Per regolare i conti (it/fr)

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Lope Vargas

Inviolabilità

Se si pensa che nella tradizione cristiana già il primo uomo apparso sulla terra disobbedisce al precetto divino ed incorre per questo nella punizione, e che a commettere il primo omicidio è un suo diretto discendente, è evidente come l’origine della giustizia si perda nella notte dei tempi, nascendo in risposta al problema posto da chi disturba l’ordinamento sociale ed economico.

Motivo per cui dichiararsi contro la giustizia risuona all’orecchio dei più come uno scherzo di cattivo gusto, una provocazione, una follia, specialmente in un’epoca giustizialista come quella che stiamo attraversando. Un luogo comune di secolare solidità vuole infatti che non si possa avversare la giustizia, perché altrimenti ciò significherebbe essere a favore dell’ingiustizia, del sopruso, della tirannia. E questa convinzione è penetrata talmente a fondo nell’animo umano che tutti coloro che nel corso della storia hanno criticato la giustizia si sono sempre premurati di specificare di essere contrari solo ad un suo particolare operato, a una sua cattiva gestione, a una sua applicazione considerata errata. Ma la giustizia in sé, la giustizia in quanto tale, è sempre stata considerata un concetto inviolabile.

Dati per scontati sia il disordine della condotta umana che la necessità di porvi un freno attraverso la giustizia, il solo dubbio capace di macchiare la nobiltà di questa misura riguarda al più la rettitudine di chi è incaricato ad amministrarla. La dea munita di spada e bilancia per manifestarsi ha bisogno di sacerdoti, i quali a volte possono non dimostrarsi all’altezza del compito affidatogli. Tutte le discussioni sulla giustizia si esauriscono qui, con la richiesta di un giudice umano capace di rompere con le tradizioni di una magistratura mummificata e fossilizzata negli articoli di un codice feroce. Per esprimersi “realmente”, la giustizia non ha bisogno di un giudice funzionario, nemico naturale di chi ha violato il codice e che distribuisce sentenze in maniera automatica, ma di un giudice che faccia sentire il soffio dell’eguaglianza e della fratellanza nelle assoluzioni come nelle condanne. Perché — ci viene detto — è la legge che deve essere fatta per l’uomo, e non l’uomo per la legge. Chissà!

Soggezione

«Giustizia (s.f.): un articolo che lo Stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino, in ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi»: Ambrose Bierce

In effetti esiste più di un buon motivo per cui le critiche alla giustizia hanno avuto come oggetto principale la sua pretesa neutralità. Se è vero che Giustizia è sinonimo di Virtù — di una virtù oserei dire trascendentale che, se magari non è più espressione della volontà divina, rimane comunque lontana dalle meschinità umane — dall’altro lato non si può nascondere che essa si manifesta concretamente grazie a leggi fatte dall’uomo. E l’uomo, si sa, non è perfetto.

Qualcuno ci ha tramandato che l’origine della parola legge derivi dalla forma indoeuropea légere, cioè leggere. La Legge che tutti noi dobbiamo osservare è stata scritta, poco importa se sulle tavole di Mosé o in un codice. La questione cruciale appare subito chiara: chi ha scritto la legge? Evidentemente chi ha avuto il potere di farlo. E perché lo ha fatto? Altrettanto chiaramente, per difendere i propri privilegi. Motivo per cui la legge, in quanto tale, è necessariamente arbitraria poiché obbedisce agli interessi di chi può imporla, vale a dire di chi detiene l’autorità. Dietro la retorica che la vuole un nobile ideale perseguito dall’essere umano, la giustizia non è altro che un modo di avallare un determinato sistema di valori. Non a caso le interdizioni che sono state imposte attraverso la storia sono così diverse tra loro che non si potrebbe trovare una sola pratica universalmente considerata come “criminale”, neanche l’incesto o il parricidio. Se la Giustizia fosse davvero uno strumento superiore i cui principi normativi toccano l’essenza dell’essere umano, le sue leggi sarebbero eterne ed universali e l’uomo troverebbe la propria realizzazione attraverso il loro adempimento. Invece queste leggi cambiano continuamente — a seconda dell’ordinamento sociale, politico ed economico che devono regolamentare — e questo può significare una cosa sola: attraverso le leggi si manifesta un volere umano, non certo divino.

