Adonide
Il celebre pittore spagnolo Salvador Dalì aveva scritto che nulla lo eccitava quanto lo spettacolo di un vagone di terza classe pieno di operai morti, maciullati in un incidente. La sua non era affatto indifferenza nei confronti della morte, tant’è che quando a perire in un incidente fu un suo amico, il principe Mdinavi, egli ne rimase profondamente sconvolto. Semplicemente, per Dalì l’unica morte di cui rammaricarsi era quella di un principe. Niente a che vedere con un carico di cadaveri di operai.
Questa non deve apparire la bizzarria di un personaggio noto per la sua eccentricità. In effetti la morte di un essere umano non costituisce un avvenimento che per gli altri esseri umani. Le circostanze della sua dipartita e l’interesse che essa suscita sono valutati solo da coloro che gli sopravvivono. L’importanza accordata a questo avvenimento — di per sé assolutamente comune — non dipende quindi dall’avvenimento in sé, ma dall’idea che della morte ha chi lo commenta e dal parere che si ha di chi muore.
Ora, noi tutti siamo abituati ad operare una distinzione fra morte detta naturale e morte detta violenta. Senza dilungarci sugli aspetti comici di questi due appellativi, esaminiamo solo quel che stanno a significare: esiste una morte considerata in qualche modo legittima, quella “naturale”; ed una considerata artificiale, quella “violenta”. La morte “naturale” sarebbe opera del caso, del destino. Quando si muore, si muore. Che poi si abbandoni questa terra al termine massimo della nostra corsa, per vecchiaia, o che questo momento venga anticipato da una incurabile malattia, non sembra fare molta differenza. Tutto ciò viene fatto rientrare nel normale andamento delle cose. La morte “violenta” si suddivide a sua volta in due: quella che avviene per incidente e quella generata dalla decisione di una coscienza, che sia quella del morituro (suicidio) o quella di un’altra persona (omicidio). Ed è proprio quest’ultima forma di morte, consapevole, a provocare maggiore costernazione e a turbare l’animo umano.
Esprimendo in sostanza una sorta di gerarchia dei differenti modi di morire dettata dalla morale, le frontiere fra queste differenti qualificazioni della morte fluttuano a seconda delle circostanze. Ad esempio, se le morti che avvengono per incidente — quelle “violente” — a volte stupiscono per la loro elevata quantità, difficilmente generano un dibattito o destano un orrore particolare. Lo stesso concetto di “omicidi bianchi”, diffuso in passato per indicare i quotidiani incidenti sul lavoro che provocano un continuo stillicidio di morti, oggi non trova più molto spazio in un mondo sempre più persuaso che la propria organizzazione sociale sia un fatto del tutto naturale. Se il capitalismo non è una delle tante forme che la struttura sociale può assumere, venendo spacciata per la sola ed unica possibilità a nostra disposizione, è evidente che tutte le morti che causa appaiono inevitabili, frutto di un destino forse perfido ma comunque ineludibile. Quindi l’operaio che perde la vita sotto una pressa, o cadendo da una impalcatura, muore sì di morte “violenta”, ma la sua morte viene comunque considerata “naturale”, non un omicidio. Allo stesso modo, chi muore di cancro viene generalmente considerato vittima di un destino inevitabile. Non si sa mai chi colpirà la sfortuna. Ma che dire se a causare questo cancro è stata una industria particolarmente inquinante? I numerosi processi che regolarmente si svolgono contro le multinazionali per i danni causati dalle loro attività industriali, non dimostrano forse la responsabilità dei loro amministratori nel tragico avvenimento? Queste morti, possono essere annoverate fra quelle “violente” o no?
Come si vede, non appena si comincia ad approfondire il problema, tutte le distinzioni sui vari modi di morire cominciano a vacillare. E crollano completamente se ci si azzarda a considerare al di fuori dei luoghi comuni di una morale dettata dalla Ragione di Stato la morte apertamente consapevole, se si affronta cioè il quesito se sia lecito o meno dare la morte volontariamente a un altro essere umano. Va da sé che, posto in termini del tutto astratti, questo interrogativo non è in grado di risvegliare nessun interesse, tutt’al più dell’indignazione, e la risposta non può essere che un secco no. In fin dei conti, chi mai può giustificare l’omicidio? E invece lo fa ciascuno di noi, nel corso della propria esistenza. Alcuni recenti fatti di cronaca aiuteranno meglio a comprendere il significato di questa affermazione.
Quando ad uccidere è lo Stato
Negli Stati Uniti la macchina della morte statale continua a lavorare senza intoppi. All’inizio di agosto nel Texas sono state eseguite due condanne capitali nel giro di mezz’ora, una piccola catena di montaggio. Uno dei condannati era stato definito minorato mentale all’epoca dei fatti che lo avevano visto protagonista, ma ciò non gli ha risparmiato la vita. Come d’abitudine, queste esecuzioni sono state precedute e seguite da numerose polemiche.
