Contro l’attacco alle lotte sociali
A sostegno dei prigionieri rivoluzionari e delle lotte di tutti i detenuti
(documento introduttivo all’assemblea del 14-15 dicembre 2002)
Sugli articoli 41bis e 4bis dell’ordinamento penitenziario
Le carceri turche e le celle tipo F
Le carcerazioni speciali in Spagna (modello f.i.e.s.)
Testimonianza tratta da una lettera di Claudio Lavazza
Dall’art. 90 alle carceri speciali al 41bis
Il carcere come rapporto sociale
Lettera di una compagna detenuta
per contatti:
Panetteria occupata
Via Conte Rosso 20, 20134 Milano
Villa occupata
Via Litta Modignani 66, 20161 Milano
Rivoluzione
Piazza Toselli 3, 35138 Padova
Quello che segue è un lavoro “a più mani”,
espressione di punti di vista e esperienze di lotta differenti.
Pur conservando queste “diversità”, ciò che accomuna i compagni che hanno raccolto e prodotto il materiale di controinformazione è il sentire comune della necessità di far maturare,
dentro il panorama di lotte politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere e i suoi strumenti di prevenzione, controllo e repressione dello scontro di classe.
INTRODUZIONE
In vista, o agli albori, dell’applicazione dell’articolo 41bis in via definitiva, e della sua messa in pratica non solo ai cosiddetti “mafiosi” e a chi “traffica in esseri umani” ma anche ai rivoluzionari prigionieri, riteniamo indispensabile stimolare un dibattito sia tra le diverse realtà del movimento rivoluzionario, sia tra i detenuti e i loro familiari.
Ci rendiamo conto dell’enorme ritardo con cui ci approcciamo a questo dibattito, considerato che l’articolo 41bis è in vigore dal 1991, ma questo ci è di maggiore stimolo per mettere a punto una discussione che sappia socializzare le diverse esperienze di lotta, confrontando le proposte che ne emergeranno per poter meglio affrontare le lotte che questa ennesima manovra repressiva potrà far scaturire all’interno e all’esterno del carcere.
Tale dibattito è indispensabile per non ritrovarsi ancora una volta impreparati di fronte al nascere di una protesta, o rivolta, all’interno delle prigioni e per poter meglio valutare le possibilità esistenti per uno sviluppo ulteriore delle proteste, magari con metodi differenti da quelli fino ad ora usati. Inoltre per riflettere e trovare soluzioni sulle modalità delle possibili lotte fuori dalle galere in sintonia con quanto da dentro si porta avanti.
Le prigioni sono lo specchio del sociale, l’appendice di un ordine imposto da quanti pretendono di dividere per sempre l’umanità in ricchi e poveri, dove i poveri dovrebbero accontentarsi di elemosinare briciole al banchetto dello Stato-Capitale.
Parlare di galera significa parlare di punizione, parlare di punizione significa parlare di trasgressione delle regole, e di conseguenza, delle regole stesse. Chi impone queste ultime conoscerà sempre chi, per desiderio o necessità, cercherà di infrangerle; finché ci saranno ricchezza e povertà, ci sarà il furto; finché ci sarà il danaro, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti; finché esisterà il potere, nasceranno i suoi fuorilegge.
E’ proprio nel tentativo di eliminare ogni fermento sociale che possa fomentare rivolte contro l’ordine costituito, che i paesi europei – adeguandosi al modello statunitense – si applicano nel dimostrare di saper tenere in pugno la situazione sociale interna e nell’appianare i contrasti perfezionando il controllo sociale e reprimendo il dissenso (dalle manifestazioni di piazza alle lotte dei lavoratori, dall’occupazione di case ai sabotaggi diffusi contro tutte le nocività).
Ciò avviene anche attraverso un rapido processo d’integrazione, legislativo, giudiziario, militare (coordinamento delle polizie locali e dei servizi segreti, mandato d’arresto europeo e internazionale, “liste nere” delle organizzazioni rivoluzionarie, di liberazione nazionale o islamiche, applicazione del reato di “terrorismo internazionale” a chiunque ne appoggi o ne condivida la prassi o l’ideologia).
Si rende necessario per il potere, Stato per Stato, di rifunzionalizzare gli apparati repressivi adeguando il controllo sociale allo scontro di classe in corso e alle contraddizioni che questa fase apre.
Assistiamo quotidianamente al suo funzionamento con l’aumento del fenomeno d’irruzione nelle case dei compagni, delle perquisizioni nei centri sociali, nella continua applicazione dei reati associativi, nel monitoraggio costante e nel rastrellamento d’interi quartieri popolari per l’“emergenza criminalità”, all’aumento dei posti di blocco, ai fermi arbitrari, alla detenzione nei lager – detti centri di accoglienza temporanea – con conseguente espulsione degli immigrati senza permesso di soggiorno. Lo spettro della carcerazione serve per prolungare il controllo sociale così come ogni forma di repressione serve per prolungare il consenso forzato. Allo stesso modo le carceri “speciali” e la legislazione che le legittima (in passato l’articolo 90 e oggi il 41bis) sono studiate per favorire il massimo controllo e la massima efficienza repressiva e rispondono, per essere legittimate dall’opinione pubblica, ad esigenze considerate “emergenziali” diventando, di fatto, strumenti integranti e di perfezionamento del sistema di coercizione generale.
La lotta contro il carcere comprende molte differenze ed ha bisogno di confronto, esclude però coloro che hanno a che fare con il potere e con ogni sua istituzione, con tutti i suoi fiancheggiatori sociali. Chi dice carcere, infatti, dice giudice, poliziotto, secondino, assistente sociale, giornalista, politico (di governo o all’opposizione), costruttore, impresario, appaltatore, psicologo, prete…..responsabili diretti di tutte le angherie, soprusi, torture, privazioni e sofferenze, di chi si trova ostaggio dello Stato.
Essendo il carcere uno degli strumenti che lo Stato si è dato per esercitare il proprio potere non dobbiamo farci trovare né impreparati, né passivi, né divisi sul terreno dello scontro contro ogni forma di dominio economico e politico del capitale.
Costruiamo una rete di controinformazione e mobilitazione che, a partire dallo “specifico carcerario del 41bis” sostenga la difesa dell’integrità psicofisica dei rivoluzionari prigionieri, la loro identità politica la loro storia, una mobilitazione che sappia indirizzarsi contro l’istituzione-carcere e i suoi sostenitori, per la libertà di tutti.
Ricostruiamo un terreno di solidarietà di classe anticapitalista e antimperialista, con l’intento di individuare i modi più opportuni per riuscire a sostenere concretamente le lotte individuali e collettive dei prigionieri, cioè agire direttamente contro il potere e i suoi aguzzini.
SUGLI ARTICOLI 41 BIS E 4 BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO
L’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, la cui applicazione è stata recentemente prolungata per tutta la legislatura ed estesa ai cosiddetti reati di “terrorismo” è, insieme all’articolo 4 bis del medesimo ordinamento, il risvolto carcerario dell’apparato repressivo che lo stato ha dispiegato nell’emergenza criminalità organizzata a partire dalla fine degli anni 80.
Il carcere duro, previsto dal 41 bis, ricalca modelli detentivi già sperimentati con le carceri speciali istituite nel 1977 e l’applicazione dell’allora articolo 90 per la madre di tutte le emergenze: la lotta armata. 41 bis e 4 bis si inseriscono storicamente in un contesto penitenziario segnato dalla approvazione della legge Gozzini (1986) e delle leggi sulla dissociazione e il pentitismo.
Il carcere è diventato il luogo del reinserimento premiale. Quale ulteriore elemento di differenziazione, gli articoli 41 bis e 4 bis inseriscono il mancato accesso ai benefici premiali in base alla condanna. L’unico modo per potervi accedere consiste nella collaborazione alle indagini e nell’accertamento di cessato collegamento con l’”organizzazione” esterna. Il 4 bis impedisce l’accesso ai benefici di legge (lavoro all’esterno, permessi, licenze, detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento ai servizi sociali o ai programmi terapeutici); il 41 bis, oltre ad escludere i benefici, istituisce il carcere duro in cui sono sospese le normali regole di trattamento penitenziario. Con lo scopo di mantenere un condizionamento premiale anche per le persone sottoposte a 4 bis e 41 bis la liberazione anticipata è condizionata alla buona condotta interna al carcere: essa viene conteggiata sulla base delle relazioni semestrali di buona condotta formulate dal carcere, in maniera analoga alle altre persone detenute.
La nascita
Gli articoli 4 bis e 41 bis dell’ordinamento penitenziario sono provvedimenti emergenziali introdotti a partire dall’inizio degli anni ’90 (entrano in vigore nella loro forma definitiva nel 1992).
Il decennio precedente era iniziato con le uccisioni di La Torre e Dalla Chiesa, di quell’epoca sono il pool antimafia di Palermo guidato da Falcone, i maxiprocessi e il ricorso al pentitismo. I primi provvedimenti di questa stagione dell’emergenza “mafia” risalgono al 1982, subito dopo i due omicidi, quando è istituito l’alto commissariato antimafia e viene approvata la legge Rognoni – La Torre. Il codice penale contempla la nuova formulazione del reato associativo di tipo mafioso definendo con l’articolo 416 bis l’associazione di tipo mafioso. Insieme all’articolo 416 bis l’altro reato che più riguarda l’applicazione di 4 bis e 41 bis è il sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione definito dall’art. 630 del Codice Penale.
A partire dagli anni ‘80 in nome della lotta alla “mafia” si estende l’uso arbitrario di arresti e custodia cautelare, pentitismo, certificazione antimafia obbligatoria, militarizzazione del territorio. Nel 1986 viene approvata la legge Gozzini e tre anni dopo entra in vigore il nuovo codice di procedura penale.
La premialità genera una prima differenziazione tra chi accede ai benefici e chi no, oltre a creare circuiti premiali differenziati per il reinserimento lavorativo, terapeutico o frutto della dissociazione e rivelazione di elementi utili alle indagini. Come ulteriore grado di differenziazione e de-solidarizzazione il 4 bis e il 41 bis introducono, in base al reato, l’impossibilità di accedere ai benefici a chi non si dissocia e fa i nomi dell’organizzazione criminale ed eversiva. Dal 1992 la loro applicazione, la cui validità è temporanea (semestrale), è stata sempre rinnovata, fino a diventare nei fatti regime penitenziario permanente.
Il 4 bis e il 41 bis sono il risvolto penitenziario di un apparato
emergenziale consolidatosi in Italia negli ultimi decenni contro la criminalità organizzata e i reati considerati di “terrorismo”: comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, procura nazionale antimafia e procure distrettuali, direzione investigativa antimafia, pool giudiziari, maxiprocessi, pentitismo, reparti speciali delle forze armate e di polizia, militarizzazione del territorio.
