Straniera

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Ersilia Cavedagni
Ho traversato l’Oceano; e allontanandomi dalla terra dove gli esseri sono separati dalle sciocche divisioni di frontiere, di Stati, di rivalità, di tradizioni di odio, ebbi per un istante l’illusione che là, in mezzo al mare, su quel naviglio perduto nell’immensità dell’Oceano, fra i pochi esseri ivi raccolti da un destino quasi per tutti comune, fossero cessate le maledette vibrazioni di quel sentimento nefasto che si chiama patriottico.
Povera illusione la mia! E ben presto ne feci l’esperienza a mie spese.

Quando la necessità dell’avvicinamento ebbe fatto noto a quegli emigranti uomini e donne, per lo più scandinavi, irlandesi, inglesi, che io ero una straniera, e la mia lingua era diversa dalla loro, e il mio vestito pure, e tutte le mie abitudini infine, quando essi seppero che io ero una figlia della disgraziata terra d’Italia, io vidi con dolore allargarsi intorno a me come un gran cerchio di diffidenza e d’isolamento. Né bastò. Alcune creature, nella loro povera ignoranza che mi faceva compassione, aggiunsero talvolta, durante i tristi giorni del viaggio, la cattiveria dello scherno e della derisione.
Il cuore mi si serrava per la pena che la disposizione d’animo di quegli esseri verso di me suscitava nel mio animo, più che per me stessa per loro. E degli impeti di rabbia e di sdegno mi assalivano, non contro quegl’incoscienti, ma contro la società che li rende tali.
Ed io pensava: Com’è malvagia una società che nell’animo dei suoi figli suscita l’avversione stupida per altri esseri, a loro simili, i quali non hanno altra colpa che di non parlare la loro lingua, di esser nati sotto un altro cielo, dove il caso pose i loro parenti, e di avere costumi differenti.
E questi sventurati, nel cui cervello piccino sembrerà forse generosa l’idea d’essere tanto religiosi del culto di patria, da disprezzare tutti gli esseri che son figli d’un altro suolo, questi sventurati son condannati a portare, ramingando pel mondo, il veleno di quest’odio che le tradizioni e l’educazione accumulano bestialmente nel loro animo; e chi sa quante volte susciteranno in altri esseri il conflitto di questi odii, e saranno vittime della loro funesta illusione patriottica.
Ah, maledetto questo concetto meschino di patria, che schiera gli esseri, dalla natura destinati ad esser fratelli, l’uno di fronte all’altro, stupidamente, inutilmente, ferocemente.
E mai come in quei tristi giorni della traversata dell’oceano, io compresi quanto grande sia la colpa, e quanto più grande dev’essere l’espiazione di una società infame che, contro ogni legge naturale ed umana, ha creato, per un capriccio malvagio, il delitto di essere stranieri.
(La Questione Sociale, Anno IV, n. 92 del 31 dicembre 1898)