Montevideo, capitale dell’Uruguay, anno 1930; l’Atene del Plata come venne rinominata con una certa superbia. Una città in piena espansione economica e demografica che contava 450.000 abitanti, 7 grandi teatri, 80 sale cinematografiche e 55 quotidiani.
Proprio in quest’anno l’Uruguay è anche il paese scelto per celebrare il primo campionato mondiale di calcio; la nazione è in fibrillazione, i grandi investitori anche; le grandi opere si susseguono una dopo l’altra: stadi, grattacieli, hotel…
Allo stesso tempo però, l’Uruguay è anche un paese con una legislazione tollerante con gli immigrati e saranno infatti migliaia gli europei che confluiranno in questi territori a partire dai primi anni del XX secolo. Molti sono i perseguitati politici fuggiti dai paesi d’origine. Migliaia sono anche gli italiani che emigrano e si stabiliscono a Montevideo.
Tra di loro arriveranno nella capitale anche Gino Gatti, un anarchico italiano nato in provincia di Pavia, sua moglie e la loro piccola bambina. La famiglia Gatti, dopo aver comprato un terreno in via Solano García 2529, di fronte al penitenziario di Punta Carretas, decise di aprire una carboneria: El buen trato. Gli affari andavano per il meglio, giorno dopo giorno le richieste di carbone aumentavano grazie all’efficienza del nuovo carbonaio. Anche i vicini entrarono subito in confidenza con Gino e con sua moglie. Nel marzo del 1931 però la famiglia Gatti decide di lasciare Montevideo per trasferirsi in Argentina, chiudendo così la carboneria dopo nemmeno un anno di attività.
Qualche giorno dopo la partenza della famiglia italiana, i vicini dell’ormai ex-carboneria notano però delle persone che escono correndo dallo stabile. Allarmati, avvisano la polizia che giunge subito sul posto e fa irruzione. Una volta entrati, gli agenti impiegheranno ben poco a capire chi fossero quelle persone che fuggivano di corsa. Infatti, sul fondo di una stanza viene rinvenuto un buco nel pavimento, un pozzo perfettamente illuminato che scende in profondità. Di fianco all’incavatura viene ritrovato un biglietto che recita «La solidarietà tra anarchici non sussiste solo a parole». I poliziotti si calano giù grazie ad una una scaletta ed una volta sul fondo si trovano di fronte un tunnel lungo all’incirca cinquanta metri che una volta percorso porta dritto al bagno del carcere di Punta Carretas.
Viene subito dato l’allarme nel penitenziario e la conta dei detenuti darà il verdetto: undici persone sono evase. Sette sono anarchici: Vicente Moretti, Jaime Tadeo Peña, Garcia Capdevilla e Pedro Boadas Rivas, tutti coinvolti nella rapina al Cambio Mesina e Rafael Egues, Juan Cúneo e Rivero Camoirano, in carcere per un attentato. Gli altri quattro uccel di bosco sono dei detenuti comuni che approfittarono del tunnel per uscire dall’infame carcere.
Coloro che lavorarono alla realizzazione dell’opera furono appunto Gino Gatti, il carbonaio, Miguel Arcangel Roscigna, Andrés Vázquez Paredes e Enrique Fernando Malvicini, argentini e uno spagnolo, Manuel Paz.
Dopo qualche mese dall’evasione gli autori del tunnel e uno dei fuggiaschi verranno sfortunatamente arrestati, alcuni subirono dure condanne mentre altri come Roscigna, Malvicini e Paredes pagheranno con la vita. I loro corpi non verranno mai ritrovati.
Sia i sette evasi, che i costruttori del tunnel, facevano parte dei gruppi d’azione anarchici che agirono nel Sud America tra gli anni 20 e 30, soprattutto tra Argentina e Uruguay. Alcuni di loro – Gatti e Roscigna – con Severino di Giovanni e il suo gruppo, porteranno avanti una serie di attacchi distruttivi contro i simboli del capitale ed una serie di espropri a istituti di credito per finanziare tra le altre cose il Comitato per i prigionieri sociali e deportati di Buenos Aires che dava sostegno economico ai detenuti finiti nelle maglie della polizia, e ai loro famigliari.