La questione della pena di morte si risolve in poche parole: decidere se lo Stato abbia il diritto di uccidere. Si sa già, tramite l’eccezione costituita dalla “legittima difesa”, che lo Stato accorda questo diritto al singolo individuo che viene aggredito. Ed è invocando la stessa eccezione che lo Stato giustifica le guerre che intraprende, condotte all’occorrenza da regimi d’emergenza. Paradossalmente il ragionamento che autorizza simili imprese, in realtà annulla l’eccezione nel momento stesso in cui pretende di confermarla: l’arte militare insegna infatti che l’attacco è la migliore difesa. Perché la guerra dichiarata non appaia come un inqualificabile sopruso, lo Stato deve mostrare che difende qualcuno o qualcosa; quando l’esercito americano bombarda l’Irak o la Serbia, lo fa per difendere un principio. Questo esempio dimostra come ogni offensiva possa essere definita di difesa, dato che un’offensiva difende sempre un interesse “superiore” o un principio. Ma la necessità di giustificare la difesa in atto, di provare che è l’altro l’aggressore, il truffatore, non è che oggetto di casistica, non è che la necessità di accordare gli atti con le regole del gioco che, nella società demoliberale, è in mano all’Informazione.
Si potrebbe fare lo stesso discorso per i detenuti che finiscono sulla sedia elettrica. In quanto cittadini, appartengono allo Stato. In quanto condannati, sono venuti meno ai loro obblighi nei confronti dello Stato. Lo Stato, che già disponeva della loro vita, può quindi disporre anche della loro morte. Il verdetto di colpevolezza rappresenta solo un tributo alle regole del gioco: responsabili o estranei ai fatti, che differenza fa?
Per parte mia, non ho scelto di concedere la responsabilità della mia vita all’organizzazione della comunità chiamata Stato, ma questa responsabilità mi è stata confiscata, senza che qualcuno mi abbia chiesto nulla, nemmeno — o forse, soprattutto — se per caso avessi una idea migliore in merito. Lo Stato è quindi confisca, anzitutto della mia vita, poi di quella degli altri — è la somma di queste confische. Questo insieme di confische fabbrica delle regole del gioco che sono chiamate leggi, alle quali vengo sottomesso e alle quali per quanto mi è possibile mi sottraggo. E mi sottraggo non a questa o a quell’altra legge quando ne ho l’occasione, o perché sono in disaccordo su un loro dettaglio, ma al loro insieme e per principio. Nessuna legge dello Stato mi è conveniente, perché tutte sono basate sulla usurpazione della mia complicità.
Se entro nel dibattito sulla pena di morte è per sottolineare l’ipocrisia moralista di entrambe le parti. I partigiani della pena di morte condividono il Contratto sociale di Rousseau: se la pena di morte impedisce ad un essere umano di ucciderne altri, si ha un beneficio aritmetico in “vite umane”. Del resto, gli oppositori alla pena di morte avrebbero sottoscritto volentieri, secondo il medesimo calcolo, l’assassinio di Hitler (non era anche lui un essere umano?). Altri sostenitori della pena capitale la considerano dissuasiva, ma si tratta ancora dello stesso calcolo matematico, solo che non è verificabile.
Poi ci sono quelli, ancora più rari, che approvano la pena di morte per le stesse ragioni che spingevano Lacenaire, celebre fuorilegge dell’Ottocento, ad invocarla per sé: trovano la morte preferibile alla prigione a vita. Di fronte alla certezza dell’ergastolo — fine pena mai — posso essere d’accordo. Ma chi sollecita l’esecuzione altrui dovrebbe quanto meno avere il buon gusto di non blaterare di «sacro valore della vita».
Quanto agli avversatori della pena di morte, non hanno argomenti concreti. Non hanno che il precetto morale intriso di sacralità di ciò che essi chiamano vita, e mescolano a questo comandamento religioso l’ipocrisia di una mansuetudine laica. Sono contro la pena di morte finché qualcuno non stupra la loro figlia, non sevizia il loro cane, non ruba il loro portafoglio. Sono contro la pena di morte, ma poi acclamano l’esercito e le forze dell’ordine. Sono contro la pena di morte, ma poi lavorano per qualche industria bellica. Sono contro la pena di morte, ma non muovono un dito in favore di chi, privo di tutto, corre il rischio di morire di fame.
In guerra, in ogni guerra (quindi anche in quella chiamata vita quotidiana), uccidere ed essere uccisi sono evenienze del tutto logiche. Che lo Stato possa uccidere per inavvertenza, per eccesso o per propria Ragione è considerato giusto, non solo secondo le regole che esso proclama, ma secondo la guerra sociale che è in corso. Appare chiaro che il dilagare del concetto di “rispetto della vita” serve ad applicare una misura preventiva da parte dello Stato per limitare il numero di perdite subite in questa guerra. Esso mira a sostituire la prigione alla morte (quando un criminale rischia la morte, rischia la vita, quando rischia la prigione, rischia di essere condannato alla sopravvivenza) e arriva a negare ai soli individui la possibilità morale di uccidere, a meno che non si tratta di proteggerLo dall’offensiva dei suoi nemici. Non che lo Stato sia contrario all’omicidio — a porre termine a una vita umana —: semplicemente ne vuole il monopolio, legale e morale. Il consenso allo Stato è anche consenso al monopolio che detiene dell’omicidio.