Ma riconoscere il carattere arbitrario della giustizia non comporta di per sé una sua messa in discussione. Per quanto di parte, la giustizia appare comunque indispensabile. Nel mito che Platone fa esporre a Protagora nel dialogo omonimo, si dice che finché gli uomini non impararono l’arte politica, che consiste nel rispetto reciproco e nella Giustizia, non poterono riunirsi in città ed erano attaccati dalle fiere. Il rispetto della giustizia permetterebbe quindi agli esseri umani di convivere. Ancora oggi, è opinione diffusa che il venir meno delle regole su cui si fonda la nostra civiltà scateni gli istinti più feroci. Senza una autorità, rappresentata dallo Stato, che ne moderi gli appetiti, i singoli individui non sono in grado di vivere assieme. Lasciati a se stessi, gli individui sostituirebbero la forza della legge con la legge della forza (la polizia come unico baluardo contro il dilagare di omicidi, stupri e stragi di innocenti). La giustizia nasce quindi dalla constatazione che nell’individuo non c’è legge, non c’è ordine. Dunque lo Stato nasce a posteriori così come le regole, le leggi, le convenzioni morali, e poggia sul ribollente magma dell’anomia morale. L’individuo si sottomette allo Stato soltanto perché ritiene di aver bisogno di salvaguardare e stabilizzare i suoi rapporti. Costruisce un ordine esterno per placare il disordine che cova dentro di sé, ma una tale organizzazione non avrà mai nulla a che fare con la sfera interiore, con l’animo umano e le sue più segrete (e paurose) pulsioni. L’individuo, essere mostruoso, deve lasciar il posto al cittadino, al soggetto dello Stato, il solo in grado di vivere senza causare danni poiché scrupoloso osservatore dei precetti della giustizia. La legge è quindi ciò che ci lega, nel suo duplice significato: ciò che ci unisce, il nodo del vincolo sociale, è anche ciò che impedisce i nostri liberi movimenti.

Una simile concezione la dice lunga sul conto del mondo che la adotta, i cui abitanti necessitano di proibizioni esterne in mancanza di una propria consapevolezza interiore, si sentono uniti da una comune competitività e non dalla solidarietà, si percepiscono come se ognuno fosse il secondino dell’altro e pensano che la libertà rappresenti una catastrofe per la loro esistenza, anziché considerarla come ciò che potrebbe darle un senso. Purtroppo, tutto ciò non è straordinario. Siamo talmente addomesticati da una educazione che fin dall’infanzia cerca di sedare in noi lo spirito di indipendenza e di promuovere quello di soggezione, siamo talmente abituati a una vita controllata da uno Stato che ne legifera ogni aspetto — nascita, sviluppo, amori, amicizie, alimentazione, morte — che alla fine perdiamo ogni iniziativa, ogni autonomia, ogni capacità di affrontare e risolvere direttamente i problemi che la vita ci pone. Ecco perché, all’interno di ogni Stato, una nuova legge è considerata come il rimedio per tutti i mali. Invece di cercare di risolvere il problema comprendendone le cause, si comincia col chiedere una legge che vi metta riparo. La strada fra due città è impraticabile? Occorre una legge che regoli il traffico. Un esecutore della legge ha abusato del suo potere? Occorre una legge che ordini ai gendarmi di essere più rispettosi. Gli industriali intendono ridurre i salari? Occorre una legge che difenda gli interessi dei lavoratori. Insomma, per affrontare i conflitti che sorgono dall’attività dell’uomo c’è solo bisogno di una legge appropriata. Attraverso l’applicazione della giustizia, lo Stato pretende di moderare e gestire questi conflitti. Si può quindi constatare che la giustizia non elimina i conflitti, non li previene affatto. Niente e nessuno può farlo. La giustizia si limita a normalizzarli, a codificarli. Così facendo, li aggrava e ne provoca degli altri fino ad arrivare all’assurdità del rimedio “criminogeno”, rimedio peggiore del male.