Ricercati e perseguitati senza sosta dalla polizia, anche se per poco più di qualche anno, con attentati, espropri, organizzazione di evasioni, queste individualità anarchiche portarono avanti una lotta senza tregua contro lo Stato. Una lotta senza tregua contro il nemico.
Raccontare una storia accaduta oltre ottanta anni fa, non è però quello che vogliamo. Non lo è per un semplice motivo: perché non vogliamo raccontare una storia. Lasciamo ai menestrelli di palazzo l’ingrato compito di raccontare storie; lo lasciamo volentieri a tutti quegli intellettuali e storiografi, scrivani di corte con il compito ben preciso di ri-scrivere avvenimenti vicini o lontani nel tempo smussandone qua e là i fatti fino a renderli appetibili ai più e funzionali al potere. È così che esperienze anarchiche passate, o comunque avvenimenti con un’alta carica insurrezionale, entrano a far parte delle scuderie delle “collane” di editori plurimiliardari diventando dei veri e propri best-seller del genere. Tutto ciò però sarà possibile solo dopo che i panni sporchi dei protagonisti del romanzo verranno lavati debitamente a suon di travisamenti, invenzioni e imprecisioni dettate dall’autore, che aggiustando il tiro renderà il tutto socialmente accettabile e quindi vendibile. Che importa se i veri protagonisti di queste storie sono stati i reietti di questo sistema? Che importa passare sopra la dignità di individui che hanno lottato fino alla morte per l’anarchia rendendoli né più né meno che delle leggende, dei miti, degli eroi? Che importa se queste esperienze, che avevano come fine ultimo quello della distruzione di questa stessa società, oggi vengono da essa fagocitati e anzi, la alimentano?
Tutto questo non ci appartiene, o meglio, ci disgusta. Quello che invece vogliamo riportare alla luce sono le vite di individui, banditi, anarchici, ribelli, di persone che fino alla morte non hanno rinnegato il loro Ideale per uno scranno; che hanno messo in gioco la loro libertà per liberare i loro compagni dalle galere.
Questo contributo cartaceo non vuole essere una lode, non vuole essere una biografia, non vuole essere un memoriale dei bei tempi andati, ma esso è parte attiva della nostra progettualità anarchica. Lo è perché ci riconosciamo nelle individualità che man mano si succedono in questo racconto, ci riconosciamo nelle loro parole, nelle loro azioni, ci riconosciamo in quanto anarchici e ne rivendichiamo la nostra identità, quell’identità che da sempre ci ha contraddistinto.
Questo è ciò che ci caratterizza e che dovrebbe ancora oggi segnare una netta separazione con chi invece non vede in questo mondo che un posto da «rendere migliore» e grazie ai i vari movimenti, cittadinismi e associazionismi dediti a racimolare consensi per diventare dei validi interlocutori con l’autorità, con lo Stato.
Speriamo che questo libretto possa essere un punto di partenza sul quale poter tornare a discutere su chi sono gli anarchici e tutto ciò che ne consegue.
Forse quello che oggi manca, non sono le «condizioni propizie» dettate da una situazione sociale al limite dell’accettabile, ma proprio la chiarezza di cosa si è e cosa si vuole. Per chi scrive, l’anarchia non è un paradiso terrestre da raggiungere, né un’illusione infantile, ma le tensioni che alimentano la nostra conflittualità permanente.
Quello che ci preme è di tornare a parlare e agire da anarchici, senza pensare a chi condividerà o meno i nostri pensieri, i nostri scritti, le nostre azioni. Non vogliamo rinunciare ai nostri sogni, non vogliamo per nulla al mondo reprimere ciò che è nostro per essere compiacenti con chi vede nello Stato un interlocutore, nella polizia un protettore e nella loro giustizia un garante. Non si tratta di essere presuntuosi. Siamo anarchici.
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“El Buen Trato”
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