Uccidere o conservare?
La scorsa estate in Toscana un ragazzo colpito da un male incurabile è morto grazie all’aiuto di un amico a cui si era rivolto. Non se la sentiva di farla finita da solo. I genitori del ragazzo morto, al corrente della disperazione che lo tormentava, hanno immediatamente fatto sapere di non provare alcun rancore nei confronti dell’amico che aveva ucciso loro figlio. Questa vicenda dimostra che i rapporti autentici fra gli individui non potranno mai venir rinchiusi in nessuna norma sociale, e che ogni codice regolativo garantisce e protegge soltanto la libertà… dello Stato.
Il divieto dell’eutanasia è la più flagrante testimonianza della sacralizzazione della vita attraverso la sua mera conservazione biologica. Tra il dolore e la morte, arbitrariamente, viene deciso a priori che è preferibile il dolore. Quando qualcuno si trova davanti al dilemma se essere handicappato, al punto da non poter più raggiungere gli obiettivi che si era dato, o se farla finita col suo inutile tormento, viene sollecitato da tutte le parti a ricordare l’interdizione della morte: dalla legge, dalla superstizione, dalla protervia di un corpo medico onnipotente. Esistono individui che si trovano in coma irreversibile da anni, mantenuti in questa condizione larvale nel nome della preminenza religiosa della sopravvivenza, benché siano definitivamente diventati incapaci di avere una vita.
Comunque, nonostante l’ideologia umanitaria che l’ostacola, se l’eutanasia conta i suoi nemici può anche contare i suoi amici, che stanno diventando sempre più numerosi. Il mio pensiero è che l’eutanasia dovrebbe essere eseguita non solo su richiesta esplicita del diretto interessato, ma — nel caso questi non ne possa essere consapevole — anche su decisione di coloro che gli erano più vicini, congiunti o amici (a volte più che i familiari, fintantoché questi hanno diritti e interessi legali che rafforzano la loro tirannia sui parenti malati). Gli eventuali errori ed eccessi che potrebbero verificarsi non sarebbero di certo più tragici né più numerosi dell’accanimento terapeutico, che confonde vita e sopravvivenza a profitto esclusivo di quest’ultima, e che viene oggi applicato con tutta la violenza da un esecutivo medico che fonda i suoi poteri su un sapere sommario.
L’eutanasia, atto di dare la morte, si trova al confine fra l’omicidio e il suicidio perché l’oggetto dell’eutanasia può ben essere qualcun altro. Di recente, il suicidio è stato messo in atto da un inglese dopo che un giornale ne aveva pubblicato la foto, con tanto di nome e indirizzo, in una lista di presunti molestatori di bambini. Di fronte allo scandalo e alle possibili sgradevoli conseguenze di una simile pubblicità, l’uomo ha preferito togliere definitivamente il disturbo. Dubito che i seguaci della religione umanitaria si siano commossi davanti alla perdita di questa vita umana, il cui valore, evidentemente, era scaduto coi suoi gusti sessuali.
Anche contro il suicidio, l’idea soggiacente è la conservazione della vita degradata a sopravvivenza. Le differenti forme di suicidio, dall’impiccagione all’utilizzo di farmaci, passando per le numerose forme di nichilismo a buon mercato, contengono tutte le impossibilità riconosciute della vita, laddove sono pochi gli affamati che si suicidano per impossibilità di sopravvivenza: anzi questa è la ragione principale del tabù del suicidio. Poiché l’incapacità di realizzare la propria vita, se fosse discussa prioritariamente sulla pubblica piazza, minaccerebbe di rovesciare coloro che gestiscono quella degli altri evitando di sondare eventuali rimedi. Come diceva un suicida del secolo scorso: «E voi, preti paffuti, rosei, accademici, gesuiti di ogni pelo, di ogni veleno e di ogni tipo, mi ricordereste con tanta sollecitudine questa missione se non la sfruttaste senza pudori? Se non aveste tanto interesse sulla mia vita, che v’importerebbe della mia morte?».
Se si considera che oggi nessuna esistenza raggiunge il termine delle proprie possibilità, il suicidio dovrebbe essere il gesto che onora la chiarezza della coscienza di questa rassegnazione. Se il suicidio segna innanzitutto una assenza — quella del possesso della vita — segna anche una presenza — quella della consapevolezza di preferire la fine della vita al suo divenire altro da sé, alla sua alienazione, alla sua continuazione senza possesso alcuno. Il suicidio continuerà a fare strage di uomini fin quando questi non avranno trovato la via che conduce alla felicità.
E bisogna supporre che se una simile inversione di prospettiva — come minimo una rivoluzione — ridesse alla sopravvivenza il più acconcio ruolo di appendice della vita, ciò trasformerebbe il dono della morte ad altri e a se stessi in atti di pari importanza, poiché un nuovo concetto di “rispetto della vita” implicherebbe una responsabilità di ciascuno radicalmente diversa. Ma che si tratti di una pietosa speranza o di una esigenza minima, questa concezione porta al di là della confusa contrizione nella quale oggi è imballato il suicidio.