Da parte loro, i nemici dello Stato hanno pensato di risolvere il problema in altro modo, attribuendo ogni contrasto umano al funzionamento dello Stato stesso. Una volta che la “criminalità” viene definita la reazione a un’organizzazione difettosa della società, appare più concreta la possibilità di sopprimerne le cause trasformando i rapporti umani. L’abolizione del crimine e della carcerazione è stata infatti una delle preoccupazioni primarie del comunismo utopico, che sostituì alla rassegnazione gaudente dei cristiani di fronte al peccato, una ricerca razionale dei rimedi all’esistenza del male. I suoi grandi principi erano semplici: il furto e l’omicidio non hanno più ragione d’essere nel momento in cui la proprietà privata e la famiglia lasciano il posto all’esistenza comunitaria. Se la felicità è garantita per tutti, gelosia e risentimento svaniscono portandosi con sé gli atti di violenza generati da questi sentimenti. Una simile armonia sembra essere però ben lontana dalle passioni umane e non può essere immaginata senza un poderoso riduzionismo. I vari tentativi effettuati in passato di sperimentare praticamente l’utopia hanno sempre generato conflitti, che non ne volevano sapere di scomparire d’un tratto, rivelando l’astrazione della felicità proposta. Contro lo Stato e la sua giustizia, l’armonia sociale non saprebbe realizzarsi che a prezzo di costumi austeri e frugali. «Ho letto gli scritti di qualche celebre socialista — faceva notare Victor Hugo nel maggio 1848 — e sono rimasto sorpreso nel vedere che abbiamo, nel diciannovesimo secolo qui in Francia, tanti fondatori di conventi». In effetti, l’arcadia socialista non prometteva la felicità che a placidi cenobiti. I suoi fautori arrivarono spesso alla perfezione totalitaria poiché — per estirpare l’energia pericolosa presente nell’essere umano ed evitargli ogni occasione di scontro con altri — teorizzarono una minuziosa organizzazione di ogni istante di vita.

Astrazione

Dunque lo Stato pretende che l’essere umano sia cattivo, per legittimare la propria esistenza. Nelle sue mani, la giustizia è un’arma contro la minaccia della barbarie. I nemici dello Stato invece pretendono che l’essere umano sia buono, per sostenere l’inutilità dello Stato. Nelle loro mani, la giustizia è una siringa da usare per scopi terapeutici. E se l’essere umano non fosse né buono né cattivo, ma semplicemente in preda ai suoi tormenti, cosa resterebbe della giustizia? Se la vita non avesse una meta universale, non dovesse scoprire alcuna verità, se la natura umana non avesse alcuna essenza, se non esistesse nulla di giusto da contrapporre a ciò che è sbagliato, giacché esiste solo ciò che è mio e ciò che non lo è, non è forse vero che ogni norma regolatrice il comportamento umano diventerebbe un insopportabile sopruso? Di fatto, se la giustizia ricorre alla polizia per imporsi, è proprio perché il carattere della giustizia è poliziesco. La tutela delle condizioni essenziali della convivenza civile — di cui la giustizia si fa garante — si traduce praticamente nel controllo della pace sociale all’interno dello Stato (o della Comunità); l’obbligo per ciascuno di uniformare il proprio comportamento a quanto dettato dalla legge, pena la privazione della libertà, non garantisce affatto l’equità della giustizia ma ne indica soltanto la ferocia. Una norma valida per tutti non è affatto equa, essendo astratta e, quel che è peggio, trasforma anche noi in astrazioni. La giustizia che punisce l’omicidio con la reclusione a vita o con la morte non sa chi sia la vittima, chi l’assassino e quali le ragioni del suo gesto, né conosce fino in fondo tutte le conseguenze. Con la farsa delle circostanze “aggravanti” e di quelle “attenuanti”, la giustizia tenta di immettere un tocco di vita nelle sue sentenze, senza per altro riuscirvi, in quanto è consapevole della propria freddezza. Ma la condotta umana non può essere codificata, ha molteplici cause ed è frutto dell’incontro casuale di circostanze e di caratteri diversi. Una norma non può racchiudere questa totalità, non la può cogliere nella sua unicità, è costretta a fare astrazione dalla realtà concreta dei singoli se vuole imporsi a tutti.

