Nota introduttiva
Le potenzialità dello strumento di lotta di cui si discute in questo libretto non sono ancora nemmeno state sfiorate. Il futuro deciderà se esse si tradurranno in pratica oppure no. Se a vederle siamo, e siamo stati, in pochi oppure no. Discutere o suggerire non è più il nostro compito, sarebbe come mettere un cappello alla fantasia.
Buona fortuna.
Trieste, 2 dicembre 2011
Alfredo M. Bonanno
Il falso come strumento di lotta
Il falso, la falsificazione di un oggetto o di un’idea, può, in determinate circostanze, costituire uno strumento di lotta rivoluzionaria. L’operazione che abbiamo realizzato con il falso libretto attribuito a Sartre, col titolo Il mio testamento politico, si proponeva i seguenti obiettivi: a) misurare il grado di confusione e di idiozia che esiste all’interno della cosiddetta cultura di sinistra; b) verificare la diffusione di un simile fatto e i tempi di reazione e di controllo delle strutture culturali; c) infine, fornire uno strumento, un’indicazione che potrà essere sviluppata in futuro in modo ben diverso e con diversi obiettivi.
Il testo da noi pubblicato, sotto il nome di Sartre, è un classico della metà dell’Ottocento francese, un classico dell’anarchismo. Non diciamo qui [1978] il suo autore per dare la possibilità a qualche ulteriore stupido saccente, di andare a rivedere i propri appunti. La traduzione, integrale, ha subito solo due o tre modificazioni con la sostituzione dei nomi di Mitterand, Marchais o Giscard a posto dei porci correlativi dell’epoca. In più è stata aggiunta una breve nota iniziale in cui a Sartre veniva attribuita una nuova simpatia per gli anarchici e un meno pesante ricordo del suo amico Camus, nota non del tutto campata in aria se in una non proprio lontana intervista lo stesso imperscrutabile vecchio aveva affrontato proprio il problema del suo “anarchismo”.
C’è da dire subito una cosa: nel nostro universo intellettuale di sinistra, o almeno in quello che più da vicino finisce per imbrattare i giornali, la vera preoccupazione non è stata tanto quella di vedere se e come Sartre avesse potuto scrivere quelle cose, ma dell’incredibile modo in cui le aveva scritte, dato per scontato – almeno all’inizio – che una volta che un libro porta indicato un autore, questo deve averlo scritto, essendo, per definizione, impossibile permettersi di fare scherzi simili alla buona fede dei lettori. Non sono nemmeno mancati i più approfonditi sartriani che, sgomenti davanti a tanta pochezza letteraria, sono andati a rileggersi certe riflessioni del filosofo in merito ai processi di destrutturazione delle forme di espressione, tornandosene più frastornati di prima. Altri hanno ripensato a quei passi introduttivi dettati da Sartre per le opere di Fanon. La più gran parte ha finito per concludere per una specie di collage.
In realtà, prima che lo stesso incaricato di Sartre a Parigi facesse conoscere l’opinione del filosofo in merito al falso in circolazione, nessuno aveva avuto le idee chiare. Dopo, tutti si sono lamentati di come possano succedere cose del genere, attribuendoci, secondo i gusti, superficialità o ignoranza, per non aver saputo individuare come non sartriano un prodotto che altri ci aveva fornito per tale. Che questi signori si mettano il cuore in pace: il prodotto non è di Sartre, e non solo lo sapevamo, ma il falso lo abbiamo studiato e realizzato per i motivi sopra indicati.
A parte Umberto Eco, il cui intervento su “L’Espresso” merita un approfondimento, gli altri vanno messi tutti nello stesso sacco. Forse una distinzione possiamo farla per i “giornalisti” veri e propri, come Riva o Grasso, i quali, facendo il proprio mestiere hanno cercato di andare più a fondo. Gli altri, i letterati, non hanno capito nulla dall’inizio alla fine, mostrando, non solo la comune ignoranza, ma l’irriducibile iattanza che hanno, a qualsiasi colore appartengano, nel parlare di cose che non sanno.
Prendiamo il primo imbecille del fascio, quel Costanzo Costantini che scomoda ben nove colonne de “Il Messaggero” per farci sapere le sue personali elucubrazioni intorno allo stile di un testo che non poteva neanche lontanamente somigliare a quello di Sartre. E chi mai poteva pretendere qualcosa del genere da un testo vecchio di 130 anni, se non un sommo concentrato di razionale imbecillità critica? Se avessimo voluto dare spazio alle riflessioni dei recensori avremmo addolcito il testo in modo da rendere loro più difficile l’analisi, consentendo in questo modo ben altre papere di quelle che sono state prese. Ma il nostro scopo non era questo, non erano certo i Costantini o i suoi degni soci di “Paese Sera”, de “La Stampa”, di “Tutto Libri”, de “La Repubblica”, de “La Voce Repubblicana”, de “Il Tempo”, che ci interessavano.
