop, arrivavano alla conclusione che la gente era favorevole ai missili, che non sapeva nulla dell’esistenza delle Leghe, che non sapeva chi fossero gli anarchici, che faceva una gran confusione tra pacifisti, punk, anarchici, ecc.
Da ciò l’impossibilità dell’occupazione di massa quindi tanto valeva fare qualcosa, qualsiasi cosa, per far vedere che il movimento anarchico era a Comiso e non era venuto per nulla.
Come abbiamo sostenuto da sempre le Leghe vennero costituite come organismi di massa a carattere non resistenziale ma specifico, cioè non formazioni parasindacali, ma punti di riferimento per formare nuclei di persone decise a lottare contro la costruzione della base missilistica, nell’ottica dell’autogestione (rifiuto della delega), della conflittualità permanente (rifiuto dei periodi di sospensione della lotta affiancati a periodi di manifestazioni o altro), dell’attacco (rifiuto del semplice dissenso platonico e di principio).
La natura delle Leghe era quindi antiburocratica, infatti queste potevano costituirsi liberamente ed entrare in rapporto con le altre Leghe, oppure agire isolatamente quando e come credevano.
Leggendo il Documento organizzativo delle Leghe autogestite si ricava che si tratta di organismi che costituiscono da un canto un punto di riferimento per tutti coloro che intendono fare qualcosa contro la base missilistica, e dall’altro un elemento propulsore di questa lotta. Non si ricava che costituiscono puramente e semplicemente organismi aggregativi destinati a crescere all’infinito: elementi e strutture di massa destinati a raccogliere i grandi numeri che siamo abituati a vedere correre dietro i simboli e le bandiere dei partiti.
A un certo punto, forse, ci siamo illusi che l’indispensabile e modesta crescita quantitativa delle Leghe potesse significare un elemento di disponibilità alla lotta contro la base, e forse abbiamo dimenticato che le Leghe dovevano restare semplici punti di riferimento attorno a cui la gente poteva – anche improvvisamente e spontaneamente – ritrovarsi al momento opportuno, accettando le indicazioni e le realizzazioni di una minoranza agente. E se ci siamo illusi in questo senso, ciò è stato un nostro primo errore.
Per esempio, quando è stato dello sciopero degli studenti a Vittoria e poi, mesi dopo, quando è stato della manifestazione in occasione del processo sempre a Vittoria, la Lega di quella cittadina – costituita da pochi studenti – riuscì ad aggregare tutti gli studenti della zona, e non perché tutti questi facessero parte della Lega, ma semplicemente per quel rapporto tra “punto di riferimento” e “massa” che in quelle occasioni riuscì a funzionare.
In questo senso la presenza delle Leghe a Vittoria, Catania, Comiso, Licodia, Modica, Chiaramonte, Palermo, Milano, Edimburgo, Londra, anche costituite da pochi elementi, o da pochissimi, come nel caso della Lega di Misterbianco, non ci dava certo la speranza di una improvvisa ed esplosiva crescita quantitativa, ma ci legittimava a pensare che a un dato momento, davanti a una indicazione operativa, qualcosa si potesse muovere.
Occorre capire che a Comiso non abbiamo mai lavorato a costruire il grande movimento delle Leghe autogestite, ma solo a impostare un’insurrezione popolare contro la base, costruendo quella indispensabile adesione necessaria se si vuole far ribellare la gente.
Da diverse parti ci hanno anche fatto notare la poca chiarezza nelle nostre posizioni riguardo il PCI. Non è mancato chi ha ricordato la lezione della guerra civile spagnola e chi ha parlato di “fronte popolare” di buona memoria.
Forse chi ci ha rivolto queste critiche – spesso superficiali e semplicemente nominalistiche – sarà disposto a farci credito se diciamo che conosciamo anche noi le vicende della rivoluzione spagnola e sappiamo cosa significa “fronte popolare”. Non ci siamo bevuti il cervello.
Non ci siamo illusi riguardo un comportamento a nostro favore del PCI, abbiamo puntato sulla eventualità – a un certo punto non remota – di esercitare su questo partito, a livello zonale e soltanto nei riguardi dell’obiettivo della base di Comiso, una pressione dovuta al fatto che la nostra propaganda, l’azione sia pure minoritaria delle Leghe, il gran lavoro che andavamo facendo (comizi, volantini, manifesti, ecc.), facevano presa sulla gente.
Per chi ricorda la gestione del processo di Vittoria, in cui il PCI si vide obbligato a sostenere le nostre posizioni, o il semplice intervento a Gela, quando si vide obbligato a sostenere la nostra immediata liberazione, non potrà non concludere che una certa pressione l’abbiamo esercitata. (Vedere alla fine del presente paragrafo l’Appendice non necessaria).
Però, ci si risponde, non basta l’episodio di Vittoria o il semplice intervento di Gela a giustificare un’illusione sul comportamento del Partito comunista, che tutti sappiamo come pensa e come agisce.
Non basta. Su questo punto i nostri critici hanno ragione. Ma anche noi sapevamo perfettamente che non bastava. Occorreva fare di più. Occorreva coinvolgere la gente in situazioni molto più serie per costringere questi traditori non a una adesione formale, ma a un sostegno esterno che se a loro garantiva la possibilità di un recupero, a noi garantiva cose ben più importanti: la credibilità nei confronti della gente, la possibilità di rintuzzare le accuse di terrorismo e di provocazione che cominciavano a serpeggiare, un rischio più ridotto di scontro esclusivamente militare, un minore pericolo di isolamento, una più ampia partecipazione nei giorni dell’occupazione.
Su queste scelte occorre intendersi, occorre che i compagni approfondiscano bene quello che abbiamo fatto, la strada che abbiamo intrapreso, senza impennate massimaliste a priori e senza quella facile ironia che adesso, alla luce dei fatti, risulta soltanto superficiale e ingannatrice.
Fin dagli inizi del nostro intervento a Comiso abbiamo criticato il PCI non per la sua politica generale, ma solo per la sua “inefficienza” nei riguardi della lotta contro la base che diceva di portare avanti. Ci siamo presentati quindi come la forza che intendeva “spingere” verso modelli di lotta più avanzati, e non come la forza che denunciava il partito come elemento indispensabile della repressione e sostenitore primario della base missilistica. Abbiamo sempre detto, fin dal primo momento, che la inettitudine del PCI si trasformava, in pratica, in un sostegno indiretto alla costruzione della base, ma non siamo mai andati al di là. I motivi di questa scelta – all’epoca in cui venne fatta – sembravano evidenti. Il nostro referente era costituito proprio dalla base del PCI e andare a fare un discorso, senz’altro corretto, di attacco al partito significava parlare ai sordi, farci chiudere ogni possibilità di rapporto con la gente.
Il “Documento organizzativo” stesso non parla di posizioni politiche, ma della necessità dell’autonomia da ogni partito o movimento proprio allo scopo di non entrare in dibattiti ideologici e pratici che non possono, e non potevano, essere discussi a priori senza impantanarsi in un ginepraio senza fine.
Per noi era chiaro che organizzare una rivolta della gente a Comiso e dintorni significava cogliere proprio l’elemento di insoddisfazione che si diffondeva nella base del PCI, elemento che però non arrivava a essere tanto esteso da diventare dissenso aperto nei riguardi della politica di questo partito nel suo insieme.
Non ci siamo mai sognati possibili accordi diretti col partito, ma solo una pressione indiretta esercitata attraverso la sensibilizzazione della “sua” base, per cui parlare – come è stato fatto – di “fronte popolare” ci sembra improprio e fuorviante. Noi non avevamo una “nostra” base da contrapporre o da unificare con la base del PCI, quindi non potevamo mai né proporre né immaginare un “fronte” quale esso sia.
Ci siamo presentati a Comiso con l’intento di agire in una realtà che manifestava un non trascurabile accordo contro la costruzione della base. Si vedeva, indugiando nel colloquio diretto con la gente della zona, una rispondenza riguardo il progetto di impedire la costruzione, un’accettazione dei temi della lotta contro la mafia, contro la speculazione edilizia, contro la militarizzazione del territorio, contro il rialzo dei prezzi, contro la droga pesante, ecc. E su questa direzione siamo andati avanti.
Ma il nostro scopo era quello di organizzare una rivolta, di creare le condizioni minime per un fatto insurrezionale. Se si vuole limitato e circoscritto, ma insurrezionale, in quanto fondato sulla rivolta concreta della gente e non sulle dichiarazioni di principio, fumose e massimaliste, che tutto spiegano e servono solo a mettere in pace il proprio cuore.
Un progetto del genere doveva condurci nella realtà delle cose, nella mentalità della gente, nei suoi limiti, nelle tradizioni locali, nei vecchi simboli, nei luoghi comuni dei ripetuti valori proletari. Altri, con vivace ingegno e grande capacità analitica alla mano, altri ben più colti e pasciuti di noi nei libri sacri della purezza scientifica della rivoluzione sociale, non possono fare a meno di storcere la bocca. Noi invece ci siamo messi al lavoro.
Adesso, che qualcosa non ha funzionato – e vedremo cosa –, adesso che di tutti gli sforzi fatti quello che emerge con chiarezza sono solo i nostri errori, adesso che alcuni critici sfoderano, per squalificarci, l’avventatezza di Pisacane e dei suoi “trecento” – non sapendo quanto amiamo questo personaggio e quanto onore ci facciano nel paragonare la nostra avventatezza alla sua – adesso tutto sembra facile: la critica del giorno dopo è sempre quella che colpisce nel segno. Ma quale segno? Non può accadere che il critico, proprio perché troppo abbacinato dall’evidenza lapalissiana degli errori, non veda i lati positivi del lavoro fatto e di quello che è accaduto? Certo che è possibile.
Ci siamo calati nella realtà. Abbiamo avvicinato la gente e abbiamo organizzato la rivolta a Comiso contro la base.
Questa frase può sembrare massimalista. Essa è invece riduttiva. Il PCI non poteva certo cadere nell’equivoco della rivolta, ma poteva essere sollecitato a un urgente bisogno di recupero, in prima persona. In pratica ciò non è accaduto perché in questo senso hanno funzionato molto bene l’IMAC e il CUDIP, svolgendo il loro ruolo di disgregatori e di sciacalli.
Di già dopo l’attentato contro di noi ci siamo resi conto che il partito si sentiva molto sicuro di sé, quindi non avrebbe accettato discussioni. [Qualche giorno prima dell’occupazione due individui armati e mascherati, entrati nella nostra sede, avevano fatto fuoco su di noi per intimidirci]. La sicurezza gli era evidentemente fornita dalla funzione di quei due organismi in mano ai mediatori del PdUP, di DP e dello stesso PCI. In modo particolare i primi due rappresentarono in quei giorni la peggiore strategia di recupero e di delazione. Tennero informata costantemente la polizia di quanto si andava facendo e di quanto avveniva all’interno del campo della pace dove cominciavano ad affluire molti nostri compagni, anche dall’estero, per uno strano fenomeno di disinformazione dovuto al fatto che qualcuno aveva messo in circolazione la voce che non si doveva andare al coordinamento ma al campo della pace. Diversi compagni ci hanno riconfermato questa voce diretta a disgregare il nostro lavoro e a metterci in difficoltà.
In occasione dell’attentato contro di noi il PCI non si mosse, malgrado che la platealità del gesto avrebbe reso possibile una certa diffusione della simpatia popolare nei nostri confronti e quindi sarebbe stato logico aspettarsi un tentativo di recupero, in quanto il partito non voleva certo restare indietro nello schieramento di coloro che lottano contro la mafia. Invece niente. Lo scollamento tra noi e la gente era cominciato. Il lavoro sotterraneo del partito si andava rivelando più efficace del nostro lavoro alla luce del giorno. I potenti alleati del PCI, mestatori di vecchio pelo, ex rivoluzionari infognati in condizioni medievali di servilismo nei riguardi del partito: un insieme di iene lanciate contro quel poco di terreno che ci eravamo guadagnati con un lavoro aperto e franco, avevano avuto partita vinta.
La corsa a chi arrivava primo si rivelava ormai perduta in partenza. Il nostro progetto di imporre una forza minoritaria ma organizzata facente perno su di un minimo di sostegno della base proletaria di Comiso e dintorni, andava a perdere una parte delle sue prospettive.
Molti dei compagni pacifisti, la gran parte di essi, tutti quelli che non avevano accettato le direttive del PCI e dei suoi organismi reggicoda, tutti coloro che avevano capito il senso di quei tre giorni di cosiddetta lotta indetti dall’IMAC appena prima dei nostri tre giorni dell’occupazione: tutti erano con noi. Molti di loro erano pesantemente infastiditi dalle inutili discussioni all’interno dell’IMAC, dal clima di delazione e di prevaricazione, dalla pesantezza ideologica e dalla inutilità pratica che lì vi constatavano sempre di più.
Il nostro appello nei loro confronti, appello diretto a coinvolgerli nella nostra lotta, venne raccolto senza discussioni. Anche la pregiudiziale pacifista ebbe poco peso e sviluppò poche discussioni preventive. In fondo questi compagni furono tra quelli che si trovarono veramente in prima linea nei tre giorni di lotta.
Nei confronti dei compagni punk c’è da dire che la loro carica rivoluzionaria ha fatto impallidire tutti gli errori commessi e tutti i limiti delle azioni di quei tre giorni.
Sono stati loro a darci un indicazione concreta, nei fatti, quando tutto sembrava dovesse essere abbandonato ai contrasti interni e alle beghe, alle incomprensioni e ai distinguo di cui il movimento anarchico – nel suo insieme – è grande portatore praticamente da sempre.
Pur essendo la maggior parte di loro alle primissime esperienze di lotta nel sociale si sono dimostrati ben più in grado di tanti altri compagni – cosiddetti di maggiore esperienza – di capire cosa andava fatto, quali erano le possibilità effettive della situazione in cui ci si trovava, senza stare tanto a cercare a destra e a sinistra di chi potesse essere la responsabilità se le cose non andavano per come ci si era immaginato dovessero andare.
La presenza del movimento anarchico italiano è stata quella che tutti sappiamo: notevole, se si considera la natura della contingenza, modesta, se si considera la possibilità numerica di mobilitazione che esso può avere.
Il guaio più grosso è stato però che una buona parte dei compagni anarchici presenti erano venuti per motivi non proprio adeguati alla realtà delle cose. Alcuni si erano immaginati di trovare le “masse” e – come ci viene rimproverato – anche noi avevamo contribuito ad alimentare questa illusione. Ciò può essere vero dentro certi limiti, però non ci pare che abbiamo garantito che le masse sarebbero state con noi in quei giorni. Primo, perché una garanzia del genere è follia solo pensarla, secondo, perché se davvero fossimo stati certi della partecipazione delle masse non c’era poi tutto questo gran bisogno di far venire i compagni a un appuntamento tanto affollato.
Ma non tutti i compagni anarchici presenti erano venuti spinti da questa illusione. Molti – specialmente quelli venuti qualche giorno prima – e furono decine – si resero perfettamente conto della situazione e furono quelli che dettero il più efficace apporto alla costituzione e al funzionamento (durato praticamente una notte e un giorno) dei “gruppi di affinità”.
Poi c’erano gli “osservatori”, cioè compagni venuti a guardare come andavano le cose per poi riferire, discutere, dissertare, approfondire, criticare, condannare, ecc. Non intendiamo far polemica, se del caso la faremo a tempo debito e in miglior sede. Penso che tutti sappiano a quali compagni ci riferiamo: chi non aveva mai detto nulla su Comiso sproloquiava sentenziando, chi si era limitato a riportare evitando di prendere posizione per non guastarsi il fegato, chi aveva preso posizione favorevole ma con la riserva mentale, ecc. Non stiamo rimproverando nulla a nessuno. La responsabilità di come sono andate le cose la rivendichiamo piena e totale. Affermiamo qui apertamente che rivendichiamo tutto il lavoro di Comiso, anche le sue giornate conclusive. Ciò non ci deve però impedire di approfondire errori commessi da noi (e, se ci sono stati, da altri).
In fondo crediamo che il movimento anarchico abbia continuato, anche in quei tre giorni, a non capire l’importanza e il significato della nostra lotta a Comiso, per cui si è posto nell’aspettativa, strana e contraddittoria, di chi vuole e non vuole nello stesso tempo.
È veramente triste notare che un compagno che non è mai stato a Comiso – né prima né dopo – trovi il tempo per scrivere una lettera a un giornale inglese, che aveva pubblicato un resoconto dei tre giorni in cui si parlava di migliaia di compagni presenti, resoconto fatto da qualcuno che invece era presente a Comiso, per precisare che non si era in migliaia ma solo in trecento. Questo stesso compagno, su un giornale anarchico italiano, dove scrive regolarmente, aveva parlato in dettaglio della nostra manifestazione dell’anno prima facendo spuntare il sole a mezzanotte, cioè facendoci fare la marcia di giorno sotto il sole, quando invece avvenne di notte e al chiaro di luna: questi sono i risultati di chi scrive senza sapere. Purtroppo si tratta di una mentalità che squalifica il movimento anarchico se non nel suo insieme, almeno in una parte non trascurabile della sua composizione. Non in quanto mentalità critica o realistica, se si preferisce, ma in quanto mentalità che ama parlare a fatti avvenuti, che è gesuiticamente prudente nel non esporsi prima, che resta legata alla propria poltrona. Le critiche sono buone quando vengono fatte da gente che vive le cose, che le conosce e le ha approfondite, non da parolai in pantofole che diranno magari cose giuste (e spesso anche sbagliate) ma si tengono il culo al caldo e non corrono rischi.
Ripetiamo che non ci siamo mai bevuti il cervello. Questo sia chiaro. Lo diciamo per quanti non intendono capire che di tutto ci possono accusare, ma non certo di un abbandono dei metodi anarchici di impostazione della lotta.
Chi ha mai detto che gli anarchici, per restare tali, per non essere accusati di abbracciare la politica, si devono limitare a semplici dichiarazioni di principio, alla propaganda o alla informazione? Noi siamo andati più in là: abbiamo cercato di organizzare una rivolta.
Certo, correttamente siamo partiti dall’informazione – la più ampia possibile. Crediamo che raramente il movimento anarchico italiano, in tempi recenti, a memoria di compagno, abbia fatto un lavoro più massiccio in una zona circoscritta: qualcosa come ottantamila volantini, migliaia di manifesti, più di cento comizi, almeno dieci conferenze. Se contiamo i capannelli fatti con la gente, che in pratica corrispondono a piccoli ed efficacissimi comizi, arriviamo a centinaia di interventi.
Ma non ci siamo fermati a ciò.
Abbiamo realisticamente valutato i rapporti di forza che agivano nella zona e con cui bisognava fare i conti se si voleva realmente organizzare la rivolta della gente. Certo, diverse volte siamo stati presi dall’entusiasmo dell’insurrezione spontanea, improvvisa, specialmente quando leggevi nei volti dei nostri contadini, dei nostri braccianti, la rabbia di secoli di sfruttamento. Ma sapevamo benissimo che la rabbia non sempre esplode, quando esplode spesso non sei nemmeno lì per partecipare alla rivolta, non sempre si indirizza verso l’obiettivo giusto, non sempre ti riconosce come compagno di lotta.
Abbiamo quindi avvicinato più gente possibile: camionisti, proprietari di trattori, gente con un minimo di esperienza per precedenti lotte operaie, sindacali, e anche per precedenti scontri con la polizia. Tramite i compagni del luogo abbiamo costruito una piccola rete di disponibilità, di simpatie, di contatti, di promesse, di impegni personali. Ma questo patrimonio che si andava costruendo aveva bisogno – per restare tale, cioè disponibile – di vedere un’immagine ben precisa di ciò che noi rappresentavamo, cioè del Coordinamento, dei compagni anarchici, della nostra serietà, del nostro impegno, della nostra forza numerica, ecc.
Da ciò siamo partiti per estendere i contatti ad altri compagni, ad altra gente. Siamo arrivati in altre zone: a Palermo, a Napoli, in Calabria, ecc. Anche qui disponibilità e promesse, impegni che senz’altro sarebbero stati mantenuti. Ma anche qui quello che si chiedeva, non a parole ma con un tacito accordo, era la nostra fermezza, la nostra serietà, la nostra presenza, il nostro apporto fattivo e non solo le nostre parole e le nostre indicazioni di massima.
Potevamo così disegnare di già una mappa delle disponibilità di uomini e di mezzi, disponibilità non in termini di valutazioni politiche o ideologiche, ma in termini pratici di un accordo raggiunto con persone che non condividevano la costruzione della base e che erano disponibili a partecipare alla lotta. I mezzi non possiamo dettagliarli, e in effetti non abbiamo mai posseduto una esatta cognizione di quali erano le cose su cui si poteva contare, però certamente avremmo avuto a disposizione almeno alcuni camion, non meno di due trattori, gli strumenti per costruire in breve tempo una torre da innalzare davanti la base, altri strumenti per facilitare l’ingresso dentro il recinto, altri per costruire in tempi ragionevoli alcune barricate dirette a bloccare le strade di accesso, e poi altri mezzi che avrebbero consentito di rendere efficace e significativa l’occupazione della base, evitando di farla diventare una semplice occupazione simbolica.
Tutto ciò è stato a nostra disposizione, ma noi dovevamo mettere qualcosa. Non le chiacchiere, le fobie, i pregiudizi: dovevamo mettere dentro la fermezza nella lotta.
Certo, se il PCI fosse arrivato alla conclusione che il recupero della nostra lotta poteva avvenire solo con un suo intervento diretto, e si fosse presentato dando l’avallo della sua partecipazione, allora la nostra posizione si sarebbe enormemente rafforzata e avremmo avuto realmente e immediatamente a disposizione se non tutto quello che gli accordi precedenti ci avevano garantito, almeno una grossa parte di ciò. Una volta che ci venimmo a trovare soli ad affrontare i primi due giorni di lotta contro la base missilistica, la nostra compattezza doveva essere ancora maggiore, mentre successe esattamente l’opposto.
Così avevamo già perso, alla conclusione del primo giorno, una parte di quella disponibilità di mezzi e di uomini che avevamo, quell’appoggio esterno che proveniva da strati proletari che realmente non condividevano quanto veniva loro suggerito e messo in circolazione dal PCI, ma che però non avevano alcuna intenzione di mettersi nelle mani di velleitari senza costrutto come dovemmo apparire loro quando finimmo per trovarci in balìa delle nostre dispute.
Ma alcune possibilità le avevamo perse anche prima. Qualcosa per mera sfortuna. Cose che dovevano andare in un modo e invece poi andavano in un altro. Qualche altra cosa per la defezione di qualcuno che si era impegnato e poi non ha voluto mantenere gli impegni.
Per esempio, si era pensato, nei giorni precedenti, a una serie di interventi nei quartieri popolari, interventi diretti alle donne che, come si sa, dalle nostre parti, specialmente le casalinghe, restano sempre tappate in casa. Si trattava di riprendere un lavoro già fatto qualche mese addietro e che aveva dato buoni frutti. Questo lavoro era stato organizzato tramite l’intervento di un compagno cantastorie che si era impegnato ma che poi non era potuto venire. Da qui il fallimento di questa iniziativa che ci era sembrata importante e che poteva dare notevoli risultati.