Ma i conflitti che sorgono fra esseri umani non sono astratti, sono reali. Sono il risultato di rapporti sociali concreti, della diversità degli interessi, dei sogni, del carattere degli individui. Nella sua astrazione, la giustizia isola l’individuo in carne e ossa separandolo dal rapporto e dall’ambiente sociale in cui il suo atto ha avuto luogo, negandone così il significato. Ancor di più, la giustizia separa l’individuo-accusato dal dibattito che lo riguarda delegando la sua autonomia, come avviene nel resto della vita sociale, ai suoi rappresentanti: gli avvocati. Così come i cittadini delegano allo Stato il compito di decidere come vivere la loro vita, così delegano alla giustizia il compito di come risolvere i loro conflitti. In quanto meccanismo separato di risoluzione dei conflitti, la giustizia non viene meno se si conferiscono le sue funzioni ad un’altra entità, posta al di sopra degli individui, ma più fluida, rinnovabile, sottoposta ad elezioni o controllata da assemblee popolari. Una giustizia “più umana” non cesserebbe di essere una macchina per separare il Bene dal Male, di esprimersi indipendentemente dai rapporti sociali e quindi inevitabilmente contro di essi.

Vendetta

Il sogno di ogni totalitarismo è quello di bandire la violenza (fatta eccezione per quella dello Stato, naturalmente). Se tutti obbedissero ai dettami della Giustizia, non ci sarebbero conflitti, non ci sarebbe violenza. Ma un mondo senza trasgressione, senza conflitti, senza disordine, è un enorme campo di concentramento. Un mondo pacificato è un mondo che ha rinunciato ai rumori della sua maggiore ricchezza, la diversità, a favore della quiete dell’omologazione. Per quanto deprecabile, la violenza è una caratteristica umana. Il punto non è di assegnare allo Stato il monopolio della violenza, né di trasformare ogni individuo in un perfetto non violento. Non si tratta di cancellare i conflitti dalla nostra vita, ma di affrontarli nella loro singolarità. E la loro risoluzione va ricercata da coloro che ne sono direttamente coinvolti, senza delegarla a istituzioni esterne (lo Stato), senza delimitarla in spazi circoscritti (tribunali), senza accontentarsi di risposte automatiche scritte da altri (codice penale).

Ora la Giustizia, risposta pubblica al “problema” dei conflitti, definisce con un termine spregiativo la risposta individuale a questo stesso problema: vendetta. Tanto la giustizia è nobile, tanto la vendetta è abietta. Ad essa si accompagna l’eccesso, il sopruso, l’approssimazione. Come se la giustizia non fosse in sé eccesso, sopruso, approssimazione. Paradossalmente, per definire questa esecrata determinazione dell’individuo di non delegare a nessuno la risoluzione dei propri contrasti con altri si è scelto un vocabolo dalla ben strana origine. La vindicta, infatti, era la verga con cui si toccava lo schiavo che doveva essere posto in libertà. Spada della giustizia e verga della vendetta sono entrambe in mano a chi detiene il potere, è vero, ma se la prima è promessa di punizione e castigo la seconda reca con sé il sapore della libertà. In realtà, nulla dimostra che la vendetta sia la strada obbligata per chi rifiuta la giustizia. Solo all’interno di una logica economica di compensazione, tanto cara al capitalismo, ad una offesa deve corrispondere un’altra offesa di pari entità. La giustizia regola i conti e questi, alla fine, devono sempre tornare. È questo un lascito dell’eredità delle rivoluzioni liberali borghesi che, dovendo assicurare a ciascun cittadino un trattamento identico di fronte alla legge, dovevano garantire al meccanismo delle decisioni amministrative un funzionamento identico per ogni cittadino.

Ma un conflitto non ha soluzioni a senso unico, perché contempla infinite possibilità (anche l’indifferenza o la lontananza). In ogni modo solo chi lo vive sulla propria carne può conoscere la risposta, che non può essere codificata. Motivo per cui con l’autonomia dell’individuo la giustizia scompare, e con essa anche l’ingiustizia. Non si deve credere infatti che negare la giustizia significhi affermare l’ingiustizia. Non più di quanto negare l’esistenza di Dio implichi l’adorazione di Satana. In fondo non aveva tutti i torti Hobbes, pensatore non sospetto di simpatie sovversive, quando affermava che la Giustizia consiste semplicemente nel mantenimento dei patti e che pertanto dove non c’è Stato — cioè un potere coercitivo che assicuri il mantenimento dei patti — non c’è né giustizia né ingiustizia.

(estratto da; Diavolo in corpo n. 3, novembre 2000)

Lope Vargas
Pour régler les comptes
Inviolabilité

Si on pense au fait que, dans la tradition chrétienne, c’est déjà le premier homme apparu sur terre qui a désobéi à la prescription divine et qui a subi une punition pour cela, et que c’est son descendant direct qui a accompli le premier meurtre, il est clair que l’origine de la justice se perd dans la nuit des temps, et qu’elle naît du problème posé par celui qui perturbe l’ordre social et économique.

