Nessuna commemorazione.
Non è forse, la commemorazione, una delle formalità più rigorosamente osservate e più fruttifere della borghesia e del clericalismo? A persuadersene basta dare un’occhiata al calendario di gregoriana manipolatura, basta vivere in questa deliziosa società nella quale ci siamo vigliaccamente acconciati mentre pretendiamo combatterla e distruggerla e non sappiamo far di meglio che imitarne le consuetudini illudendoci di far cosa diversa col mutarne le forme.
Ma borghesi e preti hanno ben ragione di fare quel che fanno. Bisogna conservare innanzitutto le tradizioni, cioè le forme esteriori, per mantenere intatta lo sostanza del dominio. Mutare qualche parte delle consuetudini o regole significa cedere, cedere equivale a una confessione di debolezza; sdrucciolare per la china delle transizioni significa andar sino in fondo, perire. Lo sa bene la chiesa cattolica apostolica romana, che vive da secoli rigidamente chiusa nelle sue formule, nella sua morale, nelle sue leggi immutabili.
E le commemorazioni del mondo borghese e di quello religioso sono una speculazione proficua e per ciò rigorosamente osservate: sono la loro forza, il loro midollo spinale. Vi rinunzieranno solo quando vi saranno costretti da una forza superiore: sarà la fine del loro dominio.
Perché dovremmo noi imitare le regole di vita del mondo contro il quale siamo in guerra, noi che c’intitoliamo rivoluzionari?
Ma non è soltanto una questione di dignità e di carattere che dovrebbe farci rinunciare alle commemorazioni; non è per far dispetto all’odiato borghese che noi dobbiamo smettere certe nostre stupide e pappagallesche consuetudini. Vi dobbiamo rinunziare per ragioni di opportunità, per calcolo.
La commemorazione a scadenza fissa, oltre ad essere antipatica per le ragioni su esposte, è inutile.
I nostri così detti avversari, che ci conoscono, si preparano anch’essi a scadenza fìssa, e dispongono le loro precauzioni così da prevenire ogni e qualsiasi pericolo da cui si sentissero minacciati.
È la sorpresa invece che può fruttare qualche cosa di buono.
Perché aspettare l’undici di novembre, o il diciotto marzo, o il ventinove luglio, ecc., ecc., per rammentare a noi stessi ed alla folla che vi sono stati degli uomini decisi, dei coraggiosi che hanno saputo e voluto insorgere contro i dominatori del mondo, e per punirli dei loro delitti hanno levato la mano giustiziera e ne hanno accoppato qualcuno o parecchi in una volta?
Tutti i giorni sono buoni per questa specie di ginnastica, se davvero se ne riconoscesse l’utilità.
Tutti i giorni sono buoni per questa specie di ginnastica, secondo noi, se al calendario si preferisse farsi guidare dalle circostanze, approfittare degli avvenimenti favorevoli.
Vi è tanta mansuetudine in mezzo a noi, tanta vigliaccheria! Troppa mansuetudine, tanta che ci fa venir la voglia di ripetere qui le parole del poeta delle Indische Sprüche:
«Del misero che umile stassi cheto ed ammuta, dopo una fiera ingiuria ricevuta, è men vile la polvere che s’alza dalla strada e sulla testa ricade di colui che la calpesta».
E piuttosto che imbrattar sedici pagine di un giornalone multicolore, cincischiato di ritratti commemorativi e di retorica convenzionale, e farlo circolare, puta caso, il primo giorno di maggio al comizio prestabilito, sarebbe, sempre secondo noi, molto più utile, più pratico, più efficace, aspettare, nel maggio odoroso dei fiori e risonante dei ragli asinini, un giorno o due, una settimana, tutto il mese anche, ed approfittare di qualche circostanza o la circostanza provocare intelligentemente.
Le occasioni però non mancano. Ogni ora, ogni giorno la bestiaccia fortissima e potentissima, quella tale «vile borghesia» ci dà una zampata per farci ricordare la sua forza ed obbligarci a maledire stupidamente la nostra impotenza.
Ogni ora ed ogni giorno sono dunque buoni a sussurrare all’orecchio del compagno d’imbecillità una parolina d’incoraggiamento e mettergli sotto il naso un pollice quadrato di carta con sopra un nome ed una data.
Quanto sei vigliacco! gli diranno quel nome e quella data, quanto sei imbecille! Leva su la testa, ribellati. Non ti accorgi di avere il volto ancora rosso delle ceffate del padrone ? Su, coraggio. Un uomo, come te, meno vigliacco, il tal giorno ed il tale anno fece questo e questo. Non ti vergogni di chiamarti uomo? Non senti schifo per la tua miserabile condizione?
E più efficace della parolina sussurrata o del talloncino di carta suggestivo, più e meglio di qualunque convenzionale e stupida commemorazione, vale l’esempio.
L’esempio giova a tutti: ai forti che hanno il coltello per il manico e ci dominano e ci sfruttano a loro piacimento, a noi che viviamo rassegnati nelle nostre miserie, miserabilmente.
Ma gli esempi suppongono uomini capaci di azioni egregie; occorrono uomini di coraggio, cioè di buona salute.
E noi, di questi tempi, siamo tutti un po’ malati.
(Domani, n. 3, 30 aprile 1919)