Un altro elemento che si venne ad aggiungere a un certo momento e che contribuì allo scollamento di alcune possibilità fu la difficoltà di molti compagni di calarsi in una realtà sconosciuta e anche lontana dalla loro mentalità. Spesso l’uso di una parola al posto di un’altra, in Sicilia, in certi ambienti, determina una improvvisa situazione di tensione che chi non è del luogo non capisce o capisce male. Spesso la tensione può degenerare in equivoci o peggio. Questa incapacità di calarsi in una realtà estranea fu abbastanza diffusa sia nei giorni precedenti che negli stessi tre giorni finali. Molti malintesi, con la gente del posto, si possono ricondurre proprio a questa causa. Non sappiamo però quanti scollamenti siano stati prodotti da questo motivo o da un insieme di cause. Si tratta di un’analisi difficile a fare.
Ma torniamo al lavoro organizzativo.
Di già per tempo, cioè almeno dieci giorni prima, con compagni presenti, si era discusso di costituire – man mano che i compagni andavano arrivando – dei “gruppi di affinità”, per ovviare al fatto di decidere esclusivamente in assemblea generale tutte le azioni da portare avanti nei tre giorni, cosa che avrebbe presentato inconvenienti che ognuno capisce da sé. I “gruppi di affinità”, man mano che si costituivano, nominavano uno o due rappresentanti che partecipavano a una riunione operativa in cui si decideva, in pratica, l’insieme delle azioni, la linea strategica da seguire, le decisioni da prendere, ecc. Come abbiamo detto, questo sistema funzionò soltanto il primo giorno e dette alcuni frutti, il resto non fu possibile verificarlo.
Abbiamo anche detto che fin dal giorno dell’attentato da noi subìto, ci si rese conto che le possibilità di un cedimento del PCI erano in pratica ridottissime. Divenne perciò necessario trovare una linea di intervento che consentisse – fino all’ultimo – di mantenere un rapporto con la gente di Comiso e di Vittoria, in quanto non era per niente scontato che l’avremmo trovata davanti all’aeroporto fin dal primo giorno. Questo contatto diventava quindi indispensabile, il fulcro su cui doveva reggersi tutta la nostra azione nel corso dei tre giorni.
Molto lavoro venne dedicato a organizzare questa comunicazione diretta tra l’aeroporto e le cittadine di Vittoria e Comiso. Sulle prime ci si orientò per un ponte radio e quindi si trovarono due apparecchi adatti, poi ci si rese conto che la cosa era troppo complicata e facile da intercettare. In un secondo tempo si decise per un altro tipo di ponte radio, mobile, su un’automobile. Infine ci si rese conto che si doveva ricorrere a una comunicazione diretta, con auto o mezzi meno celeri ma più sicuri. In questa prospettiva vennero chieste le piazze principali dei due centri per gli interi tre giorni e venne allestita una presenza a Vittoria, con quattro compagni fissi, due auto e alcune biciclette, e una a Comiso facente capo al Coordinamento, dove restavano altri cinque compagni fissi. Le notizie di quanto accadeva davanti all’aeroporto dovevano prima arrivare a Vittoria – che si riteneva il centro più sensibile per una sempre possibile mobilitazione spontanea della gente, una volta che la nostra presenza davanti l’aeroporto e le nostre azioni dimostrassero che si cominciava a fare sul serio – e poi da Vittoria arrivare a Comiso (che per tradizione è sempre stata al traino della più combattiva cittadina di Vittoria) e qui essere diffuse tramite telefono in altre città dove diversi compagni stavano organizzandosi per aspettare le informazioni sullo svolgimento dei tre giorni di lotta.
Questo progetto venne proposto alla prima assemblea dei “gruppi di affinità” che si tenne la sera stessa in cui subimmo l’attentato a Comiso, e poi approfondito con la partecipazione degli altri gruppi che si andavano formando, fino alla sera precedente il primo giorno di lotta, sera in cui si decisero le azioni da farsi il giorno dopo. Queste partivano dal presupposto di evitare, nel modo più deciso possibile, ogni scontro con la polizia che potesse coinvolgere tutti i compagni presenti e che ci mettesse quindi nell’impossibilità di continuare la lotta per tutto l’arco dei tre giorni. Bisognava quindi realizzare alcune cose: portare il materiale di cui si era già in possesso quanto più vicino alla base, tagliare la rete in più punti, fare delle piccole azioni diversive lungo il perimetro di cinta della base, anche allo scopo di saggiare le possibilità operative della polizia e l’impiego degli elicotteri. Tutto ciò si svolse regolarmente. Le azioni vennero realizzate e i due elicotteri impiegati non riuscirono quasi mai a localizzare i gruppi di compagni che operavano dei finti attacchi contro la base, in più punti del recinto, senza realmente entrare dentro. La stessa stampa locale, l’indomani, notava le difficoltà della polizia davanti a una tattica che veniva impiegata per la prima volta a Comiso.
Per completare il quadro organizzativo occorre dire qualcosa dello sforzo notevole che abbiamo fatto per stampare due circolari per l’Italia e quattro circolari in inglese, francese, spagnolo e tedesco per l’estero. La prima circolare in italiano venne spedita a circa 1.000 indirizzi di compagni del nostro movimento mentre una circolare diversa venne spedita a circa 2.000 indirizzi di sindacati, partiti, associazioni democratiche, movimenti di sinistra, strutture culturali, giornali, ecc. Le circolari all’estero furono circa 4.000 così suddivise: circa 1.500 in lingua inglese (Inghilterra, Scozia, Irlanda, Australia, Nuova Zelanda, USA, Canada, Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia), circa 400 in francese, circa 1.000 in spagnolo (Spagna, America del Sud, Portogallo, Brasile), circa 1.000 in tedesco (Germania, Austria). Ogni circolare venne accompagnata da svariati documenti, come quello organizzativo delle Leghe, oppure dalla traduzione di un articolo contro i missili tratto dal primo volantone pubblicato nel 1982, oltre che dalla traduzione del testo di “Tutti a Comiso”. In diversi paesi, come la Francia, l’Inghilterra e la Germania, vennero pubblicate traduzioni del testo di “Tutti a Comiso”, articoli sulla stampa anarchica, articoli sulla stampa quotidiana, volantini e altro. Da aggiungere la stampa e la diffusione di 5.000 manifesti e di 14.000 volantoni che vennero in parte spediti ai compagni che ne facevano richiesta (circa 3.000 volantoni e 2.000 manifesti), mentre il resto venne distribuito a Comiso e dintorni. I compagni avevano realizzato in Gran Bretagna un adesivo in cinque lingue (5.000 copie) che venne distribuito a Comiso e all’estero. Infine, da ricordare circa 10 interventi di 3 minuti ciascuno fatti a Teleiblea, una televisione locale che è parecchio seguita nella zona.
Se dobbiamo dire qualcosa in merito a tutto questo immane lavoro, dobbiamo concludere che i risultati non sono stati né commisurati agli sforzi né adeguati alle speranze che ci eravamo fatti.
Tornando al rapporto tra situazione che prevedevamo davanti il “Magliocco” e situazione nei due centri che ritenevamo più suscettibili di un intervento di massa, c’è da aggiungere che avevamo anche costituito un gruppo di compagni che doveva restare davanti l’aeroporto o nelle immediate vicinanze, per entrare in contatto immediato con eventuali gruppi di persone del posto che si sarebbero recati alla base, non tanto e non solo per partecipare alla lotta, ma anche soltanto per vedere come andavano le cose. Anche questo gruppo svolse il suo lavoro per tutto il primo giorno, entrando in contatto con quelle poche decine di persone del posto che si presentarono davanti l’aeroporto.
La sera precedente, infine, la riunione dei gruppi operativi di affinità decise che i compagni del Coordinamento, che più degli altri erano conosciuti dalla gente del posto, si distribuissero tra Vittoria, Comiso e l’aeroporto per assumersi in proprio – coadiuvati da altri compagni che si dichiararono disponibili – l’incarico di svolgere il lavoro di raccordo tra il “Magliocco”, i due centri e le persone che si sarebbero dichiarate pronte alla lotta. Si decise anche di installare un megafono sulle due auto di Vittoria e di installare la nostra amplificazione nella piazza di Comiso per potere trasmettere subito, in piazza e nelle strade cittadine, quanto accadeva davanti l’aeroporto.
Fin dall’alba del primo giorno ci si accorse, almeno alcuni di noi del Coordinamento si accorsero, di un grosso errore: non si era valutato bene il fatto che per tutta la prima giornata i compagni sarebbero continuati ad arrivare e che molti di essi non avrebbero avuto modo di comprendere subito che cosa si era organizzato e che cosa si era deciso di fare in sede di riunione dei “gruppi di affinità”.
Forse sarebbe stato più razionale anticipare di qualche giorno la venuta a Comiso e dedicare i giorni in più a un dibattito e a una chiarificazione. Certo sarebbe stato più razionale, ma anche più pericoloso, visto che i poliziotti ci gratificavano di una grande attenzione e che non sarebbe certo stato facile mantenere segreti i dibattiti e le discussioni. Forse si sarebbe dovuto fare un convegno qualche mese prima per discutere la decisione a livello nazionale, come avevamo pensato, ma la cosa per vari motivi non era andata avanti. Comunque la soluzione di un convegno qualche giorno prima non ci sembrò praticabile se si voleva arrivare alla fine di luglio con la data dell’occupazione senza slittare in quel mese di agosto che vedeva tanti progetti – poi tutti naufragati – dei pacifisti.
Di fatto i compagni che venivano al Coordinamento erano informati subito della necessità di costituirsi in “gruppi di affinità” e di partecipare alla riunione che ci sarebbe stata alla fine della prima giornata, ma molti non entravano in contatto con il Coordinamento, si recavano alla villa comunale, volevano per forza partecipare a quanto stava succedendo davanti l’aeroporto, volevano per forza “fare qualcosa”. Qui, ovviamente, si trovavano davanti a una situazione, per loro, incomprensibile. Venivano in contatto con i compagni incaricati di mantenere i rapporti con la gente del posto, ma si trattava di precisazioni incomplete, parziali, spesso caotiche. Tutto ciò ingenerava confusione.
In pratica, fino al tardo pomeriggio i compagni continuarono ad arrivare, ma senza che si riuscisse a fare chiarezza su questo problema dei “gruppi di affinità”. Nel frattempo non erano mancati coloro che si dichiaravano subito e senza mezzi termini contro questi gruppi e contro la decisione che li aveva costituiti. Non mancavano coloro che ritenevano tale pratica “non anarchica” e insistevano per un ricorso allo strumento dell’assemblea aperta, unico strumento realmente anarchico in qualsiasi situazione e davanti qualsiasi problema.
Alla fine della prima giornata la decisione di fare un’assemblea generale era nell’aria. Molti compagni erano disorientati, molti chiedevano dove fossero le “masse”, molti scherzavano su questo argomento dicendo che dato che le masse non c’erano tanto valeva andarsene a casa, molti chiedevano cosa bisognava fare.
Da parte dei compagni del Coordinamento si disse chiaramente che le indicazioni operative si sarebbero fornite e discusse in una successiva riunione dei “gruppi di affinità” che si sarebbe fatta subito dopo l’assemblea (la quale si pensava durasse poco). Invece non fu così. Vi fu chi, subito e apertamente, disse che l’occupazione di massa ormai non era possibile e che tanto valeva allora ripiegare su altre azioni (occupazione del municipio di Comiso e dell’ufficio di collocamento). A parte la scorrettezza di una proposta del genere che avendo natura operativa non poteva essere fatta in un’assemblea aperta a tutti, come si era stabilito prima, a parte la sua evidente pericolosità (l’indomani davanti il municipio stazionavano ben tre cellulari di poliziotti e un altro davanti l’ufficio di collocamento), a parte la premessa che dava per scontato in senso negativo un fenomeno che invece, secondo noi, si poteva ancora realizzare, c’è da dire che questa proposta trovò una qualche rispondenza se non altro in buona parte dei compagni che essendo arrivati nel corso della prima giornata non si rendevano bene conto di quello che stava succedendo.
Un altro compagno, anch’egli in modo scorretto, e peraltro incomprensibilmente, visto che si era sempre dichiarato favorevole al lavoro delle Leghe e anche all’indicazione dell’occupazione, ritenne opportuno lasciarsi andare a un lungo intervento in cui veniva criticato non solo il punto di riferimento dell’occupazione, ma anche il metodo seguito nel nostro lavoro, sostenendo che l’unica impostazione corretta della lotta antimilitarista era quella organizzata e suggerita da strutture a livello nazionale (come quella di cui egli faceva parte). Anche questo tipo di intervento, per altro accolto con stupore e ilarità da molti compagni presenti, specie dai punk, ottenne un certo credito tra quei compagni che non avevano potuto capire bene cosa accadeva proprio perché arrivati da poche ore o da pochi minuti.
La confusione cresceva. Non mancavano interventi diretti a criticare le decisioni prese in seno all’assemblea dei “gruppi di affinità”, come la presenza dei compagni del Coordinamento a Vittoria e a Comiso, mentre, a dire di alcuni, non si capiva perché non si fosse tutti davanti l’aeroporto. Altri interventi mettevano in discussione il metodo stesso dei “gruppi di affinità”, determinando in seno all’assemblea una sempre maggiore confusione.
Dobbiamo dire che questa assemblea generale della sera del primo giorno, conclusasi con la decisione di continuare a discutere anche il giorno dopo, determinò alcuni effetti immediati. Non possiamo qui descriverli tutti. Gli scollamenti in corso si acutizzarono. Molte persone che erano in contatto con noi e nei confronti delle quali ci eravamo impegnati a “fare” qualcosa contro la base insieme a loro, sviluppando una serie di azioni che sarebbero culminate nel terzo giorno con il loro intervento diretto, e in particolare con l’intervento dei mezzi che avrebbero messo a disposizione, molte di queste persone si dichiararono non disponibili davanti una realtà che sapeva solo discutere e litigare. Alcuni di loro restarono ancora il secondo giorno, e alcuni erano presenti fino alla manifestazione che si concluse con la carica della polizia, ma solo come osservatori: ormai gli accordi erano saltati, il loro impegno pure.
Ma una cosa la vogliamo precisare, anche se non in dettaglio. Tre gruppi di compagni: uno tedesco, uno olandese e uno francese avevano organizzato il sabotaggio del generatore della base. Si trattava di un’azione di notevole significato e di una certa facilità in quanto la posizione del generatore e l’impensabilità di un’azione del genere rendeva la cosa possibile anche con pochi mezzi a disposizione. In pratica l’azione doveva essere realizzata da uno dei tre gruppi, che già aveva portato nei pressi della base il materiale necessario, mentre gli altri due dovevano operare un’azione diversiva davanti la base, costruendo una torre e impegnando in azioni plateali e rumorose gli agenti di guardia. I tre gruppi comprendevano complessivamente circa quindici persone. Alla fine della prima giornata, davanti lo spettacolo pietoso e deludente che davamo nel corso dell’assemblea, due di questi gruppi si dichiararono non disponibili a continuare ad ascoltare chiacchiere, anche perché era da quindici giorni che si trovavano al campo della pace (dove erano stati inviati dalla voce dissennata e delittuosa di cui parlavamo sopra) e lì erano stati costretti ad ascoltare inutili questioni sul pacifismo per tutto quel tempo. Il terzo gruppo decise di andare via l’indomani mattina, anch’esso deluso da quanto aveva visto e udito.
Non si tratta – sia chiaro – di grandi cose, non vogliamo dire che si sia rovinato un grande e decisivo attacco contro la base di Comiso, stiamo solo facendo notare come da errori comuni, da incomprensioni, da equivoci, da malafede, da imbrogli e da tendenze diverse (queste sì, stupidamente politiche) non si cavi quasi mai nulla di buono.
L’assemblea della fine del primo giorno non giunse quindi a nessun punto di accordo. Si arrivò solo a decidere di continuare a discutere anche il giorno dopo.
Occorre che tanti facili critici, tanti umoristi da strapazzo, tanti compagni che ci accusano di avere messo in circolazione notizie false o di avere una mentalità ottocentesca, di essere arretrati analiticamente, di non capire nulla delle grandi leggi della purezza rivoluzionaria, occorre che questi compagni riflettano un poco su questo semplice punto. Pensate: il secondo giorno di lotta si apriva con la scadenza di continuare a discutere. Pensate: a discutere! L’assemblea dei “gruppi di affinità” non si potè tenere in quanto non avrebbe avuto nessuna validità di fronte a una assemblea generale che rinviava all’indomani la conclusione del suo svolgimento. Nel frattempo la polizia era regolarmente informata delle nostre divergenze e della nostra incapacità a continuare la lotta e si preparava meglio per l’indomani.
Il nostro intervento, come compagni del Coordinamento, l’indomani è stato molto chiaro. Per noi la lotta diretta a realizzare l’occupazione di massa era fallita, per cui bisognava interrompere l’azione, in quanto sviluppare qualcosa di simbolico, meramente riduttivo, solo perché tanto il movimento anarchico era lì e quindi tanto valeva che si facesse qualcosa, qualsiasi cosa, ecco, questa soluzione, ci vedeva non d’accordo. Dicemmo che il fallimento della lotta da noi impostata dipendeva senz’altro da una impossibilità di continuare il nostro intervento secondo le decisioni tattiche che erano state prese dall’assemblea dei “gruppi di affinità”, ma anche dal fatto che non si era verificata, tra la gente del comisano, quella immediata risposta che sarebbe stata auspicabile e sulla quale avevamo impostato se non tutte almeno una parte delle premesse del nostro intervento. Rinviammo quindi la spiegazione dei dettagli operativi e la decisione di cosa fare per non correre rischi grossissimi e inutili, all’assemblea dei gruppi d’affinità che si tenne subito dopo.
Riflettano anche su questo i compagni critici e ipercritici: quasi nessuno di coloro che avevano avanzato le obiezioni più estreme partecipò all’assemblea dei “gruppi di affinità”. Non sappiamo che valutazione dare di questo semplice fatto.
In questa assemblea i compagni punk insistettero per realizzare una manifestazione spontanea diretta dal paese di Comiso all’aeroporto, manifestazione che ci vedeva contrari per molti motivi, proprio perché corrispondeva esattamente a tutte quelle cose che avevamo sostenuto non bisognava fare a Comiso: affrontamento diretto (e inevitabile, essendo una manifestazione non autorizzata) con la polizia, gesto simbolico e privo di effetti pratici ai fini del coinvolgimento della gente, ecc.
Comunque partecipammo alla manifestazione che si concluse come tutti sanno. Il resto è cronaca della repressione.
Malgrado gli errori fatti, i limiti personali di ognuno di noi e quelli collettivi, le limitatezze pratiche, rivendichiamo il nostro intervento a Comiso nel suo insieme, anche nelle sue tre giornate conclusive. Lo rivendichiamo come metodo e lo rivendichiamo come lotta specifica. Come metodo insurrezionale riteniamo che la sua applicazione alla lotta antimilitarista a Comiso sia stata soltanto parziale e insufficiente, in quanto moltissimi elementi sono intervenuti per impedire una sua corretta ed estesa applicazione. Per questo motivo gli effetti positivi o negativi non si sono potuti vedere nel loro massimo significato, ma soltanto intravedere qua e là, spesso in modo contraddittorio e superficiale.
Riteniamo che i compagni devono riflettere a lungo su questa esperienza di metodo, almeno fin quando sarà possibile ritornare alla sua applicazione in un’altra situazione e nel corso di altre lotte.
Rivendichiamo naturalmente il nostro impegno nella lotta a Comiso a prescindere da questioni di metodo in quanto siamo sempre stati contro la base missilistica, contro gli armamenti, contro gli eserciti. In quanto antimilitaristi convinti e in quanto rivoluzionari anarchici siamo contro ogni tipo di guerra, ogni tipo di armamento bellico, ogni tipo di terrorismo dello Stato. Ma non siamo per un pacifico adagiarsi su queste semplici dichiarazioni di principio: non siamo per la pace sociale, siamo per la guerra di classe e quindi, per noi, la lotta è appena agli inizi.
[Cfr. (A. M. Bonanno), La lotta a Comiso. Elementi di critica e autocritica, “Anarchismo” n. 41, ottobre 1983, pp. 5-12]
Appendice non necessaria
Sul problema del fermo di diversi compagni del Coordinamento attuato dalla polizia di Gela riporto il seguente articolo da me scritto e pubblicato in “Umanità Nova” del 17 ottobre 1982.
«I compagni anarchici che partecipano al Coordinamento autogestito di Comiso contro la costruzione della base hanno effettuato venerdì mattina, davanti ai cancelli dell’ANIC di Gela, il grosso complesso petrolchimico che è quasi tutto di proprietà degli Americani e che costituisce una delle grandi cattedrali nel deserto siciliano, un volantinaggio diretto a chiarire i problemi della costruzione della base atomica e i metodi per impedirla. Nel volantino è illustrata in dettaglio la necessità di costruire le Leghe autogestite per rendere più efficace e costante la lotta contro la base.
«La risposta degli operai è stata altamente positiva e grossi capannelli si sono formati. In pratica diverse centinaia di operai hanno ritardato l’ingresso in fabbrica e hanno cominciato a discutere la nostra proposta d’iniziativa.
«Al momento dell’interruzione per la colazione i compagni sono tornati per continuare il volantinaggio e per fare anche un breve comizio volante. A questo punto è intervenuta la polizia che li ha fermati portandoli in questura.
«Appena giunti in caserma i compagni sono stati violentemente intimiditi dai poliziotti: in particolare il commissario in persona ha ingiunto di non mettere mai più piede a Gela e alla risposta che la polizia non poteva impedire di svolgere propaganda politica in città e che anzi, non appena usciti dalla caserma, si sarebbe ricominciato il volantinaggio, il commissario ha detto davanti a una decina di poliziotti che se i compagni venivano visti ancora a Gela sarebbero stati fermati e, in catene, avrebbero conosciuto a loro spese il trattamento riservato a tipi del genere.
«Nel frattempo, però, gli operai e i compagni dell’ANIC, specie le diverse centinaia che erano stati testimoni più o meno sbalorditi del fermo davanti ai cancelli, hanno imposto ai sindacati e al PCI di intervenire in questura per vedere perché eravamo stati fermati. Queste due organizzazioni si sono viste costrette a recuperare davanti alle pressioni operaie e hanno inviato due rappresentanti in questura. Qui l’atmosfera cambiava di colpo e con tante scuse i compagni venivano riaccompagnati davanti ai cancelli dell’ANIC dove riprendevano il volantinaggio e i capannelli con altri operai».
V. A noi il papa non piace
Introduzione necessaria
Inserire qui alcuni dei documenti riguardanti l’iniziativa realizzata nel Trentino in occasione della venuta del papa per la commemorazione del 450° anniversario del Concilio di Trento mi sembra importante, pur non trattandosi di un tentativo insurrezionale in senso stretto. Si deve dire subito, prima di ogni altra cosa, che questo intervento non era diretto a coinvolgere la gente del posto. Fin dall’inizio, fin dallo slogan iniziale: “a noi il papa non piace”, si intese sottolineare quel “noi” come a dire che si era lì per affermare il nostro modo di vedere la presenza del papa come qualcosa di spiacevole.
Peraltro la scelta limitativa in questione era indispensabile se si pensa alla durata dell’iniziativa (dal 20 al 28 di aprile del 1995) e alla tradizionale caratteristica del Trentino, zona “bianca” per eccellenza.
Detto questo tutta l’impostazione dell’intervento ha seguito un metodo insurrezionale. Molti compagni anarchici, provenienti da diverse regioni, si sono riuniti per dare vita a diversi comizi, conferenze, volantinaggi, affissioni, il tutto coronato da una mostra sulla tortura e sull’Inquisizione. Naturalmente nessun partecipante doveva sentirsi limitato a quest’ordine di cose da fare, ognuno era libero di crearsi le sue occasioni e di realizzarle al meglio. Vi furono dei segnali notturni lasciati su qualche feticcio o su qualche tabernacolo, roba da poco, per carità, comunque importante per contrassegnare un clima di gioiosa conflittualità e per far capire che non si vive di sole chiacchiere.