L’utilizzazione
Negli anni il 41 bis, non solo è stato regolarmente rinnovato, ma la sua applicazione si è via-via estesa a nuove categorie di reato e forme di criminalità organizzata. Analogamente l’articolo 4 bis è abbondantemente applicato quale punizione aggiuntiva per le persone detenute nelle sezioni comuni, che in questo modo devono scontare, per intero, in carcere la condanna. Già da qualche anno rientrano nell’applicazione del 41 bis le persone condannate per appartenenza ad organizzazioni criminali straniere, così come la recente disposizione del governo estende l’uso del 41 bis all’emergenza “terrorismo” e ne prolunga la durata per i prossimi quattro anni. Grazie alla loro formulazione gli articoli 4 bis e 41 bis sono utilizzati in maniera diffusa. Essi comprendono qualsiasi tipo di “delitto” teso ad agevolare l’attività delle organizzazioni e qualsiasi persona indicata dalla procura nazionale antimafia.
Nella criminalità organizzata e per i reati considerati di “terrorismo” possono essere inclusi numerosi fenomeni associativi, così come ampio è il ricorso alle condanne per sequestro di persona. La loro introduzione ha avuto una ricaduta negativa sulla concessione complessiva dei benefici, orientando tribunali e magistratura di sorveglianza in senso restrittivo anche al di là dei casi interessati dagli articoli 4 bis e 41 bis.
L’applicazione dell’articolo 41 bis (il regime di carcere duro) è
cresciuta negli anni e riguarda circa 650 persone detenute; il 4 bis, che prevede l’esclusione dai benefici e la detenzione in istituti e sezioni carcerarie comuni, è applicato a migliaia di persone detenute.
Circuiti differenziati
Come nel 1977 era stato per l’istituzione delle carceri speciali e dell’articolo 90, così con il 41 bis il circuito penitenziario si diversifica con propri regimi detentivi, istituti, sezioni, personale e strutture di riferimento esterne. Le persone detenute in 41 bis sono sorvegliate da agenti di polizia penitenziaria che non entrano in contatto con le sezioni comuni delle carceri. I GOM (gruppo operativo mobile), quei massacratori che “pare” siano stati scoperti per la prima volta durante il G8 di Genova, sono agenti speciali della polizia penitenziaria, alle dirette dipendenze del ministero, incaricati di effettuare ispezioni, trasferimenti e attività di intelligence carceraria relativamente alle persone in 41 bis. Gli articoli 41 bis e 4 bis contengono anche una differenziazione al proprio interno basata sulla creazione di tre fasce di pericolosità dei reati cui corrispondono diversi gradi di possibilità di accesso ai benefici.
Reati di prima fascia: 416 bis CP (associazione mafiosa), al fine di agevolare l’attività delle associazioni del 416 bis CP, delitti art 630 CP (sequestro), art 74 decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 (traffico stupefacenti).
Reati di seconda fascia: come la prima fascia con circostanze attenuanti art. 62 numero 6, art. 114 CP, art. 116 secondo comma.
Reati di terza fascia: delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, art. 575, 628 terzo comma, 629 secondo comma, art. 73 nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80 comma 2 del decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309. Il procuratore nazionale antimafia e il procuratore distrettuale, su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, hanno inoltre la facoltà di stabilire l’applicazione degli articoli 4 bis e 41 bis a qualsiasi persona detenuta ritenuta in collegamento con la criminalità organizzata, al di là dei reati per cui essa è condannata.
Per i reati di prima fascia l’unica alternativa al carcere duro è la collaborazione con l’autorità giudiziaria che porti benefici concreti all’azione repressiva. Tale forma di collaborazione sulla base di una propria disciplina specifica dà accesso a benefici e programmi di protezione.
Per i reati di seconda fascia occorre una collaborazione anche senza effetti pratici sulle indagini e l’accertamento dell’esclusione di collegamenti con la criminalità organizzata.
Rispetto ai reati di terza fascia la revoca è condizionata dall’esclusione di qualsiasi collegamento con l’”organizzazione” esterna.
La differenziazione si ripercuote anche nei regimi detentivi di sicurezza del 41 bis. Un regime iniziale di massima sicurezza estremamente duro, della durata di almeno un anno e un regime ordinario di sicurezza speciale. Il primo viene applicato con lo scopo di creare un isolamento completo e favorire la confessione.
Limitazioni della difesa
La discrezionalità che l’articolo 41 bis prevede per gli apparati preposti a verificarne la legittimità rende vano qualsiasi tentativo di ricorso contro la sua applicazione, anche prima della sentenza di condanna definitiva. Per revocare 41 bis e 4 bis, fuori dai casi di collaborazione, si deve escludere qualsiasi collegamento con l’”organizzazione” esterna secondo le informazioni fornite dall’apparato investigativo (sia giudiziario sia di polizia). I collegamenti comprendono qualsivoglia rapporto o relazione con ambienti o persone appartenenti alla criminalità organizzata, anche se non condannate a tal riguardo. Rispetto ai collegamenti con le organizzazioni esterne vige una presunzione di colpevolezza dettata dalla sentenza di condanna che ne stabilisce l’esistenza al momento della commissione del delitto.
Per la revoca del 4 bis e 41 bis occorre una prova negativa che dimostri la scomparsa di tali collegamenti e a fornirla devono essere gli apparati giudiziari e di polizia.
I colloqui con l’avvocato dentro il carcere si svolgono con vetro divisorio e citofono o interfono. Nell’applicazione del 41 bis sono previsti anche i processi in video-conferenza con la lontananza della persona imputata dall’aula del dibattimento e il collegamento telefonico con la difesa.
Limitazioni dei contatti esterni
I contatti tra la persona detenuta e l’esterno sono volutamente limitati, anche per quanto riguarda il nucleo familiare che è considerato dall’istituzione un potenziale tramite con l’organizzazione esterna. Le persone sottoposte a 41 bis sono detenute in carceri speciali, o sezioni speciali di istituti, in città distanti da quelle di provenienza; i colloqui sono limitati nel tempo (più di quanto imposto alle altre persone detenute) e nelle forme (vetri divisori e controlli).
Il regime 41 bis di massima sicurezza prevede un unico colloquio al mese, quello di speciale sicurezza ne prevede da due a quattro che si svolgono in un locale molto piccolo, una sorta di acquario col vetro divisorio fino al soffitto, telecamera e citofoni per parlare con i parenti; a volte questi “locali” sono di 1 metro per 1 metro e i familiari devono fare i turni per parlare al citofono.
Le restrizioni riguardano anche i colloqui telefonici che non possono essere effettuati verso le abitazioni di residenza della famiglia né ad apparecchi mobili. I famigliari, su appuntamento, si devono recare presso il carcere cittadino e da lì ricevere le telefonate per una durata inferiore di quella concessa con la detenzione ordinaria. Sono penalizzati anche i pacchi dall’esterno e la posta. C’è il visto di controllo sulla corrispondenza in arrivo e in partenza: le lettere in arrivo vengono aperte e controllate, quelle in partenza devono essere consegnate aperte.
Limitazioni della vivibilità interna
Le sezioni del 41bis sono sempre in una palazzina separata dal resto del carcere e 6 di queste hanno una cosiddetta “Area Riservata” per i detenuti definiti “eccellenti”. Solitamente sono al piano terra della sezione, quella meno areata e illuminata del carcere, con il cesso nella cella posto dietro un muretto.
Il “passeggio” di quei detenuti più “speciali” degli altri è una sorta di gabbia in cemento armato di due, tre metri per cinque e alta tre metri, chiusa in cima da una pesante rete metallica a maglie molto strette, il tutto video sorvegliato.
In queste aree possono finirci anche detenuti che non hanno commesso grossi reati o che sono prossimi al fine pena.
Le sezioni “normali” del 41bis hanno un bagno separato.
In alcune sezioni (Cuneo, L’Aquila, Viterbo) ci sono fino a tre sbarramenti alle finestre delle celle: il primo di sbarre vere e proprie, il secondo di una rete abbastanza fitta, il terzo fatto da una serie di fasce di ferro o di vetro anti-scasso attaccate una sopra l’altra a formare una specie di tapparella (“gelosia” in gergo penitenziario) leggermente inclinata verso l’esterno, dalla quale filtra poca aria e poca luce, con conseguente abbassamento della vista.
ll 41 bis prevede poche ore d’aria e durante queste limita le possibilità d’incontro tra le persone detenute a piccoli gruppi (da due a otto persone) o in solitudine.
Non si ha accesso alle strutture sportive e ai luoghi di socialità comune. Il passeggio è confinato a vasche di cemento.
La lista di beni alimentari acquistabili con la spesa è limitata, non si possono cucinare le pietanze, né si ha accesso alla commissione di controllo in cucina.
Le numerose restrizioni riguardano gli oggetti consentiti in cella, comprese le fotografie, le musicassette e le bottiglie. Le persone sottoposte a regime 41 bis sono escluse dai programmi didattici e dalla frequentazione di scuole e corsi interni al carcere. E’ limitato l’accesso alle biblioteche e i contatti con il volontariato, così come la scelta di giornali e riviste. Si può tenere in cella un numero ridotto di libri, fascicoli, quaderni e penne. Sono vietate le pubblicazioni con copertina rigida.
E ancora…..
Oltre a tutto ciò che il 41 bis prevede per legge
e nelle circolari di applicazione, c’è un settore sommerso di diversi comportamenti extra legali che ha luogo nelle diverse carceri e sezioni. Notizie di maltrattamenti, pestaggi, torture, soprusi e vere e proprie esecuzioni sono emerse da dietro le mura. In ogni istituto o sezione 41 bis esistono particolari tipi di vessazione imposti dagli agenti penitenziari, dalla direzione o dalla magistratura e tribunali di sorveglianza.
CARCERI CON SEZIONI DEL 41bis
CUNEO
L’AQUILA
MARINO DEL TRONTO (AP)
NOVARA
PARMA
PISA
(centro diagnostico terapeutico)
REBIBBIA
(femminile e maschile)
SECONDIGLIANO (NA)
SPOLETO
TERNI
TOLMEZZO (UD)
VITERBO
DETENUTI IN 41bis AL 27/07/02
645 di cui 17 nell’area riservata
POSIZIONE GIURIDICA
421 definitivi
55 ricorrenti
81 appellanti
79 in attesa di primo giudizio
9 non classificati
Conclusioni
Sino a qui, ciò che è stato e ciò che è a tutt’oggi.
Con le nuove leggi europee si allargano le possibilità repressive che gli Stati si sono dati per controllare e reprimere il dissenso.