Siamo tutti assassini
La morte è da sempre un tabù. I tabù sono quei divieti destinati a mantenere l’integrità del mondo organizzato e contemporaneamente la buona salute fisica e morale di chi li osserva: chi infrange un tabù mette in discussione l’ordine del mondo, ed è appunto per questo che va punito. Ma i tabù rappresentano dei divieti solo all’interno della comunità che li adotta, avendo validità solo nei confronti dei suoi appartenenti. In molte società umane del passato era proibito uccidere un membro della propria comunità, mentre era consentito uccidere un estraneo. Solo uccidere un proprio simile era considerato riprovevole. Lo era a tal punto che molte società umane non punivano nemmeno il trasgressore, che a volte non veniva neppure disturbato (in molte tribù eschimesi, ogni omicidio era considerato accidentale). Nel caso si fosse deciso di punirlo, lo si sarebbe allontanato senza mezzi di sopravvivenza, ma senza ucciderlo. Si capisce così il significato dato da alcuni studiosi alla definizione araba di clan: «gruppo dove non avviene vendetta di sangue». La vendetta era, assieme al matrimonio, uno strumento con cui si manifestavano rapporti fra gruppi sociali differenti: la vendetta corrispondeva allo stato di guerra, il matrimonio allo stato di pace. Tra appartenenti allo stesso gruppo, allo stesso clan, alla stessa famiglia, non era consentita né la vendetta né il matrimonio (da cui il tabù dell’omicidio e quello sessuale). Vendetta e matrimonio dovevano unire e allontanare soltanto chi non era già unito dall’identità di nome e di natura.
Ma ormai esiste una sola comunità, che fornisce a tutti un nome e un’identità: la comunità del Capitale. Prima di essere uomini o donne, occidentali o orientali, ricchi o poveri, siamo consumatori. Se ci è consentito di avere rapporti sessuali, anche qui coi limiti del caso, non possiamo però sterminarci a vicenda. Nel nome della pace di ciò che ci accomuna — la pace dei mercati — si è fatta la guerra a ciò che ci divide — la guerra all’Individuo. Si capisce meglio il motivo per cui la morale dominante abbia fatto del “rispetto della vita” uno dei suoi ritornelli preferiti: «rispettate la vita, consideratela sacra, non ricorrete mai alla violenza».
Oggi la tolleranza, nella quotidiana forma martellante propinataci dall’Informazione, è diventata una costrizione obbligatoria e restrittiva al diretto servizio dello Stato. Se la tolleranza all’epoca dell’Inquisizione era un appello a tollerare i roghi e ad essere intolleranti nei confronti delle eresie, allo stesso modo la tolleranza del moderno umanitarismo democratico consiste in un invito a tollerare l’esistente e ad essere intolleranti verso chi vi si oppone. E già, perché sotto il cemento dei supermercati pulsa mai sopita la singolarità dei nostri desideri, dei nostri interessi, delle nostre attitudini, dei nostri sogni, che ci dividono gli uni dagli altri. Se i ricchi devono tollerare i poveri e i poveri devono tollerare i ricchi, tutta questa tolleranza mi sembra che sia ad esclusivo beneficio dei primi. A ben pensarci, chi parla di tolleranza ha in bocca un cadavere putrefatto. Il segreto che non si ha il coraggio di svelare è presto detto: nessuno tollera tutto, così come nessuno tollera niente. Ciascuno di noi tollera alcune cose, persone e idee, e non ne tollera altre. Senza eccezioni. Motivo per cui l’ideologia umanitaria del “rispetto della vita” è solo una immonda ipocrisia.
Sono ipocriti tutti coloro che parlano del sacro “valore della vita umana”. Lo è il politico democratico che, quando non è un difensore della pena di morte, vota per dare il via a “bombardamenti umanitari”. Lo sono i suoi elettori, che davanti alla televisione brindano alla notizia della morte di un mafioso. Lo sono i gendarmi, assassini legalizzati, e i loro amici. Lo sono tutti coloro che ammazzerebbero un tiranno, ma in nome di qualche nobile ideale. Lo sono gli individui suicidi, tutti coloro che praticano l’eutanasia, e tutti i loro amici. Lo sono le donne stuprate che ammazzerebbero il loro stupratore. Lo sono tutti i sostenitori della Resistenza. Chiunque è in grado di continuare l’elenco di questi esempi.
In realtà, siamo tutti assassini o potenziali tali. Se le nostre mani non sono già sporche di sangue lo potrebbero diventare in qualsiasi momento, è solo una questione di circostanze. Da un lato proclamiamo che la vita è sacra, dall’altro pensiamo che non tutti però meritano di vivere. Ma allora, cos’è che dà valore a una vita umana? La vita “che va rispettata” si distingue da quella “che non merita rispetto” per l’esistenza nella prima di una prospettiva a noi comune. È solo questa prospettiva che determina ai nostri occhi il valore di un individuo, non l’astratta appartenenza al genere umano. Questa può assumere valore solo in assoluta mancanza di informazioni più precise. La vita di un perfetto sconosciuto ci può anche apparire inviolabile, ma non appena dovessimo scoprire che è un assassino di bambini la nostra mano vorrebbe una pistola. Sto ricorrendo a un facile esempio, in grado di riscuotere un’adesione pressoché unanime: assassino di bambini. Comunque ciascuno di noi ha in mente altre vite che vedrebbe volentieri spezzate, vite in cui non ci trova alcun valore da difendere.