C’est notamment pour cela que se prononcer contre la justice sonne à l’oreille de beaucoup comme une blague de mauvais goût, comme une provocation ou une folie, particulièrement à l’époque de judiciarisation que nous sommes en train de traverser. Un lieu commun consolidé depuis des siècles veut en effet qu’il soit impossible de se passer de la justice, parce que cela reviendrait alors à être en faveur de l’injustice, de l’abus de pouvoir, de la tyrannie. Cette conviction est tellement enracinée dans l’esprit humain, que tous ceux qui dans l’histoire ont critiqué la justice, se sont empressés de préciser qu’ils n’étaient opposés qu’à un de ses aspects particuliers, à sa mauvaise gestion ou à une de ses applications considérée comme erronée. Mais la justice en soi, la justice en tant que telle a toujours été considérée comme un concept inviolable.

Une fois posée l’existence du désordre de la conduite humaine et la nécessité d’y mettre un frein à travers la justice, le seul doute capable d’entacher la noblesse de cette notion concerne tout au plus la rectitude de ceux qui sont chargés de l’administrer. Pour se manifester, la déesse munie d’une épée et d’une balance a besoin de prêtres qui, parfois, peuvent ne pas se montrer à la hauteur de la tâche qu’on leur a confiée. Toutes les discussions sur la justice se terminent sur ce point, avec la requête d’un juge humain capable de briser les traditions d’une magistrature momifiée et fossilisée dans les articles d’un code cruel. Pour s’exprimer «réellement», la justice ne nécessiterait pas un juge fonctionnaire, ennemi naturel de ceux qui ont enfreint le code et qui distribue des sentences de manière automatique, mais un juge qui fasse sentir le souffle de l’égalité et de la fraternité dans ses acquittements comme dans ses condamnations. Parce que –nous dit-on–, la loi doit être faite pour l’homme, et pas l’homme pour la loi. Qui sait ?

Suggestion

«Justice (n.f.) : article vendu par l’Etat au citoyen dans des conditions plus ou moins frelatées, en récompense de sa fidélité, de ses impôts et des services rendus» : Ambrose Bierce.

Il existe en effet plus d’une bonne raison pour laquelle les critiques de la justice ont eu pour principal objet sa prétendue neutralité. S’il est vrai que Justice est synonyme de Vertu –j’oserais dire d’une vertu transcendantale qui, si elle n’est plus l’expression de la volonté divine, demeure en tout cas loin des mesquineries humaines–, on ne peut nier par ailleurs qu’elle se manifeste concrètement grâce à des lois faites par l’homme. Et l’homme, on le sait, n’est pas parfait.

On nous a appris que l’origine du mot loi [legge en italien], vient de la formule indo-européenne lègere, c’est-à-dire lire [leggere, en italien]. La Loi que nous devons tous observer a été écrite, et peu importe si c’est sur les tables de Moïse ou dans un code. Une question cruciale suit alors immédiatement : qui a écrit la loi ? Il s’agit bien sûr de celui qui a eu le pouvoir de le faire. Et pourquoi l’a-t-il fait ? Là aussi, c’est clair : pour défendre ses privilèges. La loi est donc forcément arbitraire, vu qu’elle obéit aux intérêts de ceux qui peuvent l’imposer, c’est-à-dire de ceux qui détiennent l’autorité pour le faire. Derrière la rhétorique qui fait passer la justice pour un noble idéal poursuivi par l’être humain, elle n’est rien d’autre qu’une manière d’avaliser un certain système de valeurs. Ce n’est pas pour rien que les interdictions imposées à travers l’histoire sont si différentes les unes des autres, à tel point qu’on ne pourrait pas trouver une seule pratique reconnue universellement comme «criminelle», pas même l’inceste ou le parricide. Si la Justice était vraiment un instrument supérieur dont les principes normatifs touchent à l’essence de l’être humain, ses lois seraient éternelles et universelles, et l’homme se réaliserait à travers son accomplissement. En réalité, ces lois changent en permanence –en fonction de l’organisation sociale, politique et économique qu’elles doivent réglementer–, ce qui ne peut signifier qu’une chose : à travers les lois s’affirme une volonté bien humaine, et certainement pas divine.