Difatti, in materia di legislazione europea,
si arriva a prevedere il fine terrorista anche per i reati
di “occupazione abusiva o danneggiamento di infrastrutture statali
e pubbliche, mezzi di
trasporto pubblico, luoghi e beni pubblici”…..”cui potrebbero rientrare gli atti di guerriglia urbana”.
Qualsiasi forma di dissenso politico che travalichi o minacci la legalità è terrorismo, quindi anche qui è possibile che venga applicato l’art. 41bis a chi verrà imputato di tali azioni.
Appare subito evidente che se non iniziamo ad opporci concretamente, presto ci ritroveremo di fronte ad enormi difficoltà di movimento.
La storia ci ha insegnato che è sempre nei momenti di abbassamento del livello di scontro che il potere trova il tempo e i
modi per razionalizzarsi e approntare i propri mezzi di difesa e attacco contro gli sfruttati e chi si ribella.
E non credano, coloro che sono abituati a dialogare con le Autorità, o che pensano (ragionando in termini di slogan) che “fare la tal cosa non è reato”, di essere esenti dalle attenzioni repressive.
Le ultime incriminazioni per il reato di associazione sovversiva sono state costruite partendo dalla contestazione di reati di entità notevolmente differente, come l’attentato, la rapina, il danneggiamento, la propaganda, il furto di un auto e, da ultimo – per le nuove disposizioni europee – anche gli incidenti durante le manifestazioni e l’interruzione di pubblico servizio.
Qualsiasi reato potrà essere contestato con l’aggravante “terrorismo”, di conseguenza chiunque potrà finire nei circuiti del 41bis.
E’ una cosa che riguarda tutti, ladri, ribelli, rivoluzionari e antagonisti, chiunque violi, per scelta o necessità, il Codice Penale.
I GOM (Gruppo Operativo Mobile)
Informazioni e riferimenti web sul Gruppo Operativo Mobile responsabile della gestione della caserma di Bolzaneto (Genova 2001)
E’ un gruppo scelto di agenti di Polizia Penitenziaria che opera alle dipendenze dirette del Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria presso il Ministero di Giustizia. Questo corpo speciale nasce da un decreto interno al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel 1997, sulla base di indicazioni già contenute in un decreto del 1994, dopo che era scoppiato lo scandalo dei pestaggi nel carcere di Napoli Secondigliano – vedi il dossier del Comitato Liberiamoci dal carcere di Napoli “Da Sassari a Poggioreale”del 2000. (http://www.ecn.org/ska/carcer/dossier.html).
Tra le finalità ufficiali di questa struttura vengono indicate il mantenimento dell’ordine e della disciplina negli istituti penitenziari, con priorità a interventi in occasione di ‘gravi situazioni di turbamento’; inoltre i Gom sono impegnati nel garantire la sicurezza delle traduzioni e piantonamento relativi a detenuti ed internati definiti ad altissimo indice di pericolosità e con particolare posizione processuale (collaboratori di giustizia e altri), che possono essere effettuati, per motivi di sicurezza e riservatezza, in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia, con particolari modalità operative.
Il GOM ha inoltre provveduto, sia in via esclusiva che di concorso, secondo specifiche disposizioni impartite dal Direttore Generale, al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario (carcere duro), laddove esista l’opportunità di ulteriori misure di sicurezza, e dei “collaboratori di giustizia” in stato di detenzione, ritenuti maggiormente esposti al rischio di aggressioni Infine al GOM competono i servizi di tutela e scorta del personale in servizio presso l’Amministrazione penitenziaria esposto a particolari situazioni di rischio personale (effettuati dal Nucleo Tutela e Scorte costituito da circa 50 unità), la traduzione di tutti i detenuti “collaboratori di giustizia”, ad altissimo rischio, la gestione del servizio di multivideocomunicazione (processi in videoconferenza) e gli interventi disposti dal Direttore Generale nei casi di emergenza previsti dall’art.41 bis
(irruzioni nelle celle, intercettazioni).
Il GOM, diretto dal Generale Alfonso Mattiello, è costituito da circa 600 uomini alle dirette dipendenze della Direzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
Ufficialmente ha compiti di sorveglianza e protezione dei detenuti di massima pericolosità. Come già scritto, il GOM nasce nel 1997, dalle ceneri dello Scop (Servizio coordinamento operativo), un corpo composto da 500 uomini sparsi in tutta Italia e pronti a correre da un carcere all’altro in caso di rivolte o di particolari necessità.. Lo Scop infatti, oltre a sedare le proteste ha avuto la funzione, poi ereditata dal Gom, di acquisire informazioni. Il corpo speciale del GOM è il fiore all’occhiello del corpo di Polizia Penitenziaria -si veda il sitohttp://www.poliziapenitenziaria.it– e gode di cospicui finanziamenti. In realtà l’operato degli agenti GOM si contraddistingue dalla particolare brutalità nelle ispezioni che regolarmente si trasformano in devastazioni delle celle, degli oggetti personali delle persone recluse, nonché maltrattamenti e soprusi nei loro confronti. Proprio per questo si era pensato a un coinvolgimento dei GOM nel pestaggio del carcere di Sassari dell’aprile 2000, sebbene sia poi emerso che la presenza di agenti GOM fosse limitata a poche unità. I GOM sono coperti dalla più totale impunità in quanto non rispondono delle loro azioni né alla Direzione né al Comando delle guardie dell’Istituto penitenziario in cui intervengono e godono dell’autorizzazione a intervenire direttamente dal Ministero. Vengono anche utilizzati in modo mirato per colpire i traffici che vedono il coinvolgimento di agenti penitenziari locali.
Durante gli anni ’90 furono aperte due grandi inchieste per maltrattamenti avvenuti nelle carceri di Secondigliano e Pianosa. Vennero rinviati a giudizio 65 agenti dello Scop diretti dal generale Enrico Ragosa, poi passato al Sisde e adesso alla direzione dell’UGAP (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che dirige l’attività dei GOM, (http://www.giustizia.it/guidagiustizia/dap_ugap.htm). Il carcere di Pianosa venne in seguito chiuso per intervento dell’ex direttore del Dap, Alessandro Margara, all’epoca magistrato di sorveglianza a Firenze. Oggi il ministro della Giustizia Castelli chiede la riapertura del carcere di Pianosa,insieme a quella di altri istituti dismessi.
Lo Scop fu poi disciolto ma il suo posto fu preso dal Gom, dove confluirono gli stessi agenti. Nel 1998, 15 agenti GOM entrano nel carcere milanese di Opera per effettuare una perquisizione straordinaria. Anche in quell’occasione si utilizzò il paragone cileno: “Detenuti spogliati, qualcuno anche tre volte, costretti a ripetuti piegamenti, pure i cardiopatici e gli anziani; quindi raggruppati nel cortile, al freddo dalle 9.30 alle 13.30, chi in accappatoio, chi scalzo, mentre le celle venivano perquisite”. “Alcuni agenti di Opera erano sconcertati, ed hanno raccontato di aver rischiato di arrivare alle mani con i loro colleghi del Gom”. Le richieste di scioglimento dei GOM in quell’occasione non portarono a nessun risultato, anche se, come in passato per gli scandali riguardanti lo Scop, nacque l’esigenza di cambiare la sigla del corpo, o confonderla in quella di un ufficio di coordinamento. Nel 1999 Diliberto, ministro della Giustizia del governo D’Alema, dopo aver posto ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria Giancarlo Caselli in sostituzione di Margara, fa nascere l’UGAP (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che attualmente dirige l’attività dei GOM. A capo dell’UGAP viene messo il generale Enrico Ragosa, già degli Scop e del SISDE, che guiderà anche la spedizione di funzionari del ministero di giustizia italiano in Kossovo per procedere alla ricostruzione e riorganizzazione post-bellica del sistema penitenziario Kosovaro. Nel febbraio del 2000 il GOM ottiene un distintivo di appartenenza, nel marzo 2000 agenti dei GOM intercettano, in palese violazione della legislazione vigente, le comunicazioni tra un imputato e il suo avvocato durante un processo per associazione camorristica. Il Gruppo Operativo Mobile dispone di automezzi e autovetture, anche protette. Il perfetto stato di efficienza dei mezzi, per l’immediato impiego, è garantito dal Centro Servizi, ove opera personale di polizia penitenziaria con specifica esperienza nel settore (circa 15 unità), per il quale l’aumento delle esigenze operative, unitamente al potenziamento della dotazione di veicoli, ha comportato un incremento notevole delle attività. Il GOM ha operato ed opera presso le Case Circondariali di Roma “Rebibbia Nuovo Complesso”, Roma “Regina Coeli”, Velletri, Viterbo, L’Aquila, Ascoli Piceno, Pisa, Cuneo, Napoli “Secondigliano”, Catanzaro, Agrigento, Palermo “Ucciardone”, Palermo “Pagliarelli”, Trapani, Novara, Tolmezzo, Alessandria, nonché presso le Case di Reclusione di Spoleto, Sulmona e Parma.
A cura di Out.out
LE CARCERI TURCHE E LE CELLE TIPO “F”
La carcerazione speciale in Turchia necessita un discorso differente dal resto dei regimi di detenzione europei. Essa deve la sua metamorfosi ad un percorso d’integrazione al modello occidentale dei sistemi di contro rivoluzione preventiva intrapreso dallo Stato turco.
La Turchia, dal punto di vista strategico militare, riveste un ruolo particolarmente importante tra occidente e medio oriente, è quindi una base strategica fondamentale per il guerrafondismo capitalista americano/occidentale – vedi Iraq e Afghanistan -.
Lo Stato turco, come membro della Nato, fedele alleato con le forze statunitensi nella nuova “guerra infinita al terrorismo” e prossimo all’ingresso nell’Unione Europea, deve adeguare la propria immagine di Paese dalle maniere repressive “primitive” ad una più consona di Stato democratico, questo anche a riguardo alle patrie galere. Esso deve rimodellare le sue carceri introducendo l’isolamento, prendendo a modello le celle come quelle americane e spagnole, pur non disdegnando la vecchia ma sempre praticata tortura e guadagnandosi il rispetto a suon d’asservimento agli U.S.A., i quali contraccambiano regalando al regime di Ankara armi ed elicotteri di propria fabbricazione.
Nel 1996 viene introdotta la prima cella di tipo “F” (F type). Questa “innovazione” in campo carcerario persegue l’obiettivo d’isolare i prigionieri politici dai detenuti comuni. L’applicazione dell’isolamento nelle attuali condizioni delle carceri turche, peraltro, è di difficile attuazione dato l’ammassamento dei prigionieri nelle celle comuni.
Questa prima cella tipo “F” fu accolta dai detenuti con uno sciopero della fame che vide coinvolte 69 persone, tra le quali aderirono prigionieri comuni islamici. Morirono 12 persone, riuscendo col loro gesto a far chiudere il carcere in questione, non rendendo vana la loro lotta.