Voglio puntualizzare che in un progetto insurrezionale queste azioni (chiamiamole così, perché tali sono, anche se realizzate con intenzione ludica più che distruttiva) sarebbe stato meglio realizzarle in maniera coordinata, in un periodo di tempo scelto in una discussione specifica. Questo non c’è stato. Anzi, quando qualcuno ha sollevato il problema di realizzare una divisione fra i partecipanti in gruppi per meglio realizzare le diverse azioni, sono venute a galla le solite rimostranze contro l’asfissia organizzativa. Trattandosi di un tentativo di tale portata il rifiuto non ha avuto conseguenze di nessun genere. In un contesto diverso, le conseguenze ci sarebbero state, e forse anche gravi.
Pubblico qui soltanto i miei interventi, compresi i miei scritti apparsi su “Canenero”. Gli interventi di Massimo Passamani si possono leggere su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995.
Comizio tenuto a Trento. Piazza Fiera, 22 aprile 1995
Il papa verrà a Trento fra pochi giorni e naturalmente non saremo qui a parlare contemporaneamente a sua santità, quindi, se volete ascoltare qualcosa di leggermente diverso da quello che vi si dirà nei prossimi giorni, potete fermarvi un attimo e cercare di riflettere insieme a noi su cosa significa la venuta del papa a Trento.
Gli anarchici sono contrari alla presenza del papa, sono contrari alla persona del papa, sono contrari alla Chiesa, sono contrari alle strutture di potere. Ecco perché noi anarchici siamo qui quest’oggi, in pochi, con una grande quantità di difficoltà, con il tempo avverso, i mezzi modesti e con un inizio di repressione poliziesca che ha cercato di già di schedare tutte le persone, tutti i compagni presenti in questa piazza.
Ecco che cosa cercano di fare. Praticamente, noi cerchiamo di dire semplicemente qualcosa che potrebbe disturbare la presenza di sua santità a Trento, fra qualche giorno, e di già figuri in divisa, con tanto di cappello bianco in testa, si permettono di schedare i compagni che si muovono in piazza. Ecco che cosa significa parlare contro l’autorità, ecco che cosa significa parlare contro il papa.
Io mi rendo conto che la grande tradizione di ospitalità della città di Trento ha anche il suo peso. Viene un pellegrino che giunge da fuori e quindi bisogna ospitarlo bene. La vostra tradizione secolare di ospitalità che io stesso, in quanto meridionale, in quanto siciliano, ho potuto sperimentare, la vostra benevolenza verso gli stranieri, certamente si rivolgerà anche verso il pellegrino romano. Lo accoglierete bene perché è nel vostro carattere accogliere bene gli stranieri. Avete accolto bene in tante occasioni tanta gente, e accoglierete bene anche lui. Ma, quest’uomo, viene qui a portare la pace?
Chiedetevi un po’ che cosa significa la presenza del papa nella vostra città. Perché il papa viene non da solo ma assistito da un enorme, spaventoso, montaggio pubblicitario, perché il papa verrà a Trento e saranno presenti insieme a lui, a sentire la sua parola, decine, forse più di centomila persone. È veramente la volontà di queste persone che liberamente desidera sentire la voce del papa oppure dietro di loro c’è tutta un’organizzazione pubblicitaria, spettacolare, di soldi, che imporrà la voce del papa?
Quindi, abbiamo da un lato quest’enorme processo pubblicitario che ci sarà nei prossimi giorni e, dall’altro lato, pensate, quattro compagni anarchici in questa piazza sottoposti di già a schedatura che stanno facendo sentire una voce contraria, che stanno sostenendo una tesi differente. È questa la differenza che dovete cogliere, sono questi i due aspetti del problema: l’elefante papale da un lato e la pulce, la pulce del dissenso dall’altro.
Sentite come suonano le campane. Io non capisco, ma tutte le volte che faccio un comizio anticlericale c’è sempre un suono di campane. Sarà una strana coincidenza, una soprannaturale concordanza? Quando parlo contro la religione e contro i preti, le chiese si danno sempre appuntamento per suonare le campane.
Perché viene questo personaggio? Viene forse come singola persona, viene come pellegrino di pace, oppure viene come rappresentante di un’organizzazione, di una struttura potentissima, ricchissima? E che verrà a dire questo personaggio?
Verrà a parlare di pace, verrà a parlare di speranza, verrà a parlare di progetti per il futuro. E verrà a parlare alle coscienze di ognuno di voi, perché io mi rendo conto che alcune coscienze avvertiranno il bisogno di sentire le parole del papa, perché sono di già cadute nell’equivoco di che cosa significa la religione, che cosa significa la religione gestita da una struttura di potere com’è la Chiesa. Ecco, dovete uscire, anche se credenti (perché io so che in questa piazza non ci sono soltanto dei non credenti come me, non ci sono soltanto dei non credenti come gli anarchici), da questo modo di vedere le cose, pensare che la religione o è un fatto personale su cui nessuno può mettere parola o è un fatto di potere come appare certamente nella dimensione della Chiesa.
Quindi il papa non verrà qua, fra qualche giorno, come rappresentante della religione che ognuno di noi può avere nell’animo, egli non verrà a rappresentare il sentimento del divino o il sentimento del dubbio, della possibilità, o il sentimento del dolore, della sofferenza, il papa non verrà qui a rappresentare tutto questo. Il papa verrà qui a rappresentare un’organizzazione di potere. Il discorso che farà si rivolgerà ai potenti della terra, perché la struttura che rappresenta è in immediato contatto con tutti i potenti della terra. Non cadete quindi nell’equivoco che sta parlando a voi singolarmente, perché egli sta parlando ai potenti della terra, voialtri siete semplicemente delle pedine attraverso cui intende costruire il potere della Chiesa. Perché, non dimentichiamolo, la Chiesa continua nella sua tradizione di morte e di repressione.
La Chiesa di oggi, di cui il papa vestito di bianco, l’uomo del Vaticano che verrà nei prossimi giorni, è il rappresentate, è la stessa Chiesa dell’Inquisizione di ieri, è la stessa Chiesa che in Spagna nel ‘36 combatteva dalla parte dei fascisti, è la stessa Chiesa che ha sottoscritto, con le sue strutture di penetrazione nelle coscienze, i macelli delle guerre, che, da qualsiasi lato, si è schierata sempre a favore della guerra.
La Chiesa ha pregato sempre per la vittoria degli eserciti, perché il Dio che rappresenta come struttura è il Dio degli eserciti. Quindi non bisogna dimenticare che la struttura della Chiesa è una struttura di potere. Ecco perché gli anarchici tengono in questa piazza, con mille difficoltà, un comizio anticlericale, un comizio contro il papa, perché gli anarchici sono contro l’autorità, sono contro la religione, sono contro l’idea di Dio, perché è l’idea di Dio che fonda l’autorità, perché attraverso Dio si fonda la Chiesa, e la Chiesa è il braccio sinistro dell’autorità.
Ecco perché non bisogna cascare nell’equivoco di pensare che il pellegrino di Roma venga qui a portare la pace. Viene qui a fare un discorso di possibilità di perfezionamento del dominio, viene a ribadire le tremende parole che ha scritto nella sua ultima “Enciclica”, viene a ribadire il ruolo di subordinazione della donna, viene a parlare ancora della donna come di un essere inferiore, è questo che le donne di tutto il mondo dovrebbero capire, perché la Chiesa ha sempre considerato la donna un essere umano di seconda categoria.
La Chiesa parla contro la donna, riduce il ruolo della donna. All’interno della Chiesa la donna non ha spazio. La Chiesa è un ordine maschile, un ordine militare maschile, quindi tiene la donna ai margini. L’ultima Enciclica sulla vita bisogna leggerla nell’ottica della pessima considerazione che la Chiesa ha sempre avuto per la donna.
Non fatevi ingannare quando vi parlano del mito della “madonna”, della “vergine”, perché questo mito non parla di una donna, ma di un essere particolare che non ha nulla di femminile. I dogmi della Chiesa che riguardano la madonna sono due: l’immacolata concezione e l’assunzione. Cioè, questa donna, che i preti indicano come simbolo di tutte le donne, non ha nulla a che vedere con le donne in carne e ossa, perché ha caratteristiche che nessuna donna potrà mai avere.
Il messaggio del papa è quindi zeppo di imbrogli e di trappole. Esso riguarda il modo in cui si può costruire l’obbedienza in maniera intima, parlando alle coscienze, e questo è il sistema più subdolo di dominio. Questo è l’ultimo concetto che vorrei dirvi in una difficile serata, vedete infatti in quali condizioni repressive siamo costretti a parlare.
La Chiesa è una organizzazione di potere che si prefigge la conquista del potere. Lo scopo del papa, lo scopo della Chiesa cattolica, non è affatto la pace o la speranza della pace, non è il povero o il sofferente, ma è il dominio del mondo. Dal primo momento in cui si sono costituiti come organizzazione di potere, questi uomini intendono raggiungere il potere, se non glielo impediremo lo raggiungeranno.
Ecco quale sarà il messaggio che il papa porterà qui a Trento. Spetterà a voi dare una risposta diversa.
Grazie e arrivederci.
[Parzialmente pubblicato su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, pp. 4-5]
Comizio tenuto a Trento. Piazza Battisti, 23 aprile 1995
Questo comizio anarchico segue a quello fatto ieri in piazza di Fiera. Ieri, poco prima di cominciare il comizio, c’è stato un piccolo problema, siamo stati oggetto di particolari attenzioni da parte dei vigili urbani e della polizia. C’è stato un tentativo di schedatura e poi anche una incriminazione da parte della polizia per la distribuzione del volantino che penso avete avuto anche oggi, volantino che si intitola: A noi il papa non piace.
Cosa vuol dire questo fatto? Io non sto qui a recriminare le schedature che in questi ultimi giorni hanno sistematicamente fatto seguito a qualunque nostro spostamento nella zona, sia a Rovereto, sia a Trento. Siamo stati sistematicamente seguiti da carabinieri e polizia e quindi fermati, schedati, nel tentativo di intimidirci, di impedirci di parlare.
Io non sono della tesi che se parla l’uomo del Vaticano allora posso parlare anche io. Molti di quelli che mi ascoltano potrebbero pensare che siccome dovranno parlare i preti, allora anche gli anarchici debbono parlare, e allora visto che loro hanno questo diritto anche noi pretendiamo questo diritto.
Non è così. Non è questo il nostro discorso. Non è in nome della democrazia che sto parlandovi, ma è in nome di un contenuto diverso, il quale contenuto fa paura ed è per questa paura che cercano di intimidirci. Non perché non vogliono farci parlare. Se oggi qui io fossi venuto a fare un discorso di pace, di calma, di acquiescenza, di acconsentimento a quelli che sono i programmi del potere, della Chiesa, non ci avrebbero schedato, ci avrebbero accompagnato, ci avrebbero fatto precedere con le loro camionette, con le loro pantere. Invece facendo un discorso diverso, un discorso che evidentemente disturba, ci schedano, cercano di intimidirci.
Ma qual è questo discorso? Il papa verrà nei prossimi giorni, non saranno certamente le mie parole a impedirlo, non si muove un povero pellegrino malato, un malato che quasi non riesce a stare in piedi, non fatevi imbrogliare, non illudetevi, si muove un uomo che è alla testa di una organizzazione di potere, si muove un uomo che detta legge, la propria legge, la legge della Chiesa, ai potenti della terra. Ecco chi verrà a farvi visita nei prossimi giorni. E non sarà una visita priva di conseguenze. Quest’uomo, che apparentemente è portatore di pace, quest’uomo che sa parlare alle grandi moltitudini (non sarà certo una piazza come questa che ospiterà il suo discorso), parlerà il linguaggio del potere. Difatti non è un qualsiasi pellegrino che verrà a farvi visita, facendo appello alla vostra ospitalità, ma un uomo di potere. Egli non fa appello alla vostra tradizionale ospitalità trentina, non ne ha bisogno, viene come rappresentante di una struttura di potere, verrà accolto da decine di migliaia di persone che verranno trasportate qui con un sistema di già collaudato nei minimi dettagli in tutto il mondo. La Chiesa non scherza con queste cose. Dietro il papa ci sta quindi questa struttura. Ma non occorre spendere troppe parole per questo concetto che tutti capiscono facilmente, e che tutti sanno.
Il papa, guardate che caso strano, appena pochi giorni fa ha pubblicato una “Enciclica” che riguarda la vita. Questa “Enciclica” riguarda la vita, quindi è un discorso fatto alle donne principalmente, e qual è la posizione che la Chiesa ha avuto sempre nei confronti delle donne, come la Chiesa ha considerato la donna in tutta la sua storia? L’ha considerata come un essere inferiore, come qualcosa di sottoposto, destinato dalla natura a restare sottoposto all’uomo. Questa è l’idea e la concezione della Chiesa.
Non fatevi imbrogliare quando alla fine del mese il papa parlerà alle donne in nome della madonna, simbolo di tutte le donne. La favola della madonna, costruita dai preti, non è affatto il simbolo di tutte le donne, perché la madonna non ha nulla a che vedere con le donne, in quanto questa favola si basa su due dogmi: il dogma della immacolata concezione e il dogma dell’assunzione. Quindi, pensate cosa ha a che spartire una favola del genere, in cui si racconta di una donna che partorisce da vergine e che poi viene assunta con tutto il corpo in cielo, con le donne comuni, con le donne che sanno cosa vuole dire partorire con dolore, che sanno cosa vuol dire mettere al mondo i figli e allevarli, con le donne che sanno cosa vuol dire il dolore e la sofferenza.
In che modo l’uomo del Vaticano può pensare di proporre seriamente, senza suscitare il riso e lo sdegno, un simile modello alla donna di tutti i giorni, la donna con cui viviamo, la donna che conosciamo. La Chiesa, pensate, ha avuto in passato difficoltà a riconoscere se la donna aveva o non aveva un’anima. Ci hanno messo del tempo per decidere se la donna aveva o non aveva un’anima e, deciso che aveva un’anima, hanno potuto fare un piccolo passo avanti: hanno ritenuto opportuno stabilire che la donna nella famiglia poteva avere un ruolo, un ruolo produttivo naturalmente, quello di fare figli, ma non più di questo. Ma sottoposta alla gestione del capo famiglia, perché la Chiesa è un’organizzazione di potere maschile, costruita, diretta e retta per tutti i secoli da maschi, quindi fondata sull’ideologia di conquista militare. Il papa è il capo di questa struttura militare, il capo di questa struttura di potere, è il capo di questa struttura maschile, è il capo di una struttura militare maschilista e parla alle donne, parla di cose delle donne, parla dell’aborto, parla di contraccezione, consiglia alla donna come deve fare per vivere la sua vita.
Perché dovrebbe essere inferiore all’uomo la donna? Invece il papa sostiene che deve essere considerata tale. Come uscire da questa dimensione? Ovviamente cercando di fare diversamente da quello che consiglia l’uomo del Vaticano. Ora, in che modo è possibile uscire fuori da queste ambiguità? Sostanzialmente in due modi. C’è il modo del non credente, il modo di chi vi parla, dei compagni anarchici che hanno organizzato questa manifestazione. L’uomo del Vaticano parlerà e noi avremmo potuto decidere di andare altrove, a fare una gita in montagna, invece abbiamo voluto essere qui per indicare il nostro dissenso, il nostro modo di vedere le cose diversamente. Poi c’è l’altra categoria di persone, ci sono anche i credenti, ma i credenti che hanno un rapporto personale con la religione, un rapporto se si vuole conflittuale, un rapporto col dio dell’inquietudine e dell’incertezza, non col Dio della necessità, col Dio del dominio, col Dio del comando. Dentro la coscienza del credente – io sono certo che in questa stessa piazza ce ne sono tanti di credenti – non ci saremmo sicuramente selezionati a priori sulla base del comune ateismo – si agita un sentimento personale verso la religione, un personale rapporto con dio.
Sono gli stessi credenti che dovrebbero sentirsi offesi dalla venuta del papa, molto più dei non credenti. Se il non credente a un certo punto potrebbe dire «va be’, a me che interessa se viene il papa, si faccia i suoi discorsi, io me ne vado altrove», il credente no, perché deve sentire l’usurpazione di cui è vittima la sua idea di dio personale, possibile, conflittuale, inquieto, non certamente strumento di certezza, strumento di calma, di pacificazione. Ecco, queste persone dovrebbero reagire perché dovrebbero capire che il rappresentate della Chiesa viene in nome di una gestione di potere, non viene in nome di un discorso fondato sul rapporto diretto con il singolo.
Quando il papa parla all’individuo, alla coscienza dei singoli, parla sempre in una prospettiva di potere, perché attraverso la gestione delle coscienze, la penetrazione all’interno dei singoli, si possa – secondo l’ideologia di conquista e di dominio della Chiesa cattolica – costruire l’irreggimentazione di domani, l’uguaglianza di tutte le coscienze sotto il dominio e il controllo della Chiesa. Perché è questo il loro scopo. Oggi non possono dirlo, ma se potessero, se le condizioni attuali lo permettessero, lo farebbero.
È la stessa Chiesa, rappresentata dallo stesso uomo del Vaticano, che in passato torturava gli eretici, è questa stessa Chiesa che ancora possiede un dicastero che oggi si chiama Propaganda Fidei, mentre in passato si chiamava Sant’Uffizio e gestiva l’Inquisizione. È questa stessa Chiesa che ha razionalizzato la struttura di repressione. La mostra che potete aver visto – sono sicuro, perché c’era parecchia gente che la leggeva, che la guardava – è solo un piccolo saggio di che cosa queste persone, le stesse persone di cui il papa ancora oggi è rappresentante, hanno realizzato in quanto a nefandezze. E adesso vengono a parlarci in nome della vita!
Certo, l’uomo vestito di bianco alla fine del mese vi farà un discorso con grandi parole di pace, ma l’avete mai sentito pronunciare un piccolo segno di condanna per esempio riguardo tutte le industrie militari e belliche che ci sono in Italia? Cosa ha detto mai contro la Oto Melara, per esempio, cosa ha detto mai contro le fabbriche che si trovano nelle zone di Biella, di Bergamo, di Brescia, contro la Breda che fabbrica le mine con cui muoiono ogni giorno centinaia di bambini in tutto il mondo? Avete mai sentito la voce dell’uomo vestito di bianco parlare contro queste industrie? Non lo può fare perché contravverrebbe al suo progetto di potere, perché è il capo di una struttura militare maschile, perché è il capo di un esercito bianco.
Della Chiesa fanno parte i gesuiti, questo lo sappiamo tutti. Il fondatore dei gesuiti si chiamava Ignazio di Loyola, ma questo spagnolo non si è inventato niente, non è vero che ha ideato la Compagnia di Gesù sul modello delle compagnie militari di ventura della sua epoca, egli ha semplicemente applicato l’ideologia della Chiesa. Il fondamento della Compagnia dei gesuiti è l’obbedienza come un cadavere, ecco la parola chiave che spiega cosa vuol dire la struttura della Chiesa. I gesuiti sono la Compagnia di difesa e di sostegno personale del papa, rispondono direttamente, attraverso il loro generale, al papa, e la chiave per capire questa struttura è un’organizzazione militare basata sulla obbedienza assoluta. Riflettete un attimo quanti eserciti di tutto il mondo hanno preso da questo modello.
Cosa ci ha detto mai quest’uomo vestito di bianco, questo portatore di pace, riguardo tutto quello che accade oggi nel mondo? Ci ha forse fatto un discorso chiaro su quelle che sono le difficoltà che spingono la gente a ribellarsi per esempio nel Messico? Sulla rivolta del Chiapas che cosa ci ha detto riguardo i contadini che muoiono e cercano di ribellarsi contro una repressione che cerca di spingerli al di sotto del livello di tolleranza, al di sotto del minimo della vita, una repressione basata sugli accordi internazionali tra il Messico e gli Stati Uniti? Cosa fa il papa? L’unica cosa che riesce a fare è mettere da parte, destituire il vescovo che aveva detto qualche parola su questo argomento.
All’interno della Chiesa, come all’interno di qualunque altra organizzazione di potere, ci potranno essere delle dialettiche di contrasto. Le conferenze episcopali (cioè le assemblee di tutti i vescovi e di tutti i cardinali) spesso arrivano a conclusioni diverse, ma il papa è sempre quello che comanda. E questo papa è un conservatore. Questo papa vestito di bianco che verrà alla fine del mese non è un uomo del futuro, è un uomo del passato, è un uomo adeguato a questi strumenti di tortura, è questo uomo che ha scelto di portare alla sede cardinalizia di Vienna il cardinale che poi è stato estromesso, mandato via per le sue vicende omosessuali, lui, un cardinale (ma noi non abbiamo nulla contro le attività omosessuali dell’individuo). Ma perché questa scelta di imporre un cardinale omosessuale (e conservatore) nella importantissima sede di Vienna? Pensate che Vienna è la porta verso il mondo protestante del Nord. Perché imporre un conservatore mentre poteva mandarci un altro? Perché questo signore era evidentemente il più adatto a eseguire i programmi del papa e la sua omosessualità (tante volte demonizzata dalla Chiesa) passa in secondo piano. Quello che conta è l’obbedienza al papa. Il papa ha un progetto di dominio mondiale. Ed è questo concetto che vorrei fosse chiaro. La Chiesa sembra aperta a livello politico, anche a livello di approfondimento dei tanti problemi economici, il papa parla di democrazia, parla di liberalismo, ma a lui interessa lo spazio per penetrare all’interno delle varie realtà mondiali. Il papa ha lottato e fatto parecchio per contribuire a rompere il muro di Berlino, ha lottato e fatto parecchio in quanto rappresentante della Chiesa per intervenire nella realtà della Polonia, insomma per smontare il mondo dell’Est comunista.
L’abbattimento del mondo sovietico, del patto di Varsavia, molti potrebbero dire che è stato giusto. Anche gli anarchici sono contrari alle dittature comuniste che ancora esistono in tutto il mondo, sono stati sempre contrari anche in passato, anche durante la rivoluzione russa, gli anarchici hanno lottato contro lo strapotere dei leninisti e degli stalinisti. Però, per quale motivo il papa e la Chiesa cattolica sono intervenuti? Perché dovevano sconfiggere quella concorrenza, perché si trovavano davanti a una Chiesa che faceva concorrenza allo stesso livello, perché anche la gestione del potere stalinista-leninista aveva una caratteristica di tipo religioso, cioè a dire una interpretazione della realtà fondata sull’ideologia, sull’ideologia della rivoluzione proletaria mondiale che doveva liberare il mondo di tutti gli oppressi. Questo stesso concetto è il medesimo concetto che fonda la struttura di potere della Chiesa, soltanto le parole cambiano. Questi due colossi si sono scontrati e pensate questo piccolo uomo vestito di bianco che cosa è riuscito a fare: ha contribuito a spezzare un enorme impero, il secondo impero mondiale.
Appena appena questo ha fatto quest’uomo, vestito di bianco, che verrà qui alla fine del mese e vi parlerà di pace. Certo, sotto questo aspetto ha dato un considerevole contributo alla storia, ma la storia è piena di questi contributi e di queste contraddizioni. Due forze militari ed economiche si scontrano tra di loro, vince una. In questo caso ha vinto la Chiesa cattolica, ha vinto il papa, ma perché hanno vinto? Perché questa è la strada della pace, perché questa è la strada che può portare il benessere nel mondo, perché la democrazia è forse qualcosa che potrà in futuro migliorare la sorte del popolo russo, di tutti i popoli che sono attorno all’ex impero sovietico? Forse il capitalismo è la soluzione per poter risolvere i loro problemi? No di sicuro. Ma questo al papa non interessa nulla, non interessa nulla se per la sua strategia di dominio ci saranno decine, probabilmente centinaia di milioni di morti, non interessa nulla se è stato lui una delle concause della guerra in questo momento in corso nella ex Jugoslavia.