Mais reconnaître le caractère arbitraire de la justice n’implique pas en soi la remettre en question. Malgré cet aspect, elle semble encore indispensable. Dans le mythe que Platon fait exposer à Protagoras dans le dialogue éponyme, il est dit que tant que les hommes n’apprirent pas l’art de la politique, qui réside dans le respect mutuel et dans la Justice, ils ne purent pas se réunir dans la cité et restèrent à la merci des fauves. Le respect de la justice permettrait donc aux êtres humains de cohabiter. Il est encore assez répandu aujourd’hui de penser que si on se passait des règles sur lesquelles repose notre civilisation, cela déclencherait le déchaînement des instincts les plus féroces. Sans autorité, représentée par un Etat qui modère les appétits, les individus ne seraient pas capables de vivre ensemble. Abandonnés à eux-même, ils remplaceraient la force de la loi par la loi du plus fort (la police serait le seul rempart contre la propagation de meurtres, de viols et de massacres d’innocents). La justice naît alors du constat qu’il n’y a ni loi ni ordre chez l’individu. Puis arrive l’Etat, de la même façon que les règles, les lois et les conventions morales : pour couvrir le magma bouillant de l’anomie morale. L’individu se soumet par conséquent à l’Etat, parce qu’il estime en avoir besoin afin de sauvegarder et de stabiliser ses rapports. Il construit un ordre extérieur afin d’étouffer le désordre qui couve en lui, même si une telle organisation ne correspondra jamais à sa sphère intérieure, à l’âme humaine et à ses pulsions les plus secrètes (et les plus effrayantes). L’individu, cet être monstrueux, doit faire place au citoyen, au sujet de l’Etat, le seul à même de vivre sans causer de tort, parce qu’il observe scrupuleusement les préceptes de la justice. La loi est donc ce qui lie, aux deux sens du terme : comme nœud du lien social qui nous unit, mais aussi comme ce qui entrave nos libres mouvements.

Une telle conception en dit long sur le monde qui l’adopte. Un monde où les habitants nécessitent des interdictions extérieures faute de conscience intérieure, où ils se sentent unis par la concurrence et non par la solidarité, où ils se perçoivent comme étant chacun le maton de l’autre. Le tout, en considérant la liberté comme un désastre pour leur existence, au lieu de la considérer comme ce qui pourrait lui donner un sens. Cette situation n’a malheureusement rien d’extraordinaire, tellement nous sommes domestiqués depuis l’enfance par une éducation qui tente d’étouffer en nous tout esprit d’indépendance et d’encourager l’esprit de soumission, tellement nous sommes habitués à une vie contrôlée par un Etat qui en légifère chaque aspect –naissance, développement, amours, amitiés, alimentation, mort. En fin de compte, nous avons perdu toute initiative, toute autonomie, toute capacité d’affronter et de résoudre directement les problèmes que nous pose la vie. C’est pour cette raison que promulguer une nouvelle loi est considéré dans tout Etat comme le remède à tous les maux. Plutôt que de tenter de résoudre un problème en comprenant ses causes, on commence par demander une loi qui y mette un terme. La route entre deux villes est impraticable ? Il faut une loi régulant le trafic. Un agent a abusé de son pouvoir ? Il faut une loi ordonnant aux gendarmes d’être plus respectueux. Les industriels entendent réduire les salaires ? Il faut une loi défendant les intérêts des travailleurs. En somme, pour affronter les conflits qui viennent de l’activité humaine, il suffirait d’une loi appropriée. A travers l’application de la justice, l’Etat prétend modérer et gérer ces conflits. On peut pourtant aisément remarquer que la justice ne les élimine pas, et qu’elle ne les prévient pas non plus. Rien ni personne ne pourrait le faire. En fin de compte, elle se contente de normaliser et de codifier les conflits, quitte à les aggraver ou à en provoquer d’autres, en allant même parfois jusqu’à l’absurdité de prodiguer un remède pire que le mal.