Viceversa, una prospettiva di vita, quando è la nostra prospettiva, la mia, non è mai superflua. Ciò che penso, ciò che faccio, ciò che amo, ciò in cui credo, tutto ciò è il mio mondo. Se non lo possedessi la mia esistenza su questa terra mi parrebbe superflua. Per difendere, sviluppare, realizzare questo mio mondo sarei capace di tutto. Anche di uccidere. Perché no? La morte di chi mette in pericolo questo mio mondo mi è indifferente. Ciò non significa che io intenda uccidere tutti coloro che non sono come me, ma solo che la loro scomparsa non cambierebbe nulla nella mia vita immediata. In mezzo all’indifferenza che ho del massacro quotidiano, io piango solo quelli che si sono mostrati miei simili, quelli le cui azioni corrispondono anche solo in parte ai miei desideri. È solo la loro morte che mi colpisce, quella degli altri no.
Se ritengo che per realizzare i miei desideri una parte dell’umanità debba essere soppressa, cosa faccio? Devo perseguire il mio scopo o cedere a un principio che viene ritenuto superiore, ma senza nessuna giustificazione di questa superiorità? Non pongo questo interrogativo perché intendo sopprimere una parte dell’umanità (sebbene l’insieme di persone che governano la nostra esistenza meriterebbe più di uno sforzo per raggiungere questo obiettivo) ma per profanare il tabù della morte, che è un ostacolo alla realizzazione di qualsiasi desiderio.
Parte della vita
La morte sconvolge. Ma ciò che turba il nostro animo non è il preteso istinto di conservazione, quanto l’insoddisfazione di non aver realizzato tutto ciò verso cui tende ciascuno di noi. Si muore sempre troppo presto. Questa totalità, impossibile da realizzare oggi, è del resto ciò che rende ogni morte insoddisfacente. Certo, l’approccio nei confronti della morte non è uguale dappertutto. In Somalia, dove si muore per fame come per armi, sarebbe impossibile far credere ai poveri, come avviene in Europa, che si possa morire soddisfatti dopo aver vissuto in modo tanto insoddisfacente; o che la morte è una calamità, indifferentemente da chi ne sia la vittima.
L’abuso di divieti che la nostra società fa pesare sulla morte ha come conseguenza l’opinione comune che pretende che vita e morte siano opposti. Nulla è più nocivo alla vita del considerare la morte al di fuori di sé: la morte fa parte della vita in quanto suo termine, suo confine, sua frontiera. La morte è una fine, una fine troppo importante per una vita da essere lasciata al caso. Ma l’importanza del come si muore assume significato solo per chi ha a cuore l’importanza del come si vive.
«…saggiamente fuggendo gli elementi di morte, noi non miriamo che a conservare la vita, mentre entrando nel territorio che la saggezza ci suggerisce di sfuggire, noi la viviamo»
[Diavolo in corpo, n. 3, novembre 2000]
The value of life
Adonide
The famous Spanish artist Salvador Dali wrote that nothing excited him as much as the spectacle of a third-class train-car full of dead workers crushed in an accident. He was not at all indifferent uncaring in the face of death since when a friend of his, Prince Mdinavi dies in an accident, he was deeply upset by it. It was simply that, for Dali, the only death for which to grieve was that of a prince, which has nothing in common with a load of workers’ corpses.
This should not be taken as the whimsy of a person known for his eccentricity. Actually, the death of a human being does not constitute an event except in relationship to other human beings. The circumstances of a person’s death and the interest that it rouses are valued only by those who survive him. The importance accorded to this even — in itself, absolutely common — does not, therefore depend on the event in itself, but on the idea of death that the one who comments on it holds and the opinion one has of the one who died.
Now, we are all in the habit of making distinctions between those deaths called natural and those called violent. Without digressing on the comical aspects of these two epithets, let’s examine only what they mean: there is a kind of death that is considered legitimate in some way, the “natural” death; and a kind that is considered artificial, the “violent” death. The “natural” death would be the work of chance, of destiny. When one dies, one dies. Whether we abandon this earth at the furthest term of our span due to old age, or this moment is anticipated because of an incurable illness, doesn’t seem to make much difference. All this is made to return into the normal progression of things. “Violent” deaths, in their turn, are split into two types: those that occur by accident and those that are a conscious decision, whether of the one who dies (suicide) or of another person (murder). And it is this latter form, death by conscious decision, which provokes the greatest consternation and disturbs the human mind.