Gli basta semplicemente dire ai quattro venti che vuole andare in Jugoslavia, che vuole andare incontro al martirio. Ecco chi è la persona che verrà qui alla fine del mese, non è quella brava persona, malata, malferma sulle gambe, che ha bisogno del vostro sostegno, che ha bisogno del vostro appoggio per poter parlare, per poter dire la sua, poveretto. No. È il capo di un impero a livello mondiale, di un impero capace di gestire contrasti, di risolvere problemi politici, ecco di che cosa stiamo parlando.
Questo sentiremo alla fine del mese, anzi questo sentirete perché io non starò a sentire di sicuro un discorso ecumenico rivolto a tutti, al di sopra delle classi, al di sopra di chi soffre e di chi fa soffrire. Siamo tutti figli di Dio, Agnelli e l’ultimo povero disgraziato della terra sono ugualmente figli di Dio. Questo è il concetto della Chiesa. Quando sentirete queste parole state attenti, perché dietro queste parole si nasconde una gestione di potere, perché lo scopo della Chiesa è quello di riuscire a penetrare dappertutto nel mondo.
Il concetto di evangelizzazione significa diffusione a livello mondiale, per quanto possibile, del messaggio contenuto nel Vangelo. E il messaggio contenuto nel Vangelo si ripercuote attraverso tutta la storia della Chiesa che, non dimentichiamo, è caratterizzata da una sequenza inenarrabile di crimini, di miseria e di sangue, che si diffonde fino ai nostri giorni. L’uomo vestito di bianco che verrà qua, poveretto, sulle sue gambe malferme, con il suo stomaco artificiale, con i suoi guai, un uomo di una certa età, diciamolo pure un vecchio che può fare anche pena, ma che non fa pena nel momento in cui lo si vede come compartecipe e gestore principale di una struttura di potere e di un progetto di potere, un progetto di conquista del mondo, perché la Chiesa, da quando è stata costituita, si prefigge, né più né meno, che la realizzazione di un potere mondiale. Che poi nelle singole situazioni entri in combutta, si spartisca il potere, si limiti a costituire soltanto il braccio sinistro del capitale e dello Stato, questo dipende dalle limitazioni oggettive di fronte alle quali si viene a trovare. Ma, nel suo progetto centrale, la Chiesa cattolica ha sempre avuto e continua anche oggi ad avere la conquista del potere a livello mondiale.
Ecco che cosa dovreste pensare nel momento in cui il papa verrà qui alla fine del mese e farà il suo discorso apparentemente di pace e di fratellanza. Dovete pensare che non siete davanti a un fratello, non è vostro fratello chi contribuisce a sfruttarvi, a dominarvi, a farvi soffrire, chi vi dice a livello della coscienza cosa dovete fare. Questo poliziotto delle coscienze a cosa vi potrà portare se non a una ulteriore sofferenza? Quale discorso potrà fare a Trento alle donne, se non ripetere le parole scritte qualche giorno fa nella Enciclica sulla vita? Parole terribili, parole che sollecitano a sopportare la sofferenza, a sopportare il dolore. Perché mai un malato terminale non dovrebbe essere aiutato a morire, nel momento che non c’è più speranza, nel momento in cui sta soffrendo davanti ai vostri occhi? I vostri padri, i vostri nonni, i vostri parenti potrebbero domani trovarsi in una condizione di questo tipo, e invece il papa dà l’ordine di farli soffrire, dà l’ordine a tutti i credenti di farli morire fra le sofferenze, e dà quest’ordine a tutti i credenti, lo dà alla coscienze, alle singole coscienze, e dice: no, deve soffrire perché è quella la strada che deve percorrere per arrivare in paradiso.
La Chiesa cattolica è un’organizzazione di guerra, non può portare la pace, è un’organizzazione fatta di soli maschi, non può portare la pace, un’organizzazione militare che si basa su rapporti precisi, passati, presenti e futuri, con gli eserciti di tutto il mondo, perché in tutti gli eserciti si trovano i rappresentanti della Chiesa, si trovano i cappellani militari, si trovano gli uomini che rappresentano la Chiesa e che portano nell’esercito, cioè nella struttura che più di ogni altra rappresenta la violenza e la morte, il contatto con la santa madre Chiesa, contatto che, come abbiamo detto, è basato sempre sull’ubbidienza.
Quindi non vorrei spendere ancora tante parole, ma una cosa sola penso che possa uscire chiara da questo comizio degli anarchici, questa sera: la Chiesa non può portare la pace, la Chiesa contribuisce allo sviluppo, al potenziamento, all’allargamento della guerra, questo lo dice il Vangelo stesso: “Io non sono venuto – diceva Gesù – a portare la pace ma sono venuto a portare la guerra”. Certo, mi si potrebbe rispondere: la guerra nelle coscienze. Bene, ma è attraverso le coscienze che questi vogliono conquistare il mondo. Il Vaticano e la Chiesa cattolica non hanno eserciti, non hanno strutture personali, usano le strutture degli altri, usano le idee degli altri, usano le occasioni degli altri, quindi questo significa essere strutture di potere e volere raggiungere la conquista del potere a livello mondiale, questo sostanzialmente si nasconderà dietro le parole apparentemente di pace che l’uomo del Vaticano vi dirà qui alla fine del mese. Adesso avete modo di potere capire meglio cosa si nasconde dietro questa struttura infame, di potere che è la Chiesa cattolica.
Grazie.
[Parzialmente pubblicato su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, pp. 6-10]
Comizio tenuto a Pergine. 24 aprile 1995
Con la sua venuta a Trento, programmata per la fine del mese, il papa arreca una offesa concreta, non ai non credenti, come me o come i compagni che con me hanno organizzato questo comizio, ma proprio ai credenti, proprio a coloro che credono nel concetto di dio. Nel concetto di un dio personale, di un dio che può albergare come idea sofferta, come possibilità, come inquietudine dentro la coscienza, come punto di riferimento dell’individuo nel dolore, nella sofferenza. Questi credenti, e io sono sicuro che ce ne sono anche qui, si devono sentire maggiormente offesi come individui, nel proprio personale rapporto con dio, dalla venuta del papa e dal discorso che fa il papa.
Perché mai dio ha bisogno per essere visibile sulla terra come fatto di un’organizzazione qual è la Chiesa, un’organizzazione di potere, perché mai il papa si deve arrogare questa rappresentatività? Ecco che cosa si deve chiedere il credente.
E, difatti, qual è il discorso che fa il papa, discorso che è venuto fuori recentemente nell’Enciclica sulla vita, cioè il discorso che pretende regolare le condizioni della vita nel mondo, il discorso che specialmente si indirizza alle donne? Qual è la posizione che la donna ha avuto sempre all’interno della Chiesa cattolica? In che modo, durante la sua storia millenaria, la Chiesa e quindi tutti i papi che l’hanno rappresentata fino a oggi, hanno considerato la donna? Ora, il papa, questo papa, il papa che verrà alla fine del mese, fa un discorso rivolto alla donna, un discorso fondato su di una concezione della donna – quella della Chiesa cattolica – in base alla quale la donna è considerata un essere subumano, un essere inferiore all’uomo. Dio creò l’uomo, dice la Bibbia. La donna è un accessorio dell’uomo, questa dottrina viene anche oggi seguita dalla Chiesa, non fatevi ingannare, donne che mi ascoltate. Quando la Chiesa cattolica porta l’esempio di Maria vergine, della “madonna”, come donna rappresentativa di tutte le donne, non è vero perché le caratteristiche che contrassegnano la madonna sono due: l’immacolata concezione e l’assunzione in cielo con tutto il corpo. Quindi, pensate, una donna che partorisce pur restando vergine e una donna che viene assunta in cielo, cioè nell’essenza estrema dello spirito, con tutto il corpo, caratteristiche che penso non appartengano a nessuna donna mortale. Quindi in che modo il concetto, la mitologia, la favola della “madonna” può rappresentare tutte le donne? La Chiesa in questo caso ha ingannato per duemila anni e continua a ingannare anche oggi tutte le donne. Il discorso che rivolge alle donne è il discorso che rivolge a esseri inferiori, secondo la Chiesa, esseri destinati alla riproduzione (a certe condizioni), incapaci di avvertire un desiderio personale, un progetto, uno scopo nella vita, soggetti invece all’uomo che dirige la famiglia, il nucleo essenziale attraverso cui la Chiesa penetra nella società e costruisce il suo progetto di potere.
La Chiesa è un’organizzazione di potere, è un’organizzazione che fa un discorso ai poveri per tenerli buoni, perché non si ribellino, perché accettino le condizioni in cui si sono venuti a trovare, perché si mettano al servizio dei ricchi. La Chiesa è un difensore dei ricchi, è una struttura di potere che non solo accetta la ricchezza, ma la giustifica, la esercita in proprio. La Chiesa non solo considera il capitalista come una persona che svolge un’attività proficua nella società, ma cerca di smussare gli aspetti peggiori del capitalismo e dello sfruttamento, non per risolvere il problema sociale, ma per permettere che lo sfruttamento persista e che persista quindi quella divisione tra sfruttati e sfruttatori all’interno della quale trova la sua naturale convenienza. La Chiesa, dicevo, giustifica la ricchezza perché è ricca essa stessa. Pensate alla banca della Chiesa cattolica, lo IOR (Istituto per le Opere di Religione, perché i preti come molti sanno hanno una particolare attitudine ed abilità per trovare parole ipocritamente sostitutive – perché mai una banca si dovrebbe chiamare Istituto per le Opere di Religione?). Questa banca, che era diretta da un certo monsignor Marcinkus, rubò non meno di 650 miliardi, perlomeno per quel che ricordo io, al banchiere del vecchio Banco Ambrosiano, Calvi, il quale poi una notte venne trovato impiccato a Londra sotto il ponte, strano a dirsi, dei monaci neri. A Londra, impiccato. Guai a chi presta soldi alla Chiesa, perché questo è stato il guaio del signor Calvi: prestare soldi alla Chiesa, ed un guaio ancora peggiore, un peccato ancora più grande è stato quello di pretendere di farseli tornare indietro.
La Chiesa quando si piglia i soldi non li torna indietro. Quindi, giustificazione della ricchezza per gli altri, esercizio della ricchezza in proprio. Il pellegrino di Roma, l’uomo del Vaticano, sofferente, vestito di bianco, tremante, traballante, non verrà qui soltanto a portare parole di pace, ma viene principalmente come rappresentante di una grossissima organizzazione di potere mondiale. Ecco che cosa viene a fare qua. Non stiamo facendo soltanto un discorso contrario alla religione, non è un discorso di astrattezze filosofiche quello che stiamo facendo qui. Dio c’è o Dio non c’è. Ognuno questo problema se lo risolve in separata sede. Stiamo facendo un discorso che riguarda la struttura della Chiesa come struttura di potere.
L’ordine sul quale si basa la Chiesa è ben caratterizzato da una delle sue più forti organizzazioni, cioè a dire dalla Compagnia dei gesuiti. Quando sant’Ignazio di Loyola organizzò per la prima volta la Compagnia dei gesuiti non la fece a modello delle compagnie di ventura del suo tempo, cioè a dire gli eserciti dell’epoca, ma la fece a modello di quella che era l’idea essenziale della Chiesa, della Chiesa come ordine militare. La Chiesa è costituita da maschi, da maschi i quali si prefiggono la conquista del potere attraverso un ordine fondato sull’obbedienza. La caratteristica di sant’Ignazio di Loyola e della Compagnia di Gesù è “l’obbedienza come un cadavere”; il sottoposto deve obbedire al suo superiore come un cadavere. Nemmeno fra i carabinieri io credo esista un livello di obbedienza di questo tipo, ma fra i preti sì, il prete deve obbedire al suo superiore come un cadavere, dice sant’Ignazio di Loyola. Questo vi fa vedere con che gente abbiamo a che fare, e questa gente costituisce un esercito di maschi, un esercito basato sulla violenza che storicamente si è realizzata in manifestazioni come quella che abbiamo documentato nella mostra.
Manifestazioni come quella dell’Inquisizione in cui la gente veniva torturata, in cui la gente veniva imprigionata, tagliata a pezzi, bruciata. Non sono eccessi che stiamo raccontando qui noi, sono addirittura riduzioni per far presto, per sorvolare, perché disgustano questi dettagli, commuovono l’animo ma, nello stesso tempo, queste nefandezze fanno spavento. I preti che realizzarono queste nefandezze che documentiamo con la mostra che abbiamo realizzato qui dentro il salone che sta alle mie spalle e che riguardano storicamente il fenomeno dell’Inquisizione sono dello stesso tipo, della stessa genìa, della stessa razza, sono la stessa conseguenza logica di quelli che siedono oggi in Vaticano. Il papa rappresenta costoro. Non è quindi una brava persona, sofferente, bisognosa del nostro aiuto e della nostra tolleranza, è una persona che rappresenta il potere. Ieri l’Inquisizione si chiamava Inquisizione, oggi la stessa Inquisizione, invece di chiamarsi Sant’Uffizio, si chiama Propaganda Fidei, cioè a dire propaganda della fede, ma la mentalità del cardinale che la dirige è identica. Non può impiegare gli strumenti di tortura che sono descritti qui dentro però penetra attraverso la tortura delle coscienze, capillarmente, attraverso quella struttura di potere che è rappresentata da ogni parrocchia che si trova in ogni piccola zona, in ogni piccolo paese, finanziata dallo Stato, perché lo Stato da questo ne ricava un gran beneficio.
Pagati dallo Stato, questi soldati neri di Cristo operano nelle coscienze, conquistano a poco a poco gli individui, li snaturano, gli tolgono la volontà di vivere, il piacere, la gioia della vita e hanno il coraggio di parlare di vita. E hanno il coraggio di parlare di vita. Sono questi contro cui indirizzare la nostra critica, non facciamoci ingannare dagli aspetti esteriori. Se noi pensiamo alle responsabilità storiche della Chiesa, per esempio nella guerra di Spagna, nella rivoluzione spagnola, la Chiesa ebbe il compito estremamente grave e di grande responsabilità di sostenere i fascisti, i golpisti di Franco che cercavano di abbattere la repubblica. In questo si schierò con tutte le sue forze che, nella Spagna di ieri, come in quella di oggi, sono ingenti. Si schierò dalla parte dei fascisti, si schierò dalla parte dell’esercito italiano invasore della Spagna, quindi anche contro gli anarchici che difendevano la libera organizzazione della Spagna. Questa è stata la responsabilità storica della Chiesa in Spagna e in moltissimi altri posti.
Quest’ordine militare fatto da uomini pretende quindi di imporre agli altri un modello di vita, e quale sarebbe il modello di vita se non quello della caserma? In che modo due persone che si amano, che mettono al mondo dei figli, possono vivere realmente la loro vita con gioia, oppure con sofferenza, a seconda delle situazioni, basandosi sull’insegnamento della Chiesa? Come possono vivere due persone che si amano con la presenza costante fra loro di questo terzo incomodo? Il prete, che continuamente entra nel rapporto nella loro coscienza, quindi nella loro vita, imponendo un modello estraneo del tutto lontano dai bisogni reali di quella coppia: soddisfazione dei propri desideri, dei propri impulsi, dei propri sogni, amore, libertà, ecc. Invece la logica esterna, voluta dalla Chiesa, deve entrare dentro. Siamo davanti a una aberrazione.
In fondo la Chiesa non vuole soltanto limitarsi a sostenere il potere, ad appoggiare i vari poteri, essa vuole conquistare il potere in proprio, gestirlo in proprio, potere basato in gran parte su scopi e fini di natura teologica, ma che non disdegnerebbe il fondamento teocratico del mondo.
Pensate alle responsabilità della Chiesa riguardo il razzismo. Sono loro che hanno cominciato a instillare nella gente il germe del razzismo. Mi si diceva ieri che Trento viene considerata dagli ebrei una città vietata in quanto gli ebrei di Trento sono stati sterminati tutti, fino all’ultimo. Qualche anno dopo il Concilio. Ora, mi si diceva che l’autore di questa operazione di pulizia etnica – queste parole le conosciamo tutti perché sono all’ordine del giorno in quanto è posta in atto quotidianamente in Bosnia e nella ex Jugoslavia – fu un cardinale di Trento che si chiamava Simonino. A questo signore venne intestata per questa bella operazione una strada che fino all’altro giorno, mi dicono, si chiamava via San Simonino, ma che adesso, in vista della commemorazione del Concilio, è stata modificata in via del Simonino. Si vergognano perfino del fatto di avere fatto santo un massacratore di questo genere, che aveva ucciso tutti gli ebrei di Trento. E perché li aveva massacrati? Per uno dei tanti motivi per cui gli ebrei sono stati spesso massacrati dappertutto, per togliere loro le ricchezze, perché considerati una razza inferiore.
Ma chi ha alimentato l’antisemitismo per tutti i secoli fino alle nefandezze di Hitler, chi ha alimentato la concezione degli ebrei come razza inferiore se non la Chiesa cattolica – gli ebrei come uccisori del Cristo, gli ebrei come deicidi. Quando si alimentano, quando si mettono in circolazione idee che criticano in questo modo un intero popolo, un’intera concezione di vita, un’intera parte dell’umanità, i risultati non possono essere altro che morte, guerra e distruzione.
Adesso verrà il papa a fare il suo discorso di pace, ma perché questo signore vestito di bianco che verrà alla fine del mese a Trento non ha mai detto nulla contro le industrie che in Italia producono le armi? Per esempio, non ha mai parlato contro la Oto Melara che produce i cannoni e i carri armati, non ha parlato mai contro l’Agusta che produce gli elicotteri, non ha parlato mai contro le industrie di armi che ci sono nella zona di Bergamo, di Brescia, contro la Breda che produce le bombe a mano e le piccole mine con le quali muoiono ogni giorno, in tutto in mondo, centinaia di bambini. Perché non si leva questa voce contro questo grave crimine in corso? Perché non dice nulla su questo argomento?
È logico che i motivi del suo silenzio ci sono. Per esempio la televisione ha portato oggi in tutte le case le immagini del massacro che c’è stato nel Burundi. Cadaveri a pezzi serviti all’ora di pranzo sulla tavola di milioni di persone allo scopo che tutti si potessero rendere conto di quello che stava per accadere in quel remotissimo paese. Ma sapete con quali armi sono state macellate queste ottomila persone? Con le bombe a mano fabbricate in Italia, con le bombe giustificate dalla nostra carissima e beneamata Chiesa cattolica, se non altro perché la loro fabbricazione dà lavoro a migliaia di padri di famiglia. Perché il papa non viene qui e fa un discorso contro le industrie delle armi? Perché è il capo di un esercito, di un esercito armato, di un esercito che giustifica la guerra, di un esercito che vuole conquistare il potere, di un esercito che ha lo scopo primario di assistere in questo momento il potere in carica, di sostenerlo, per poi coprire tutta la terra, secondo il concetto di evangelizzazione.
Grazie.
[Parzialmente pubblicato su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, pp. 10-11]
Comizio tenuto ad Ala. 25 aprile 1995
Questo mese verrà a Trento il papa di Roma, l’uomo del Vaticano verrà a Trento e si rivolgerà ad una stragrande quantità di persone, decine di migliaia. Forse più di cento, centocinquantamila persone sono di già sul piede di partenza, organizzate dalla Chiesa con pullman, treni speciali, dappertutto, per arrivare in Trentino, per arrivare a Trento e per vedere, e per sentire specialmente, la parola del papa.
Ma chi sono queste persone che verranno intruppate in offesa alla libera decisione di ogni individuo, chi sono queste persone che accetteranno di essere oggetto di organizzazione da parte dei preti? Sono delle brave persone, come quelle che abitano ad Ala, in questo vostro piccolo paese, e che se ne stanno tappate nelle loro case, quasi avessero paura di ferirsi le orecchie con qualche nostra parola critica nei riguardi dell’operato passato, presente e futuro del papa di Roma. E sono proprio queste persone che saranno portate come tante pecore ad ascoltare la parola del papa. Fra di loro ci saranno certamente tanti giovani, come qualche giovane imbecille che abbiamo visto sfilare nelle strade di questa bellissima cittadina, qualche vostro compaesano, orecchie tiepide che mi state ad ascoltare da dietro le imposte lontane e vicine di questa piccola cittadina, qualche giovane imbecille verrà anch’esso caricato con le sue idee datate, con le sue idee passate, con le sue idee di acquiescenza, di ubbidienza, di ordine. Questa gente andrà a vedere il papa.
Andrà ad ascoltare la sua parola. Cosa dire, in una piazza quasi deserta, davanti a un via vai di automobili che la solerzia delle autorità locali non è riuscita a impedire. Ecco quello che possiamo fare noi anarchici: un piccolo comizio, da soli a contrastare questa ondata immane, gigantesca, di spettacolarizzazione, di pubblicizzazione, attraverso la quale vi viene offerta la figura del papa. Siamo i soli in questo momento mentre a voi ancora rintronano le orecchie a causa della pubblicità delle recenti elezioni. Siamo i soli, gli anarchici, i soli a non chiedervi nulla, non vi chiediamo nulla per noi, non vi diciamo fate questo o fate quello, non vi diciamo quello che, come vi dirà sua santità, dovete fare, non vi diciamo fate questo per noi, vi diciamo semplicemente riflettete, ragionate con il vostro intelletto, con la vostra testa, e se non ci riuscite almeno ragionate con la vostra coscienza, e se non avete nemmeno quella fatevi intruppare, fatevi condurre dove volete come una volta vi conducevano al macello. Alla fine del mese, mie care giovani reclute, vi condurranno a vedere il papa, a toccare la sua santa benedetta veste.
Ma cosa vi dirà il papa? Qual è il discorso che farà? Lui è un pellegrino, una brava persona – ci dicono – una persona intelligente che cerca di portare la pace nel mondo, che cerca di parlare alle genti di tutto il mondo. Quindi, venendo a Trento il papa, molte coscienze si chiederanno: perché mai non andare a vederlo questo portatore di pace? Ma quale pace porta il papa? Quale pace può portare il principale responsabile di una grandissima organizzazione di potere quale è la Chiesa cattolica? Perché, non inganniamoci reciprocamente, amici che mi state ad ascoltare da dietro le persiane, tappati nel vostro religioso silenzioso, il papa non è una persona come tutte le altre, non viene qui un pellegrino di pace, malato, sofferente, che bisogna aiutare, accogliere, viene un portatore di guerra, viene un sostenitore del potere a livello mondiale, ecco che cosa è sua santità, ecco chi è realmente l’uomo del Vaticano.
