L’ora del pecorismo sovversivo

images

Dopo tanto scalpore, dopo tanto frastuono di propositi bellicosi, dopo tanto clamore di trombe rivoluzionarie, dopo lo scrosciare di tanti discorsi insurrezionali e la promessa e la minaccia di tante barricate… socialiste, la parola d’ordine per la rivolta a scadenza fissa è cambiata improvvisamente, la disciplina di partito trionfa, l’obbedienza passiva alla ingiunzione dei santi padri, la rinunzia prudenziale, la rassegnazione e la pace fra gli uomini di buona volontà!
Che cosa è avvenuto di nuovo, perché il 21 luglio dell’anno di grazia 1919, che doveva in qualche modo rassomigliare al 14 Luglio dell’89, il 21 luglio minaccioso dello sciopero internazionale rivoluzionario, il giorno atteso con trepidazione dalle folle proletarie e con terrore dall’odiata borghesia, sorgesse e tramontasse tranquillamente?

Niente di straordinario, nulla che giustificasse la mansuetudine e la viltà di tanta gente che pareva disposta a rovesciare un mondo!
Un po’ di rugiada governativa, caduta — sotto forma di circolare ai prefetti delle varie Provincie — nelle notti precedenti il 21 fatale, è bastata a spegnere tanto incendio di coscienze e tanti propositi terribili! Poi dei discorsi cavillosi di onorevoli sovversivi addomesticati e pieni di timori e di speranze, discorsi di uomini dabbene e teneri dell’ordine e della quiete del popolo che ha bisogno di mangiare tutti i giorni e non di fare la rivoluzione; promesse, minacce. truppe acquartierate con mitragliatrici e bombe a mano pronte ad agire, pattuglie di bravi governativi, squadre di cittadini-pescecani in fregola di nazionalismo sanguinario vaganti per le vie desolate delle città, ecc., ecc., e lo sciopero generale internazionale solennemente stabilito pel 21 Luglio — tranne piccoli e timidi tentativi facilmente soffocati dalla polizia — non ebbe luogo, ed i socialisti italiani, per bocca degli on. Turati e Zibordi, se ne lavarono le mani come Pilato, riconoscendo il fallimento ed attribuendo la colpa alla mancanza di una vera organizzazione internazionale proletaria!
Ma quali realmente le ragioni d’ordine politico e morale che hanno potuto determinare tanta e così vergognosa rinunzia e forza a paralizzare un movimento che prometteva tanto?
Semplicissime! «Perché — domandavano gli uomini di governo — si vuole questo sciopero rovinoso? Per protestare contro il possibile intervento militare in Russia ed in Ungheria in danno dei rivoluzionari di quei paesi e rovesciare, a benefìcio della reazione, le dittature proletarie al potere? Ebbene, noi non abbiamo nessuna intenzione di far ciò. Tutti sanno — diceva, per esempio, il ministro Nitti — che il governo italiano ha deciso di non immischiarsi negli affari interni della Russia e dell’Ungheria, tanto è vero che ritireremo le poche truppe rimaste ancora in Russia».
«E poi, perché scioperare? Per gettare la nazione nel baratro della fame? Ogni agitazione di questi tempi — soggiungeva l’ineffabile omuncolo — indebolisce il nostro credito all’estero e compromette la vita economica del paese».
E giacché è cosi, e giacché è tanto pericoloso e dannoso scioperare… non parleremo più di sciopero — risposero i benpensanti del socialismo organizzevole, legalitario e disciplinato.
Ed i gregari assentirono supinamente, e la folla, arrovellata pochi giorni prima contro gli affamatori del popolo e spinta agli ardimenti della espropriazione contro i detentori dei generi alimentari, si acquietò, per amor di quieto vivere.
Partita rimandata — si dirà forse — necessità di ragionevolezza in momenti difficili della vita nazionale, difetto di quella tale organizzazione internazionale dei lavoratori, vigliaccheria nel popolo?
Se ne son dette tante e tante altre se ne diranno di queste cose amene per giustificare l’ingiustificabile: ma per noi è chiaro che i dirigenti del partito socialista hanno avuto paura del loro coraggio di poche settimane prima, paura delle conseguenze, paura di affrontare una situazione nella quale potevano compromettere, con le loro persone, le prebende parlamentari, le sinecure nelle magne organizzazioni, le loro speranze e le ambizioni di arrivisti della politica. Sono pieni di prudenza, pieni di diplomazia, quando fa loro comodo, quei bravi medagliettati del socialismo in Italia e fuori. Ne hanno dato prova a Milano e altrove impedendo violentemente la parola agli anarchici nei vari comizi e costringendoli ad usare del loro diritto con la forza e subendoli per timor di peggio, ma discreditandoli sempre e sempre osteggiandoli nelle loro giuste e sincere intenzioni, nella loro volontà determinata di parlare alle masse popolari senza reticenze e senza riguardi per nessuno: senza paura.