De leur côté, les ennemis de l’Etat ont pensé résoudre le problème d’une autre manière, en attribuant toute contradiction humaine au fonctionnement même de l’Etat. Si on définit la «criminalité» comme la réaction à une organisation défectueuse de la société, la possibilité d’en supprimer les causes en transformant les rapports humains paraît en effet plus logique. L’abolition du crime et de l’incarcération a ainsi été une des premières préoccupations du communisme utopique, en remplaçant la résignation jouissive des chrétiens face au péché par une recherche rationnelle des remèdes à l’existence du mal. Ses grands principes étaient simples : le vol et le meurtre n’ont plus de raison d’être, à partir du moment où la propriété privée et la famille feront place à l’existence communautaire. Si le bonheur est garanti pour tous, jalousie et ressentiment disparaîtront, et avec eux les actes violents liés à ces sentiments. Une telle harmonie semble cependant bien éloignée des passions humaines, et ne peut être imaginée qu’au prix d’un puissant réductionnisme. Par le passé, les différentes tentatives destinées à expérimenter l’utopie en pratique ont toujours généré des conflits persistants, révélant le caractère abstrait du bonheur proposé. Contre l’Etat et sa justice, cette harmonie sociale ne pourrait s’accomplir qu’au prix de mœurs austères et frugales. «J’ai lu les textes de quelque socialiste célèbre –faisait remarquer Victor Hugo en 1848– et je suis resté surpris de voir que nous avons encore au 19e siècle, ici en France, tant de fondateurs de couvents». L’Arcadie socialiste ne pouvait promettre le bonheur qu’à de placides cénobites. Ses créateurs aboutiront souvent à une perfection totalitaire théorisant une organisation minutieuse de chaque instant de la vie, afin d’extirper la dangereuse énergie présente en chaque être humain et lui éviter toute occasion d’affrontement avec les autres.

Abstraction

Pour légitimer sa propre existence, l’Etat prétend donc que l’être humain est mauvais. Entre ses mains, la justice est une arme contre la menace de la barbarie. Pour plaider l’inutilité de l’Etat, ses ennemis prétendent à l’inverse que l’être humain est bon. Entre leurs mains, la justice est une seringue à utiliser à des fins thérapeutiques. Mais si l’être humain n’était ni bon ni mauvais, et qu’il était tout simplement livré à ses tourments, que resterait-il de la justice ? Mais si la vie ne possédait pas de but universel, si elle ne devait pas recouvrer quelque vérité, si la nature humaine n’avait aucune essence, s’il n’existait rien de juste à opposer à ce qui est faux, parce qu’il n’existe que ce qui est mien et ce qui ne l’est pas, toute norme régulant le comportement humain ne deviendrait-elle pas alors un abus de pouvoir insupportable ? De fait, si la justice a recours à la police pour s’imposer, c’est justement parce que le caractère de la justice est policier. La tutelle des conditions indispensables au maintien de la cohabitation civile –dont la justice se fait le garant– se traduit en pratique par un contrôle de la paix sociale au sein de la société (ou de la communauté). L’obligation faite à chacun d’uniformiser son comportement en fonction de ce que dicte la loi, sous peine d’être privé de liberté, ne garantit pas l’équité de la justice, mais témoigne de sa cruauté. En étant forcément abstraite, une norme valable pour tous n’est en réalité pas équitable. Pire, elle transforme chacun de nous en abstraction. La justice qui punit le meurtre par la perpétuité ou la mort ne sait pas qui peut être la victime ou l’assassin, ni les raisons de son geste, et encore moins toutes ses implications profondes. Avec la farce des circonstances «aggravantes» et «atténuantes», elle essaie d’introduire un soupçon de vie dans ses jugements, sans y réussir par ailleurs, en toute connaissance de sa propre froideur. Le comportement humain ne peut pas être codifié, car il possède des causes multiples, il est le fruit de la rencontre aléatoire de circonstances et de personnalités hétérogènes. Une norme ne peut renfermer cette totalité, ni la contenir dans son unicité. Si elle veut s’imposer à tous, elle est obligée de faire abstraction de la réalité concrète des individus.