Ha pubblicato recentemente, con tutta la forza mediatica della pubblicità vaticana, una “Enciclica”, cioè un’analisi, un saggio filosofico e teologico di notevole importanza e l’ha chiamata l’Enciclica sulla vita, cioè un discorso dedicato alle considerazioni personali del papa riguardanti la vita. Un discorso che chi lo legge non può non restare sbalordito. Io mi chiedo quante di queste tiepide coscienze che stanno adesso tappate dietro le finestre e quanti di questi giovani imbecilli che circolano nella cittadina di Ala credendo di farci paura hanno letto l’ultima “Enciclica” del papa. Questo documento contiene, come elemento più importante, un discorso rivolto alle donne. Il papa, quindi un maschio, capo di una struttura di potere, si sente in grado di insegnare qualcosa alle donne, di già il fatto stesso di per sé dovrebbe insospettire. E cosa dice alle donne? Dice qualcosa che è connaturato con la considerazione secolare, millenaria, che la Chiesa cattolica ha delle donne. La Chiesa cattolica ha sempre considerato le donne come esseri sotto-umani, come esseri sub-umani, e non fatevi ingannare, tiepide orecchie che restate dietro le persiane, quando la Chiesa vi parla della figura della “madonna”, perché la madonna non è una donna concreta, è una favola che si basa su qualcosa di radicalmente diverso da una donna. La madonna infatti si basa su due caratteristiche essenziali del proprio mito: la prima è l’immacolata concezione, la seconda è l’assunzione in cielo. Quindi la madonna partorisce un bambino pur restando vergine, questo è il primo dogma, il secondo recita che alla sua morte viene trasportata in cielo con tutto il corpo. Queste due caratteristiche assolutamente incredibili non appartengono a nessuna donna che noi conosciamo. Non è mai esistita una donna del genere. Quindi, in che modo la madonna, secondo la Chiesa, può rappresentare tutte le donne? Pertanto non rappresenta nessuna donna, e difatti la considerazione che la Chiesa ha delle donne è quella di esseri sotto-umani, di esseri inferiori che devono ubbidire al maschio, al marito, al capo della famiglia, che devono produrre figli, per la gloria della nazione, per il consumo economico, per lo sviluppo del capitale: questo è lo scopo della donna. E a questa donna il papa si rivolge, affermando il divieto dell’aborto, il divieto della contraccezione, ma con quale titolo mi chiedo? Con quale titolo, dei maschi, anzi il capo di una organizzazione maschile di potere, si rivolge alle donne facendo loro un discorso che parla della vita? Eunuchi che non hanno mai potuto generare nulla, se non la miseria e la morte, si rivolgono alle donne parlando in nome della vita. Ecco qual è la realtà, la straordinaria realtà.
Pensate che l’essenziale caratteristica della Chiesa cattolica è quella dell’ipocrisia. Questa gente non riesce mai a dire pane al pane, utilizza sempre un modo contorto di suggerire, delle perifrasi, gira attorno al problema, gioca con le parole. Nell’ “Enciclica” il papa acconsente, rende possibile, ipotizza, la fondatezza della pena di morte, ma lo dice con un giro di parole, eppure la carta stampata parla chiaro. Questo signore vestito di bianco portatore di pace viene qui pochi giorni dopo aver pubblicato un documento ufficiale, che è da considerare quindi quasi come un dogma della Chiesa, nel quale si giustifica la pena di morte. Pensate, nemmeno uno Stato come quello italiano, con la sua costituzione tutt’altro che libera, tutt’altro che progressista, ebbene, nemmeno lo Stato italiano è riuscito a ipotizzare l’impiego della pena di morte. Il papa sì. Il papa ritiene possibile e giustifica l’impiego della pena di morte. E qualunque altra forma di pena, di costrizione, dal carcere alla tortura, caposaldo costrittivo impiegato in tutta la storia della Chiesa e di comune utilizzo in qualunque caserma di polizia e carabinieri anche oggi, nella democratica repubblica italiana uscita dalla resistenza.
Purtroppo non abbiamo avuto modo, qui ad Ala, di far vedere la mostra che avevamo preparato sull’Inquisizione. Con tutte le descrizioni degli strumenti di tortura e con la riproduzione al naturale di alcuni di essi. Questa è la realtà della Chiesa, una realtà di morte, di giustificazione della ricchezza, perché non è vero che la Chiesa è stata sempre dalla parte dei poveri, al contrario, è stata dalla parte dei ricchi. Certo, li ha anche ammoniti suggerendo loro di pensare ai poveri, di non mangiare da soli, e il ragionamento della Chiesa in base al quale si è venuto sviluppando quello che si definisce pensiero economico del cattolicesimo è di mitigare gli estremismi del capitalismo, evitando di mangiare da soli, dando qualche povera briciola a coloro che non hanno niente. E questa è la dottrina che vuole lasciare le cose come stanno, perché a lasciare le cose come sono la Chiesa ha tutto il suo interesse.
Difatti, è proprio nel cogestire il potere, nel costituire la mano sinistra del potere, che la Chiesa trova il proprio motivo di esistere, il proprio fondamento, il proprio scopo. Guardate le ricchezze che essi possiedono, vi ricordate il nome dell’arcivescovo Marcinkus che gestiva ed era il direttore della Banca vaticana, lo IOR, che l’ipocrisia della Chiesa cattolica chiama Istituto per le Opere di Religione. Una banca, una grande banca internazionale, e questa banca aveva avuto i soldi di un certo signor Calvi, presidente del vecchio Banco Ambrosiano di Milano. Il povero Calvi, a un certo punto, li voleva indietro e invece di rientrare in possesso dei soldi è finito impiccato sotto uno dei ponti del Tamigi, che stranamente si chiama ponte dei “monaci neri”.
Certo, quest’uomo ha commesso un grave errore: quello di chiedere indietro i soldi alla Chiesa. Nessuno ha mai avuto indietro soldi prestati alla Chiesa cattolica. Sono sicuro che la metà delle persecuzioni che la Chiesa ha organizzato e guidato nella storia contro le minoranze ebraiche, erano motivate dal non volere restituire i soldi ricevuti in prestito. In queste persecuzioni morivano allo stesso modo gli ebrei ricchi e gli ebrei poveri. È là che nasce la radice del razzismo della Chiesa cattolica contro gli ebrei.
Pensate che la Chiesa cattolica ha combattuto gli ebrei fino all’altro giorno, ha assistito e fatto fuggire all’estero, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale (non tre secoli fa, ma l’altro giorno, cinquant’anni fa), ha assistito e fatto fuggire all’estero i responsabili delle SS che avevano ucciso nei campi di sterminio milioni di persone, perché in fondo la tesi estremista realizzata da Hitler nei campi di concentramento con l’eliminazione degli ebrei somiglia molto alla tesi altrettanto estremista che è stata sostenuta dalla Chiesa cattolica per tutta la sua storia.
Quindi, assistenza al potere, giustificazione della ricchezza, braccio sinistro del capitale, gestione in proprio degli affari, ecco che cos’è questa struttura di potere. Non dimentichiamo che è una struttura di maschi, una struttura militare. Quando Ignazio di Loyola organizza la Compagnia di Gesù, non la copia dalle compagnie di ventura molto comuni ai suoi tempi, ma la modella sulla tradizione cattolica dei secoli precedenti: un esercito di uomini la cui reciproca rapportazione si basa sull’obbedienza, ma non su una qualunque obbedienza – poniamo quella che si chiede a un carabiniere nei confronti dei suoi capi – no, ma una obbedienza particolare. Diceva Ignazio, il gesuita deve obbedire ai superiori “come un cadavere”. Ecco qual è l’obbedienza che la Chiesa cattolica chiede, e questa struttura di potere, questa organizzazione di maschi che si è prefissata di gestire e dominare il mondo, parla di pace. E il capo di questa struttura verrà alla fine del mese a Trento a parlarvi di pace.
Pensate, ed è l’ultima cosa che vorrei ricordare, la Chiesa è una struttura di maschi e come in tutte le strutture in cui ci sono solo maschi e dove i maschi convivono fra di loro, alcuni problemi vengono fuori. Pensate ai processi che ci sono stati in America dove è stata costituita un’organizzazione con cinquemila iscritti, i quali dichiarano di aver subìto tutti quanti lo stupro da parte di un prete. Questa organizzazione ha in America cinquemila iscritti, soltanto per quel che riguarda i preti cattolici. Ora, se pensate alle difficoltà che una persona, specialmente un maschio, ha di denunciarsi come vittima di uno stupro, potete pensare quanti di più sarebbero stati gli iscritti a questa associazione se ci fosse stata una mentalità diversa. Per riparare alle condanne che in America sono state pronunciate contro i sacerdoti responsabili di stupri sono stati spesi diversi e diversi milioni di dollari, secondo dichiarazioni dello stesso papa.
Pensate alla questione che è sorta l’altro giorno in Austria, dove il cardinale primate di Vienna, quindi la persona più importante in quel che si considera il baluardo che la Chiesa cattolica oppone ai popoli di fede protestante, pubblicamente ha dovuto ammettere il “peccato” di stupro nei confronti di alcuni seminaristi. Perché mai il papa ha lasciato uno stupratore a dirigere la Chiesa cattolica più importante per quel che riguarda l’Europa centrale? Perché questo cardinale è un conservatore, cioè un fedele esecutore delle idee personali del papa. Il papa in persona ha imposto questa scelta.
La Chiesa è un esercito, un gruppo di uomini dedito alla conquista del potere, mano sinistra del capitale, per il momento sostegno delle strutture di potere in carica. Ma lo scopo di questi uomini è quello di organizzare il potere a livello mondiale della stessa Chiesa cattolica, un potere religioso, un potere integralista, un potere uniformizzante che finirebbe, se realizzato, per trasformarci tutti in pecore, come saranno sicuramente pecore tutti coloro che andranno a vedere il papa alla fine del mese a Trento.
[Parzialmente pubblicato su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, pp. 12-13]
Comizio tenuto a Rovereto
27 aprile 1995
Comizio anarchico, in una piccola piazza di Rovereto, per parlare di un problema importante: la venuta del papa in Trentino. Un problema sul quale si riverserà l’attenzione di tutte le televisioni, di tutti i giornali mondiali.
Quale strana differenza. Non solo in quello che diciamo e che pensiamo, differente da quello che dice e pensa il papa, ma anche nel modo stesso in cui questa differenza viene alla luce. Attraverso quali mezzi e in quali condizioni oggettive riusciamo a esprimere le nostre idee. Parliamoci chiaramente: a noi il papa non piace.
Questo concetto, così semplice, evidentemente non ha trovato non solo terreno per potere attecchire dalle vostre parti, ma non ha trovato nemmeno quell’apertura mentale che ci saremmo aspettati. Ha trovato invece la particolare, oculata, occhiuta attenzione degli organi repressivi. Sono quasi dieci giorni che siamo qua, nella zona, e sistematicamente, ogni giorno, veniamo fermati dalla polizia, dai carabinieri, dai vigili urbani (forse a questo elenco mancano le guardie svizzere del papa). Veniamo fermati, identificati, intimiditi, seguiti, anche di notte. Veniamo fermati, le nostre borse vengono aperte. Siamo costantemente sotto la pressione di questi signori in divisa inviati dal potere che li paga e obbligati a pensarla come vuole il padrone.
Io mi chiedo: se a qualcuno il papa non piace, perché mettergli a fianco un poliziotto? Forse che un’idea così semplice, la semplice discordanza sul piano delle idee, può determinare immediatamente la messa in moto di tutto l’apparato repressivo? Oppure, mi chiedo, e penso che ogni persona dalla corretta coscienza e dal corretto modo di pensare se lo chieda, dietro un’idea del genere si può nascondere altro? Per quale motivo se a me il papa non piace l’autorità comincia a preoccuparsi? Perché non piacendomi il papa, potrebbe anche essere che non mi piace nemmeno lo Stato, che non mi piace l’autorità, che non mi piace l’autorità in tutte le sue forme, dalla massima autorità statale al povero carabiniere che sta all’angolo della strada laggiù e che in questo momento – almeno così sembra – sta seguendo il mio discorso.
Ecco quale sospetto sollecita questo vasto impianto repressivo contro di noi, puntuale repressione, repressione sistematica. Come possono, mi chiedo, una decina, forse una ventina di compagni anarchici, che dicono unanimamente: “a noi il papa non piace”, come possono destare la preoccupazione di un meccanismo repressivo che per quello che leggiamo sui giornali stamattina conterà non meno di cinquemila poliziotti di ogni genere, mobilitati da tutto il Trentino e dalle regioni confinanti (anche i pompieri e le strutture militari in senso specifico). Perfino la sanità è stata mobilitata e lo saranno anche le guardie svizzere.
Come può un povero pellegrino, che veste l’abito della sofferenza, personale e simbolica, come può un povero pellegrino richiedere questa grande mobilitazione? Un miliardo e mezzo, si legge sui giornali di oggi, è costata alla vostra comunità questa visita gradita del sommo pontefice. Un miliardo e mezzo mentre la gente continua a morire di fame dappertutto nel mondo, un uomo solo, che viene semplicemente per recitare una liturgia senza senso, una liturgia che secoli di oppressione hanno privato di significato, un uomo solo viene e costa un miliardo e mezzo alla vostra comunità. Non contando il costo oggettivo di tutto il resto: i cinquemila poliziotti, il seguito del papa, il trasporto della macchina blindata, il controllo del territorio, ecco che cosa significa la venuta del papa in Trentino, ecco qual è il profondo significato di un pugno di compagni anarchici, dieci, venti, trenta, che vanno in giro nelle vostre zone, gridando apertamente: “a noi il papa non piace”. A noi il papa non piace come rappresentante della Chiesa cattolica, come rappresentante di un potere terreno, concreto, come braccio sinistro del potere statale, come rappresentante della religione in quanto oppressione. E che cosa potrebbe dirci il papa? In questo momento, per esempio, mi dicono che la Digos sta filmandoci da dietro un angolo della casa in fondo a questa piazza. Lo scopo è quello di intimidirci e di inchiodarci alle nostre responsabilità che, in questo momento, sono quelle di salvare il salvabile della mostra visto che sta piovendo a grossi goccioloni.
Quindi, un potere repressivo che si camuffa da portatore di pace. Il papa viene qui a fare un discorso di pace, e questa è l’apparenza, in effetti qual è la realtà, il sostegno del potere. Ecco perché a noi il papa non piace. Ecco perché abbiamo preparato una mostra che sottolinea quelli che sono gli aspetti estremi della repressione della Chiesa cattolica nei secoli passati.
Inquisizione non vuol dire qualcosa che è esistita un tempo e che adesso non esiste più, ma significa l’impiego di un metodo repressivo che utilizzava il carcere e la tortura per estorcere confessioni assolutamente infondate, per distruggere la diversità. Per esempio, nelle vostre zone, nella zona di Nogaredo, cinque povere donne sono state uccise, decapitate e bruciate. Le cosiddette streghe di Nogaredo. Di che cosa erano responsabili? Assolutamente di nulla, si inserivano praticamente all’interno di una comunità che stava risvegliandosi alla dimensione del lavoro, attraverso le nuove manifatture della seta e così via. Certamente questa comunità metteva paura per le richieste che poteva fare per migliorare le proprie condizioni di lavoro a domicilio, perché erano tutte lavoratrici a domicilio e tutte donne. Vengono inquisite, torturate, obbligate a confessare, decapitate e quindi bruciate. Altre otto persone vengono condannate a morte, sempre a Nogaredo, e scampano soltanto fuggendo via in altre zone, due altre persone muoiono in carcere.
Questo è un esempio a poche centinaia di metri da casa vostra, ma appartiene a quella che è la storia costante della Chiesa, la storia che oggi si ripresenta come difesa della ricchezza, come difesa del potere. Pensate alla ricchezza della Chiesa. Per esempio il problema clamoroso dell’Istituto delle Opere di Religione, come con una definizione ipocrita la Chiesa chiama la sua banca personale, banca importantissima che gestisce migliaia di miliardi. Pensate a come questa banca qualche anno fa è stata gestita da un arcivescovo di santa romana Chiesa, Marcinkus, il quale si è impadronito di circa 650 miliardi del vecchio Banco Ambrosiano, e pensate anche alla fine che ha fatto Calvi, impiccato sotto un ponte di Londra, il ponte dei “frati neri”. Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che non è possibile prestare soldi alla santa romana Chiesa come ha fatto il Banco Ambrosiano e pretendere di averli indietro, questo significa andare incontro a grossissimi problemi, e Calvi lo aveva anche scritto prima di morire che si sentiva minacciato. Significa che la Chiesa gestisce i soldi con lo stesso stile di qualunque altro capitalista rapace che utilizza la sua dimensione di manipolatore dello sfruttamento altrui.
Questa è la realtà della Chiesa, invece il papa viene qua, verrà alla fine del mese, e farà un discorso di pace, farà un discorso che rifletterà le tesi contenute nell’Enciclica sulla vita, nell’ “Enciclica” dove ha condannato l’aborto, dove ha condannato la contraccezione, ma dove ha invece continuato a difendere la pena di morte. Pensate, l’unico potere oggi ufficiale che difende teoricamente, moralmente, astrattamente la pena di morte è proprio quello rappresentato dal papa; nemmeno lo Stato italiano, con la sua triste Costituzione che ripresenta tutte le caratteristiche repressive del passato, è riuscito a giustificare la pena di morte, ma il papa la giustifica, e questa persona, questo esponente di un’organizzazione di maschi, di un’organizzazione militare di maschi qual è la Chiesa cattolica, intende dire alle donne come devono comportarsi, se possono o non possono abortire, se possono o non possono usare i contraccettivi.
Invece nulla il papa ha mai detto riguardo altri problemi, riguardo per esempio le industrie belliche italiane e straniere, le industrie che producono i carri armati Leopard alla Oto Melara, che producono gli elicotteri alla Agusta, che producono le armi alla Breda, che producono mine nella zona di Brescia, di Bergamo, le piccole mine con le quali vengono uccisi giornalmente centinaia di bambini in tutto il mondo. Il papa ha parole di sdegno per la guerra fratricida in Jugoslavia, ma non dice nulla su chi commercia, su chi produce, su chi guadagna sulle armi impiegate in quella guerra. Perché non dice nulla? Non dice nulla perché la Chiesa cattolica, come struttura di potere, è essa stessa il braccio sinistro di quelle strutture che producono le armi, che commerciano e diffondono le armi. Ora, questo discorso di pace che il papa verrà a fare dalle vostre parti evidentemente dovrebbe essere filtrato attraverso una luce critica da parte di chi lo andrà ad ascoltare. Perché è un discorso offensivo non soltanto nei confronti di chi non crede, come il sottoscritto, come i compagni che hanno organizzato questa mostra, che sono costantemente oggetto della repressione come abbiamo visto – siamo stati anche filmati dai signori della Digos –, non è quindi offensivo soltanto nei confronti dei non credenti questo discorso pretestuoso, ma anche nei confronti dei credenti, quelle persone per le quali la religione è un fatto personale. Spesso un fatto vissuto in modo inquietante, in modo possibile, non come una banale certezza. Invece il papa parla a nome di una organizzazione di potere che pretende utilizzare le coscienze allo scopo di organizzare il mondo in una prospettiva di appiattimento, di adesione, proprio quelle condizioni elaborate dall’ordine costituito. Ecco cosa verrà a dire il papa a Trento, tra pochi giorni, alla fine del mese, fra due giorni.
Ecco cosa abbiamo cercato di fare in questi giorni con questa mostra, andando in giro. E cosa abbiamo trovato invece come risposta: il disinteresse, il sospetto spesse volte, l’attenzione della polizia, qualche sporadica adesione di qualche persona la quale diceva sì, anche a me il papa non piace. Molti laici, molti anticlericali che hanno strombazzato in passato le loro teorie presunte oggettive di condanna della religione, adesso come tiepidi conigli stanno da parte, si nascondono, venendo il papa volgono la testa dall’altro lato, fanno finta di non vedere. Quando poi il papa sarà andato saranno tutti anticlericali, tutti mangiapreti, tutti strangolapreti. Ecco, di tutti questi mangiapreti non abbiamo cosa farcene, perché sono anch’essi una forma indiretta di sostegno della religione in quanto sì, sono disposti a mangiarsi i preti, ma non vogliono far nulla per quello che significa in effetti la religione, cioè a dire il sostegno, il concreto sostegno dell’autorità in carica.
Ecco, sono questi i discorsi che andrebbero fatti. Ma quali sono le possibilità di approfondirli? In che modo possiamo farli se non circondati in una piccola piazza come questa dalle attenzioni della polizia? Questo è il vero problema, non quello di non riuscire a parlare. Questa gente non riesce a intimidirci, noi riusciamo a dire le nostre idee, però nello stesso tempo queste idee restano recluse qui dentro, mentre fra qualche giorno una reboante, mostruosa organizzazione pubblicitaria farà parlare l’uomo del Vaticano e vi dirà parole di pace. Bene, dormiteci sopra, su queste parole di pace, perché sicuramente prepareranno la guerra del futuro, la guerra dei prossimi anni.
[Parzialmente pubblicato su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, pp. 20-21]
L’idea di Dio come fondamento dell’autorità
Il discorso di questa sera ha due aspetti: Dio e l’autorità. Questi due elementi spesso non sembrano collegati bene insieme. Specie in epoca moderna, le vittorie della scienza, le conquiste dell’uomo, la capacità dell’uomo di prevedere il suo futuro, dentro certi limiti, hanno creato la diffusa opinione che di Dio non c’è più bisogno, che è stata una parentesi dell’umanità, che il problema di Dio è definitivamente risolto. In breve, che Dio è morto.
In effetti molti di noi, non credenti, a sentire questa buona novella della morte di Dio si sono rincuorati e hanno pensato: se Dio è morto, le cose non possono che andare meglio. Questa immaginazione, questo fantasma così pesante, che ha accompagnato la storia dell’uomo, è una creazione dell’uomo, è creato dall’uomo, dai bisogni dell’uomo, dalle idee che l’uomo ha in merito a quelle che sono le sue incertezze, le sue difficoltà nel prevedere il futuro. All’origine dell’idea di Dio c’è quindi certamente un bisogno di tutela che l’uomo avverte. Ora, questo bisogno di tutela è finito? Ci si chiede: l’uomo ha finalmente davanti a sé un futuro realmente libero, un futuro positivamente visibile, oppure il suo futuro è ancora peggio di quanto poteva accadere in passato, ancora più incerto?
Ecco quindi che l’idea di Dio ritorna un’altra volta, diventa pericolosa un’altra volta. Ecco quindi che di questa idea non ci si può sbarazzare soltanto dichiarandola inesistente o dimostrandola infondata, perché non è mai esistito un fondamento reale di Dio e quindi non basta una critica razionale dell’esistenza di Dio, non basta dimostrare completamente, attraverso il procedimento della ragione, la non esistenza di Dio. Non basta nemmeno dimostrare, far vedere, come storicamente questa idea è servita, di volta in volta, a fondare le più diverse strutture di potere, a giustificare le nefandezze dell’autorità reale, storicamente realizzata, non basta nemmeno una critica dell’attività repressiva, preventiva e successiva, della Chiesa. Occorre qualche cosa di più, occorre capire perché l’uomo ha, a un certo momento, avuto bisogno di immaginarsi l’esistenza di questo essere immaginario, di questo essere fantastico.