Ma torniamo allo sforzo critico del nostro bravo macinatore di colonne. Egli si chiede: perché tutto questo è stato fatto? Per soldi? Per confondere le idee dei “ragazzi” del movimento? Suprema ingenuità! che non si accorge che a restare con le idee confuse non sono per nulla i “ragazzi” del movimento, come lui li chiama, ma proprio quelle sacre vestali della cultura di sinistra che non capiscono più nulla quando, anche solo per un attimo, si sostituiscono sotto i loro occhi, le solite quattro carte con cui si divertono a giocare.
Da notare, poi, la patetica difesa del povero vecchio Sartre, monumento di coerenza in una società che va in completo sfacelo morale, attaccato con ingiurie di ogni tipo e perfino con bombe al plastico, mentre lui “continua a battersi con i mezzi che gli sono consentiti dalla stanchezza e dalla quasi cecità, sbagliando e non sbagliando…”, il bravo Costantini, per evitare rischi, che con quell’imprevedibile vecchio sono sempre possibili, intende così mettersi al sicuro.
Onde dare un quadro dello squallore che ci circonda, segnaliamo che non sono mancati coloro che hanno perfino creduto (potenza della carta stampata!) alla paternità sartriana, come il recensore de “La Voce Repubblicana”, un non meglio (per sua fortuna) identificato “g. mazz.” che si dilunga per ben tre colonne per concludere che dopo quest’ultimo scritto di Sartre e meglio ritornare a leggersi La Nausea o Flaubert.
Un certo signor Compagnone, dalle colonne di “Tutto Libri” esprime la sua profonda preoccupazione che gente come il sottoscritto possano avere la “responsabilità” di una rivista, se poi non sono tanto responsabili da non “vedere” che un testo come quello non è di Sartre. E si chiede come hanno fatto gli anarchici di oggi a perdere quella loro profonda “correttezza” che una volta li caratterizzava. E a questo punto il nostro caro amico tira fuori dal cappello, con destrezza degna di migliore causa, non il solito coniglio, ma il solito amico anarchico (e chi, oggi, non ha un amico anarchico da tirare fuori al momento opportuno; Zaccagnini ne aveva uno e lo tirò fuori al momento della crisi interna del suo partito, facendosi vedere in lacrime per la morte dell’amico anarchico, che aveva fatto la resistenza insieme a lui, e altre cose del genere). Anche il signor Compagnone ha un amico anarchico, o lo aveva, ma un anarchico di quelli veri – non come il sottoscritto – un anarchico di quelli che rifiutano la violenza, il quale, nel corso di non so che moti insurrezionali accaduti in quel di Napoli, entra improvvisamente nella stanza del Prefetto, e, invece di sparargli in mezzo agli occhi, come sarebbe stato legittimo aspettarsi, si sorprende del maleducato atteggiamento di quest’ultimo, che gli imponeva di uscire subito invece di farlo accomodare e discutere sul modo migliore di farsi sparare in mezzo agli occhi; e sorprendendosi della cattiva educazione del personaggio, lo abbandona con sdegno e superiorità al suo destino. Ecco il comportamento dei veri anarchici! È chiaro che ogni commento è superfluo. È questo il livello medio di coloro che tengono in mano le forbici della cultura ufficiale, che poi – per chi non lo sapesse – è quella di sinistra. Ora, questo branco di stupidi imbecilli, quando tutte le carte del gioco sono al loro posto, mettendo insieme letture e rimasugli culturali vari, riescono a dare l’impressione di saper fare funzionare il cervello; quando, invece, qualcosa viene messa fuori posto, la loro squallida sostanza emerge con cruda chiarezza.
Ben serio, invece, e ben al di sopra di tante stupide ciance, è il discorso di Eco, sebbene risulti stranamente incerto nel suo svolgersi, come se non volesse ammettere le conseguenze ultime delle stesse premesse. Egli dice: lo Stato moderno si fonda sul consenso, non soltanto sulla coercizione. Qualsiasi gruppo di persone unite da un qualsiasi rapporto se dà delle notizie deve darle vere perché in caso contrario gli altri se ne accorgono e il gruppo viene giudicato inattendibile. Se tutti mentono, comincia la guerra di tutti contro tutti. Così non vengono distrutti i rapporti di potere ma gli stessi rapporti di vita. Oppure emergerebbe una forma di potere talmente forte che finirebbe per tagliare la lingua a coloro che si permettono anche una semplice figura retorica. Ma, in definitiva, conclude Eco, la cosa è meno grave di quanto sembri perché in effetti questo tentativo di attacco alla periferia del sistema è altrettanto sbagliato del preteso attacco al “cuore” del sistema stesso. “Se l’utopia della rivoluzione si trasforma in un progetto di disturbo permanente a corto raggio, si crea una nuova forma di Patto Sociale”.