L’obiettivo delle celle di tipo”F” oltre che a voler dividere i detenuti, è anche quello di distruggere l’identità rivoluzionaria dei prigionieri politici, oltre che spingere al pentitismo, alla delazione o alla dissociazione.
Numerose furono le rivolte, represse brutalmente dai secondini congiunti alla Cevik Kuvvetleri (forze di azione rapida) e squadre anti-sommossa che usarono largamente armi da fuoco e liquidi infiammabili. Clamorosi furono i casi delle sanguinose sommosse negli anni ’95, ’96 e ’99, costate la vita a molti detenuti, e il ferimento di altre centinaia, che furono mutilati, stuprati, torturati, resi irriconoscibili. I prigionieri di fronte a simili barbarie, hanno sempre fronteggiato dignitosamente le istituzioni carcerarie e la mafia interna (utilizzata per vere e proprie esecuzioni specialmente per i detenuti in sciopero della fame) resistendo anche fino alla morte.
Strumento importante, per le lotte contro il carcere, utilizzato dai detenuti in Turchia è lo sciopero della fame. Tra gli ultimi nell’Ottobre del 2000, 819 prigionieri politici in 18 carceri differenti iniziano uno sciopero della fame ad oltranza. In seguito, in 13 carceri, 203 prigionieri politici trasformarono la loro resistenza in uno sciopero della fame sino alla morte: 50 donne, 153 uomini.
Nel Dicembre 2000 questa lotta fu repressa brutalmente dallo Stato col fuoco e le pallottole.
Ci sono state manifestazioni di protesta di massa in Turchia, con la partecipazione di decine di organizzazioni, sindacati ed associazioni per i diritti umani: tutti quelli che hanno protestato sono stati colpiti dalla repressione, con diversi arresti e la chiusura di varie associazioni (tra cui quella delle famiglie dei prigionieri, TAYAD), giornali censurati, avvocati minacciati. Lo Stato non è comunque riuscito, attraverso i massacri, a fermare la campagna di scioperi della fame, nemmeno minacciando i dottori e continuando la tortura attraverso l’alimentazione forzata e l’incatenamento dei prigionieri ai letti.
Il 28 maggio 2002 i detenuti sanciscono la cessazione dello sciopero della fame ad oltranza, ma questo non segnerà la fine delle lotte contro le celle di tipo “F” promosse e appoggiate dai militanti rivoluzionari e da molti detenuti comuni. La lotta cambierà le modalità ma non perderà la sua forza nonostante la repressione tuttora in atto.
I prigionieri, quindi, continueranno a rivendicare: l’abolizione delle celle di tipo “F”; la fine delle torture, sia fisiche sia psicologiche, e dell’isolamento; l’introduzione periodica di controlli alle prigioni da parte di avvocati addetti a questo compito, medici selezionati dai prigionieri, delegati di organizzazioni che appoggiano i detenuti, O.N.G. per i diritti umani e il sindacato della Magistratura; controlli non arbitrari e tutelati dalla legge; l’abolizione della legge antiterrorismo n° 3713; la cancellazione del protocollo tripartito (del Ministero della Giustizia, degli Affari Interni e della Salute) che abolisce la difesa e legittima il trattamento coatto dei malati e la tortura; l’abolizione del DGM (Corti di Sicurezza Statali) risalenti al periodo della giunta; che siano processati i responsabili delle morti e dei feriti causati dagli attacchi a diversi carceri; il rilascio dei malati e dei feriti.
Tratto da
“Solidaridad, por un socorro rojo international”
n.5 ottobre 2002
Lo sciopero della fame più lungo di tutta la storia continua a verificarsi nelle carceri turche di sterminio. I dati affermano che i nostri prigionieri, quelli del TKEP/L, continuano la protesta ad oltranza.
In maggio molte organizzazioni decisero di porre fine allo sciopero ad oltranza fino alla morte, per ragioni che non condividiamo fino in fondo, ma che sono da rispettare, soprattutto quando continuano a dimostrare che la loro resistenza continua nelle carceri di sterminio. Gli scioperi della fame, comunque, continuano e fino ad oggi i morti rivoluzionari arrivano a 92.
Anche le azioni di solidarietà, gli incontri, le proiezioni di video e le iniziative contro la situazione turca nel resto d’Europa stanno continuando apportando un grosso contributo d’appoggio ai prigionieri in lotta. In risposta a queste rivolte ed espressioni di resistenza e lotta, il DHKP/C è stato incluso nella lista delle organizzazioni terroriste.
LA CARCERAZIONE SPECIALE IN SPAGNA
(I MODULI F.I.E.S.)
Durante gli anni ’70 e ’80 in molte carceri della Spagna vi furono diverse sommosse caratterizzate da vere e proprie rivolte, scioperi della fame e dei laboratori di lavoro e parecchi morti e feriti tra i prigionieri e tra i carcerieri.
Alla fine di Gennaio del 1977 esce pubblicamente il “Manifesto dei prigionieri sociali di Carabanchel”, che ò il risultato dello studio delle cause della loro situazione e la sua possibile soluzione.
Si forma il coordinamento dei prigionieri in lotta (COPEL) che rivendica miglioramenti concreti nelle carceri, un’amnistia totale, e l’abbattimento delle leggi e delle strutture ereditate dal franchismo. A questa situazione lo Stato rispose con una forte repressione, che comportò l’indebolimento e la successiva scomparsa del COPEL.
Nel 1991, mentre in Italia veniva istituito il 41bis, in Spagna vengono instaurati i regimi speciali per i prigionieri F.I.E.S. (archivio di interni in speciale osservazione), su richiesta dell’esponente del partito socialista spagnolo (P.S.O.E.), Antoni Ansuncion.
Nel 1994 il Tribunale Costituzionale accordò di sospendere questo regime FIES fino a quando si trasmise a questo Tribunale il ricorso di tutela di diritti presentato da alcuni detenuti.
Dopo la promulgazione del nuovo regolamento penitenziario, la filosofia della circolare del 2/8/91 che regola il regime al quale sono sottoposti i prigionieri FIES, continua ad esistere.
Questo regime, la cui durata è a tempo indeterminato, prevede un isolamento pressoché totale; i piccoli cortili per l’ora d’aria sono coperti da reti metalliche; vengono effettuate perquisizioni integrali; esposizioni arbitrarie ai raggi X; torture fisiche; trattamenti farmacologici con psicofarmaci e letti di contenzione.
I moduli sono progettati e suddivisi in cinque sezioni e vi sono rinchiusi individui catalogati in base alla loro pericolosità sociale:
FIES I – rinchiude individui protagonisti di rivolte, azioni contro il sistema e le autorità, tentativi di evasione.
FIES II – racchiude indiziati per traffico di droga e riciclaggio.
FIES III – racchiude presunti appartenenti ad organizzazioni rivoluzionarie.
FIES IV – raggruppa appartenenti alle forze di sicurezza dello Stato per proteggerne l’integrità.
FIES V – vi sono collocati gli antimilitaristi e coloro che destano allarme sociale.
Dal ’94 in poi le lotte contro le condizioni carcerarie e il carcere stesso continuarono dentro e fuori, nonostante l’istituzione del regime speciale.
Di particolare rilievo fu un episodio del 1977, quando diverse persone e collettivi si rinchiusero nella cattedrale dell’Almudena per protestare ed esigere la chiusura dei moduli FIES.
Dal 1999 ad oggi I prigionieri FIES continuano la lotta che si manifesta con continui scioperi della fame, rifiuto dell’ora d’aria, di effettuare le pulizie, spesso si scontrano con le guardie, devastano le celle e rendono inagibili le sezioni. All’esterno vi sono state varie manifestazioni di solidarietà che sono spaziate dai cortei ai presidi sotto le carceri, dalla controinformazione alle azioni dirette contro strutture legate all’istituzione carcere, contro giornalisti e banche. Solidarietà che si è espressa sia in Spagna sia in altri paesi europei, Italia compresa.
Attualmente i prigionieri nei moduli F.I.E.S. esigono:
la scarcerazione dei detenuti con malattie terminali;
la cessazione della dispersione dei detenuti;
la cessazione dell’isolamento e l’abolizione dell’archivio f.i.e.s..
Testimonianza tratta da una lettera di Claudio Lavazza,
arrestato nel ’96 e da allora rinchiuso in un modulo f.i.e.s.
(…) “La proposta seria di lotta l’abbiamo pure lanciata ai quattro venti ed è pubblicata nella rivista Senza Censura n°5 (giugno 2001, pag.47) che, riassumendo, diceva: << se ci costringete a vivere nella merda, che nella merda ci vivano anche quelli che ci sorvegliano>>.
Si trattava di otturare i cessi per far sì che la tubatura scoppiasse in tutto il modulo FIES, ed è quello che successe nel carcere di Picassent, a Valencia. Dopo una settimana impiegata ad otturare I W.C. con stracci, borse di plastica, ecc. …le tubature saltarono inondando di merda anche i locali normalmente frequentati (per il loro lavoro) dai secondini, obbligandoli a chiudere immediatamente l’intero modulo per il grave pericolo di infezioni, e anche perché non avevano il coraggio di lavorare con mezzo metro di merda nel pavimento.
A me, noi non ce ne frega niente di rimanere mesi con la merda nelle celle…però ai secondini sì che gli dà fastidio…eccome!
Quante volte abbiamo chiesto la chiusura dei Bracci FIES con i nostri scioperi della fame? Però è bastato riempirli di merda per chiuderli momentaneamente…Vi immaginate se tutti i Bracci FIES fossero riempiti di escrementi? Al potere gli interessa solo l’economia, e l’esistenza sicura dei suoi servi, a questi non basta un buon salario, chiedono anche buone condizioni nel posto di lavoro…e con la merda non si scherza. Nessuno ci vuole avere a che fare.
Questa grande proposta l’abbiamo fatta circolare un po’ dappertutto, assieme ad altre di sabotaggi continui e ripetuti alle strutture di vigilanza e controllo, camere, metal detector ecc., però non c’è stata risposta, se non in poche situazioni. Il trucco, se così lo possiamo chiamare, è di rompere e sabotare senza essere visti, senza che i cani possano accusarti di aver fatto…
Anche perché, per un vetro rotto ti possono aumentare la condanna di due anni.
(…) C’è chi si lamenta che le cose non sono più come erano anni fa quando c’erano i compagni/e.
Tenete presente che quando circa 400 prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame solo il 10% sarebbe stato d’accordo ad una lotta di bassa intensità (sabotaggi); quella ad alta intensità (senza armi) non possiamo dichiararla, anche perché queste strutture sono concepite in modo che la custodia ti possa bloccare da solo con 15 o 20 secondini armati di tutto punto (anti-sommossa).