Per esempio, riflettete un momento sul fondamento della ragione del pensiero moderno, lasciamo stare le basi di ragionamento del pensiero precedente, del pensiero moderno come nasce, per esempio, con Cartesio, con la filosofia razionalista, ovvero la filosofia che vuole conquistare il mondo, che vuole capirlo, spiegarlo. Questa filosofia parte dal dubbio, e quindi mette in dubbio tutto quanto, mette in dubbio la realtà, mette in dubbio la materia, mette in dubbio il rapporto di causalità, mette in dubbio il fondamento su cui si era basato il pensiero precedente. L’unica cosa che Cartesio non mette in dubbio, se vogliamo capire questo piccolo problema, è il fatto stesso di pensare. Lui diceva: se io penso ho la prova di essere, se io penso, dunque, sono. E da questa piccola cosa, cioè a dire dal proprio Io, per la prima volta, la filosofia moderna si apre allo sviluppo del pensiero critico quindi anche allo sviluppo del pensiero precedente, del pensiero di Dio, dell’esistenza di Dio. Ma, come dice Cartesio stesso, a un certo punto gli viene incontro un ostacolo. Che cosa mi garantisce – dice, pensate bene, il fondatore di ogni futuro modello di filosofia razionalista, il capostipite di tutti i laici –, che cosa mi garantisce che la realtà non mi inganni? Quando sono sveglio se penso una formula matematica so con certezza – dice Cartesio, che era anche un matematico –, so con certezza cosa sto pensando, però – continua – anche durante la notte, mentre dormo, mi sogno le formule matematiche e quindi, siccome il sonno è per definizione la sede dell’inganno, della non realtà, non è questa la strada per poter dimostrare che cos’è la fondatezza, la realtà, la verità. E quando, continua sempre il nostro amico razionalista, e quando io dico due più due è uguale a quattro, che cosa mi garantisce la certezza che invece nella realtà concreta due più due non sia uguale a cinque, che cosa mi garantisce, per usare le sue stesse parole, che nella realtà non ci sia un diavoletto maligno che tutte le volte che io dico due più due mi fa dire quattro mentre invece nella realtà due più due è uguale a cinque? A questa domanda non c’è risposta e il pensiero razionalista gira intorno. A un certo punto anche il fondatore del pensiero razionalista deve ammettere che per fondare questo ragionamento ha bisogno dell’idea di Dio. Cartesio dice: Dio è sempre sommo bene, non può avere avuto come scopo l’inganno sistematico della sua creatura (cioè l’inganno che tutte le volte, invece che due e due fa cinque – come è nella realtà – gli fa dire che fa quattro) e quindi siccome Dio è sommo bene, vuol dire che è vero che due e due fa quattro e non cinque.
Come capite, con questa dimostrazione di Cartesio, a un certo punto il razionalismo annega un’altra volta nella fede in Dio. Va be’, non è vero che soltanto Cartesio ha commesso questo errore, o se vogliamo ha avuto questa debolezza, è che in effetti qualunque discorso che pretenda di ricercare la verità con i mezzi soltanto della ragione incontra un ostacolo. Incontra l’ostacolo dell’imperfezione dell’uomo, incontra l’ostacolo dell’incertezza dell’uomo, perché l’uomo non è affatto sicuro di sé, non è affatto l’uomo che conquista il mondo, ma è l’uomo che lo aggiusta. Tutte le cose che l’uomo fa sono tentativi di prevedere il futuro. La scienza moderna, per esempio, ha avuto la grande capacità di svilupparsi e di poter prevedere il futuro (perché il motto della scienza moderna è “vedere per prevedere”, cioè esaminare, approfondire per poter prevedere il futuro).
Il rischio più grosso per l’uomo è quello di non sapere che cosa accadrà domani mattina. In effetti noi non sappiamo cosa accadrà domani mattina (la morte potrebbe arrivare improvvisamente, come un ladro nella notte, e non ce ne accorgeremmo, perché la morte ci prende sempre di sorpresa), non riusciamo cioè a sviluppare la nostra vita in funzione di un programma reale che non sia contemporaneamente anche un programma illusorio.
Ora, la scienza come antidoto contro questo rischio ha avuto i suoi successi, certamente. Ha conquistato il mondo, l’ha trasformato, lo ha deturpato, lo sta distruggendo. Ma che cosa ha fornito all’uomo? Ha fornito una verità sostitutiva. In che cosa si differenzia sotto questo punto di vista l’ateo dal credente? Guardate, non sono concetti assurdi. Che differenza c’è tra un ateo che crede nella scienza e un credente che crede in Dio, se a tutti e due questi uomini, l’ateo e il credente, la rispettiva fede – la fede scientifica dell’ateo e la fede mistica e religiosa del credente – servono a uno scopo solo: sopportare nel miglior modo l’incertezza del domani, mettere a tacere la paura?
Questo significa che noi non possiamo realmente sviluppare una critica dell’idea di Dio se non facciamo contemporaneamente una critica delle conseguenze che l’idea di Dio ha avuto nella vita di tutti i giorni, nella realtà in cui viviamo, nella storia in cui siamo immersi, quindi nella realtà sociale, economica e politica. Non è affatto vero che sono due sfere completamente separate. Non si può chiacchierare impunemente dell’idea di Dio se non si ha nello stesso tempo la capacità di riportare queste chiacchiere nella realtà contemporanea, nella realtà in cui ognuno di noi vive.
Tenete presente che il prete, e anche l’uomo del Vaticano, l’uomo vestito di bianco, seguono anche loro questa realtà, perché non è vero che parlano soltanto di Dio, anzi parlano pochissimo di Dio. In questi ultimi quarant’anni il loro parlare di Dio è molto diminuito. Loro parlano in termini di prescrizioni concrete, di comportamenti. Si sentono delegati a tutori della morale, del modo di vivere degli uomini in generale, quindi il loro non è affatto un discorso di natura teologica, è un discorso di natura totale, completa, perché la religione ha la funzione sociale di sostegno della struttura dell’autorità, tant’è vero che una autorità che avesse la capacità di espellere fuori di sé la struttura storicamente determinata di una qualsiasi religione, come è accaduto poniamo nell’Unione Sovietica, dove per decreto è stata abolita la religione, o in Albania o in Cina se non sbaglio, dovrebbe sostituire il processo di sostegno fornito dalla religione, storicamente convalidato e perfettamente funzionante, con un processo alternativo. Cioè nell’Unione Sovietica il compito di sostegno dell’autorità, che veniva svolto in massima parte dalla religione ortodossa, venne sostituito dall’ideologia comunista, cioè a dire dalla rivoluzione proletaria da esportarsi in tutto il mondo e così via, e se voi fate attenzione alcune caratteristiche di natura finalistica, in termini di scopi da raggiungere, ecc., nella ideologia comunista stalinista-leninista hanno aspetti che ricordano la funzione di sostegno che la religione svolge nei Paesi non comunisti e adesso in quasi tutto il mondo.
Quindi lo Stato ha bisogno della religione, l’autorità necessita della religione, quindi il laico sostenitore di una certa gestione dello Stato è uno che si imbroglia con le sue stesse mani, non ha chiaro quello che deve fare, perché prima o poi qualunque uomo politico – quali possano essere state le sue idee in passato, anche le più estreme, contro la religione –, nel momento in cui arriva a dirigere o a gestire o a compartecipare alla cosa pubblica a livello politico, sociale ed economico, deve accettare l’idea di Dio, deve accettare il rapporto con la religione. Pensiamo al semplice caso di Mussolini che da ateo finisce per accettare, per utilizzare come strumento di potere, la religione. Quindi la religione, anche se l’uomo politico non è un credente, ma poniamo un ateo, finisce per essere accettata come strumento di potere, come strumento di dominio, come elemento che concorre a rendere possibile l’autorità.
Ecco perché è importante la lotta contro la religione. Non è la lotta contro un’idea. Molti commettono questo errore e giustamente propongono agli atei, agli anticlericali, una domanda che non ha risposta: come si fa a combattere un’idea? Ecco, non è possibile combattere un’idea, perché se la religione è nel cuore dell’uomo, se dentro di lui si nasconde questo bisogno di credere in qualcosa, questo profondo desiderio, questo bisogno e questo desiderio non si scalzano con le chiacchiere. Possiamo parlare fino alla fine dei giorni, non riusciremo a convincere la gente a non credere se sente il bisogno di credere.
Pertanto noi possiamo percorrere due differenti strade. La prima, è la critica dell’autorità e quindi del rapporto tra autorità e religione. La seconda, è la critica del modo in cui la religione penetra nella coscienza. La strada principale è quella della trasformazione della realtà, perché si abbia sempre meno bisogno di Dio, perché l’idea di Dio si rinsecchisca e diventi soltanto un ricordo o una semplice idea o opinione che ognuno è libero di tenere dentro di sé dal momento che essa non ha più le sue conseguenze letali che ha oggi sul piano sociale.
Ma occorre intenderci chiaro. Quando noi parliamo con chiarezza di anticlericalismo, quando noi parliamo di ateismo, parliamo di lotta ai preti, parliamo di lotta alla Chiesa, di lotta contro l’uomo del Vaticano, va benissimo, così come quando parliamo di ateismo, parliamo della non esistenza di Dio. Ma non facciamo scomparire i preti, non facciamo scomparire l’uomo del Vaticano semplicemente perché diciamo questi sono responsabili di tutte le nefandezze della storia. Non scompaiono, essi sono là.
Occorre fare altro perché questo avvenga, occorre contribuire a un processo di natura rivoluzionaria, alla trasformazione profonda della società. Perché scompaia l’uomo del Vaticano, non basta dimostrare con le parole la sua non utilità, la sua illegittimità, la sua irragionevolezza. Non è solo questa la strada. Cioè, tutto è possibile: le discussioni, gli approfondimenti, anche l’ateismo tradizionale è interessante. I teologi si sono sforzati per anni, per decenni, per secoli, di dimostrare l’esistenza di Dio. Così, dedicare la nostra attività, sia pure in parte, a dimostrarne la non esistenza può essere importante. Ma con questo non scompare l’idea di Dio, perché, come diceva Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non comprende e l’uomo che soffre, l’uomo che ha problemi, che vive in una società piena di contraddizioni, ecc., che sente dentro di sé il bisogno di credere in qualcosa e vede quello che c’è all’esterno (l’appiattimento dei valori, l’assenza di qualunque comportamento che possa significare qualcosa, l’assenza della speranza, l’assenza del futuro), un uomo di questo genere, incerto, sballottato fra i guai della vita, ecco provate a convincere una persona in queste condizioni della non esistenza di Dio. Credo non ci sia compito più difficile e nello stesso tempo più inutile, perché non è questa la strada da percorrere.
Quindi, se la Chiesa come concretizzazione terrena è storicamente identificabile, e in modo particolare la parte più reazionaria di questa Chiesa, che è certamente il clero cattolico dominante (quindi in modo particolare anche i suoi rappresentanti, il personaggio che verrà qui in Trentino nei prossimi giorni), se questa Chiesa svolge un ruolo, lo svolge come sostengo all’autorità. Non è un caso che la Chiesa sia così attenta a tutti gli svolgimenti e a tutte le trasformazioni politiche che si vanno realizzando. Tutte le chiacchiere che fa sulla pace sono tutte una copertura perché nascondono gli appoggi che essa politicamente va fornendo nelle varie situazioni in cui i suoi interessi sono presenti.
La Chiesa è anche una grossa struttura di potere, perché è una grossa struttura che maneggia e fa circolare un grande quantitativo di soldi. È importante la concezione dei soldi per la Chiesa, la ricchezza è fondamentale. La Chiesa è la spalla, la mano sinistra del capitale. La struttura di potere è costituita principalmente da soldi, non è costituita soltanto da chiacchiere, non è costituita dagli ideologi. Gli Stati si basano sulla loro capacità di usare e impiegare i capitali, gli eserciti, i soldati, la polizia, le strutture repressive, le carceri, i magistrati e i tribunali. Ma questi non esisterebbero se non ci fossero i soldi per mantenerli. Ora, la Chiesa mette in circolazione accanto agli Stati questa sua capacità non solo di gestire il denaro ma anche di giustificarne l’uso. La Chiesa fornisce non solo una circolazione di soldi, ma anche la giustificazione della ricchezza, perché non è affatto vero che il capitalista si acquieti nella circolazione dei soldi e nel fatto di possederli e di impiegarli. Spesso occorre un sostegno di natura etico-morale e la Chiesa glielo costruisce apposta: giustifica la ricchezza, ne giustifica l’impiego, come giustifica l’impiego repressivo, come giustifica qualunque struttura di potere fino ad arrivare a giustificare, se si legge attentamente l’ “Enciclica” che è uscita qualche giorno fa, l’ultima “Enciclica” del papa che parla appunto della vita, fino a giustificare la pena di morte, sia pure in casi particolari.
Quindi, la struttura di potere della Chiesa fa vedere come essa abbia completamente negato quello che era il suo discorso iniziale, il discorso del cristianesimo delle origini, dalle caratteristiche ben diverse. Da un cristianesimo che si basava sulla povertà, che si basava sul rifiuto della ricchezza, sulla bontà morale ma anche pratica, che si basava sulle comunità, ecc., da questo, è passata alla giustificazione della ricchezza, alla costruzione del potere, alla partecipazione al potere. Quindi, qualunque ragionamento critico che oggi possiamo impostare su Dio, sulla Chiesa, ragionamento fondato sull’ateismo e sull’anticlericalismo, deve contenere, secondo me, questo principale elemento che è insito nella struttura della Chiesa: il suo appoggio all’autorità.
[Conferenza tenuta a Rovereto, 20 Aprile 1995. Pubblicata su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, pp. 22-27]
Chiesa e potere
La conferenza di questa sera è su “Chiesa e potere”, comincio direttamente e quindi scusate se entro subito in argomento.
Ieri, a Rovereto, abbiamo fatto una prima conferenza su questi argomenti, cioè a dire sul tentativo di mettere sotto una certa angolazione critica la futura e breve venuta del papa, e abbiamo parlato del rapporto tra l’idea di Dio, il concetto di Dio, e l’autorità. Stasera vediamo di approfondire meglio, nella concretezza, cosa vuole dire la Chiesa come organizzazione, l’organizzazione della Chiesa cattolica in modo particolare, e che cosa vuol dire, come funziona nello specifico, in quanto struttura di egemonizzazione della religione, del sentimento religioso, come trasformazione di questi sentimenti in organizzazione istituzionalizzata e come supporto al potere attuale e a quello che si è andato realizzando nelle sue varie manifestazioni nel corso della storia.
La Chiesa come organizzazione è una struttura molto rigida, molto efficiente, ed è molto diversa se la si osserva nei vari momenti della sua storia, non è sempre stata così come la vediamo oggi, cioè con una capacità organizzativa e di gestione finanziaria, economica e politica a livello mondiale. Spesso si è rimpicciolita, è stata costretta a difendersi, altre volte si è allargata, è stata anche in grado di dettare condizioni, progetti politici e quindi di egemonizzare l’andamento della gestione del potere a livello mondiale. Ma in queste sue variazioni ha mantenuto sempre un costante intento preciso: il dominio del mondo, né più né meno. Certamente la Chiesa non si prefigge una compartecipazione al potere, si prefigge la gestione assoluta del dominio del mondo attraverso il controllo delle coscienze. Detto fra le righe o detto apertamente, rappresentanti autorevoli della Chiesa, e lo stesso papa, parlano ovviamente in termini molto semplici di evangelizzazione, di portare il Vangelo, o la loro interpretazione del Vangelo, tra le genti, di unire il mondo in una unità che è la stessa a cui faceva riferimento Gregorio Magno quando diceva che ogni autorità viene da Dio e quindi tutti i rappresentanti dell’autorità, tutti quelli che detengono l’autorità politica, ecc., sono sottoposti alla Chiesa. Questa è l’idea della Chiesa, questa è l’idea del papa e a parlare di questo viene il papa in questa città di Trento, solo che non può dirlo chiaramente.
Ecco perché fra le righe dell’ultima “Enciclica” si può leggere un certo senso di accomodamento, di diminuzione della rigidità classica della dottrina cattolica e della dottrina cristiano-cattolica. Però il cristianesimo, se mi consentite un piccolo passo indietro, ha dovuto alle sue origini, quando è nato e si è sviluppato come fenomeno sociale, come fenomeno avente caratteristiche estremamente diverse dal contesto in cui si andava diffondendo, ha dovuto affrontare problemi assai complessi. Non soltanto quello che tutti conosciamo della repressione, e così via, ma anche il problema della interpretazione del rapporto che esiste tra la struttura Chiesa, che all’inizio ovviamente era molto differente da quella di oggi, e il problema della ricchezza.
Essenziale è, agli inizi del pensiero cristiano e dell’attività di diffusione del pensiero cristiano delle origini, la risoluzione del problema della ricchezza, perché per diverso tempo, per quasi due secoli e mezzo, il problema della ricchezza rimase in bilico tra la giustificazione e la condanna. Possiamo leggere testi di Padri della Chiesa che condannano assolutamente, da Giacomo in poi, la ricchezza. Testi terribili, in cui si parla in modo molto duro, e anche nel Vangelo stesso ci sono dei passi in cui si parla in modo molto duro nei confronti della ricchezza, e testi invece che, a poco a poco, cominciando da Clemente di Alessandria, ecc., giustificano o tentano di giustificare la ricchezza. Ma perché il primo teorico cristiano degli inizi che giustifica la ricchezza è Clemente di Alessandria? Perché Alessandria è una grande città, una città commerciale, e siccome l’evangelizzazione dei nuovi popoli avveniva a livello di massa non si poteva suggerire da parte della Chiesa alle nuove ricche comunità commerciali la messa in comune di tutti i beni come avveniva prima, durante la formazione delle comunità primitive cristiane, e conseguentemente a poco a poco cominciano queste critiche alle antiche comunità fondate appunto sulla comunione dei beni. All’interno delle strutture organizzative del cristianesimo si comincia a giustificare la ricchezza, rispondendo in questo modo alla richiesta di chi voleva diventare cristiano ma non voleva mettere in comune i propri beni (molte erano le persone che possedevano ricchezze considerevoli).
Lo sviluppo di questa linea interna alla Chiesa cristiana dei primi secoli, che si concluderà poi, con molteplici contraddizioni, nel pensiero di Agostino che giustifica pienamente la ricchezza, è parallelo alla diffusione della struttura della Chiesa primitiva, del cristianesimo primitivo, a livello di massa fino al riconoscimento da parte del potere. Questa duplice azione fa vedere di già come fin dagli inizi esiste un dibattito all’interno della Chiesa: la religione come strumento del regno, come strumento del potere, e la religione come questione di natura personale, rapporto personale con Dio.
Fin dagli inizi il cristianesimo stabilisce un processo di natura oggettiva, cioè a dire i rappresentanti di Dio sulla terra si pongono come intermediari nei riguardi di tutti quelli che sono legati alla struttura della Chiesa. Essi gestiscono la propria rappresentanza in maniera oggettiva e separata dalle persone che di volta in volta impersonificano questa rappresentanza. Questo fatto è molto importante, ma di questo concetto parlerò subito dopo.
La giustificazione della ricchezza significa, come del resto si vedrà poi in tutte le successive questioni che si svilupperanno a livello storico, che la struttura della Chiesa è in grado di potere giustificare l’azione dei ricchi nel mondo, è in grado di potere consegnare nelle mani dei ricchi il segreto per essere in accordo con la propria coscienza, cioè a dire il non entrare in contraddizione. E ai poveri? Che cosa veniva invece consegnato alla coscienza del povero? L’attesa di un regno differente, di un regno futuro, la giustificazione della sofferenza come una chiave per entrare nel regno futuro che è evidentemente diverso dalla situazione in cui ci si trova oggi. Questo passaggio implica un processo di modificazione della Chiesa anche a livello di organizzazione, di rapporto. Per esempio, una volta giustificata la ricchezza, si andò verso la creazione di grossi accumuli di ricchezza, prima attraverso i conventi e poi attraverso le comunità non più di credenti, ma comunità di specialisti, di abati, di preti. E poi le varie strutture che attraversano per tutto il medioevo il clero, fino ad arrivare agli inizi del periodo rinascimentale, questa grossa frattura che maturerà poi con la Riforma.
A Trento, nel corso del Concilio, assistiamo al tentativo di restaurare la forza della Chiesa con una Controriforma e di fissare le grandi linee su cui si muoverà la Chiesa tout court e le linee di sostegno al potere, con una accentuazione della oggettivizzazione del processo religioso. La coscienza dell’individuo viene messa in secondo piano, e in primo piano si colloca un fatto oggettivo: la messa. La centralità del rito della messa, nella religione cattolica, viene sottolineata proprio qui nel Concilio di Trento, ed è importante per capire la differenza che esiste con un altro tipo di religiosità quale potrebbe essere quella riformata. Per esempio la centralità del rito della messa significa che la persona, il prete, il sacerdote che ha ricevuto l’ordine sacro non ha importanza che tipo di persona sia, può essere l’ultimo degli individui, ma il fatto stesso di avere ricevuto quel sacramento che conferisce un ordine “sacro” lo mette in grado di potere realizzare quella trasformazione di sostanza che si matura nel sacrificio della messa: il far venir fuori da un pezzo di pane e un poco di vino il corpo, il sangue e l’anima di nostro signore Gesù Cristo. La gente accetta questo fatto come una questione separata dalla persona del prete e ciò ha consolidato in una maniera terribile la forza della Chiesa, perché spegneva fin dal nascere le perplessità e non metteva mai in dubbio la validità del rito religioso, fatti che succedono quando la gente comincia a criticare la persona, la singola persona rappresentante la Chiesa.
Così rafforzata, la struttura della Chiesa viene messa al servizio del potere e si tratta di una struttura potente, capace di giustificare qualunque nefandezza nel proprio interno, qualunque espressione che adesso consideriamo in modo negativo o che guardiamo con meraviglia: papi padri di figli, figli di papi che diventano papi anch’essi, che vengono inseriti nelle strutture di potere dell’epoca. In effetti, questi fatti che ci meravigliano tanto, all’epoca non destavano meraviglia perché esisteva già in atto il processo di oggettivizzazione, cosa che invece scompare con l’avvento della Riforma. La Riforma sposta il punto centrale della religione nel rapporto personale della coscienza e in questo rapporto personale la struttura della Chiesa è soltanto parallela, di supporto certamente perché struttura di potere anch’essa, ma è struttura parallela, e difatti la centralità, nella Riforma, del sermone è fatto sostitutivo, è fatto parallelo di supporto, ma non è fatto centrale come accade per la messa.
Pertanto, la struttura cattolica e la Chiesa cattolica hanno questa particolare caratteristica: sono strutture di potere fortemente rigide, fortemente capaci di organizzare una incredibile adesione delle coscienze, fatto che non esiste in un’altra struttura di potere a carattere religioso. Per esempio, se noi ci fermiamo un attimo a considerare la posizione della donna all’interno della Chiesa, non all’interno della struttura ecclesiale che prende le decisioni, dove la donna non ha spazio alcuno, ma all’interno delle riflessioni, delle considerazioni che questa struttura fornisce, la donna viene considerata come un essere più o meno subumano. Lasciamo stare, perché non si è tanto certi, in quale epoca riuscirono a mettersi d’accordo se la donna aveva o non aveva un’anima. A me è stato personalmente obiettato qualcosa riguardante il culto di Maria, culto che è ovviamente precedente a questa decisione conciliare. Però il culto di Maria significa il culto di una donna che non è una donna, in quanto le si nega nella tradizione cattolica l’essenziale caratteristica della donna, quella di poter avere figli, volendoli o non volendoli, comunque di poterli avere, mentre la madonna ha un figlio in modo particolare, che nessuna altra donna può avere, così come è stato specificato dalla religione. Quindi non è una donna. Le donne non potevano neanche accedere a determinate zone della chiesa come edificio. Voi pensate, e questo non prima del Concilio di Trento ma dopo il Concilio di Trento e fino al Concilio Vaticano II, la donna non poteva accedere alla zona dell’altare nel corso della messa. Quindi non poteva servire la messa, doveva essere un maschio a servire la messa, e ovviamente, come anche adesso, non poteva officiare. Quindi la questione sul sacerdozio della donna, non è tanto una questione di gestione politica ma è una radicale e differente interpretazione del ruolo della donna come essere umano, che la Chiesa cattolica non può sottoscrivere su di un piano di parità, e tutte le chiacchiere che il papa fa ricordando Maria vergine e tutte le sante che vengono di volta in volta suggerite come valutazione positiva della donna sono appunto chiacchiere per giustificare una sostanziale e diversa, radicalmente diversa, valutazione della donna come essere umano inferiore.