Innanzi tutto chiariamo una cosa. La tecnica della falsificazione è adottata in forma istituzionale dallo Stato e dalle varie forme che il potere prende nella sua realtà. Basta pensare al modo in cui gli organi d’informazione hanno gestito il fatto del sequestro di Moro ad opera delle BR, per rendersi conto della realtà di questa affermazione. È inutile rifare il discorso sui processi ideologici, sulle deformazioni e così via. Su questo punto, penso che siamo tutti d’accordo. In fondo, la funzione della cosiddetta cultura di sinistra, quando lo Stato era altrove, era proprio quella di fungere da “controinformazione”. Ma ora, che questa cultura si sta facendo Stato, separandosi definitivamente da quegli interessi che prima, in un certo qual modo rappresentava, ecco che essa si identifica con la mistificazione ideologica, da controinformazione diventa informazione e basta.
L’errore di Eco è che non riesce a uscire dal modello potere-contropotere. Egli si immagina che la contrapposizione sia tra un sistema ben articolato e un altro sistema, altrettanto articolato, ma minoritario, o un gruppo o un insieme di gruppi di nuovo potere che tentino la scalata. E si chiede cosa possa succedere nel caso in cui questo nuovo sistema decida di adottare la tecnica del falso, non come gestione ideologizzata dell’informazione (compito istituzionale di chi detiene il potere), ma come strumento rivoluzionario.
Facciamo un esempio. Un’organizzazione rivoluzionaria mette in circolazione un documento falso attribuito alle ferrovie dello Stato, dove si afferma che in un giorno preciso si può viaggiare gratuitamente, oppure fa circolare la notizia, anche ricorrendo, con un espediente abbastanza semplice, ai grandi mezzi d’informazione, che per l’indomani, ad esempio, si potranno prendere gratuitamente le merci nei supermarket Standa, perché si festeggia il cinquantenario della fondazione. È ovvio che le situazioni che si creeranno potranno essere abbastanza difficoltose per il potere, presumibilmente un gran numero di persone si presenterà per ritirare gratuitamente la merce o per viaggiare senza pagare il biglietto. Su scala locale è facile immaginare le complicazioni che si possono determinare con iniziative simili, molto semplici a realizzarsi.
Mettiamo adesso che la stessa organizzazione pretenda utilizzare lo strumento del falso nei confronti dei propri militanti. Perché è questa l’ipotesi avanzata da Eco. È chiaro che essa si autodistruggerà in quanto organizzazione, allo stesso modo in cui aveva contribuito a distruggere o mettere in difficoltà gli strumenti di controllo del potere. Ma, a parte la scarsa validità di un’ipotesi del genere, resta il fatto che la cosa non può in alcun modo interessare il movimento generale nel suo complesso, il quale non si accorgerà nemmeno di questo suicidio organizzativo, interessandogli solo quelle azioni e quelle chiarificazioni che riguardano la propria effettiva situazione di classe, e non faccende interne a organizzazioni più o meno specifiche. Dando ai propri militanti indicazioni false, un’organizzazione si suicida, ed è quanto è accaduto, sotto un certo aspetto, con diverse organizzazioni che avevano finito per ideologizzare il rapporto tra minoranza dirigente e militanti. Le indicazioni che la prima forniva, se non proprio false, erano mistificatorie nei confronti di una realtà che bisognava di altre indicazioni. Ecco quindi verificarsi puntualmente la disgregazione e lo scioglimento.
Ma il nostro problema è profondamente diverso. Se è falso il comunicato, redatto in modo opportuno e messo in circolazione attraverso i canali adatti, in cui si dice che è possibile prendere il treno senza pagare o andare a fare la spesa gratis; non è falso il bisogno della gente di prendere il treno e non pagare, di prendere la roba da mangiare e non pagare. Se è falso, nel nostro caso, il nome di Sartre scritto su quel libretto, non è falsa la necessità di attaccare la borghesia, i padroni, lo Stato, in qualsiasi modo, dovunque e comunque, ricorrendo a qualsiasi mezzo. Non importa se a sottolineare questo reale bisogno di classe sia il nome di Sartre e se poi si scopre che questa indicazione era falsa, resta l’altra indicazione, quella che falsa non può essere, quella di uccidere chi ci opprime.
Solo nel caso in cui il falso, o la falsificazione ideologica, dell’involucro si estenda al contenuto, il risultato può essere dannoso per gli sfruttati. In tutti gli altri casi, quando il contenuto del messaggio è valido, il falso cui si è fatto ricorso per mettere il messaggio in circolazione, o per individuare le debolezze del nemico, se viene colto dagli sfruttati, resta nei limiti di quello che è: uno strumento di lotta.
Alfredo M. Bonanno
Documenti
Un [falso] numero speciale di “Le Monde Diplomatique”
Nella prima quindicina del mese di novembre 1977, appena dopo i tragici avvenimenti tedeschi, tutti gli abbonati ricevettero per posta un numero speciale di “Le Monde Diplomatique”.