Però una cosa è chiara e deve esserlo per tutti quelli che soffrono le torture e le ingiustizie, e cioè che niente deve essere dimenticato e alla prima occasione, quando tu lo decidi e non loro, abbiamo il dovere di vendicarci del torturatore. Ad es., a Jaen, nel carcere dove stavo prima, se un compagno veniva torturato o insultato, quel giorno stesso e quella notte si picchiavano le porte (non dormiva nessuno perché il rumore si poteva sentire fino a parecchi Km di distanza), e poi insulti al direttore dalle finestre, senza poi dimenticare la guerra di bassa intensità. Ci costava, però quasi sempre ottenevamo quanto richiesto, vale a dire l’allontanamento dei secondini torturatori, e ciò era sempre festeggiato da noi come una vittoria.
Di idee ce ne sono un mucchio, tanto scritte quanto dette, noi le abbiamo anche messe in pratica e hanno funzionato. Se non si fa è perché non si vuole o perché c’è molto da perdere. Chiaramente se ci fosse un buon appoggio dal movimento esterno forse sarebbe diverso.
(…) A Cordoba si sente come maltrattano un prigioniero, però nessuno protestava, cosa del tutto impensabile in un Modulo dove ci sono solo i più ribelli con o senza preparazione politica. Questa mancanza di solidarietà è dovuta alle differenze che creano i benefici penitenziari. Come nella società libera chi ha di più è meno interessato alla situazione di chi ha nulla.
Un prigioniero FIES ha niente, per lui il carcere è un inferno; uno in 2° grado ha quasi tutto, questo fa la differenza e, credetemi, la distanza tra una realtà e l’altra la si può calcolare in anni luce. (…)”.
Maggio 2002
DALL’art. 90 ALLE CARCERI SPECIALI AL 41 bis
Il carcere imperialista e il suo funzionamento sono una delle più alte espressioni del domino coercitivo imposto nella società divisa in classi come quella in cui viviamo. Proprio per questo esso può rappresentare un’illuminante chiave di lettura per comprendere i codici che regolano la società attuale, la lotta di classe e i rapporti di forza in campo. Non a caso si sente spesso ripetere: “Il carcere è lo specchio della società”. Analizzando le trasformazioni avvenute nel suo ordinamento negli ultimi decenni ci accorgiamo infatti che esse portano con sé parte importante della lotta di classe e della lotta rivoluzionaria nel nostro paese e indicano le idee guida che ha seguito la borghesia non solo per rimodellare il sistema carcerario ma anche per imporre il suo sistema di dominio in tutta la società. Ci accorgiamo anche che ogni trasformazione non è transitoria e atta a far fronte a qualche emergenza ma è già inscritta nella natura stessa del carcere e del dominio di classe che esso tutela. Si tratta di modifiche che registrano lo stato del rapporto di forza tra le classi e mettono in luce la funzione non solo repressiva (del castigo) ma anche quella preventiva (di deterrenza) sia per i comportamenti sociali che escono dalle regole prestabilite della cosiddetta “convivenza civile” sia per i comportamenti politici rivoluzionari che coscientemente mettono in discussione il potere. Il carcere è quindi uno degli strumenti della controrivoluzione preventiva, attività costante e strutturata di ogni stato “democratico” imperialista che fonda il suo potere sull’oppressione di una classe sull’altra. *si può fare una manchette
Queste riflessioni trovano verifica se andiamo a vedere il percorso che porta dall’art. 90 all’art.41 bis. Ripercorrendo questo itinerario siamo in un’ottima posizione per studiare la realtà perché la guardiamo da uno dei punti più alti dell’apparato repressivo: il carcere nel suo primo girone, quello di massima sicurezza. Questa istituzione totale è infatti organizzata come i gironi dell’inferno dantesco regolati dal codice della premialità, questi gironi trasbordano fin fuori dalle mura attraverso le misure alternative alla detenzione.
Proviamo ora a vedere i passaggi della modifica del sistema detentivo negli ultimi decenni.
L’art. 90 fa parte della legge sull’ordinamento penitenziario del luglio ’75, comunemente conosciuta come riforma carceraria, ma esso non viene immediatamente applicato. Esso dice: “Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.”. Con questo fatto lo stato si arroga la possibilità che il suo esecutivo possa, a suo piacimento, sospendere una legge e definire che a una parte di cittadini vengano sospesi dei diritti. La riforma carceraria, di cui fa parte questo articolo, è stata la risposta a un grosso ciclo di lotte dei detenuti e il codice che la informa è la premialità e la pena a seconda del comportamento dei prigionieri. Si fa strada il tentativo borghese, sperimentato nel carcere ma applicato a tutta la società, di costruire un enorme setaccio con cui dividere, a secondo delle compatibilità con il sistema capitalistico, i buoni dai cattivi, quelli che si possono “recuperare” e quelli che si devono annientare. Anche nella fabbrica, nel mondo del lavoro e nel territorio viene applicato lo stesso sistema attraverso una modulazione di interventi e misure repressive con la logica dell’integrazione o dell’esclusione.
Il fine è quello di far fronte e fermare le lotte operaie e proletarie e la ribellione sociale espressione delle contraddizioni di un sistema che, dall’inizio del decennio, è entrato in una crisi che poi si verificherà come strutturale. Ed è anche quello di assestare un colpo alle organizzazioni combattenti che hanno visto, lungo
tutto il decennio precedente, un rigoglioso sviluppo.
Ma anche dopo l’approvazione della legge, le lotte dei prigionieri non si fermano e si collegano con il movimento rivoluzionario all’esterno, per lo stato le carceri diventano ingovernabili. Si verificano rivolte e proteste di massa con la particolarità italiana dell’unione nella lotta fra detenuti politici e comuni. Per questa unità le basi erano state gettate dai Nuclei Armati Proletari (NAP) che avevano teorizzato e praticato l’unione tra i proletari prigionieri, i prigionieri politici e il proletariato extralegale. Le Organizzazioni Combattenti promuovono nelle carceri organismi di massa, i Comitati di Lotta in dialettica con la loro iniziativa esterna sul fronte delle carceri.
La risposta dello Stato è, nel 1977, l’istituzione delle carceri speciali sorvegliate dai carabinieri. L’art. 90 viene applicato a partire dal 1980. Questo passo avviene gradualmente con l’istituzione dei cosiddetti “braccetti” cioè sezioni di massimo isolamento con la riduzione o l’interruzione dei contatti con l’esterno. L’attuazione di questi passaggi nelle carceri è contemporanea alla modifica del codice penale con l’approvazione del 270 bis (associazione sovversiva con finalità di terrorismo) e quella delle leggi su pentitismo e dissociazione (la famigerata legge Cossiga).
Contro l’art. 90, dalle carceri all’esterno, prende corpo un vasto movimento. L’art. 90 non viene più rinnovato dall’ottobre del 1984 ma viene di fatto incorporato nella istituzionalizzazione del regime differenziato dove i carceri speciali sono disciplinati per legge attraverso la proposta degli art. 14 bis, ter e quater che stabiliscono le norme che regolano il raggruppamento, l’assegnazione e le categorie dei detenuti nelle sezioni di massima sicurezza. Viene applicato anche l’art. 4 che esclude alcune categorie di detenuti dall’ammissione a forme alternative di detenzione. Si arriva quindi a rendere permanente l’art. 90 anche se sotto altro nome.
Tutte queste norme trovano vita e vengono applicate lungo tutti gli anni 80 parallelamente alla campagna orchestrata dal potere sulla fine del comunismo e sulla sconfitta del “terrorismo”. Questa campagna è la premessa e l’altra faccia di quello che sarà l’inizio dispiegato dell’attacco alle conquiste della classe operaia e delle masse popolari. Essa verrà attuata cercando di isolare e annientare ogni identità politica rivoluzionaria attraverso la dissociazione e la differenziazione, con la vessazione dei prigionieri politici sottoposti alla tortura dell’isolamento e alla tortura vera e propria. Il fine è quello di diffondere la cultura della desolidarizzazione e di dichiarare sconfitta e fuori dal tempo ogni prospettiva di cambiamento radicale della società. E anche quella di sotterrare la memoria storica del proletariato e del movimento comunista. Ma, l’illusione del potere di mettere una pietra sopra definitivamente alla formidabile forza che il movimento rivoluzionario aveva espresso in Italia si scontra con la realtà della crisi del suo sistema che produce incessantemente contraddizioni sempre più acute che fanno rigenerare la lotta di classe. Esso deve continuamente mettere mano all’ordinamento penitenziario per perfezionare le norme che regolano la differenziazione dei regimi detentivi.
Nei primi anni 90 vengono approvati gli art. 41 bis e 4 bis che, come ulteriore elemento di differenziazione dentro al carcere, inseriscono il mancato accesso ai benefici premiali (previsti dalla legge Gozzini del 1986) in base alla condanna. Il 41 bis inoltre prevede il “carcere duro” in cui vengono sospesi i normali diritti dei detenuti. Il trattamento duro non riguarda più solo intere aree di prigionieri che vengono per questo raggruppati nelle sezioni speciali ma diventa “ad personam”. Questo trattamento attraversa la struttura carceraria sia verticalmente (nelle strutture) che orizzontalmente (nelle persone), è l’asse portante del funzionamento della deterrenza e della premialità. Si tratta in pratica di una riedizione allargata del vecchio art. 90.
Questi articoli vengono resi esecutivi dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, hanno natura transitoria e devono essere rinnovati individualmente in base a criteri di “pericolosità”. Già dalla loro approvazione prevedevano una divisione in fasce per la loro applicazione, la prima e la seconda riguardante delitti di mafia, la terza i reati commessi per finalità di “terrorismo” o di eversione dell’ordinamento costituzionale. La revoca dell’applicazione del trattamento duro è subordinata alla collaborazione con la giustizia e, in particolare, per la terza fascia, cioè per i prigionieri politici, all’esclusione di ogni collegamento con organizzazioni esterne. Di fatto viene richiesta la dissociazione.
Arriviamo ai giorni nostri perché venga richiesta l’estensione dell’applicazione del 41 bis ai rivoluzionari prigionieri e ne venga chiesta la validità permanente.