While substantially expressing a kind of hierarchy, dictated by morality, of the different ways of dying, the borders between these different qualifications of death fluctuate according to circumstances. For example, if deaths caused by accidents — “violent” deaths — are also sometimes surprising due to their high numbers, they hardly generate debate or arouse special horror. The concept of “white murder”, widespread in the past to point to the daily accidents on the job that cause a continuous flow of deaths, no longer finds much space in a world increasingly convinced that its social organization is a completely natural fact. If capitalism is not one of many forms that social structures could assume and is sold as the sole and unique possibility available to us, then all the deaths it causes seem inevitable, the fruit of a perhaps malignant, but nonetheless unavoidable fate. Thus, the worker who loses her life under a press, or falling from a scaffolding, certainly dies a “violent” death, but it is still considered “natural”, not murder. In the same way, one who dies of cancer is generally considered a victim of an inevitable fate. One never knows who the misfortune may strike. But what can we say if this cancer was caused by a particularly harmful industry? Don’t many trials that regularly take place against multinationals for damages caused by their industrial activities show the responsibility of their directors in these tragic events? Can these deaths be counted among the “violent” ones or not?
As we see, as soon as we start to examine the problem deeply, all the distinctions between the various ways of dying begin to waver. And they collapse completely if we risk considering openly aware death outside of the commonplaces of a morality dictated by the State Reason, i.e., if we face the problem of whether it is permissible or not to willfully cause the death of another human being. It goes without saying that when this question is posed in completely abstract terms, it is unable to rouse anyone’s interest. At the most, it rouses indignation, and the response could only be a dry no. In the end, who could ever justify murder? Instead we all do it to each other* throughout the course of our existence. Some recent** events from the news will help us better understand this statement.
When the State kills
In the United States, the state death apparatus continues to operate unhindered. At the beginning of August in Texas, two prisoners condemned to capital punishment were executed in the course of a half hour, a small assembly line. One of those condemned was described as mentally disabled at the time of the events of which he was the protagonist, but this did not save his life. As is customary, numerous polemic preceded and followed these executions.
The question of the death penalty is sorted out in a few words: deciding whether the state has the right to kill. We already know, through the exception established as “legitimate defense”, that the state grants this right to the individual who is attacked. And by invoking the same exception, the state justifies the wars that it embarks upon, carried out when necessary by emergency regimes. Paradoxically, the reasoning that authorizes such enterprises, in reality nullifies the exception in the very moment that it claims to affirm it: military art teaches that attack is the best defense. In order that the declared war does not appear as a despicable abuse of power, the state must show that it is defending someone or something: when the American armed forces bomb Iraq or Serbia they claim to be defending a principle. This example shows how every offensive can be defined as a defense, since an offensive always defends a “higher” interest or principle. But the need to justify the defense in action, to prove that the other is the aggressor, the swindler, is only the purpose of case studies, the need to bring acts into agreement with the rules of the game that, in liberal democratic society, is in the hands of the mass media.
One could make the same argument about the condemned prisoners who end up on the electric chair. As citizens, they belong to the state. As condemned prisoners, they have failed in their duties toward the state. The state, which already arranges their life, can arrange their death as well. The guilty verdict is only a tribute to the rules of the game: answerable or extraneous to events, what’s the difference?
For my part, I have chosen not to concede the responsibility for my life to the community called the state, but this responsibility has been taken from me without anyone ever asking me about anything, not even — or maybe, particularly not — if, by chance, I have a better idea about it. Thus, the state is the confiscation first of all of my life, then of the lives of others — it is the sum of these confiscations. This ensemble of confiscations produces the rules of the game that are called laws, to which I am subjected and from which I withdraw myself as much as possible. And I don’t withdraw myself from this or that specific law when I have the opportunity or because I don’t agree with its details, but from the whole ensemble and in principle. No law of the state is of any use to me, because all are based on the usurpation of my complicity.
If I enter into the debate on the death penalty, it is to point out the moralistic hypocrisy of both sides. The partisans of the death penalty participate in Rousseau’s Social Contract: if the death penalty prevents one human being from killing others, one has a numerical benefit in “human lives.” On the other hand, those who oppose the death penalty would have willingly endorsed, according to the same calculation, the assassination of Hitler (wasn’t he a human being too?). Other supporters of the death penalty consider it a deterrent, but it is still about the same mathematical calculation; but in this case, it cannot be verified.
Then there are those, even rarer, who favor the death penalty for the same reasons that Lacenaire, the famous 19th century outlaw, put forward, invoking it for himself: they find death preferable to life imprisonment. If I were facing life imprisonment — endless punishment — I might agree. But anyone who urges the execution of others should at least have the good taste not to blather on about “the sacred value of life.”
The opponents of the death penalty have no concrete arguments. They have only the moral precept drenched in the sacredness of what they call life, and mix this religious commandment with the hypocrisy of secular meekness. They are against the death penalty as long as no one rapes their daughter, tortures their dog or steals their wallet. They are against the death penalty, but then they praise the military and the forces of order. They are against the death penalty, but then they work for some part of the way industry. They are against the death penalty, but don’t lift a finger in support of those who lack everything and risk dying of starvation.