Era straordinario soprattutto per il suo contenuto: critiche alle versioni ufficiali fomite dalle autorità sul massacro dei detenuti della RAF in carcere; interventi critici contro le posizioni che la sinistra francese aveva adottato durante tutto l’affare, e anche qualche spunto di critica all’ideologia lottarmatista.
Gli articoli erano firmati da tutti gli autorevoli collaboratori del giornale parigino. La riproduzione grafica era perfettamente fedele all’originale. In breve fu lo scandalo. Il giornale passò di mano in mano, venne letto e riletto con molta attenzione e discusso.
Uno scandalo che è stato utile per rompere la cortina di silenzio e di conformismo che tutti gli organi di informazione avevano adottato per essere allineati a Schmidt e proni alla volontà egemonica del capitale tedesco.
A differenza dell’editore nazional-popolare Giulio Einaudi che denunciò alcuni librai che diffusero Lettere agli eretici di Berlinguer attribuito alla sua impresa capitalista, gli editori del giornale francese – da liberali di razza – hanno incassato con molta eleganza, replicando solo con un trafiletto in cui rendevano nota la loro estraneità al numero pirata, e precisavano che “…Le Monde non è stato comprato dall’editore tedesco Springer”.
Questo episodio ci deve far valutare esattamente il ruolo della stampa nella creazione del consenso, e nella diffusione delle ideologie e delle culture funzionali alla riproduzione molecolare del potere. Deve servire anche ad evidenziare le possibilità reali che si offrono ai rivoluzionari di piegare al proprio gioco i mass media. Valutare l’incisività e la resa che scaturiscono dall’intossicazione e dall’inquinamento dei mezzi di informazione del potere; la praticabilità dello svolgimento per altra finalità dei loro canali di condizionamento psicologico. Passare dalla fase della produzione dell’azione spettacolare per avere accesso ai media – senza poter impedire distorsioni, deformazioni, criminalizzazione… – all’appropriazione delle strutture e simboli del potere per servirsene, controllandone il ciclo dall’inizio al termine dell’operazione. Non semplice sabotaggio della macchina bellica dell’informazione ma uso differito, di segno diverso, finalizzato a scopi diversi da quelli per i quali il potere li ha creati.
Il numero pirata curato da un nucleo di compagni, ha permesso di raggiungere settori lontani dal raggio di influenza dei rivoluzionari, e di trasmettere, nelle modalità e nelle forme che si sono prescelte, le tesi dei rivoluzionari.
Di seguito riproduciamo uno degli articoli più interessanti.
“La sinistra e l’estrema sinistra francese di fronte alla ‘Banda Baader’”
La sinistra e il gauchisme sono quasi unanimi nel rimproverare alla Frazione Armata Rossa di essersi isolata dal “movimento operaio”. Ma quale movimento operaio? È proprio il carattere apertamente conservatore di questo movimento operaio, dal SPD del 1919 all’unione della sinistra francese, la sua incapacità a modificare il capitalismo con le riforme, il conformismo che accetta e di cui vive aggiungendovi un tocco popolare, sono queste cose che generano atti come quelli di Baader. La disperazione anche e soprattutto quando crede di darsi i mezzi più radicali per affrettare una rivoluzione, è il prodotto della controrivoluzione trionfante. È normale che si vogliano riforme quando la “rivoluzione” è fuori stagione. Ma quelli che appoggiano questo “movimento operaio”, che è uno dei migliori difensori dell’ordine stabilito, allontanano le possibilità di una rivoluzione.
Certi osservatori si sono meravigliati che “L’Humanité” avanzasse dei dubbi sulla versione ufficiale della morte di Baader. Atteggiamento strano, dicevamo, per un giornale che ha sempre partecipato alla campagna antiterrorista, e che fa eco alle calunnie più strane vomitate dalla stampa detta borghese sugli estremisti (senza tuttavia arrivare – come “L’Aurore” – a vedere le mani del KGB dietro le azioni di Baader). Del resto “L’Humanité” non aveva denunciato la “teppa” contestatrice del maggio ’68? Ma il PCF fa in fretta a rassicurare quelli che temono di non vederlo urlare assieme ai lupi. Per loro l’affare Baader giunge al momento opportuno, permettendogli di affermarsi una volta di più come partito d’ordine, dandosi nello stesso tempo una posa di sinistra. Partecipa alla campagna contro il terrorismo, ma critica anche il partito socialista per interposta persona, ossia attaccando il SPD colpevole di gestire il capitalismo (se andasse al potere il PC farebbe le stesse cose, ma nell’interesse delle masse lavoratrici). E lancia ancora il suo grido di guerra antifascista assortito con un po’ di nazionalismo. I “terroristi” sono infatti impregnati di lezzo fascista. “È forse un caso che i primi paesi che hanno generato questi ultras dell’anarchia distruttrice – la Germania Federale e il Giappone – sono precisamente quelli in cui l’ideologia fascista e stata più sanguinaria e più omicida?… I terroristi, figli di quelle classi dirigenti che condussero il nazismo al potere, ne subiscono le durevoli conseguenze”. (L’“Humanité”, 19 ottobre 1977).
