Trento | Repressione – Sulla mobilitazione contro la sorveglianza speciale

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Sulla mobilitazione contro la sorveglianza speciale a Trento

L’11 settembre, il tribunale di Trento ha comunicato che la richiesta di sorveglianza speciale e di obbligo di soggiorno contro Massimo è stata respinta.
Visto che la stessa misura è stata applicata a Chiara e che diversi compagni, fra Torino e Cagliari, avranno l’udienza tra settembre e ottobre può essere utile raccontare come è andata la mobilitazione a Trento e qual è stato il piano di confronto tra i compagni e i solidali.

Se ogni situazione locale ha le sue specificità, ci sembra comunque fondamentale che il ragionamento coinvolga un po’ tutti. Il fioccare di così tante richieste di sorveglianza risponde evidentemente a un progetto del ministero degli Interni che può trovare tribunali più o meno compiacenti. E il dibattito non dovrebbe riguardare solo come cercare di impedire l’applicazione di queste misure, ma anche come affrontarle nel momento in cui vengono applicate. Un dibattito da aprire –  fra i candidati alla sorveglianza e i loro solidali – se possibile prima delle udienze.
Il giorno dell’udienza, a Trento, al presidio fuori del tribunale hanno partecipato tante persone. Oltre il dato quantitativo, un aspetto interessante è stata la composizione dei solidali. Se l’intento di Questura e Procura era quello di isolare un compagno e, indirettamente, colpire la rete di relazioni costruita attraverso le lotte, si può dire che l’intento è fallito. Dall’ambito no tav all’assemblea dei parenti, amici e solidali di Stefano Frapporti, dai lavoratori e lavoratrici dell’Orvea in lotta ai compagni che hanno partecipato alle ultime occupazioni, i raggruppamenti di resistenza presenti sul territorio hanno risposto solidali. La scelta che l’udienza fosse a porte aperte – se l'”interessato” ne fa richiesta il presidente del tribunale deve disporre che il dibattimento sia pubblico – ha permesso che la solidarietà fosse ben presente anche in aula durante ladichiarazione del compagno.
Finita l’udienza, il presidio si è trasformato in un corteo spontaneo per le vie di Trento, con interventi, affissione di manifesti, scritte e stencil contro la sorveglianza, per concludersi con un’assemblea a Sociologia, in cui si è parlato poco delle prossime iniziative contro la sorveglianza e molto dei prossimi appuntamenti di lotta: dalla questione della Marangoni al clima di caccia alle streghe contro i migranti, per finire su come costruire un’ampia solidarietà attorno a Pippo, Andre e Tommy.
Durante il corteo, il cui contenuto di fondo era “chi tocca uno tocca tutti”, uno slogan riassumeva bene il livello di confronto sviluppatosi nelle assemblee precedenti, svoltesi a Rovereto e a Trento: “Contro la sorveglianza, la nostra soluzione: solidarietà e violazione”. Massimo aveva detto fin da subito che, in caso di applicazione della sorveglianza, l’avrebbe violata pubblicamente, scelta che i vari ambiti di lotta si erano detti pronti a sostenere. La sentenza del tribunale – su cui pensiamo che la mobilitazione abbia avuto il suo peso – chiude (probabilmente) in anticipo la partita. Meglio così, perché il contrasto alla repressione inghiotte sempre energie preziose.
Ma il problema rimane per altri compagni e può diventare un pesante precedente contro tutti i sovversivi. Per cui invitiamo compagne e compagni a parlarne. La normativa del 2011 – sotto il cappello dell’antimafia – ha inasprito le conseguenze per chi vìola le misure di prevenzione. Se la violazione della sorveglianza non prevede l’arresto immediato, ma successive condanne che possono raggiungere complessivamente i tre anni di carcere, la violazione dell’obbligo di soggiorno prevede l’arresto immediato e una condanna che può arrivare fino a cinque anni. Scontate le condanne, ricomincia la sorveglianza. In caso di commissione di reati, anche banali, può essere disposto un periodo di due anni di libertà vigilata; se il reato viene commesso mentre si vìola l’obbligo di soggiorno, spunta l’eventualità di essere condannati alla casa-lavoro o alla colonia agricola, fino a quando una commissione non stabilisca che il sorvegliato speciale si è effettivamente ravveduto: una “misura di sicurezza” potenzialmente infinita.
Questo per avere un quadro. Il tutto è ancora nebuloso per l’assenza di precedenti. E sappiamo che l’applicazione o meno di determinate misure repressive dipende da rapporti di forza le cui incrinature non si possono mai disegnare in anticipo.
Sicuro è che la logica “chi ha la sorveglianza se la tenga” è pessima sia per il sorvegliato che per la libertà di tutti. Come dar battaglia, come ricacciare indietro queste misure è dibattito importante e urgente. Tra l’altro, attraverso queste misure di prevenzione si può rileggere l’intera storia d’Italia, dalla legge sardo-piemontese del 1859 che introduceva l’ammonizione fino ad oggi. Per poter colpire condotte e modi di vivere non direttamente sanzionabili con il codice penale, lo Stato ne ha affidato la repressione alle leggi di polizia, che hanno attraversato indenni epoche e governi. Una repressione fuori e dentro il Diritto, una sorta di carcerazione “a costo zero” che raccoglie e affina diversi arnesi del potere: antropologia criminale, ortopedia sociale, giudizio psichiatrico, sospetto fascista, rieducazione stalinista e perbenismo democratico. Non un’anticaglia del passato, dunque, ma il volto del presente.
Alle e agli insuscettibili di ravvedimento spetta difendere e diffondere la libertà ovunque. Che nessuno venga isolato non può essere solo uno slogan: bisogna pensare e praticare una solidarietà calorosa e conseguente.

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