Così il cerchio si chiude, la differenziazione e il carcere duro vengono definitivamente istituzionalizzati. Lo stato democratico prevede che la sospensione dei “diritti” è legale, che la tortura dell’isolamento e ogni procedura che può avvenire in assenza di “diritti” sono praticabili. Queste misure che lo stato prende fanno parte della necessità che la classe dominate ha di salvaguardare il suo potere e vanno analizzate e fatte conoscere non solo per denunciare la natura fascista del suo dominio ma soprattutto perché mostrano la sua debolezza e la paura che il suo potere venga messo in discussione. L’approfondimento e l’allargamento della detenzione accentuata sono in stretta dialettica con la crisi e con lo sviluppo delle contraddizioni sociali. Non è infatti un caso che i momenti in cui le misure sono state promosse sono principalmente quello a ridosso dell’avanzata del movimento rivoluzionario (fine anni ‘70, primi anni ‘80) e, oggi, quello del possibile riaffacciarsi di prospettive di cambiamento. Oggi, a fronte della crisi e della tendenza alla guerra, al rinvigorirsi della lotta di classe e antimperialista, al ribollire del malcontento delle masse e al manifestarsi di comportamenti di ribellione vengono attuate nel nostro paese queste misure preventive.
Vengono attuate all’interno di una situazione internazionale incandescente seguendo i dettami dell’imperialismo USA e delle legislazioni di guerra che ha varato. A questo proposito è un fatto rilevante che in Italia esistano oltre un centinaio di prigionieri
islamici sulle cui condizioni vige il più assoluto silenzio.
Le attua anche nei confronti dei rivoluzionari prigionieri che hanno mantenuto la loro identità politica perché essi, pur non rappresentando un pericolo emergente come quantità, turbano ancora il sonno del potere. Lo Stato, nel corso di più di due decenni, dopo averle tentate tutte per annientarli ha ancora paura di loro, della prospettiva politica rivoluzionaria che incarnano e si pone il problema di limitarne l’influenza e la capacità d’azione.
IL CARCERE COME RAPPORTO SOCIALE
Introduzione
Le carceri sono una polveriera che accumula le contraddizioni prodotte dalla crisi economica e sociale. I movimenti sociali fuori hanno scosso e scuotono in profondità le galere, compenetrandosi e saldandosi con le istanze e le lotte portate avanti dentro le istituzioni totali stesse.
Questo è avvenuto, e tuttora avviene, per la natura di classe di queste istituzioni. Nelle carceri:
◦ possono avvenire rivolte spontanee: bambule, come le chiamavano le ragazze degli istituti di rieducazione femminili in Germania;
◦ possono verificarsi timidi tentativi di denuncia della propria condizione e lotte per parziali miglioramenti;
◦ può prendere piede un movimento in grado di comunicare con i soggetti e le esperienze politiche fuori dal carcere, e viceversa, grazie alla sedimentazione di precedenti esperienze di lotta e alla specifica struttura e composizione sociale delle carceri, nonché alla presenza all’interno di militanti rivoluzionari o di ribelli sociali permeabili ad una sensibilità antagonista.
Oggi risentono del clima di rinnovato fermento sociale e di mobilitazioni, anche se, tranne alcuni casi isolati, non è emersa una reazione soggettiva dentro, in grado di far precipitare le sue contraddizioni e di confrontarsi, almeno parzialmente, con lo scontro in atto.
Il carcere è un sismografo che registra i cambiamenti più profondi della società nel suo complesso, si riorganizza continuamente in funzione del ciclo di lotte precedenti, e del ruolo affidatogli di volta in volta dal potere. Si differenzia la durata e la condizione detentiva, come il suo affidamento e la sua amministrazione, sia a seconda delle esigenze pragmatiche del potere politico, sia rispetto alle necessità dovute al governo interno dell’istituzione: se da un lato si può arrogare il diritto di concedere, dall’altro si riserva la possibilità di reprimere; se da un lato cerca di “rieducare”, dall’altra reprime e basta.
Essendo parte integrante dell’organizzazione sociale, ha ispirato e ispira, con il suo modello, ogni serio paradigma del controllo ed ogni codificazione comportamentale; rimane un ganglio vitale del sistema di riproduzione dei rapporti sociali, e insieme alle articolazioni militari e poliziesche rappresenta il baluardo delle ragioni di stato e della loro volontà di potenza.
Rimane così una palestra di disciplina, di introiezione dei valori capitalistici magari assunti per il tramite dei vari racket, della cultura, della sopravvivenza individuale e dell’affiliazione ad un gruppo, della subordinazione all’arbitrio di un beneficio concesso o negato, dell’autolesionismo suicida.
La prassi detentiva incorpora e sperimenta le tecniche di controllo più avanzate come le più arcaiche; utilizza sia le millenarie discipline e dottrine del controllo sociale come le religioni, sia le più attuali come la psichiatria, la medicina, la farmacologia, la psicologia sociale; usa sia la forma più estrema di alienazione dalla comunità umana come l’isolamento tout-court – istituzionalizzata dal carcere speciale -, sia la più moderna forma di ri-socializzazione correttiva e trattamentale attraverso il lavoro esterno e la premialità della regolare condotta, giudicata da quella specie di tribunale permanente costituito dagli organi della Magistratura di Sorveglianza e dalle varie figure addette al giudizio-recupero del detenuto.
In sintesi, il carcere come rapporto sociale è l’esempio, insieme alla guerra, del pressoché assoluto monopolio della violenza da parte dello stato. Che entrambi questi fenomeni riguardino fasce sempre più ampie di proletari, non fa che rinvigorire la necessità della distruzione di questo edificio sociale, che passa anche attraverso l’abbattimento di tutte le istituzioni totali.
Col sangue agli occhi: il movimento dei comuni contro il carcere (’60-’70)
Nel secondo dopoguerra, terminato il periodo cosiddetto della
“Ricostruzione”, la necessità di manodopera, per lo sviluppo dell’economia italiana nel triangolo industriale, fece affluire braccia dalla campagna delle zone contigue alle aree metropolitane e poi dall’esercito industriale di riserva del meridione, delle isole e delle zone settentrionali di tradizionale emigrazione, come il Veneto e il Friuli.
Questo fiume di persone che si riversò nelle città si barcamenava tra occupazioni dell’economia informale, una situazione abitativa precaria, senza trovare una comunità e un canale, che non fosse quello della parentela e del paese d’origine. Negli anni sessanta la composizione sociale delle carceri mutava e faceva il suo ingresso nelle galere quel proletariato marginale, di cui la provenienza geografica, la condizione di precarietà lavorativa, la collocazione urbana, la sensibilità sociale, erano proprie del proletariato metropolitano in formazione e della moderneclasse pericolose per l’ordine capitalista.
Furono proprio le carceri delle realtà urbane più significative, soprattutto del nord, che incominciarono a ribollire e in cui cominciarono a formarsi le prime avanguardie di lotta forma e a sedimentarsi livelli di organizzazione.
Venne messa in discussione la gerarchia e i Kapò che servivano da strumento di governo interno al carcere. Per esempio, con i pestaggi dei fascisti, vennero messi in discussione gli atteggiamenti di implicita collaborazione con i secondini e il qualunquismo opportunista teso ad accattivarsi le simpatie dei propri carcerieri; soprattutto, prese forma una critica della propria condizione da un punto di vista classista, e non “innocentista”, che venne collocata all’interno di un meccanismo sociale, che bisognava contribuire a distruggere.
Tra questi, i rapinatori saranno l’avanguardia del movimento carcerario di fine anni sessanta e di inizio anni settanta; il grado di cooperazione sociale maturata, le capacità organizzative, la cultura antistatuale, la lontananza dalle tradizionali organizzazioni aventi la funzione di pacificatori sociali, erano tutte caratteristiche acquisite in conseguenza della propria attività, che li accomunavano ai proletari più combattivi formatisi nelle lotte di fabbrica e di quartiere.
Si crea una struttura di solidarietà con il proletariato in lotta, anche nelle carceri, in cui alcune figure professionali tradizionalmente legate alla classe dominante – come avvocati, medici, e altri profili di intellettuali della classe media – fanno propria la prospettiva dell’emancipazione del proletariato, con una precisa e organica scelta di campo. Questa presa di posizione che si sostanzierà con l’impegno continuo di questi compagni, li renderà non solo soggetti alla delegittimazione professionale, ma anche all’azione repressiva vera e propria.
Il Soccorso Rosso che si formerà in quegli anni, sarà una sponda importante del proletariato prigioniero, gli avvocati che ne fecero parte ruppero quel legame di connivenza con le strutture del potere giudiziario, citando un documento del Soccorso Rosso di Milano del settembre del ’71: « tutto ciò comporta, per gli intellettuali che devono fornire questi servizi secondo le esigenze della classe operaia, un nuovo stile di lavoro ben diverso dalla professionalità tradizionale. È anche necessaria una mentalità completamente nuova e una disponibilità generosa che niente ha da spartire con la diligenza mercenaria del professionista. I concetti di legalità, diritto, salute, funzionalità, produttività devono essere capovolti da coloro che si pongono dal punto di vista del proletariato».
Formazioni politiche della sinistra extra-parlamentare, come Lotta Continua, costituirono una «Commissione Carcere» apposita, ospitando nel giornale, dalla primavera del ’71, lettere di detenuti e notizie sulle rivolte carcerarie in Italia e nel mondo: «A noi i detenuti interessano non perché “fanno pena”, ma per il contributo che possono dare alla lotta di classe e alla rivoluzione. È per questo motivo che ci interessano le caserme e magari i manicomi, come i proletari in divisa e i cosiddetti “malati mentali”», scrivevano i Dannati della Terra in Liberare tutti di LC.
Altre formazioni della sinistra radicale, provenienti dal marxismo e dall’anarchismo, dando una carica eversiva ai comportamenti del proletariato metropolitano che si muoveva ai margini della legalità, interpretavano la lotta criminale come la fonte più genuina di carica eversiva per il sovvertimento della società e, nella prassi illegale, il terreno prioritario della pratica rivoluzionaria, approccio che si tradurre nello slogan:contro lo stato e il capitale, lotta criminale.
L’influenza delle rivolte urbane che dalla metà degli anni sessanta costellarono l’universo metropolitano statunitense e le lotte dei prigionieri afro-americani dal carcere, che trovarono la loro sponda politica nelle Black Panthers, diventarono patrimonio comune di una generazione di proletari prigionieri, che col sangue agli occhi, ribaltarono il ruolo in cui la società li aveva relegati.
L’influenza degli scritti di Franz Fanon sul ruolo del sotto-proletariato metropolitano nel processo di liberazione coloniale, – filtrata attraverso l’utilizzo che ne fecero le punte più avanzate del movimento afro-americano, come dell’esperienza algerina -, darà una spallata alla vetusta interpretazione del marxismo tradizionale che vedeva nel Lumpen solo una massa di sradicati, da cui l’apparato repressivo poteva sempre attingere per reclutare i suoi sgherri.