Dopo il 1945, ogni volta che un orrore supera i limiti ammessi dalla buona coscienza democratica, si parla di “fascismo”. I terroristi vogliono uccidere degli ostaggi? È fascismo. “Le Monde” parla di “fascismo di sinistra” (18 ottobre 1977) e con cognizione di causa! L’etichetta “fascismo” permette di scatenarsi, o di lasciare che lo Stato si scateni, criticandone i metodi quando è troppo repressivo, e di eludere così le radici del male (leggere a questo proposito l’articolo del collega K. Andersen).
I gauchisti non mancano di spiegare come Baader aveva finito per lottare solo per la sua sopravvivenza. È esatto, ma agendo così Baader era meno nocivo al “movimento rivoluzionario” delle proprie mansioni di gauchiste. Fare pressioni sul PS e sul PC per essere riconosciuti come interlocutori validi, manovrare per approfittare dell’ascesa delle sinistre al potere, non è un modo miserabile di difendere la “propria” organizzazione? Baader era ridotto a sopravvivere, essi organizzano la loro promozione a burocrati.
Buona occasione per il gauchisme, l’affare gli permette di appellarsi ancora una volta al “movimento operaio” per spingerlo ad agire. Bisogna “difendere la democrazia”, e per far questo, obbligare partiti e sindacati ad una “risposta unitaria”. Come se questi partiti e sindacati, appena avessero un po’ di potere (al governo o altrove) non si mostrerebbero altrettanto repressivi dello Stato tedesco attuale, diretto d’altronde da un “partito socialista” in cui il trotskismo vuole vedere un partito “operaio”, degenerato, ma sempre operaio. Invece di svelare la vera natura della sinistra, il gauchisme invita a cambiare natura. In una parola, per il gauchisme, i sanguinosi avvenimenti tedeschi sono un tema supplementare di propaganda, un pretesto per lanciare slogan pseudo-radicali ma vuoti di senso (“esigere” per esempio la liberazione di Baader).
Eccellente occasione di reclutamento agitando lo spaventapasseri del fascismo. Nel momento stesso in cui la democrazia borghese dimostra di sapersi difendere molto bene adottando le misure più dittatoriali, bisognerebbe mobilitarsi per difenderla ed evitare l’arrivo di un “fascismo” di cui né la borghesia né lo Stato hanno bisogno. Tanto peggio, dirà il gauchista, malgrado tutto bisogna battersi per la democrazia: l’estradizione di K. Croisant vi lascia indifferenti? No, ma la differenza è questa. Siamo d’accordo per difendere questo o quel diritto, per ottenere una concessione o semplicemente il rispetto di una legge. È ben altra cosa che difendere nel suo insieme “la democrazia” come regime politico da preferirsi al fascismo, sostenendo a tal fine le organizzazioni “operaie”, identificate quali migliori sostegni della democrazia. Il passaggio dalla democrazia alla dittatura si produce da sé quando il capitale ne ha bisogno, e nessuno, né la borghesia né la sinistra né “il proletariato”, può allora impedirlo. Quanto ai partiti e ai sindacati detti operai, essi hanno favorito e animato repressioni tra le più feroci, sia che fossero o no alla testa dello Stato.
L’affare “Libération”
Per “Libération”, nella cui lettura si ritrovano gli ambienti dei naifs e degli inorganizzati aventi bisogno della razione quotidiana di “lotte”, la “banda Baader” era una faccenda più complessa. Si è rimproverato a questo giornale di prendere le distanze dalla RAF, e qualcuno l’ha perfino occupato. Il 18 ottobre 1977 “Libération” intitolando “RAF-RFA, guerra di mostri”, per il piacere del colpo giornalistico cadeva nella menzogna mettendo sullo stesso piano Baader e lo Stato: Baader è un rivale dello Stato perché “usa gli stessi metodi”. Se la follia suicida della RAF ha effettivamente un aspetto “mostruoso”, la sua mostruosità ha poco a che vedere con quella dello Stato, se non altro perché ne è – suo malgrado – il prodotto. Partito per “dare la parola alle lotte”, “Libération” arriva naturalmente a fare del giornalismo. Il minimo sarebbe insistere su ciò che separa Baader dallo Stato. “Libération” non è altro che un giornale a sinistra de “L’Humanité”.
Nello stesso numero S. July spiegava che ci sono delle cose che non si fanno: per esempio prendere gli ostaggi. Ma sì! il problema è che i dirottatori utilizzavano solo questo metodo. Una rivoluzione che combina lotta militare e trasformazione comunista dei rapporti sociali prenderebbe ugualmente degli ostaggi, effettuerebbe esecuzioni sommarie. Non esistono criteri validi in sé come vorrebbe la morale, tutte le morali. Solo l’avanzamento del processo di trasformazione comunista della società limiterebbe questi metodi. Viceversa il terrore si estenderebbe se la rivoluzione non cambiasse la società poiché allora bisognerebbe proibire, controllare, amministrare, reprimere sempre più, come in Russia nel 1917, fino al punto in cui l’apparato coercitivo si separa da ogni prospettiva rivoluzionaria e diventa uno Stato come gli altri, come in Russia dopo il 1917.