Ma perché la donna è considerata un essere umano inferiore? Va bene, c’è tutta la tradizione dalla Bibbia in poi, la colpa di Eva, in fondo Adamo è stato succube della scelta di Eva: pensate, la colpa di Eva non è una colpa di disubbidienza, come alcuni invece pensano, ma di concupiscenza, cioè data dal desiderio di possedere e non di disubbidire. Questo desiderio di possedere è tipico della donna, dice la Chiesa. Il ruolo della donna è il desiderio di possedere in maniera irrazionale, mentre l’uomo non ha questo desiderio, sempre secondo la Chiesa. Come vedete nella Chiesa ci sono interpretazioni che, secondo me, stanno alla base, stanno proprio acquattate alla base delle chiacchiere che oggi vengono fatte dal papa sulla questione dell’aborto, sulla questione della contraccezione. Esse si trovano sotto questo concetto che viene spostato invece sul piano della difesa della vita, sul piano della difesa del feto e così via. Ma è la concezione della donna che si trova alla base di tutto ciò, della donna che è considerata ancora oggi in subordine all’uomo all’interno della Chiesa. È questo che si vuole nascondere, perché la Chiesa evidentemente fin dalle sue origini fu una Chiesa costituita da maschi, un ordine militare essenzialmente costituito da maschi sull’esempio dell’esercito. Ignazio di Loyola in fondo riprende una vecchia idea della Chiesa, non se la inventa lui. La Compagnia di Gesù, che rappresenta secondo me uno dei massimi aspetti organizzativi della Chiesa, anche oggi è semplicemente una particolare applicazione di una mentalità guerriera, militare e maschile della Chiesa. E questo esiste anche oggi, non è una cosa del passato, i preti sono un ordine maschile che non ha nulla a che vedere con la donna, interpretano il mondo dal punto di vista del maschio.
L’altro argomento di cui volevo parlare prima di passare la parola a Massimo è questo: la Chiesa è una struttura di potere ma non è servizievole, è una struttura solo temporaneamente di sostegno. Mi è capitato di dire che la Chiesa è la mano sinistra del capitale, concetto in fondo non tanto esatto perché la Chiesa è provvisoriamente la mano sinistra del capitale. La Chiesa è una struttura che tende a conquistare il potere e a gestirlo in proprio, non a gestirlo per conto altrui. Certamente ci sono state situazioni diverse, adesso si è molto ridotta questa concezione, che rimane come dire acquattata sotto, nascosta sotto tutti i movimenti che la Chiesa mette in moto. Per esempio, pensate al concetto che viene sviluppato dai gesuiti, e che molto brevemente si può riassumere in queste parole. Per quel che riguarda la propaganda cattolica nei Paesi in cui questa religione non è in maggioranza, alla verità, cioè alla versione cattolica della propaganda, bisogna pure dare uno spazio, sia pure minimo, visto che il cattolicesimo in quei Paesi è una minoranza, ma, viceversa, nei Paesi in cui la maggioranza è cattolica, alla menzogna, cioè alla propaganda delle altre confessioni, non si può dare spazio. Questo ragionamento, tipicamente gesuitico, non è affatto scomparso, anche se queste parole testuali della “Civiltà cattolica” risalgono al 1944, oggi esso semplicemente si è modificato, si è soltanto un po’ diluito.
Veniamo adesso al sostegno che la Chiesa cattolica fornisce alla dottrina liberale, al discorso di un certo tipo di liberalismo, quindi al discorso che oggi viene fatto abbastanza comunemente. Una volta caduto il muro di Berlino, finita la questione comunista dei Paesi dell’Est e così via, ci si avvia tutti quanti verso una concezione della democrazia a livello mondiale. In effetti non è nemmanco quella tradizionale, ma si sta trasformando in una democrazia molto differente, tecnologicamente attrezzata e così via.
La Chiesa come si inserisce in questo contesto? Innanzitutto con il proprio pensiero economico. La Chiesa non è subordinata al concetto dominante del momento, ma attraversa una linea ben precisa di ragionamento per quanto riguarda il pensiero economico. Innanzitutto la Chiesa ha economisti suoi anche oggi. La linea di pensiero, poniamo, per restare nelle cose nostre italiane, della dottrina economica cattolica che comincia in Italia alla metà dell’Ottocento con Toniolo, che è stato anche proposto per il processo di canonizzazione, e continua fino ai nostri giorni con economisti come Andreatta o come il suo maestro Parrillo. Ecco, questa dottrina economica sostiene un liberalismo temperato, cioè a dire un liberalismo che deve essere capace di controllare i molti processi autonomi e selvaggi del mercato sulla base di un concetto sociale di tutela delle minoranze più colpite (quindi la difesa dei poveri, la difesa degli emarginati, la difesa degli operai, dei lavoratori e così via). Tutto questo viene praticamente fatto sulla carta dalla Chiesa, ma anche di più che sulla carta, perché ci sono parecchie organizzazioni della Chiesa che si basano sul volontariato, anche finanziate dalla Chiesa stessa, che operano nell’àmbito degli emarginati e così via. Questa struttura di supporto periferica ma quantitativamente significativa dal punto di vista della gestione complessiva dello scontro fra chi comanda e chi subisce, questa struttura periferica serve per ritardare ogni ribellione e le conseguenze di uno sbocco di natura insurrezionale. La Chiesa non ha affatto lo scopo di assistere i deboli, ma il suo scopo principale è, come struttura, come organizzazione, quello di tutelare il proprio progetto di conquista del potere e in questa direzione tutela i più deboli, perché alla conquista del potere, nella ipotesi immaginata dalla Chiesa, si deve arrivare non attraverso la ribellione, perché non è un partito rivoluzionario la Chiesa, bensì è un partito delle coscienze, ma attraverso una conquista delle coscienze, una irreggimentazione di queste coscienze all’interno di un progetto di potere.
Così, questo suggerimento che la Chiesa dà al capitale è un suggerimento di razionalizzazione. Eccoci ad un concetto importante all’interno della Chiesa. Pensate, la Chiesa che gestisce un sentimento così importante qual è il sentimento religioso, che lo gestisce all’interno delle coscienze dei singoli e quindi arriva a fare un discorso penetrante e terribile all’interno di persone che certe volte sono combattute da contraddizioni profonde per quel che riguarda il possibile dio a cui aspirano, ecco, la Chiesa che gestisce questo tessuto attraverso i suoi uomini, spaventosamente educati a fare questo lavoro, la Chiesa ha lo scopo di razionalizzare, cioè di organizzare al meglio, di evitare le disfunzioni. La Chiesa non si fida delle leggi di mercato, non si fida delle leggi della domanda e dell’offerta, non si fida del rapporto tra posto di lavoro e costo marginale di produzione per quanto riguarda le singole aziende. La Chiesa interviene per parlare in nome della razionalizzazione della realtà.
Un piccolo excursus. Non è vero che la Chiesa lo fa adesso per la prima volta, la Chiesa ha razionalizzato sempre. Se per esempio ci si ferma un attimo a considerare l’Inquisizione, un altro argomento al centro dell’attenzione in queste nostre iniziative, l’Inquisizione non è soltanto l’applicazione di strumenti di tortura (tante braccia di corda, il muro stretto), no, non è questo, non è soltanto questo, non è affatto la fredda determinazione di un pugno di maniaci che sottopongono dei poveri disgraziati a efferate torture per ottenere la confessione di cose inesistenti. No, questo è semplicemente una banalizzazione della grande e spaventosa disciplina che attraversa diversi secoli (tenete presente che l’Inquisizione fu abolita in Spagna solo agli inizi dell’Ottocento e in Sicilia alla metà del Settecento). Cosa fa invece la Chiesa con l’Inquisizione? Razionalizza. Prende e trasforma una situazione basata su processi illogici, secondo il modo di ragionare della Chiesa. Qual era, per fare un esempio, la prova a cui venivano sottoposti le streghe, i maghi, e chiunque altro veniva accusato di eresia, prima dell’avvento dell’Inquisizione medioevale? Era l’ordalia, cioè a dire il giudizio di Dio. Se si legge, non voglio dilungarmi e perder tempo, ma ho anche i testi qui con me, se si legge il testo della sentenza con cui, accuratamente, prima dell’Inquisizione si precisavano le condizioni con cui bisognava, poniamo nel giudizio dell’acqua fredda, mettere sull’acqua ghiacciata di un fiume o di un lago il corpo legato dell’inquisito per vedere se e in che modo, in quali condizioni, in quale maniera andava a fondo o non andava a fondo, e poi a fianco si paragonano le condizioni che appaiono in un verbale di un interrogatorio, o in un verbale di applicazione della tortura eseguito dai santi Padri della Chiesa, si vede la differenza. Non solo dal punto di vista della cultura giuridico-tecnica, ma anche delle cautele che vengono prese, della razionalizzazione. Per esempio la tortura dal suo inizio non poteva superare le 24 ore, i bracci di corda non potevano essere superiori a un certo numero, non è affatto vero che si potessero applicare metodi differenti. C’erano ben 25 tipi, usati correntemente, di strumenti di tortura, ma soltanto alcuni potevano essere applicati in funzione del sesso, in funzione dell’età, in funzione della pena, in funzione di quello che si voleva ottenere, ecc. C’era sempre la necessità della presenza di un medico, mentre il protonotario apostolico che redigeva il verbale aveva la possibilità di fare determinate domande e altre no. Siamo davanti a una cultura che non aveva nulla a che vedere con la brutale irrazionalità. Ecco che cosa è la Chiesa: lo strumento di potere che razionalizza e applica la ragione, non l’assenza della ragione. Quindi, se l’Inquisizione fu una mostruosità, fu una mostruosità della ragione. Ecco il concetto importante. Non è affatto vero che la storia dimostra che i mostri vengono quando la ragione si addormenta, come è stato detto da fonti autorevoli, ma io ritengo, al contrario, che sia la ragione stessa a produrre i mostri. L’Inquisizione è certamente qualcosa di mostruoso, ma anche di estremamente legale, è stato fatto tutto in nome della legge, non c’è un verbale in cui ci sia qualcosa che non va. Per carità, tutti i verbali finivano con “relaxo”, cioè a dire con “rilasciato”. Il condannato a morte veniva rilasciato alle autorità civili perché procedessero all’esecuzione.
Ma pensate, perché anche questa è cosa interessante, pensate che non è affatto vero che i condannati al rogo venissero messi sulle fascine ardenti, sarebbe stata una morte sbrigativa, perché su una fascina ardente la morte avviene in pochi minuti, in quanto le fiamme bruciano l’acqua di cui il corpo è composto, si perdono i sensi e dopo pochi minuti il corpo non c’è più. Invece non accadeva così. Per esempio c’è la relazione dell’ultimo Autodafé che fu fatto a Palermo, una cosa che durò 24 ore, una processione, uno sfoggio di tutti i tipi di banchetti, di libagioni. Questa era la capacità della Chiesa, non solo di razionalizzare, ma anche di badare agli aspetti spettacolari, di coinvolgere all’interno di questi spettacoli persone che non volevano essere razionalizzate ma che potevano essere utili per la Chiesa, per esempio la nobiltà. Quindi, tornando al problema di bruciare il corpo, era necessario che tutto non finisse in pochi minuti. Occorreva cioè nel contempo che si facesse un discorso alla coscienza del condannato, e ciò fino all’ultimo momento, allo scopo di farlo pentire dei suoi peccati. Questo era il compito del domenicano che stava vicino al condannato a morte, domenicano che faceva parte di… stavo per dire di una setta, ma era una congregazione, la congregazione dei Bianchi. Allora, cosa si fa? Innanzitutto gli si bruciano i capelli. L’ultimo autodafé a Palermo di un uomo e di una donna: alla donna si bruciano prima i capelli, che aveva lunghi (così scrive il Mongitore, che è uno storico ma in quel caso funge da cronista e descrive anche il lato da cui cade il cadavere, quindi descrive tutto proprio con attenzione fotografica), le si bruciano i capelli, poi, non contenti di questo, le si brucia la veste che era stata ricoperta di pece. La condannata a morte non è messa sulle fascine, ma è messa su di un tavolato molto spesso e sotto il tavolato si trovano le fascine che vengono accese. Pertanto le fascine per poter bruciare il corpo devono prima bruciare il tavolato, quindi questo fatto dura parecchi minuti e durante tutto questo tempo c’è vicino l’agente della Chiesa che insiste per impadronirsi della coscienza. Il discorso che viene fatto attraverso la razionalizzazione dell’Inquisizione rimane un patrimonio della Chiesa.
La Chiesa quindi non è una struttura che è diretta ad estremizzare le condizioni in cui si trova, i rapporti che la regolano. Per esempio, se noi esaminiamo con attenzione, cosa che non possiamo fare adesso, ma che faremo nella prossima conferenza in cui si parlerà specificatamente del contenuto dell’ “Enciclica” [purtroppo il testo di questa successiva conferenza non è stato registrato per un errore tecnico], la questione appunto dell’ “Enciclica”, secondo me il papa ha fatto un po’ il passo più lungo della sua gamba stavolta. Ha detto delle cose che non mi sarei aspettato, cioè ha detto delle cose un po’ estrose, il discorso sulla vita, dal suo punto di vista è un po’ eccessivo, non ha la prudenza classica. Sarebbe interessante chiedersi, e questo potrebbe essere un approfondimento del discorso che potremmo fare dopo insieme se credete, perché la Chiesa sta facendo questo passo falso, se lo è un passo falso, perché sta facendo questo discorso un po’ eccessivo sulla questione della vita. Forse questo papa si è un poco ubriacato di potenza al seguito del ruolo che gli hanno cucito addosso, di essere una delle chiavi di volta grazie alla quale si è sconfitto il mondo dell’Est? Questa è una domanda interessante. Perché normalmente la Chiesa non ha questo linguaggio, ha un linguaggio piuttosto prudente in condizioni difficili, quali sono quelle in cui viviamo. Io vorrei concludere dicendo: penso che ci siano ben poche occasioni per poter riflettere criticamente sul ruolo della Chiesa. Noi cercheremo di mettere a frutto questi giorni, specialmente qui a Trento.
[Conferenza tenuta a Trento, 21 Aprile 1995. Pubblicata su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, pp. 31-39]
Preti neri preti rossi preti gialli
Le braghe di Balla. La nipote del celebre pittore futurista Balla ha fatto una statua in bronzo, né bella né brutta, pesante tre quintali, desiderosa di rassomigliare all’idea che la gente comune si è fatta di Adamo ed Eva, nudi, naturalmente.
Il gruppo bronzeo, se ne stava immobile in un angolo di
via del Mascherino, a Roma, nei pressi di San Pietro, quando, una malaugurata mattina, da quelle parti transita un diplomatico vaticano, mons. Renato Martino, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.
Il prelato sonnecchia nella sua auto blu, poi si sveglia di colpo turbato dalle curve del nudo, e ricordandosi dell’aulica tradizione di santa romana Chiesa in materia di qualsiasi idea di libertà, anche di quella che con difficoltà cercava di farsi strada attraverso l’impacciata sagoma del gruppo scultoreo, ne ordina l’immediata copertura.
Il capolavoro della signora Colabucci Balla viene imballato (strana la sorte delle parole) come un salame e confinato in un garage.
Si stanno confezionando opportuni braghettoni per coprire le nudità di Eva e di Adamo.
Il miracolo delle noci. Enzo Biagi ha prestato la sua faccia di imbecille ai frati Cappuccini dell’Opera San Francesco per pubblicizzare (un video della durata di 20 minuti, ridotto a pochi secondi per i messaggi televisivi veri e propri) la nuova iniziativa dei gestori della mensa dei poveri.
Ogni utente viene da oggi fornito di una scheda magnetica, dove sono registrati i suoi dati, per avere accesso alla mensa. In questo modo, dicono i frati, si riducono le code e le risse davanti agli sportelli di accesso. E anche, aggiungiamo noi, si controllano meglio coloro che hanno bisogno di fare ricorso a questo estremo mezzo di sopravvivenza.
Enzo Biagi racconta nel video la storia dei frati Cappuccini, da fra’ Cristoforo e don Rodrigo fino ai giorni nostri, non dimenticando il miracolo delle noci che, adesso, diventa miracolo elettronico delle schede.
Solo qualche pillola. Le edizioni Ares, che pubblicano anche il mensile “Studi cattolici”, hanno mandato in tutte le librerie del settore, sagrestie e conventi compresi, un libro in cui è spiegata la cura per guarire gli omosessuali, permettendo loro di cambiare vita e arrivare a un felice futuro eterosessuale. L’omosessualità, secondo l’autore di questo libro, ha radice in una problematica psichica e in un turbamento dell’equilibrio che possono essere curati con successo.
Il padrino finanziario e politico delle edizioni Ares è l’Opus Dei, garanzia di tutto rispetto, sia per quel che riguarda l’integralismo delle posizioni che la forza dei denari.
Il libro s’intitola: Omosessualità e speranza, ed è scritto da uno psicologo olandese, Gerard van Der Aardweg, professore presso l’Istituto per la famiglia e il matrimonio di Amsterdam, istituto di ricerche ovviamente di tradizione cattolica.
[“Canenero” n. 22, 7 aprile 1995, p. 7]
Sulla carne di gesso
C’è una gran fame di sacro. Dappertutto la miseria che ci circonda sospinge i più deboli verso una fede che potrebbe essere per loro sostegno nei momenti cruciali, nelle prove che temono di dover affrontare.
Il futuro si annebbia davanti ai nostri occhi e allora cerchiamo nell’orizzonte oscuro i segni di una mano provvidenziale, di un segno.
Il segno appare puntualmente nei momenti in cui lo si invoca, lo si desidera, lo si crea con la potenza dell’immaginazione e del bisogno.
Certo, il segno può anche essere aiutato a uscire fuori dall’incertezza, può prendere la forma solida e dozzinale di una statuina di gesso, e qualcuno può anche tentare di mettere insieme un piccolo business. Ma cosa volete che siano queste piccole meschinità. Un furbastro di Civitavecchia ha forse deciso di campare a sbafo per qualche tempo. Ha carpito la buona fede di quattro (o di quarantamila) benpensanti. Il mondo è pieno di gente che non aspetta altro che di essere presa in giro. Ma il problema non sta qui.
Dilagano un po’ dappertutto gli oggetti piagnucolanti. Qualsiasi sgorbio investito dell’aura sacrale aspira a diventare oggetto di culto, a vedersi costruita attorno una chiesa gigantesca come quella di Siracusa, che in materia ha fatto testo. La Chiesa si rende conto della gravità del momento, della situazione a essa molto favorevole, purché sia disposta, negli uomini che la guidano e la compongono, a non legarsi troppo al razionalismo tomista.
Che qualche grosso prelato, come il Vescovo di Civitavecchia, si lasci andare a dichiarazioni che altre volte non sfuggivano dalle alte gerarchie, è un dato significativo. Un sotterraneo fondamentalismo si sta muovendo nel cattolicesimo, alimentato dall’ottusità del papa, ma anche dal crollo politico di un’alternativa atea che in effetti non è mai stata una vera e propria alternativa, ma solo l’altra faccia del medesimo potere fondato sull’ignoranza e sulla fede, che spesso della prima è il frutto più acerbo e disgustoso.
Mettere di fronte al dilagare di questi fenomeni il rigore della legge, è un’altra delle geniali prodezze della saggezza giuridica che ci governa. Gente ben altrimenti dura di quanto non può essere un qualsiasi procuratore di periferia, si è dovuta arrendere di fronte alla peste religiosa dilagante. Nessuno ferma gli invasati. Quando “Dio lo vuole”, si scatenano primordiali istinti che prima sembravano scomparsi per sempre. Cosa volete che faccia una decina di carabinieri?
Se la Chiesa ha deciso di mettere un freno alla sua tradizionale riservatezza diplomatica, e di spingere a fondo sul tasto dell’esaltazione mistica di migliaia di poveri disgraziati, si prospettano tempi durissimi.
Non è un caso che il “Corriere della Sera” abbia deciso proprio ora di mandare in edicola i “Gloria!”, i “Vespri”, le “Messe”, i “Requiem”, gli “Stabat Mater”, i “Canti Gregoriani”. Non è un caso.
Cadaveri perbene. Chissà se il cardinale Hans Hermann Groer, arcivescovo di Vienna, usava il preservativo inculando alcuni allievi del seminario di Hollabrunn, una ventina di anni or sono?
L’indiscreta domanda viene spontanea, visto che si tratta, per altro, di pratica di lunga durata, direi quasi secolare, nelle scuole cattoliche, dirette dai preti che come tutti sanno hanno fatto voto di castità. La carne umana è debole, dicono le Scritture, ma quella di questa gente deve esserlo in modo particolare. Negli USA è stata costituita diversi anni addietro un’associazione di ex vittime delle attenzioni sessuali dei sacerdoti cattolici. Questa associazione raccoglie circa cinquemila aderenti, la qual cosa non è trascurabile se si pensa alla più che comprensibile ritrosia che la gente ha a entrare in un’associazione del genere.
Eppure la Chiesa non batte ciglio. Continua a considerarsi un organismo a parte, un insieme di uomini, legati da un “Ordine sacro” che hanno ricevuto dallo Spirito Santo il compito di evangelizzare le genti. Al suo interno non si insinua mai il dubbio che come in qualsiasi altra organizzazione di soli uomini in essa è predominante l’amore omosessuale. E non ci sarebbe niente di male se questo amore venisse fuori chiaramente, riconosciuto e spiegato, non vissuto come una colpa o esercitato come una violenza sfruttando l’autorità del superiore sull’inferiore. Se qualche volta un singolo esponente della Chiesa dice qualcosa di appena appena accettabile sull’argomento, subito gli si ordina di tacere.
Ed è a questa organizzazione di frustrati e di repressi, di tartufi e di stupratori che si consente di parlare di amore: uno stuolo di ciechi che pretende guidare altri ciechi.
Dove masticare Dio. È uscita la Guida ai luoghi dello Spirito, edita dalla Federazione Italiana Esercizi Spirituali. In centotrentasette pagine illustra quali sono i luoghi migliori dove passare le vacanze in preghiera.
L’operazione non è senza importanza. Prima di tutto perché indica una moda in atto, un movimento in corso. Se non ci fosse stata una di già considerevole domanda di conventi, eremi e posti del genere, dove passare un periodo di riposo, non avrebbero fatta la guida. Poi, perché indica un sempre maggior bisogno di “sacro”, naturalmente con alcune garanzie.
La principale di queste garanzie è quella del mangiar bene. E nei conventi si mangia bene. Poi quella dell’amenità del luogo, e la maggior parte dei conventi, a saper scegliere, si trova in luoghi splendidi, dove la natura resiste ancora alle turpitudini dello sciacallaggio. Se non si hanno pretese eccessive (di regola, non sono ammesse orge collettive, né baccanali all’aperto), i buoni frati e le ottime suore sono molto disponibili.
In maiorem Dei gloriam. Naturalmente.
L’infallibile promessa. Nel monastero di Paray Le Monial, nel 1660, una monaca vedeva Gesù. Fin qui niente di strano. Un fenomeno come un altro. Ma questa apparizione disse alla monaca, che si chiamava Margherita Maria Alacoque, che a tutti coloro che si sarebbero comunicati il primo venerdì del mese per nove mesi consecutivi sarebbe stata assicurata la perseveranza nella fede al momento della morte.
