È l’alba del 13 giugno 2012. I carabinieri del ROS — in combutta con la Procura di Perugia — bussano assai poco discretamente alla porta di alcune decine di anarchici, in tutta Italia, effettuando otto arresti (altri due compagni, da tempo in carcere in Svizzera e in Germania, vengono raggiunti dal medesimo provvedimento) e numerose perquisizioni in case e spazi anarchici.
L’ennesima ondata repressiva lanciata contro il movimento viene chiamata “Operazione Ardire”, forse in omaggio a quella saggezza popolare che ha suggerito agli inquirenti di andare a caccia di arditi fra chi non teme il dire. La cosa che accomuna quasi tutti gli anarchici coinvolti in questa inchiesta è di sostenere apertamente la necessità dell’azione diretta, anche e soprattutto nella sua espressione individuale, trasgredendo i dettami della collettività sanzionatrice — istituita o in divenire…
La sensazione più comune è di essere a un passo dal baratro. Più che una vita da vivere con gioia, la stragrande maggioranza delle persone si accontenta di una sopravvivenza trascinata a fatica, facendo quotidianamente ciò che le è sgradito, non ciò che vorrebbe fare. Un’esistenza di rinunce, delusioni, abbandoni, sconfitte, rassegnazione. Una servitù volontaria accettata pur di evitare la miseria più nera. Se questa è la regola, come stupirsi di fronte alla trasgressione? Noi non ce ne stupiamo. Chi decreta ed impone le regole nemmeno, però deve correre ai ripari. Soprattutto oggi, quando persino la sopravvivenza è in pericolo. Ogni trasgressione diventa allora un pericolo immediato. Anche se piccola, minoritaria, debole, sporadica, è comunque simile a un virus che, se non immediatamente isolato e neutralizzato, può causare gravi danni alla salute di questa società fondata sul denaro. Ciò spiega come mai i terapeuti stipendiati dallo Stato siano continuamente al lavoro, con l’uso di mille strumenti, inventando mille antidoti, scoprendo mille vaccini per tenere a bada la minaccia di uno sconvolgimento sociale.
Oggi, in preda al panico davanti all’approssimarsi di questa minaccia, danno i numeri e distribuiscono a destra e a manca articoli come il 270 (“associazione sovversiva”) o all’occorrenza il 416 (“associazione a delinquere”). Ne stanno scoprendo ovunque, di codeste associazioni. Che, oltre ad essere diffuse sul territorio, pare siano costituite dagli individui più disparati. È solo una questione di circostanza e di occasione. Nei confronti dei suoi nemici più espliciti, lo Stato agisce ventiquattr’ore al giorno e trecentosessantacinque giorni all’anno; nei confronti degli altri, aspetta il momento più propizio. Ma prima o poi viene il turno di tutti, del sovversivo indisciplinato e del sindacalista incazzato, dell’animalista radicale e del disoccupato autorganizzato, dell’ecologista indignato e del lavoratore precarizzato…
Tuttavia l’estensione del controllo sociale non sarà mai in grado di garantire la quiete nelle strade delle città e nel cuore degli individui che le percorrono, mentre può prepararne il disordine. Più la regola si stringe attorno ai desideri degli individui, più aumenta — oltre alla loro mansuetudine — anche la voglia di trasgressione, con effetti dirompenti.
Certo, anche la trasgressione ha il suo arsenale. Un arsenale ricco, composito, accumulato in secoli di lotte, dove chiunque può trovare ciò che più gli aggrada. Fra le armi a disposizione c’è anche la violenza. Non la violenza cieca e indiscriminata del terrorismo, che è solo opera dello Stato, ma la violenza del sabotaggio e dell’azione diretta, individuale o collettiva che sia. Di fronte a una vita priva di senso, niente e nessuno potrà mai impedire alla rabbia di esplodere. Se si contamina il mondo con le radiazioni, è inevitabile che qualcuno colpisca chi ne trae profitto. Se si mettono sul lastrico migliaia di persone, è inevitabile che qualcuno se la prenda con gli strozzini. Se si devasta l’ambiente per costruire Grandi Opere, è inevitabile che qualcuno ne saboti i cantieri. Se si violenta la vita, è inevitabile che qualcuno attacchi gli stupratori. Ma solo l’immonda logica sbirresca può vedere in ogni abitazione un covo, in ogni petardo un ordigno, in ogni difesa della propria intimità una forma di clandestinità, in ogni gesto di solidarietà una congiura, in ogni singola arma una santabarbara.
Andando a ritroso nel tempo, quando una quindicina di anni fa un magistrato di Roma inventò una banda armata (ed i soliti Ros adescarono e addestrarono una falsa pentita) per liquidare un buon numero di anarchici, i più alzarono le spalle come se la cosa non li toccasse: «in fin dei conti, se la sono voluta», «a noi non capiterà mai», «così imparano a comportarsi». Quasi tutti convinti che solo chi non ripudia le azioni considerate violente attiri su di sé la repressione dello Stato. Quanto è accaduto in seguito ha dimostrato l’infondatezza di tale convinzione, nonché lo scarso acume nel non comprendere che la criminalizzazione di una idea avrebbe aperto la strada all’incriminazione di qualsiasi altra idea ritenuta sovversiva.
Oggi a farsi avanti è una Procura nota per il suo accanimento, quella di Perugia, coadiuvata da un generale famigerato per i suoi intrighi. Qualcuno continuerà ad alzare con indifferenza le spalle? O sapremo intensificare, pur nelle rispettive differenze, senza cieche esaltazioni e vili prese di distanza, l’attacco contro questo mondo?
[volantino distribuito a Roma il 29/6/12 – scaricabile dai Papiri]