«Gli anarchici fanno i fatti — dice un nostro compagno sulle colonne dell’Iconoclasta! di Pistoia del 2 Luglio u. s. — quando voi fate le chiacchiere e tentate spegnere ciò che avete acceso da molto tempo»; e ci pare sintomatica l’affermazione. A più di un mese di distanza dal preparato sciopero internazionale (il compagno che si firma for well e dedica l’articolo «ai socialisti di Milano ed alla massimalista Abigaille Zanetta», si riferisce certamente a comizi tenuti nel mese di giugno) i socialisti, che precedentemente avevano smaltita tanta retorica rivoluzionaria ed insurrezionale, cominciavano a ritirar le corna: si annunziava la tremarella.
Ecco come parlavano prima, sentiteli in questi brani di eloquenza tribunizia che togliamo da vari articoli negli ultimi numeri dell’Avanti! qui pervenuti:
«… Oggi dunque, la situazione è questa: vi sono due lotte. L’una, esterna, fra gli operai e gl’industriali, per le rivendicazioni corporative. L’altra, intema, fra le masse e gli organismi sindacali, per decidere se si debbano porre ufficialmente e collettivamente le rivendicazioni politiche e sociali a caposaldo dell’iniziale movimento. Le masse vogliono marciare, gli organismi sindacali vogliono invece segnare il passo. Dall’esito di questa lotta interna, si saprà se il gallo francese lancerà il suo canto risvegliatore, o… se è ancora l’ora dei capponi». (Avanti!, 11 giugno 1919, n. 159).
«I socialisti poi sapranno stare al loro posto, anche in quest’ora. I lavoratori vedono adesso che al loro fianco sono solo i socialisti ad affrontare le conseguenze delle lotte odierne, mentre tutti quelli che gridavano alle grandiose conquiste che avrebbero ottenuto nel dopo-guerra sul terreno della collaborazione patriottica, sono scomparsi nella paura. I banditi di ieri, i nemici, sono coloro che disertano dalla battaglia proletaria!» (sabato 14 giugno 1919, n. 163)
«Lor signori han fatto la “loro” guerra ed hanno proceduto alle “loro” annessioni. I lavoratori iniziano la propria guerra contro le grandi potenze della miseria e della degradazione sociale e iniziano “l’annessione” della terra materna al loro lavoro fecondo». (F. Ciccotti, giovedì 19 giugno 1919, n. 168)
«La lotta incomincia ora. Le masse lavoratrici sono scese in campo per svellere dalle sue radici il privilegio economico della borghesia. Ed in quel campo i vessilli rossi, bianchi e rosso-neri si uniscono in un fascio e muovono verso la democrazia del Lavoro nel Socialismo internazionale». (A. Schiavi, sabato 21 giugno 1919, n. 170)
«Facciamo intendere a questi riottosi pentiti che il Partito socialista non è un asilo di carità per certi figliuoli prodighi, né ospedale per certi invalidi del fronte interno. Solamente così, soli contro tutti, ma soli colla verità e col proletariato, noi combatteremo e vinceremo, perché l’aurora più rossa del nostro giorno novello è già sorta». (L. Lizzini, lunedì 23 luglio 1919, n. 172)
Ed ora? Che cosa avviene laggiù, dopo il fallimento dello sciopero famoso? A chi o a che cosa attribuire quest’ora ripugnante di generale mansuetudine?
Le promesse di non intervento armato in Russia ed in Ungheria?
Ma è stato il proletariato stesso ad impedire finora ogni tentativo d’intervento e di aiuti alle forze ostili ai comunisti dominanti nei due paesi, ed i governi — in Italia specialmente — hanno dovuto cedere all’ingiunzione della folla. Sono stati i soldati stessi, americani e francesi, che in Russia si son rifiutati di combattere contro i bolscevichi con grande stupore dei generali e scandalo per la disciplina profanata. Ed intanto dai dittatori della “Conferenza della Pace”, dalla Francia, dalla terra sacra a tutte le libertà, si organizza una spedizione militare in Ungheria al comando del generale Franchet D’Esperey col pretesto di «permettere al popolo ungherese di scegliere liberamente un governo da sostituire all’attuale»; e si negozia segretamente ed apertamente coi dittatori Kolchak e Denikin perché riescano ad abbattere il bolscevismo in Russia stabilendovi un governo responsabile che non insidi più, come quello di Lenin, la sicurezza e la pace del capitalismo mondiale e dei governi rispettivi.
La salvezza dell’economia nazionale e la necessità quindi di non turbare in alcun modo il lavoro di produzione?