Anche S. July vuole difendere la democrazia liberale. Essa “è messa in pericolo dal terrorismo della RAF?” La risposta è “necessariamente sì” (18 ottobre). Anche un ingenuo sa che il non rispetto da parte di uno Stato delle sue leggi interne e dei trattati internazionali è una costante storica, e che lo Stato borghese non ha aspettato Baader per trasformarsi in dittatura. “Liberation” ha ragione di dire (e peggio per quelli che ci rimangono male) che il terrorismo raggruppa la popolazione tedesca attorno allo Stato. Ma non è il terrorismo che trasforma lo Stato liberale in Stato poliziesco.
È vero che la strategia di Baader, come scrive J. M. Bougherau (“Libération”, 19 ottobre), traduce una disperazione: Baader non vedeva più contraddizioni nella società tedesca, egli voleva far precipitare le cose. Ma questa disperazione non è più estranea a una pratica rivoluzionaria dell’azione di M. Bougherau che ripone le sue speranze in un giornale come “Libération”. A conti fatti, il ruolo negativo della RAF è sicuramente meno grave di quello di “Libération”. Noi rifiutiamo di scegliere il suicidio o il gauchisme, perché ci sono altre cose possibili. La politica del tanto peggio tanto meglio non è più nefasta del “realismo” populista. Perché coloro che hanno occupato “Libération” non sono andati a saccheggiare “L’Humanité”, la cui posizione su questo problema, come sul resto, è nettamente controrivoluzionaria, non fosse altro che per la sua enorme diffusione? Al di fuori del rapporto di forze, c’è una ragione molto semplice. Sono andati a “Libération” perché erano delusi. Essi ridono di questo giornale, ma ci credono. La prova che non hanno capito niente è che oggi dopo averlo occupato continuano a comprarlo.
Cosa rimproverano a “Libération”? Non la sua difesa della democrazia, poiché anch’essi sono a favore, benché credono di vedere una differenza tra democrazia “borghese” e “operaia” o “del popolo”. Anche loro sono degli antifascisti “di sinistra” (avete mai visto un antifascista “di destra”?). No, rimproverano a “Libération” l’unica cosa buona che si è potuta leggere su questo giornale: un modo assai lucido di affrontare la storia della RAF. Avrebbero voluto che si esaltasse Baader, che ne facessero un martire come la borghesia ha fatto di Schleyer un eroe. Quando la fine della RAF e – speriamo – di questo terrorismo senza via d’uscita, dovrebbe contribuire a far guardare con più obiettività la situazione, c’è chi si autocompiace gridando “vendetta”. Quando la borghesia trionfa su tutta la linea, c’è chi parla di “mobilitazione”, invece di fare il minimo che si richiede a individui o gruppi aventi ambizioni sovversive: né ridere né piangere, comprendere. Quanto a salvare il salvabile (Croissant e i detenuti ancora in vita) non è riproducendo su piccola scala gli errori di Baader che ci riusciremo. Già ora ogni specie di voce si fa sentire, riprendendo la fraseologia della “lotta armata”, “giocando” alla RAF, ma solo a livello verbale, parlando di “risposte”, di “scontro”, ecc. Fortunatamente la quasi totalità di questi gruppi, in una sinistra parodia, imitano Baader solo verbalmente.
Autonomi e “radicali”
Due atteggiamenti dividono i “radicali”. Gli uni vogliono approfittare dell’occasione per spingere la loro organizzazione o per formarsene una, battezzata “autonoma” ad evidente imitazione dell’Italia – altro luogo mitico della “rivoluzione” oggi (leggere a questo proposito la lettera di S. Masacchio). Facendo terra bruciata di tutto, si buttano sul primo cadavere disponibile, soprattutto se si tratta di un morto malvisto dal gauchisme ufficiale, perché possono così annetterselo facilmente: dopo Puig Antich, Baader (con Guevara era stato difficile: la IV Internazionale ne aveva quasi fatto uno dei suoi dirigenti). Gli altri vogliono semplicemente menare le mani: basta con le parole! Fatti! Se della gente ha voglia di battersi, dopotutto è inutile far loro la lezione. Almeno non giustifichino questo bisogno di violenza con una teorizzazione ad hoc.
Come d’abitudine, anche tra i più ultras, la violenza più spettacolare non favorisce una riflessione seria sulla violenza, ma la fa regredire. Se l’estrema sinistra elude il problema dietro i suoi sofismi marxisti, l’analisi non può partire dall’affare Baader, né dal terrorismo, dalle teorie pratiche della guerriglia, dall’esempio italiano, ecc. Ma dal legame tra violenza e processo di trasformazione comunista.
