Raoul Hausmann
Era considerato il «Dadasofo» del Club Dada berlinese, ovvero il suo filosofo. Pittore, disegnatore, fotografo, poeta, teorico, prosatore, animatore di riviste, ballerino e performer, Raoul Hausmann (1886-1971) pensava che Dada non fosse un semplice movimento artistico, bensì una «situazione di vita, una forma di mobilità interna». Inquietudine interiore incapace di adeguarsi a qualsiasi convenzione sociale, giacché «l’uomo nuovo deve avere il coraggio di essere nuovo». Sarà per questo che Hausmann nel 1919 pubblicò un articolo su L’Unico – organo degli anarchici individualisti tedeschi animato da Anselm Ruest, studioso di Max Stirner – e nel 1963 entrò in corrispondenza con Guy Debord, arrivando poi a tradurre in tedesco Della miseria nell’ambiente studentesco?
Ad ogni modo, ecco qui il celebre testo che segnò il punto di contatto fra Dada ed il movimento anarchico.
Io annuncio il mondo dada! Rido della scienza e della cultura, miserabili assicurazioni di una società condannata a morte. Come potrei essere commosso dalla figura di Martin Lutero? Me l’immagino piccolo e grasso. Assomigliava certamente al deputato del popolo Ebert. Perché avremmo bisogno di leggere i discorsi di Budda? È meglio avere una falsa concezione delle idee filosofiche, oppure sapere che nel Cambrico c’erano libellule giganti in onore delle quali la pressione dell’aria era più forte di oggi, oppure che 227 miliardi di atomi costituiscono una molecola della grandezza di un decimo di millimetro, oppure che… Ma i poeti sereni sono per noi ancora meno importanti di queste sciocchezze incontrollabili. Perché è meglio essere commerciante che poeta? Il commerciante gabba senza preoccuparsi soltanto gli altri: e questo è in regola con il codice morale borghese. Il poeta inganna se stesso quando parla per tutti, e questo gli vale l’essere giudicato e separato dal mondo surreale. Questi Fritz-pieni-di-sesso vorrebbero imprimerci l’immagine delle loro inquietudini simili agli oscuri impulsi di un dio — a cui non credono neppure loro — perché concedono di esistere solo al loro miserabile ego. Questi fracassoni avidi di possesso sono i veri furfanti della letteratura popolare, dei fantocci melodrammatici.
Questi letterati, fabbricanti di versi, soffrono della loro triste serenità biliosa; coprono come di una lebbra le deformità intellettuali del governo Ebert-Scheidemann, di concerto con la cacofonia di questo povero disco di grammofono weimariano. Una volta sbraitavano d’entusiasmo per il poliziotto prussiano. Seguendo l’onda e per amore del borghese-proletario, i più furbi — al suo avvicinarsi — si nascondevano nelle categorie dei «Lavoratori della mente»; per le loro esigenze di disciplina, calma e ordine, bisbigliavano ciortesemente al basso-ventre del dio mammone. I poeti, questi idealisti in valori di borsa, hanno distrutto la saggezza dell’uomo semplice: hanno piantato perfino nelle teste dei proletari il loro impulso educatore come fittizio super-valore delle parole in rima. Questi rappresentanti di commercio del regno dell’idiozia morale avrebbero dovuto impregnare le coscienze risvegliandole al riso, all’ironia, all’inutile — il grido di allegria del non-senso orfico. La santità dell’innocenza contrasta realmente con il borghese dal cervello di sicurezza e con la sua macchina dalla morale intercambiabile.
La psicoanalisi è la reazione scientifica contro questa putrida peste che abbassa ad un livello di classi medie tutta la gente semplice, gli slanci nel blu dei vertici della bontà creatrice, attraverso sfinimenti nauseabondi, melmosi, tremolanti come gelatina.
Questi squallidi signori viscosi disgustosamente capaci di tramutarsi in tutto fuorché nell’Uno, questi autentici repressi che si oppongono a tutto ciò che è straordinario, sono ancora troppo spregevoli per il borghese che geme sulla sua borsa che diventa più leggera. Anneghiamoli nel fango delle loro opere in sessanta tomi piene di orribila serenità!
Io non sono solamente contro lo spirito di Potsdam, ma sono innanzi tutto contro Weimar. Goethe e Schiller hanno generato un seguito ancora più meschino di quello del vecchio re Fritz, e il governo Ebert-Scheidemann è stato una conseguenza sciocca e avara del classicismo weimariano. Questo classicismo è un’uniforme, un modello metrico per le cose che non sfiorano lo spazio vissuto. Al di fuori di tutti i vortici, di tutti i baratri del reale, dei poeti seri, dei socialdemocratici avviluppano la stupidità nei rigidi drappeggi dei loro decreti altezzosi, in melopee moilitari intercambiabili, in arie di Bontà e di Umanità. Il possesso di un gran numero di biglietti di banca o di libbre di burro è un’imnboscata da cui esce l’ideale di tutti gli imbecilli: il secondo Faust di Goethe. Contiene semplicemente tutto quello che non c’è nei Briganti di Schiller. Dal momento che le opere di questi solenni classici costituivano il solo bagaglio ed il solo pensiero del soldato tedesco, il governo non poteva evitare di condurre gli affari nel senso di Schiller e di Goethe. L’idealizzazione della Germania fa, allora, un progresso enorme ed è inevitabile la bancarotta nazionale di tutte le facoltà viventi circondate dalle danze delle Muse. Il tedesco, così cristiano ieri, è diventato oggi Goethe-Ebert-Schiller-Scheidemanniano; e dal suo gioco dei quattro cantoni lo può distogliere solo il terrore per il bolscevismo, orco dei bambini. Il comunismo è il Vangelo — il sermone sulla montagna minuziosamente organizzato — una religione di giustizia economica, una bella follia. Ma il democratico non è matto, vuole vivere soldo a soldo. Certo la follia è più bella della pallida ragione, ma siamo prima di tutto noi stessi! Viviamo a nostre spese. Che cos’è la democrazia? La vita guadagnata attraverso il lavoro per il dacci-il-nostro-pane-quotidiano. Noi vogliamo ridere, ridere… e fare quello che vogliamo. Noi non vogliamo democrazia, liberalismo, non vogliamo il contorno del consumo intellettuale, non tremiamo davanti al capitale. Noi che consideriamo l’intelletto una tecnica, uno strumento, noi non trinceremo nozioni scrupolosamente né ci inchineremo davanti alla ragione pura. Noi non ci vediamo che un mezzo per giocare il gioco della nostra coscienza, l’apparizione del mondo nella nostra coscienza, spinti dal nostro istinto; vogliamo essere amici di ciò che rappresenta una frustata per frustare l’uomo seduto. Viviamo per la incertezza, non vogliamo né il buon senso, né i valori che allettano il borghese, vogliamo i non-valori e il non-senso! Noi ci rivoltiamo contro le responsabilità di Potsdam-Weimar che non sono fatte per noi.
Vogliamo creare da noi il nostro nuovo mondo.
Dada si è battuto come unica forma d’arte del presente per un rinnovamento dei mezzi formali e contro l’ideale classico del borghese amante del’ordine. Dada si è battuto contro il suo ultimo rappresentante, l’espressionismo!
Il club Dada rappresentava durante la guerra l’internazionalismo: è un movimento internazionale e antiborghese!
Il club Dada è la Fronda contro il «Lavoratore intellettuale»!
Dada è contro l’umanesimo, contro l’insegnamento storico!
Dada è per la vita propria di ciascuno!!!
(Der Einzige, n. 14, 20 aprile1919)