In war, in every war (and so also in the one called daily life), killing and being killed are contingencies of the total logic. That the state can kill inadvertently, excessively or for its own Reasons is considered just, not only according to the rules that it proclaims, but according to the social war that is going on. It seems clear that the spread of the concept of “respect for life” serves to enforce a preventative measure on the part of the state to limit the number of losses suffered in this war. It tends to support prison over death (when a criminal risks death, she risks life; when he risks prison, he risks being condemned to survival) and succeeds in denying the moral possibility of killing to mere individuals, unless it is a question of protecting It from the offensive of its enemies. Not that the state is against murder — against putting an end to human life. It simply wants the legal and moral monopoly over it. Consent to the state is also consent to the monopoly it holds over murder.
To kill or to preserve?
Last summer in Tuscany, a young man who had been struck by an incurable illness died with the help of a friend to whom he had turned. He didn’t feel like ending it alone. The parents of the dead young man, aware of the desperation that had tormented him, immediately made it known that they felt no resentment against the friend who had killed their son. This event shows that authentic relationships between individuals can never be enclosed in any social norm and that every regulative guaranteed and protects only the freedom… of the state.
The prohibition of euthanasia is the most glaring evidence of the sanctification of life through its mere biological preservation. It is arbitrarily decided that between pain and death, pain is a priori preferable. When someone finds herself faced with the dilemma of whether to be disabled to the point where she can no longer achieve the goals he has set for himself or to put an end to her useless torment, she is urged from all sides to remember the prohibition against death: by the law, by superstition, by the arrogance of an all-powerful medical corps. There are individual who exist in an irreversible coma for years, preserved in this larval condition in the name of pre-eminence of survival, even though they have definitively become incapable of having a life.
But despite the humanitarian ideology that opposes it, if euthanasia has its enemies, it also has its friends, whose numbers are growing. I think that euthanasia should be carried out not only at the explicit request of the one directly involved, but — in the case of one who is no longer conscious — at the decision of those closest to them as well, relatives or friends (at times more than families, so long as the latter have rights and legal interests that reinforce their tyranny over sick relatives). The possible errors and excesses that might occur would certainly not be more tragic or numerous than the heroic treatment that confuses life and survival to the exclusive benefit of the latter, and that is applied today with total violence by a medical executive who bases his power on perfunctory knowledge.
Euthanasia is an act of killing that is found on the boundary between murder and suicide, because the object of euthanasia could well be someone else. Recently, an Englishman killed himself after a newspaper published a photo with his name and address in a list of alleged child molesters. Facing scandal and the possible unpleasant consequences of such publicity, the man preferred to put an end to this trouble. I doubt that the followers of the humanitarian religion were moved by the loss of this human life, the value of which had clearly expired with his sexual preference.
Against suicide as well, the ruling ideal is the preservation of life degraded to survival. The different forms of suicide, from hanging to the use of drugs to the many forms of cheap nihilism, contain all the recognized impossibilities of life, whereas very few starving people kill themselves due to the impossibility of survival: rather, this is the main reason for the taboo on suicide. Because if the inability to fulfill one’s life were discussed as a matter of priority in public, on the streets, it would threaten to overthrow those who manage other people’s lives, avoiding to probe into remedies. As a suicide of the last century said: “And you chubby, rosy, academic, jesuitic priests of every stripe, of every poison, of every type, why would you remind me of this mission with so much care, if you had not exploited so shamelessly? Since you had so little interest in my life, what could my death matter to you?”
If one considers that today no existence whatsoever attains the fullness of its possibilities, suicide would have to be the act that honors the clarity of consciousness of this resignation. If suicide, first of all, points to an absence — that of the possession of life — it also points to a presence — that of the awareness that one prefers the ending of one’s life to its separation from oneself, to its alienation, to its continuation when one does not possess any of it. Suicide will continue to destroy human beings for as long as they don’t find a path that leads to happiness.
And it is necessary to assume that if such a reversal of perspective — at least a revolution — were to reduce survival to its appropriate role as an appendage of life, this would transform giving death to others and to oneself into acts of equal importance, since a new conception of “respect for life” would imply a radically different responsibility for each individual. Not at all a question of pitiful hope or minimum requirements, this conception leads beyond the confused contrition in which suicide is packaged today.
We are all murderers
From time immemorial, death has been taboo. Taboos are the prohibitions used to maintain the integrity of the organized world and at the same time the good physical and moral health of those who observe them. Anyone who breaks a taboo calls the order of the world into question and this is precisely why she is punished. But taboos constitute prohibitions only within the community that adopts them, having validity only with respect to its members. In many human societies in the past, killing a member of one’s community was prohibited, whereas killing an outsider was permitted. Only killing one’s like was considered blameworthy. It went so far that many human societies didn’t even punish the transgressor who, in turn, wasn’t disturbed (in many Inuit tribes, every murder was considered accidental). When a tribal society decided to punish the killer, he would be exiled without the means of survival, but without being killed. Thus, one can understand the significance that some scholars give to the Arab definition of clan: “the group in which blood vengeance is not carried out.” Vengeance , along with marriage, was a tool with which relationships between different social groups was expressed: vengeance corresponds to the state of war, marriage to the state of peace. Neither vengeance nor marriage were allowed between members of the same group, the same clan, the same family (thus, the taboo against murder and the sexual taboo). Vengeance and marriage were supposed to unite and distance only those who were not already united by the identity of name and kind.