Né “approvare” né “condannare” la violenza: sapere di che cosa si parla, partendo da ciò che fa una rivoluzione comunista.
Gli “autonomi”, al contrario, diluiscono il problema nell’immediato: rifiutare dappertutto le strutture capitalistiche e l’alienazione, come se questo fosse possibile. Come tutti gli altri gauchisti sono sempre alla ricerca di qualcosa da organizzare: dopo gli operai, le donne… si va ad organizzare un rifiuto violento della società capitalista. Tutti costoro ridono di Lenin, ma sono in pieno leninismo, poiché il loro primo problema è quello di organizzare le lotte degli altri.
Quando si cede alla fascinazione della lotta armata e della violenza si è ancora vittime dello spettacolo. Qualsiasi cosa viene qualificata come radicale purché sia violenta. Contro questo mito, ci sono due cose da fare: una pressione per aiutare uomini come K. Croissant; una scrostatura teorica che non può, in ogni caso, che dare frutti col tempo. Altrimenti la storia della RAF non sarà servita che a imbrogliare un po’ di più le cose, e lo Stato avrà guadagnato su due piani: nella pratica e nella teoria. Che la RAF non faccia dimenticare il resto. Non si costruisce nessuna prospettiva sulla ripetizione ossessiva e noiosa delle morti, per quanto orribili e tragiche esse siano. Contrariamente alla politica, la rivoluzione non ha bisogno di martiri. Scrivere “RAF” su un muro non significa niente altro che manifestare un bisogno d’azione per interposta persona, esattamente come ieri i gauchiste “sostenevano” l’FLN vietnamita. Adesso parlano di altre cose.
[Pubblicato su “Anarchismo” n. 20, marzo-aprile 1978, pp. 86-92]
Una beffa al potere militare
Con l’avvento di sempre nuove scoperte tecnologiche e con il sopravvento, nei paesi tardocapitalisti, dell’ideologia socialdemocratica (di cui sono portatori tutti i partiti costituzionali) il potere si è reso conto che per continuare a reggere il timone doveva utilizzare elementi più raffinati per la ricerca del consenso delle classi sfruttate e della loro partecipazione alla vita e al perpetuarsi del regime esistente.
A questo punto la repressione brutale cedeva il passo (non del tutto naturalmente) alla persuasione, parallelamente all’aumento del tenore di vita delle classi subalterne e alla creazione dei cosiddetti “garantiti” (solo chi non ha nulla da perdere è sempre disponibile all’avventura rivoluzionaria).
Questa tattica è stata e viene adoperata in tutti i campi e in tutti i luoghi dove il potere si esprime ed opprime:
– a scuola – con i decreti delegati al posto della dittatura del preside compaiono gli organi collegiali in cui tutti (studenti, insegnanti, genitori, bidelli) sono coinvolti nel mantenimento dell’istituzione;
– in caserma – il regime di vita è reso sempre meno pesante da sopportare e con la scusa di “democratizzare” l’esercito si cerca il consenso verso le forze armate;
– in fabbrica – le condizioni di vita diventano sempre meno dure (anche se si continua a morire per la nocività dei metodi produttivi) e si cerca in tutti i modi la partecipazione in prima persona degli operai al proprio sfruttamento attraverso l’opera dei sindacati confederali, sempre pronti a vendere la pelle dei lavoratori in cambio di una fetta di potere nello Stato tecno-burocratico.
– nel quartiere – con la legalinazione dei vari comitati, il comune si è assicurato il controllo e il soffocamento dei fermenti di tutta la città.
Questi sono soltanto gli aspetti più macroscopici del fenomeno, ma attraverso l’uso sapiente dell’informazione (soprattutto giornali e televisione) in questa società tutto è demagogia e ogni manifestazione dal basso (vane spinte autogestionarie, creatività popolare, ecc.) viene snaturata e, riveduta e corretta, viene abilmente rivenduta sotto forma di ideologia della classe dominante.
La creazione di miti vuoti e mode sterili non sono altro che tappe di questa strategia e alla fine ci si accorge che è molto difficile (anche per il compagno più provato) rimanere se stessi restando immuni dalle sollecitazioni dei mass-media.
È evidente che in questo clima la propaganda rivoluzionaria, soprattutto la propaganda diretta alle persone (giornale, manifesto, volantino) presenta delle serie difficoltà, diventando di non facile ricezione per gli interlocutori designati.
Uomini martellati incessantemente da falsi miti e illusorie realizzazioni, felici di poter partecipare, lucidando le catene del proprio sfruttamento, difficilmente si pongono il problema di un cambiamento radicale che potrebbe permettere la loro effettiva liberazione e realizzazione.
D’altro canto, è impossibile per i rivoluzionari, in questo momento storico ridotti in minoranza e “ghettizzati” in tutti i modi possibili, competere in efficienza con l’informazione ufficiale.