Nel secondo numero di «Nuova Resistenza», del maggio ’71, le BR in un articolo dal titolo perentorio Bruciare le carceri è giusto, spiegarono la posizione del giornale sulla criminalità e sulla funzione rivoluzionaria del sottoproletariato: «La rivoluzione moderna non è più la rivoluzione pulita […] accumula i suoi elementi pescando nel torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno […]. In attesa della festa rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori saranno espropriati, il gesto “criminale” isolato, il furto, l’espropriazione individuale, il saccheggio di un supermercato non sono che un assaggio e un accenno del futuro assalto della ricchezza sociale, il criminale rompe la monotonia a la sicurezza quotidiana, banale della vita borghese (K. Marx). Per il fatto stesso di esistere egli pone in crisi l’ideologia della società capitalistica: si appropria realmente di ciò che la borghesia gli mostra come astrattamente disponibile».
I Nuclei Armati Proletari raccolgono l’eredità politica del lavoro svolto da LC, che imboccò ben presto la lunga marcia verso le istituzioni in una deriva riformista che coinvolgerà anche la sua impostazione sulle lotte dei prigionieri, compiendo il suo distacco dall’azione politica armata, già dalle prime azioni significative delle BR, criticando più l’immagine distorta fornita dai media che la strategia d’azione maturata da questi compagni.
Le avanguardie delle lotte dei comuni danno vita ad un organizzazione e ad una pratica in grado di raccogliere le aspettative del proletariato prigioniero e di reggere il livello di scontro di quegli anni, che avrà come punto di svolta la strage di Alessandria.
Nel Maggio del ’74 in seguito a una rivolta nel carcere di Alessandria, in cui tre detenuti avevano sequestrato 21 persone, barricandosi in infermeria, il comandante dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, futuro responsabile dei reparti speciali anti-terrorismo, e il procuratore generale di Torino Reviglio della Venaria, decidono per un’azione di forza che si concluse con un bagno di sangue.
I NAP nell’ottobre del ’74, davanti ai cancelli delle carceri di Napoli, Milano e Roma, trasmettono un messaggio rivolto a tutti i detenuti che annuncia la loro piattaforma sul carcere.
Questa piattaforma ha come referenti sia le avanguardie detenute, alle quali si lancia lo slogan: «rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei all’esterno», sia la massa dei detenuti, non ancora pervenuta alla coscienza critica del proprio ruolo, a cui i NAP indicano gli obiettivi immediati della lotta contro i codici fascisti, per la democratizzazione delle carceri, per l’abolizione dei manicomi carcerari, ecc.
Ad un anno circa dai fatti di Alessandria, i NAP rapiscono Giuseppe di Gennaro, direttore dell’Ufficio studi del Ministero, in appoggio a un’azione nata nel carcere di Viterbo a opera di tre detenuti che hanno tentato un’evasione. Anche se l’azione, concertata tra il nucleo interno e quello esterno, anche se non raggiunge l’obbiettivo di liberare i tre rivoltosi ottiene, comunque, una risoluzione positiva: nessun intervento delle forze di polizia esterne, nessuna rappresaglia sui tre protagonisti della tentata evasione e il loro trasferimento in carceri non punitive. In cambio, i compagni, liberano il Giudice De Gennaro.
Con la riforma del sistema penitenziario e l’incarcerazione di massa di militanti politici, la struttura, l’organizzazione e la composizione del carcere muta nuovamente.
I detenuti comuni, la Riforma carceraria del ’75 e la Legge Gozzini del ’86
Vennero istituiti ufficialmente tre circuiti penitenziari differenziali, in cui la vasta area della criminalità comune è soggetta a nuove forme di controllo premiale: territorializzazione dell’esecuzione, non più esclusivamente tra le mura carcerarie; scambio pena-comportamento, con l’istituzione di una micro-magistratura che ha il compito di giudicare in continuazione, in combutta con tutta una serie di nuove figure del disciplinamento democratico, la buona condotta del detenuto e di decidere le forme e i tempi in cui deve scontare la propria pena.
Senza dilungarci sul trapasso da un modello segregativo ad
un modello correzionale, attraverso un approccio trattamentale e non più solamente punitivo, che si sostanzia con l’uso di disposizioni disciplinari in un regime di premialità, ci interessa sottolineare come il detenuto comune viene e venga tuttora individualizzato.
Se qualcuno può decidere i tempi e i modi della pena, se qualcuno detiene l’arbitrio assoluto per soddisfare ogni qualsiasi richiesta inoltrata, attraverso la pratica della Domandina, allora il potere di ricatto delle gerarchie carcerarie aumenta e diminuisce la possibilità dei “comuni” di riconoscere in coloro che decidono di un beneficio nient’altro che le articolazioni terminali dell’organizzazione del potere contro cui combattere.
Lo stato interviene modificando la configurazione dei rapporti di forza all’interno delle carceri, attraverso questa ristrutturazione, per isolare dal resto della popolazione carceraria, i compagni più combattivi. I meno risoluti ad iniziare una qualsiasi mediazione con il potere si differenziano da quelli che, a seconda della loro pericolosità sociale, possono incominciare a vedere schiudersi la possibilità della semi-libertà, di uno sconto di pena, disposti a sottoporsi ad un approccio trattamentale che verifica la costante volontà di piegarsi ai dettami, la reale volontà di riscatto attraverso il lavoro, la famiglia e la fede.
Con la riforma del ’75 rimangono esclusi dai benefici sopraindicati i detenuti a medio indice di pericolosità, sospesi tra il circuito del carcere riformato e l’inferno degli speciali. Coloro che sono accusati o condannati per reati di rapina, sequestro di persona, estorsione e dall’82, anche per associazione mafiosa, vengono esclusi.
Erano state figure chiave, come quella del rapinatore, nella crescita del movimento carcerario del passato e allora, a metà anni settanta, erano le fasce della nuova criminalità metropolitana più permeabili al progetto politico di movimento, nonché quelle ritenute responsabili del nuovo allarme sociale: bisogna quindi impedirne la politicizzazione, mostrando quale condizione sarebbe riservata a loro nel caso volessero fare una precisa scelta di campo e, allo stesso tempo, dare all’opinione pubblica l’immagine di una rinnovata sensibilità per la questione dell’ordine pubblico, usando il polso duro e facendo scontare il dovuto alla delinquenza sociale che più preoccupava il belpaese.
In questo modo alla tradizionale prassi coercitiva si univa il rinnovato potere di deterrenza degli speciali, anche nel senso opposto: passare da uno speciale ad una sezione di questo circuito significava rompere l’isolamento dagli altri reclusi, attraversare i vetri divisori, incontrare più spesso la famiglia, poter telefonare e ricevere giornali e libri, entrare, cioè, in un regime disciplinare quasi ordinario.
Più di dieci anni dopo, con la Legge Gozzini, vengono liberalizzati gli accessi ai benefici, universalizzando il modello del governo premiale e viene introdotta la possibilità per i condannati, che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano di particolare pericolosità sociale, di poter godere di permessi premio di 15 giorni.
La Carcerazione sociale oggi
Partiamo da una fotografia della realtà.
La popolazione carceraria sfiora le 56.000 unità, di cui più del 40% detenuta in attesa di giudizio, di questa particolare condizione di imputato – specialità Italica nel campo del diritto penale – ne fanno le spese quasi il 60% degli immigrati nelle prigioni.
Circa un quarto dei detenuti viene accusato, o è stato condannato, per reati che violano le norme contro il patrimonio, circa un quinto per la violazione delle norme del testo unico sulle sostanze stupefacenti, circa un sesto per norme a tutela dell’ordine pubblico, poco di meno per reati contro la persona, tra cui alcuni reati micro-criminali che poco tempo prima erano considerati contro il patrimonio e che ora, bontà del centro-sinistra, sono da considerarsi atti criminosi contro la persona.
Ricordiamo che nella penultima categoria vanno collocati anche i detenuti per “reati di immigrazione”, quali il non avere osservato un ordine di espulsione o l’aver dato generalità false, reati che a metà degli anni ’90 riguardavano il 43% di quelli attribuiti dalla polizia agli immigrati, reati per cui una legge del ‘93 ha introdotto una condanna dai 6 mesi ai due anni!
Se pensiamo che la nuova ondata di carcerazioni nel corso degli anni novanta è diretta conseguenza di un inasprimento legislativo e di una maggiore produttività del sistema repressivo, che colpisce sistematicamente il sotto-proletariato metropolitano giovanile, non ci può sorprendere che la stragrande maggioranza dei detenuti non ha assolto l’obbligo formativo o è in possesso solo della licenza media-inferiore e quasi i 4/5 di coloro che svolgevano una qualsiasi professione, prima di essere sbattuti in cella, facevano l’operaio.
Il tasso di detenzione e il numero di coloro che sono sottoposti ad una qualsiasi misura di restrizione della libertà aumentano, nonostante non vi sia un aumento dei crimini commessi, perché si aumenta la fascia di comportamenti ritenuti criminali, o meglio dei profili sociali giudicati come tali. Le varie guerre combattute dallo Stato contro le fasce più basse del proletariato, mascherate contemporaneamente da guerra alla droga, guerra all’immigrazione, guerra alle organizzazioni mafiose e guerre contro la micro-criminalità, hanno cambiato la composizione sociale dei detenuti degli ultimi vent’anni.
Fanno parte dell’arcipelago carcerario le comunità terapeutiche istituite nella seconda metà degli anni ottanta, i centri di detenzione temporanea istituiti a fine anni novanta, le varie articolazioni del controllo sociale per coloro che possono godere di un regime premiale, di cui beneficiano, si fa per dire, circa 20.000 persone, oltre ai rinascenti “vecchi” manicomi e ai sempre verdi istituti minorili. Andiamo con ordine:
Poco meno di un terzo dei detenuti è costituita da immigrati di origine extra-Unione Europea, prevalentemente concentrati al centro-nord e nelle aree metropolitane, dove costituiscono talvolta circa la metà della popolazione carceraria, mentre quasi la metà delle donne detenute è di origine extra-UE.
Su di loro pesa un inasprimento della custodia cautelare, più alta in percentuale rispetto agli italiani, oggettive difficoltà di difesa legale, una minore possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, difficoltà maggiori per i colloqui con le proprie famiglie, tra cui l’impossibilità di avere colloqui telefonici fuori dall’Italia.
Il processo di criminalizzazione della condizione di immigrato, particolarmente accelerato e intenso in Italia, rispetto alle nazioni dell’UE, è dovuto a due specificità, una storica e l’altra geografica, del sistema-paese: il tramutarsi dell’Italia da paese di emigrazione estera e immigrazione interna a paese di immigrazione interna ed estera, e dalla sua posizione di confine e di transito di differenti flussi immigratori verso l’area della Unione
Europea dei paesi firmatari del Patto di Schengen.