Pensate, un fatto serio, una sorta di assicurazione sulla vita eterna, e poi poco costosa: appena il sacrificio di prendere delle scadenze per nove mesi. Nel 1920 Benedetto XV, facendo santa la signorina Alacoque, rendeva dottrina della Chiesa la promessa di quel lontano 1660, fatta in separata sede da Gesù in persona alla monaca di Paray Le Monial.
Adesso, la Chiesa ha fatto marcia indietro. Afferma che non c’è sicurezza riguardo quella promessa. Il papa lo ha detto apertamente.
Ma come la mettiamo? Ogni decisione del papa, presa in sede di canonizzazione, è dottrina infallibile della Chiesa. Un altro papa non può quindi cambiarla.
Attenzione signor Giovanni Paolo II, rilegga meglio le carte.
[“Canenero” n. 23, 14 aprile 1995, p. 7]
Inchiesta sull’esistenza degli angeli custodi
Sono tornati sulle pagine di tutti i giornali. Non hanno più lo stile dei mistici del passato, per bocca dei quali si esprimevano in quell’incontenibile tensione psichica che cerca di dire l’indicibile, ma parlano le tristi parole di politici e giornalisti. La signora Presidente della Camera ne ha fatto esplicito riferimento, come mallevadori del proprio impegno di supremo questore dell’organo democratico.
Sull’ondata del risveglio per ogni sorta di golosità ultraterrena, visto che dalla condizione umana cui sembra stiamo per essere inchiavardati definitivamente, tutti vogliamo fuggire, gli angeli custodi attirano la curiosità. Molti altri editori hanno prodotto libri sull’argomento proprio negli ultimi mesi: la Sonzogno e la Vallardi fra i tanti.
Pierre Jovanovic, l’autore dell’inchiesta che ci occupa, pubblicata alla Piemme, giornalista e corrispondente per una radio francese negli USA, che è di certo uomo del medesimo livello culturale del nostro Presidente della Repubblica, racconta come un proiettile abbia perforato i vetri della sua auto e si sia conficcato nel sedile all’altezza della sua testa. Lui sarebbe stato colpito in pieno se un attimo prima non si fosse casualmente chinato. Quale prova migliore dell’esistenza dell’angelo custode? Simile a quella pubblicamente, con disdoro comune, fornita dal nostro massimo rappresentante statale, il signor Scalfaro.
Altre le testimonianze che il libro produce, oltre alle stupide chiacchiere autobiografiche del suo autore. Metà del libro è dedicato alle esperienze di Angela da Foligno, di Giovanni della Croce, di Teresa d’Avila, di Ildegarda di Bingen, e qui il discorso si fa più complesso, trattandosi di sensazioni che prendono la corposità delle visioni, di domande senza risposta, di dialoghi articolati e fitti di problemi con qualcosa che non esiste ma che la potenza della concentrazione del singolo riesce a far diventare quasi visibile, perfino dolorosamente contrapponibile.
Quale miseria nelle chiacchiere della Pivetti, e quale ricchezza nelle lacerazioni che Angela da Foligno riscontrava sulla propria carne dopo il colloquio, sanguinoso e per molti aspetti terrifico, con il proprio angelo. Là il politico che utilizza qualsiasi strumento (le virtù della razza ariana per un Hitler non avevano origine diversa), qui una povera donna che cerca di dire le proprie angosce, le proprie visioni, i tormenti del proprio cervello, della propria carne torturata da desideri spaventevoli e insoddisfatti. Là un fantoccio, qui una donna. Che differenza. Gli angeli? un’occasione, nient’altro.
[“Canenero” n. 23, 14 aprile 1995, p. 10]
Tra Washington e Campo de’ Fiori
Dopo alcuni anni di agonia Giordano Bruno è trascinato a Campo de’ Fiori e legato al rogo che di lì a poco lo brucerà fin che morte non sopraggiunga. Il filosofo è tranquillo, i suoi carnefici un po’ meno. Hanno cercato per le ultime tre febbrili notti di strappargli un segno di pentimento, una traccia di rimorso. Adesso sono lì, domenicano in testa, a cogliere gli ultimi attimi dell’uomo morente, prima che le fiamme rodano il robusto tavolato su cui è seduto. Bruno ha uno scatto con la testa e improvvisamente sputa sul crocifisso che il carnefice spingeva davanti ai suoi occhi.
Una scena di alcuni secoli fa. No, la storia è sempre presente in tutti i suoi orrori. L’uomo ripete se stesso nella propria barbarie, non riesce a liberarsi da rituali e da dogmi che lo imprigionano. Idee e fantasmi gli danzano attorno. Non al povero uomo della strada, ignaro nei suoi quattro pensieri preconfezionati, ma all’uomo di governo, anche al più illuminato e progressista degli uomini di governo.
Gli USA sono la potenza più forte del mondo. Si sono auto-incaricati gendarmi di tutti i popoli e, ogni volta, designano questo o quell’altro burattino dirimpettaio come il Satana di turno. Ma non riescono a nascondere l’orrore che ispirano con la propria concezione del mondo. Non ultima l’applicazione della pena di morte, ormai su larga scala.
Sabato scorso un giovane inglese è stato bruciato sulla sedia elettrica, dopo 12 anni di prigione trascorsi nel braccio della morte e dopo una terribile agonia causata da piccoli rinvii dell’ultima ora. Prima che il carnefice accendesse la sedia, gli ha chiesto il suo ultimo desiderio: come risposta Nicholas gli ha sputato in faccia.
Attraverso i secoli un gesto si ripete, un gesto non di sfida, come potrebbe qualcuno interpretarlo, ma di schifo, di schifo per uomini che scendono tanto in basso, che sprofondano in regioni dell’abiezione che nemmeno riusciamo a immaginare. Che differenza fa se a Campo de’ Fiori a morire era un filosofo “innocente” e a Washington, adesso, a morire è un “reo confesso”? Il punto non è questo. L’orrore sta dall’altra parte, sta nella tunica candida del domenicano del Cinquecento e nella divisa militare del secondino che oggi chiude i contatti della sedia, sta nei loro ruoli, identici attraverso la storia, due ruoli che si ripresentano, portatori del medesimo orrore e della medesima stupidità.
E questo orrore e questa stupidità, adesso, vorrebbero farli passare per civiltà giuridica, per amore universale. Gli USA, oggi, si dicono paese civile e guardano con occhio critico ai comportamenti lesivi dei “diritti dell’uomo”, altrove, naturalmente. La Chiesa, oggi, si dice messaggera di pace e giudica ferocemente chi pratica l’aborto o usa il preservativo. Ma nelle loro carte, anche oggi, esiste la continuità dell’antico terrore. I domenicani sono ancora lì: fanno chiacchiere, ma il codice della Chiesa prevede la pena di morte. Potrebbero ricominciare. I funzionari dell’amministrazione americana sono lì, per la verità fanno meno chiacchiere e applicano il codice. Gestori della morte i primi, gestori i secondi. Nessuna differenza.
Di più, nessun altro Stato ha una posizione differente. Anche quelli che, come l’Italia, non prevedono la pena di morte (sulla carta), sono d’accordo che in alcuni casi non c’è altra soluzione. Solo che trovano la strada più breve e meno faticosa, meno appariscente. Incaricano specialisti di sparare subito. Tutte le “teste di cuoio” italiane, per restare nel nostro esempio, sono avvezze a uccidere. Basta ricordarsi dell’ultima esecuzione di massa avvenuta a Verona qualche settimana fa. Senza rumore e senza pubblicità.
I carnefici non hanno più il cappuccio: circolano liberamente fra noi e diventa sempre più difficile riconoscerli.
[“Canenero” n. 23, 14 aprile 1995, p. 2]
La sbirraglia clericale
Il cieco lungimirante. Che un uomo in tarda età, malaticcio e malfermo sulle gambe, non più in grado di correttamente ragionare, tenendosi avvinghiato al trono di Pietro, quel tradizionale trono da cui trassero e traggono sostegno autorità di tutti i tipi, dalle dittature alle democrazie, che un uomo del genere, avvolto nel suo mantello bianco, e proprio per questo lontano mille miglia dalla vita reale degli uomini, isolato e tardo nell’intelletto e nel cuore, che un simile individuo pretenda di legiferare al mondo intero un modo di comportarsi, è veramente incredibile.
Ma è proprio da questa assurdità che trae origine la forza della Chiesa.
Nella più recente manifestazione pubblica del pensiero cattolico ufficiale, l’Enciclica sulla Vita, vengono alla luce tutte queste assurdità.
Il prete è per definizione un essere estraneo alla vita, vive in un’attesa della morte che lo dovrà portare alla “vera vita”, quella dell’aldilà, quella a cui aspirano tutti i credenti. E di questa sua aspirazione si fa propagandista in seno alla massa degli infedeli e dei tiepidi, per spingerli a considerare questo mondo come qualcosa di transitorio, un peso da sopportare in attesa di qualcosa di migliore e definitivo.
Come può un’idea del genere far luce sulla vita? Come possono, esseri che della vita non conoscono nulla, parlarne? E non solo limitarsi a parlarne, ma anche imporre comportamenti che risultano tragicamente in grado di distorcere ogni istinto e ogni forza vitale?
Entrate in una chiesa, in una qualsiasi chiesa, e vi sentirete l’alito della morte impietrito nelle statue, nelle decorazioni, nei simboli. Tutto nella Chiesa è segnato dalla morte, niente ricorda la vita.
E questa gente dovrebbe insegnarci a vivere?
Esilio e carcere. Nella Bibbia Caino uccide Abele, il Signore lo punisce e lo spedisce nel “Paese di Nod”, luogo della miseria e della solitudine, oltre che della lontananza da Dio. Perché quel posto era considerato misero? Perché era collocato in regioni fredde, lontane dal Paradiso terrestre. Insomma come mandare qualcuno in Siberia. Poi il Signore fa di più, precisa che Caino deve restare in un’abitazione separata, rinnegato da tutti, e così nello stesso passo indica il modo in cui costituire sia l’esilio che il carcere.
Il potere statale di tutti i tempi, ma in particolar modo quello di oggi, ha fatto tesoro di questi insegnamenti, e ha realizzato i campi di concentramento e le carceri su quel modello, trovandosi in questo modo in pace con Dio e con la tutela dei propri interessi. Il più forte è sempre stato dalla parte di Dio. Le SS naziste portavano scritto nella cintura dei pantaloni: Dio è con noi.
Dio ci asfissia. La presenza di Dio fra noi è asfissiante. Trasferendo tutte le nostre azioni in un compimento futuro, da attuarsi nel regno dei fantasmi, priva di senso il mondo in cui viviamo, e quindi distrugge la vita, modellandola su di sé, cioè sulla vita di un fantasma.
Perché l’uomo ha avuto bisogno di inventarsi Dio? Perché l’incertezza del futuro lo rendeva vulnerabile, così si è illuso che una “certezza assoluta”, collocata al di fuori, in un luogo esente da incertezze, potesse renderlo forte. Ma il rimedio si è rivelato più dannoso del male.
Dio non ci asfissia solo come idea, proiezione del bisogno di garanzia che l’uomo avverte continuamente nella sua vita, egli ci asfissia anche attraverso la casta particolare che pretende rappresentarlo. L’organizzazione che utilizza Dio per governare il mondo si chiama Chiesa, e non è affatto, come vorrebbe l’etimologia della parola, l’assemblea di tutti, ma solo la congrega mafiosa di un pugno di disperati che con le proprie paure infettano il mondo.
In questo senso Dio e la Chiesa sono come due epidemie che si sono diffuse nel mondo e di cui non riusciamo a sbarazzarci. Hanno ucciso, continuano a uccidere e uccideranno milioni di uomini, e sempre in nome della vita, della giustizia, della pace e di altri concetti simili che servono solo a nascondere le loro intenzioni di dominio e di morte.
I vampiri della sofferenza. Dove si soffre i preti arrivano a nugoli, come gli avvoltoi. Succhiano la sofferenza dell’uomo, e su di essa si ingrassano e prosperano.
L’uomo del Vaticano è sofferente anch’egli, povero relitto malato e insonne, ma non demorde, si avvinghia con tutte le sue forze a quel tanto di vita che gli resta, per alitare morte e desolazione su tutti gli altri uomini che hanno la stupidità di ascoltarlo.
La sofferenza e il dolore sono importanti, non perché potrebbero irrobustire l’uomo e spingerlo a ribellarsi, ma proprio perché possono anche distruggerlo in quanto individuo, spingendolo alla sottomissione e al chiedere grazia, quindi ad adeguarsi.
La repressione religiosa, pertanto anche politica e sociale – che tra Stato e Chiesa c’è una reciproca corrispondenza di intenti e di interessi –, ha lo scopo di utilizzare il dolore a fini ortopedici, cioè allo scopo di modificare l’uomo, di evitare la sua ribellione e di farlo diventare cittadino ossequioso delle leggi divine e umane (medesimo fondamento).
La fiancheggiatrice del boia. La Chiesa sposa gli interessi dei dominatori. Quindi non difende affatto i deboli, ma li tradisce, conducendoli al macello. Ha sempre sostenuto questa politica, sia benedicendo le ricchezze dei grandi proprietari della terra, sia esortando ai grandi massacri della guerra e del genocidio. I cappellani militari accompagnavano sempre gli eserciti e pregavano per la vittoria dei propri cannoni.
Per questo progetto la Chiesa è lo strumento ideale. Comincia dal singolo individuo, insinua i suoi dogmi nefasti nell’àmbito della coscienza, fin dall’età più tenera del soggetto, e poi continua attraverso il controllo di tutti gli istinti umani, primo fra tutti quello della sessualità. Le strutture della società, dalla famiglia allo Stato, sono seguite e sostenute dalla Chiesa, la quale continua a considerarsi la sola forza destinata a governare il mondo.
Malgrado tutte le chiacchiere sulla vita, l’ultima “Enciclica” del papa giustifica la pena di morte (ovviamente, “in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti”).
Uccidere Dio. Se accettiamo la pericolosa convivenza con Dio, se permettiamo che un fantasma inquini la nostra vita, tutto diventa segnato dalla morte. Dio è la morte, perché è un fantasma che si fa più concreto man mano che aumentano i pericoli e le incertezze di cui l’uomo soffre.
Quando la vita si fa piena, quando la gioia e la bellezza dilagano e contrastano efficacemente il dolore e la paura (che pure esistono nel mondo, contro i quali non abbiamo se non i ridicoli mezzi che la scienza presuntuosa ci mette a disposizione), allora il fantasma di Dio si allontana.
Ognuno di noi deve decidere cosa fare della propria vita, e per far questo deve uccidere Dio, prima di tutto nel proprio cuore, poi nelle realizzazioni terrene che pretendono dar corpo a questo fantasma: la Chiesa prima fra tutte.
[“Canenero” n. 24, 21 aprile 1995, pp. 6-7. Pubblicato anche su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, p. 50]
Il fantasma che garantisce e uccide
Ogni autorità viene da Dio, diceva l’Apostolo, e con ragione. Ma non nel senso di una legittimazione dell’autorità a seguito della sua origine divina, ma nel senso di una impossibilità dell’autorità in assenza dell’idea di Dio.
Il concetto stesso di garanzia suprema, di qualcosa al di sopra delle parti, quindi anche il concetto della sacra e intoccabile funzione del governo e della giustizia, vengono dall’idea di Dio. L’ “immutabile”, sognato dagli uomini come tutela contro la paura del futuro e delle incognite che si nascondono dentro le nebbie dentro cui quest’ultimo si avvolge, è Dio, il fantasma che garantisce e che uccide.
Ma l’autorità, per esercitarsi nell’àmbito delle cose umane, cioè per diventare Stato e governo, insinuarsi fin dentro tutte le fibre di cui si compone la società, non ha bisogno solo del sostegno fornito dall’idea di Dio, ha bisogno anche della forza, forza reale, adeguata ai tempi e alle condizioni dello scontro con tutti coloro che, subendo l’autorità e pagandone le conseguenze in termini di repressione e restrizione della libertà, a essa si oppongono.
E questa forza è costituita da armi e da eserciti, da governi e parlamenti, da sbirri e spie, da preti e leggi, da giudici e professori, insomma l’intero apparato al servizio del potere, senza il quale il potere resta lettera morta.
Ma la forza si basa sulla ricchezza, cioè sulla possibilità di accumulare denaro o di garantirsi il controllo dei flussi in cui la circolazione del denaro si realizza. Con lo sviluppo del commercio e delle industrie, passando dai tempi antichi a quelli della rivoluzione industriale, fin dentro l’epoca in cui viviamo, alla vigilia del Terzo millennio, quando la ricchezza si inarca in una essenzializzazione spasmodica di se stessa, passando dalla vecchia e statica forma dell’accumulo, alla nuova e dinamica forma del flusso ad alta velocità di circolazione, la sua funzione di fondamento dell’autorità non è cambiata.
Possiamo quindi dire che un’autorità senza ricchezza sarebbe una contraddizione. Tutti i tiranni del passato, come gli uomini politici di oggi che hanno gestito e continuano a gestire la cosa pubblica, hanno avuto tra le mani immensi quantitativi di ricchezza.
Un povero non può mai esercitare l’autorità, per cui un’autorità in mancanza di ricchezza che la costituisca in istituzione e la garantisca in quanto tale nell’esercizio concreto delle sue funzioni, tende ad affievolirsi in autorevolezza, cioè in ben altra cosa. Un povero potrà essere autorevole per le sue conoscenze, per la sua coerenza, per la sua correttezza, ma non potrà mai costituire un’autorità.
Ecco perché la Chiesa, conscia del proprio compito storico, è passata attraverso un travaglio teorico e pratico, durato tre secoli, dall’iniziale critica della ricchezza (condotta in tutti i testi del cristianesimo primitivo), alla sua giustificazione e accettazione, e il momento in cui questo passaggio si è consolidato corrisponde esattamente alla maturità filosofica di Agostino e alla conquista del potere con Costantino, avvenimenti coevi.
Ecco perché nell’ “Enciclica” Evangelium Vitae il papa, citando Matteo (19, 17), ci imbroglia limitandosi a riportare solo metà della citazione, e stornandola a giustificare (anzi, a fondare) il “Vangelo della vita”, come lui lo chiama.
La favola parla di un giovane che, avvicinatosi al Maestro gli chiede cosa fare per ottenere la vita eterna, e il Maestro gli risponde di osservare i comandamenti, facendogliene un elenco che comincia col “Non uccidere”. Da qui il papa, facendo operazione di imbroglio più che di ragionamento, trae il proprio spunto per fondare il “Vangelo della vita”, cioè per dire che il rimescolamento dell’ordine dei comandamenti, operato qui dal testo evangelico, con la relativa collocazione del “Non uccidere” al primo posto, è la prova della volontà di difendere la vita come primo bene essenziale. Ma il testo della favola di Matteo continua. Essa difatti racconta che il giovane ricco rispose dicendo che quei comandamenti li aveva tutti seguiti e che voleva sapere qualcosa di più, e la risposta è ben precisa: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Come a dire che la ricchezza è un ostacolo e che la Chiesa non può accettarla.
Ma rifiutare la ricchezza avrebbe significato per la Chiesa condannarsi all’esclusione dal potere, e a nullificare quella sua partecipazione all’autorità terrena che da essa è stata sempre considerata come un passaggio provvisorio per la conquista totale dell’autorità e per il dominio del mondo, naturalmente realizzato per la maggior gloria di Dio.
Ecco perché non ha mai accettato questo rifiuto, anzi ha sempre perseguitato con la violenza e la morte, col fuoco e col ferro, tutti coloro che sostenevano la necessità per la Chiesa di essere povera, per parlare ai poveri e non per colloquiare con i ricchi degli argomenti che interessavano questi ultimi in merito alla gestione del potere, o per reciprocamente contenderselo. Ed ecco perché la Chiesa ha da sempre considerato come eretici tutti i sostenitori del rifiuto della ricchezza e tutti coloro che intendono combattere i ricchi della terra.
Sottraendo all’autorità la forza concreta che le viene dalla ricchezza, e dal commercio con i potenti, la Chiesa avrebbe sottratto all’idea di Dio la possibilità di fondare nella pratica l’idea di autorità e avrebbe costretto quest’ultima a ridursi a puro sopruso, visibile e chiaro per tutti.
[“Canenero” n. 24, 21 aprile 1995, p. 4]
Gentili redattori di “Canenero”
Era mio intento testimoniare pubblicamente in ben altra maniera la mia riconoscenza a mons. Sartori, il Vescovo di Trento, che mi fu largo di consigli e incoraggiamenti sul modo migliore per farmi inculare. Debbo rinunciarvi per sua espressa volontà: così grande è la sua modestia! Essa è anzi tale, che il Maestro fa ben poco caso alla sua universal fama d’artista in materia – ebbe egli medesimo a confessarmi – e la cambierebbe con una anche più modesta nell’arengo della carriera ecclesiastica dove i suoi tanti meriti stentano a trovare spazio. Debolezze di uomini illustri! Da sapere, infatti, che Sartori è autore di molti altri avviamenti al divino gusto dell’inculata, realizzati con arte al cui petto non reggerebbe la gloria della porpora cardinalizia.
Con preghiera di pubblicare, eccetera, eccetera…
P. S. “In primo luogo non c’è nulla di così ingiusto, di così stupido, di così corrotto come la Chiesa e, se a questo carattere generale si aggiunge anche il suo contributo ad ogni organizzazione di potere, ci si convincerà, prima di qualsiasi esperienza, che non ci può essere nell’universo niente di più pernicioso, di dannoso, di inumano per sua profonda natura della Chiesa. Ogni amico dei preti o è uno sciocco o è un prete”.
(Lettera firmata)
[“Canenero” n. 24, 21 aprile 1995, p. 11]
Proclama
Considerato che il papa di Roma, Karol Woityla, si è reso responsabile di ogni peggiore crimine contro le donne, gli uomini, gli animali e la natura, che ha voluto subordinare l’individuo agli sporchi interessi della casta dominante, che si è messo, con tutta la Chiesa, al servizio dei dominatori del mondo, che continua a sostenere il razzismo e la pena di morte, la necessità della legge e del carcere, dello Stato e di ogni repressione, fino alle più feroci e sanguinarie, considerata la sua compromissione con ogni sorta di magno ladrocinio o dittatura nefanda e abominevole, la sua congiura da eunuco contro la vita, esecrazione realizzata con l’inganno e con la frode, la sua losca condanna dell’aborto, dell’eutanasia e del suicidio, con cui ha cercato di purgarci della nostra volontà individuale, l’ambiguo sfruttamento del dolore e della sofferenza degli uomini, con cui spia tutti i nostri più intimi momenti, il controllo delle coscienze arrendevoli esercitato con occhi di spugna per conto dello Stato, la sua negazione della libertà e il suo sostegno del boia, degli eserciti e della guerra, tutto ciò considerato, il papa di Roma, Karol Woityla, è un tiranno, quindi nostro nemico e ogni cosa è legittima contro di lui. Pertanto, invitiamo i lettori del presente proclama a uccidere il papa di Roma, Karol Woityla, liberticida e tiranno. Nell’assolvere al proprio compito ognuno è libero di usare tutti i mezzi che riterrà opportuno: pugnale, veleno, fucile o colubrina, non escludendo i morsi e i calci o l’uso di serpente opportunamente addestrato.
Gli anarchici
Dato a Trento, ventotto volte aprile dell’anno millenovecentonovantacinque
[“Canenero” n. 25, 5 maggio 1995, pp. 6-7. Pubblicato anche su Vietato sparare sul papa. Da una iniziativa anarchica a Trento e dintorni, Rovereto 1995, p. 55]
http://archivio.edizionianarchismo.net/library/alfredo-m-bonanno-teoria-e-pratica-dell-insurrezione