But now there is a single community, which furnishes a name and identity to everyone: the community of Capital. Before being men or women, western or eastern, rich or poor, we are consumers. If we are allowed to have sexual relations, also here with necessary limits, we still cannot kill each other. In the name of the peace of what we have in common — the peace of the market — war is made against what divides us — war against the individual. One better understands why the ruling morality has made “respect life, consider it sacred, never resort to violence” one of its preferred refrains.
Today tolerance, in the everyday, relentless form poured out on us by the mass media, has become an obligatory and restrictive constraint directly in the state’s service. If tolerance in the time of the Inquisition was an appeal to tolerate the pyres and to be intolerant of heresy, in the same way, the tolerance of modern democratic humanitarianism consists in an invitation to tolerate the existent and to be intolerant of anyone who opposes it. And of course, this is because beneath the concrete of the supermarket, the uniqueness of our desires, our interests, our aptitudes, our dreams, which distinguish us from one another, pulses unappeased. If the rich have to tolerate the poor and the poor have tolerate the rich, all this tolerance seems to me to be exclusively to the benefit of the rich. And considering it well, anyone who talks of tolerance has a rotten corpse in his mouth. The secret that no one has the courage to reveal is quickly said: no one tolerates everything, just as no one tolerates nothing. Every one of us tolerates some things, people and ideas, and doesn’t tolerate others. Without exception. This is why the humanitarian ideology of “respect for life” is only a filthy hypocrisy.
All those who speak of the sacred “value of human life” are hypocrites. There is the democratic politician who, if he is not a defender of capital punishment, votes to give the go-ahead to “humanitarian bombing”. There are his voters, who sit in front of the TV toasting the news of the death of a mafioso. There are the police, legal assassins, and their friends. There are all those who would kill a tyrant, but in the name of a noble ideal. There are the individual suicides, those who practice euthanasia and all their friends. There are those who have been raped and who kill their rapists. There are all the supporters of the Resistance. Anyone could add to the list of examples.
In reality, we are all murderers, at least potentially. If our hands are not already bloodstained, they might be at any moment; it’s only a question of circumstance. On the one hand, we proclaim that life is sacred; on the other hand, we think that not everyone deserves to live. But then, what is it that gives value to human life? We distinguish the life “that is respected” from the one “undeserving of respect” by the existence in the former of a perspective in common with our own. It is only this perspective that determines the value of an individual in our eyes, not abstract membership in the human species. This can take on value only in the absence of more precise information. The life of a perfect stranger might even seem inviolable to us, but as soon as we discovered that he is a child killer, our hand would want a pistol. I am resorting to an easy example, capable of drawing nearly unanimous agreement: child killers. However, we can think of other lives that we would willingly see destroyed, lives in which we find nothing worth defending.
On the other hand, a life perspective, when it is our perspective, my perspective, is never superfluous. What I think, what I do, what I love, what I believe, this is my world. If I did not possess it, my life on this planet would seem superfluous to me. I would be capable of anything in order to defend, develop and realize this world of mine. Even killing. Why not? The death of someone who puts this world of mine in danger is indifferent to me. This does not mean that I intend to kill all those who are not like me, but only that their disappearance would change nothing in my immediate life. In the midst of the indifference that I feel toward the daily slaughter, I mourn only for those who have shown themselves to be my likes, those whose actions correspond, even if only partially, to my desires. Only their deaths strike me. Those of others, no.
If I hold that, in order to realize my desires, a portion of humanity must be eliminated, what do I do? Should I pursue my aim or submit to a principle that is held to be superior, but without any justification for this superiority? I don’t raise this question because I intend to eliminate a portion of humanity (although the group of people who govern our existence would be deserving of a greater effort to achieve this aim) but to desecrate the death taboo that is an obstacle to the realization of any desire.
Part of life
Death is upsetting. But what disturbs our minds is not the supposed survival instinct so much as the dissatisfaction of not having realized everything toward which we all strive. On always dies much too soon. This totality, impossible to realize today, is furthermore what makes every death unfulfilling. Of course, the approach in the face of death is not the same everywhere. In Somalia, where on dies from hunger like from weapons, it would be impossible to make the poor believe — as happens in Europe — that one could die satisfied after having lived in such an unsatisfactory way, or that death is a calamity regardless of who its victim is.
The prohibitory abuse that our society heavily lays on death has as a consequence the common opinion that claims that life and death are opposites. Nothing is more harmful to life than to consider death to be outside of it; death is part of life as its end, its limit, its boundary. Death is an end, and end much too important for a life to be left to chance. But the importance of how one dies assumes meaning only for one who has taken to heart the importance of how one lives.
“Sagely avoiding the elements of death, we only aim to preserve life, whereas by entering the territory that wisdom advises us to avoid, we live it.”
[Diavolo in corpo, n. 3, 11/2000]
* Or oneself (tr.)
** “Recent” as of the year 2000 (tr.)