La Legge Martelli a inizio anni novanta, la Legge Turco-Napolitano del marzo ’98, fino alla recente Legge Bossi-Fini, insieme agli altri provvedimenti legislativi, hanno progressivamente criminalizzato la condizione di immigrato, facilitando progressivamente la possibilità di espulsione, istituendo i centri di detenzione temporanea con il governo di centro-sinistra, rendendo la vita di questi proletari un vero e proprio inferno, in cui le varie sanatorie che si sono susseguite sono state più uno strumento di cristallizzazione della precarietà della propria condizione, che altro.
I centri di detenzione temporanea vennero allestiti in gran silenzio in Puglia, in Sicilia e a Trieste e in altre località ritenute “critiche”. Il grande pubblico scopre la loro esistenza, e la loro natura tutt’altro che assistenziale, nell’estate del ’98, quando ad Agrigento e a Caltanisetta alcune decine di immigrati si ribellano alle condizioni inumane in cui sono costretti, incendiando questi lager. Senza aver commesso nessun reato, sono tenuti a pane e acqua per diverse settimane in edifici fatiscenti sorvegliati a vista dalla polizia che interviene con violenza al minimo segno di protesta. L’altra componente che dalla metà degli anni ottanta e soprattutto dopo la Legge n.161 del 1990 ha subito un’accentuata criminalizzazione, è quella che ha il profilo, nella stigmatizzazione socio-mediatica, del tossicodipendente consumatore e spacciatore.
L’articolo 47bis della Legge Gozzini prevede la possibilità di affidamento ai servizi sociali per tossicodipendenti, cioè più prosaicamente l’auto-reclusione volontaria in una comunità terapeutica per chi deve scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni.
Questo micro-cosmo carcerario su cui non è dato indagare, da cui nessuna notizia sulle regole che lo governano può trapelare, e a cui è stata delegata una funzione terapeutica normalizzante, applica tutti i mezzi che ritiene necessari per ottenere i fini sublimi della introiezione dellacolpa e della sua espiazione attraverso la vita comunitaria incentrata sul lavoro gratuito.
Queste oasi del sequestro dal sociale sono proliferate, aumentando in numero e in capacità di accoglienza, e hanno catalizzato su di sé le aspettative illusorie di chi pensa che la permanenza in uno di questi lager sia garanzia di un certificato di guarigione almeno dall’infame marchio sociale di tossicomane, di soggetto a rischio, di micro-delinquente, ecc. Hanno spostato il discorso del disagio sociale, non sulle cause di questo, ma sulle conseguenze e sono stati uno dei primi esperimenti di privatizzazione del welfare con operazioni mirate alla cattura di consenso e benestare della pubblica opinione. Un buon trampolino di lancio per santoni nostrani, pretazzi con la vocazione del sociale, uomini forti che offrivano l’immagine dell’impresa famigliare vincente, cooperative e tutto il carrozzone variopinto dell’impresa sociale.
Il carcere cura poi la tossicodipendenza con gli psicofarmaci, che costituiscono i farmaci maggiormente somministrati negli istituti di pena, provocando una dipendenza di ancora più difficile rimozione!
L’ultima fascia protagonista suo malgrado del grande internamento degli anni novanta riguarda la manovalanza della criminalità organizzata, in parte compresa nelle componenti precedenti e delle fasce della micro-criminalità che non ha bisogno di grandi mezzi per svolgere la propria attività illegale: ladri di macchine, topi d’appartamento, scippatori, ecc.
Gli appartenenti al crimine organizzato in carcere sono circa settemila. L’operato dello stato ha prodotto un notevole numero di collaboratori di giustizia. Questo lo si deve sia alla costante instabilità delle gerarchie dei gruppi criminali e il ricambio continuo delle elitès, sia al trattamento differenziato riservato ai collaboratori di giustizia, comprese le garanzie di protezione assicurate ai familiari.
LETTERA DI UNA COMPAGNA DETENUTA IN UN BRACCIO MORTO DEL CARCERE
SPECIALE IN GERMANIA (Dal 16 giugno 1972 al 9 febbraio 1973)
… La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che il cranio possa esserti esportato via, esplodendo), la sensazione che il midollo spinale ti si comprima tutto nel cervello, la sensazione che il cervello ti si raggrinzisca, la sensazione di trovarsi sotto una corrente, continua, impercettibile che ti trascina lontano la sensazione che ti si spappolino le capacità sociative la sensazione che l’anima ti pisci via dal corpo, come quando non si riesce a trattenere l’urina la sensazione che la cella si muova. Ci si sveglia, si aprono gli occhi, la cella viaggia; al pomeriggio quando entra la luce del sole, la cella, di colpo, si immobilizza. Non riesce a respirare la sensazione di movimento, di viaggio. Non si riesce a capire perché si tremi, si geli. Riuscire a parlare con un tono di voce normale, fatica come se si dovesse parlare forte, come se si dovesse urlare. La sensazione di diventare muti. Non si può identificare il significato delle parole, si riesce solo ad indovinare. L’uso delle sibilanti – come s, sch, tz, z – è assolutamente insopportabile. Secondini, visite, cortile, sembrano un film Mal di testa Flashes Incontrollabile la costruzione delle frasi, la grammatica, la sintassi. Si scrive: due righe. Alla fine della seconda riga non si ricorda più l’inizio della prima. La sensazione di andare in cenere dentro. La sensazione che se tu riuscissi a dire cosa sta accadendo, tutto ti verrebbe fuori come un getto di acqua bollente, che bolle per tutta la vita. Furiosa aggressività che non trova sfogo. Questa è la prova peggiore. La chiara coscienza di non avere più alcuna possibilità di sopravvivenza. Totale senso di impotenza nel tentativo di opporsi a questa convinzione: le visite lasciano dietro di se il vuoto. Un ora dopo una visita riesci solo a ricostruire meccanicamente se la visita è stata oggi o la settimana scorsa. Una volta la settimana invece il bagno a questo significato: di scioglierti un attimo, di riprenderti – questo anche per un paio d’ore -. La sensazione che il tempo e lo spazio si incastrino l’uno nell’altro. La sensazione di trovarsi nello spazio di uno specchio deformato – vacillamento -, Poi; spaventosa euforia quando si sente qualcosa – la differenza sonora tra il giorno e la notte-. La sensazione che ora il tempo scorra, che il cervello nuovamente si rilassi, che il midollo torni al suo posto, per settimane. La sensazione che ti abbiano strappato la pelle.
SECONDA VOLTA (dal 21 dicembre al 3 gennaio 1974)
Turbinio nelle orecchie. Risveglio, come se si stesse per essere picchiati. La sensazione di muoversi a rallentatore. La sensazione di trovarsi sospesi nel vuoto, come se si fosse fatti di piombo. Poi: shock. Come se ti fosse caduta in testa una lastra di acciaio. Confronti e concetti che ti vengono in mente: sbranamento – lacerazioni fisiche – il lupo mannaro – la colonia penale di Kafka – l’uomo sul letto di chiodi – ottovolante che non ferma mai. La radio: si creano tensioni minime come se il ritmo calasse da 240 a 190. Che tutto ciò accada in una cella che esteriormente non si differenzia dalle altre – radio, mobili, giornali, libri – significa un inasprimento della situazione: impossibilità di comunicazioni, tra persone che non sanno cosa significhi l’isolamento acustico e il prigioniero. Disorienta anche il prigioniero. (Sia chiaro si tratta di celle da lazzaretto, il terrore viene acuito dal silenzio, chi ne è cosciente dipinge, dipinge i muri). E’ chiaro che là dentro si preferirebbe essere morti. Peter Milberg, che si è trovato in questa situazione nel Preungesheim di Francoforte (“Sezione malati da rieducare”) ha accusato il suo giudice di averlo voluto sopprimere ed è vero, poiché si tratta in realtà di una “esecuzione”. Cioè ha luogo un processo di disfacimento – come di sostanze che vengono corrose dall’acido, il processo lo si può ritardare, concentrandosi, ma non si può eliminarlo. Perfida è pure la personalizzazione totale. Nessuno, se non tu stesso, si trova in questa situazione totalmente abnorme. Come mezzo/metodo simile a quelli usati con i tupamaros, inchiodati in situazioni di esasperazione e di strazio totale, uso del pentotal – conseguenza: improvviso rilassamento, poi euforia. Il prigioniero, così ci si attende, perde il suo autocontrollo. Balle!…
Apparsa su “Solidarietà militante” ed in “Contro-informazione” n. 3-4, 1974
Il carcere e la cortina di silenzio con la quale si vuole avvolgere quanto accade al suo interno sono uno strumento politico del potere per risolvere le profonde contraddizioni che produce (disoccupazione, povertà, aumento della miseria sociale e dello sfruttamento). Nessuna voce d’accusa, di protesta, di indignazione deve turbare la “pace sociale” imposta dal Capitale. In tempi di crisi economica generalizzata e diffusa, fatta pagare come sempre con sudore e sangue ai proletari, ogni forma di lotta e di organizzazione, dentro e fuori dal carcere, diventano estremamente pericolose per la sopravvivenza di questo sistema.
Il capitale, nazionale e internazionale, ha articolato una strategia globale, preventiva e punitiva, che costituisce di fatto una dichiarazione di guerra contro il proletariato mondiale – interventismo militare, messa al bando di partiti e organizzazioni rivoluzionarie e legali (HB-FPLP), criminalizzazione degli immigrati (trattato di Shengen – legge Bossi/Fini), controllo e repressione attraverso le larghe maglie dei reati associativi dei movimenti rivoluzionari e antagonisti. Nel nostro paese da oltre 10 anni e a circa 600 detenuti è stato applicato l’art. 41 bis : il c.d. “Carcere Duro” costituito dall’ isolamento pressoché totale, vigilanza speciale, limitazione dell’aria e dei contatti con l’esterno. Il 41 bis viene ora reso definitivo ed esteso ai prigionieri rivoluzionari e ai presunti appartenenti alle organizzazioni islamiche. Più di 30 compagni/e presi in ostaggio dallo stato da circa 20 anni, per avere sempre rivendicato il proprio percorso di rivoluzionari, potranno essere sottoposti a questo particolare sistema di detenzione speciale. Quello che lo Stato vuole è distruggere la loro identità politica, annientarli psichicamente e fisicamente, isolarli e dividerli e contestualmente dare un avvertimento a chi lotta contro le istituzioni, che direttamente o indirettamente, sostengono i rapporti di proprietà esistenti. In tutto il resto del sistema carcerario la situazione non è migliore: sovraffollamento, lunghe condanne, tentativi di rivolta seguiti da massacri legalizzati.
Per sviluppare un dibattito tra le diverse realtà del movimento rivoluzionario e antagonista, tra i detenuti e i loro familiari, per costruire una rete di controinformazione e mobilitazione, per praticare una concreta solidarietà di classe |
dicembre 2002
compagne e compagni contro il carcere e la repressione