Certo che l’economia e il prestigio della nazione vengono seriamente compromessi dallo scoppio di uno sciopero generale internazionale con carattere eminentemente politico e rivoluzionario; ma questo lo sapevamo anche noi, lo sapevano, meglio di noi, gli omenoni del socialismo, lo sanno in Russia ed in Ungheria, tanto compromesse, in questo senso, da… compromettere, nientemeno, tutto il pacifico mondo capitalistico!
Che cosa rimane allora? La mancanza di una salda organizzazione internazionale del proletariato?
Anche questo non ci sembra un motivo sufficiente a giustificare un così vasto fenomeno di vigliaccheria.
L’Internazionale dei lavoratori, allo stato di organizzazione vera e propria, non esisteva più da molti anni, ma pareva avesse il suo equivalente nelle file del partito socialista ricco di gregari, nella funzione parlamentare degli onorevoli sovversivi, nelle magne organizzazioni di mestiere, nei sindacati, ecc.; e pareva anche potesse sussistere, malgrado e a dispetto dei governi e del capitalismo mondiale, sotto forma di solidarietà fra tutti i diseredati della terra vittime delle stesse ingiustizie, animati dalle medesime aspirazioni. La guerra annientò queste fallaci illusioni; ma la guerra stessa — durante il suo lungo decorso assassino e rovinoso; lo sfacelo del mostruoso impero moscovita e il riaffermarsi ed il trionfare del pensiero comunista (il così detto bolscevismo) che s’infiltra nella compagine saldissima della potenza teutonica e la dissolve e ne affretta la rovina: il trionfo della rivoluzione nei due imperi centrali ed il sorgere delle due repubbliche socialiste; l’armistizio che non fa cessare la guerra; la tragica commedia della “Conferenza della pace” che mostra spudoratamente tutta la bruttura degli scopi affaristici ed imperialistici nei governi dell’Intesa camuffati abilmente da democrazia; l’ingordigia degli speculatori della guerra, il caroviveri, la carestia, ecc. — la guerra, dicevamo, con tutte le sue conseguenze pareva avesse aperto gli occhi al docile armento proletario e lo avesse deciso finalmente a far giustizia da sé ricostituendo di fatto la maledetta «Internazionale operaia»!
Dunque? Come spiegare il fallimento dello sciopero? Che cosa è avvenuto di quella promettente rinascita dello spirito di ribellione che avrebbe dovuto culminare in azioni risolutive quel tale 21 Luglio?
Che, in Italia almeno, vi abbia contribuito la crisi ministeriale, e che il cittadino Nitti, forte di tutte le scaltrezze e i destreggiamenti politici del giolittismo, sia riuscito ad intendersela con gli onorevoli compagni spadroneggianti nel mondo socialista?
Può darsi. Specialmente se, tenendo fede alle ultime notizie che rileviamo dalla stampa quotidiana, si considerino il contegno e le dichiarazioni di alcuni dei santi padri del socialismo italico. L’on. Prampolini, al teatro Massimo di Reggio Emilia, sente il bisogno di «dichiararsi contro la violenza» ed afferma impossibile ogni velleità di dittatura proletaria perché i socialisti sono minoranza (appena un 100 mila!) e non possono imporre le loro idee alla maggioranza del popolo (e bisognerà aspettare, secondo il pensiero dell’on. Camillo, che i socialisti siano maggioranza per la rivoluzione!); e l’ex eccellenza socialista, il sergente degli alpini Leonida Bissolati afferma che il popolo italiano, inorridito dagli scempi rivoluzionari avvenuti in Russia ed in Ungheria, è persuaso oramai che a conquistarsi il paradiso occorre far le cose con molta calma e non spingere le proprie aspirazioni più in là di una reale compartecipazione (col beneplacito, si capisce, della borghesia) al governo della cosa pubblica. E così tutto andrà per il meglio nel migliore dei mondi possibili, come diceva quella buon’anima di Pangloss! Ma ad un patto: che l’America (parla di questa nostra cara America che ci ospita) si decida, col suo bravo razionalismo (?), ad ammazzare una volta per sempre «la dottrina rivoluzionaria dei visionari». E bravo al cittadino Leonida! Tanto miope e vede cosi lungo! Venga qua, gli daremo il benvenuto e l’America razionale lo nominerà sergente dei linciaggi o, se gli piace meglio, boia dei rivoluzionari! Ma venga, perdio!…
I socialisti dunque non vogliono la rivoluzione.
E il proletariato italiano che cosa dice? Dobbiamo credere che il proletariato occidentale, sordo agli appelli di quello d’oriente, dell’Ungheria e della Russia, si agiti solo perché non si spenga il fuoco sotto le sue pignatte e pensi solamente al ventre, giorno per giorno?
E gli anarchici che cosa pensano, che cosa fanno?
Che sia proprio questa l’ora del pecorismo sovversivo?
Attendiamo, speriamo…
[Domani, n. 9, 31 luglio 1919]