Les conflits qui surgissent entre les êtres humains ne sont pourtant pas abstraits, ils sont bel et bien réels. Ils sont le résultat de rapports sociaux concrets, de différences d’intérêts et de rêves entre individus. A travers son abstraction, la justice isole l’individu en chair et en os pour le séparer du rapport et du milieu social dans lequel son acte s’est produit, et le prive ainsi de sens. Plus encore, la justice sépare l’individu-accusé du débat qui le concerne en remettant, comme cela a lieu dans le reste de la vie sociale, son autonomie à des représentants : les avocats. Les citoyens délèguent à l’Etat la tâche de décider comment mener leur vie, comme ils délèguent à la justice celle de résoudre leurs conflits. En tant que telle, la justice ne disparaît pas lorsque ses fonctions sont attribuées à une autre entité : que celle-ci soit plus fluide, renouvelable, soumise à élections ou contrôlée par des assemblées populaires, elle demeure toujours placée au-dessus des individus et reste un mécanisme séparé de résolution des conflits. Une justice «plus humaine» ne cesserait pas pour autant de constituer une machine à séparer le Bien du Mal, ni de s’exprimer indépendamment des rapports sociaux, c’est-à-dire inévitablement contre eux.

Vengeance

Le dessein de tout totalitarisme est de bannir la violence (à l’exception de celle de l’Etat, naturellement). Si chacun obéissait aux préceptes de la Justice, il n’y aurait plus de conflits, il n’y aurait plus de violence. Mais un monde sans transgressions, sans conflits, sans désordres, serait un immense camp de concentration. Un monde pacifié est un monde qui a renoncé à l’effervescence de sa plus grande richesse, la diversité, en faveur de la quiétude du conformisme. Bien que méprisable, la violence est une caractéristique humaine. La question n’est donc pas d’assigner à l’Etat le monopole de la violence, ni de transformer chaque individu en parfait non-violent. Il ne s’agit pas d’effacer les conflits de notre vie, mais de les affronter dans leur singularité. Leur résolution doit être recherchée par ceux qui sont directement impliqués, sans la déléguer à des institutions extérieures (l’Etat), sans la délimiter à des espaces circonscrits (les tribunaux), sans se contenter de réponses automatiques écrites par d’autres (un code).

La Justice, réponse publique à la question des conflits, définit aujourd’hui par un terme péjoratif la réponse individuelle à ce problème : la vengeance. Autant la justice serait noble, autant la vengeance serait abjecte. Elle s’accompagnerait d’excès, d’abus de pouvoir et d’approximation. Comme si la justice n’était pas en soi excès, abus de pouvoir et approximation. Paradoxalement, pour définir cette volonté exécrable de l’individu à ne déléguer à personne la résolution de ses propres différents avec d’autres, on a choisi un terme à l’origine bien étrange. La vindicte était en effet la verge avec laquelle on touchait l’esclave qui devait être affranchi. L’épée de justice et la verge de la vengeance ont beau être toutes deux entre les mains de ceux qui détiennent le pouvoir, la première est une promesse de punition et de châtiment, tandis que la seconde porte avec elle le goût de la liberté. A vrai dire, rien ne démontre que la vengeance soit le passage obligé de ceux qui refusent la justice. Ce n’est qu’au sein d’une logique économique de compensation, si chère au capitalisme, qu’à une offense doit correspondre une offense comparable. La justice règle les comptes, et ceux-ci doivent toujours tomber juste. Il s’agit d’un legs hérité des révolutions libérales bourgeoises qui, pour assurer à chaque citoyen un traitement identique face à la loi, devaient garantir un fonctionnement identique du mécanisme des décisions administratives pour chacun d’entre eux.

Un conflit ne comporte pas de solution à sens unique, mais contient en lui des possibilités infinies (dont l’indifférence ou l’éloignement). En tout état de cause, seul celui qui le vit dans sa chair peut connaître la réponse à y apporter, une réponse qui ne peut être codifiée. Voilà pourquoi, avec l’autonomie de l’individu, disparaît la justice, et avec elle l’injustice. Il ne faut en effet pas croire que nier la justice signifie défendre l’injustice. Pas plus que nier l’existence de Dieu implique l’adoration de Satan. Au fond, Hobbes, qu’on ne peut pas soupçonner de sympathies subversives, n’avait peut-être pas toujours tort en affirmant que la Justice consiste simplement à préserver des pactes, et donc que là où il n’y a pas d’Etat –c’est-à-dire de pouvoir coercitif qui assure le maintien des pactes–, il n’y a ni justice ni injustice.

itre original : Per regolare i conti , in Diavolo in corpo n°3, Turin, novembre 2000
Traduit de l’italien dans Le diable au corps, recueil d’articles de la revue Diavolo in corpo (1999-2000) , Mutines Séditions (Paris), novembre 2010