Occorre quindi studiare e affinare nuovi metodi di lotta e di propaganda in grado di risvegliare le coscienze addormentate.
Uno di questi metodi è l’uso del falso come strumento di lotta politica. In pratica non si fa altro che barare, mescolando le carte del potere, sostituendole abilmente con le nostre, costringendo le istituzioni a fare il nostro gioco.
Questo tipo di lotta è importante perché si ottiene un duplice risultato: da una parte si costringe il potere a smentirsi, svelando la propria natura, dall’altra si mina la credibilità delle istituzioni, riducendo l’influenza dei mass-media, poiché a lungo andare si può arrivare al punto di rendere inverosimile qualsiasi notizia ufficiale.
Inoltre si provocano in modo shockante le persone, inducendole forzatamente a pensare a cose che le avrebbero lasciate indifferenti, nonostante gravino sopra di loro.
Sebbene questo strumento di lotta non sia del tutto una novità (da sempre i rivoluzionari sono stati anche falsari) va ancora perfezionato.
Fino ad oggi è stato usato nel campo dell’editoria (sebbene presenti dei rischi di identificazione per quanto riguarda la distribuzione) e nella falsificazione di documenti ufficiali.
Ma tante cose potrebbero essere fatte: diffondere, per esempio, attraverso l’inserimento nei canali di informazione ufficiale, notizie false per minare la credibilità dei canali stessi.
L’importante comunque in questo momento, ed è lo scopo di questo documento, che i compagni si rendano conto delle possibilità e dell’utilità di questo strumento, e che lo applichino nel modo più allargato possibile.
In occasione della giornata del 4 novembre, “anniversario della vittoria” e festa delle “forze armate”, noi compagni del Collettivo del Contropotere, abbiamo portato avanti un’azione politica di lotta contro le strutture militari, diffondendo dei falsi richiami alle armi.
Lo scopo di questi apocrifi è stato quello di far riflettere e di coinvolgere direttamente in prima persona, al di fuori dei comuni canali di informazione, migliaia di cittadini (direttamente interessati, familiari, amici) sul problema del militarismo.
I giornali di venerdì 27 [ottobre 1978] pubblicano la notizia che centinaia forse migliaia di falsi richiami alle armi vengono recapitati ai cittadini torinesi.
Facendo notare come siano ben falsificati i moduli del ministero della difesa e i timbri del comune, i pennivendoli tranquillizzano la gente e attribuiscono questa “provocazione” prima ad ambienti di destra o alla brigate rosse e poi ai gruppi e alle organizzazioni antimilitariste.
Sembra che i servizi di sicurezza siano rimasti scossi da tanto ardire (c’è di mezzo nientemeno che il ministero della difesa).
Quale organizzazione voleva loro rovinare la festa?
Perché si volevano portare davanti alla prefettura di Torino, proprio il giorno del 4 novembre, migliaia di cittadini indignati?
Noi del Collettivo del Contropotere denunciamo la demagogia della “festa delle forze armate” e il tentativo di far passare, come strumento necessario ed al servizio della popolazione, l’esercito che invece rappresenta una delle più grandi mistificazioni del sistema.
Collettivo del Contropotere
Allegato 1
Consiglio di leva di Torino
Repubblica Italiana
Comune di Torino – Prov. Torino
Il Sindaco del Comune suddetto invita richiamato alle armi X Y residente in Torino, via Tal dei Tali a presentarsi il giorno 4 novembre 1978 alla Prefettura di Torino.
Il destinatario del presente precetto, non presentandosi in tale giorno, incorrerà nel reato di renitenza punibile ai sensi dell’art. 138 del D.P.R. del 14 febbraio 1964, n. 237.
L’iscritto dovrà essere munito dei seguenti documenti:
– carta d’identità in corso di validità (o altro documento equipollente munito di fotografia) da esibire;
– precetto personale da esibire (il presente documento).
Torino, 24 ottobre 1978
p. il Sindaco, d’ordine
Allegato 2
Ministero della Difesa
Direzione Generale Leva
Reclutamento Obbligatorio/Militarizzazione Mobilitazione Civile e Corpi Ausiliari
lì, 24 ottobre 1978
Al Sig. X Y
Oggetto: Preavviso di richiamo alle armi
In sede di revisione del servizio militare, Lei è stato richiamato alle armi e quindi arruolato. Pertanto a partire da questo momento deve considerarsi a disposizione del Ministero della difesa per essere avviato al reparto. Lei è tenuto a presentarsi al più presto, e comunque non oltre il termine indicato nel presente preavviso. Eviti d’indirizzare istanze direttamente al Ministero, a personalità o ad Enti, perderebbe tempo e correrebbe il rischio di far trascorrere inutilmente il termine suddetto, che è stabilito a pena di decadenza.
Per qualsiasi informazione attinente all’eventuale dispensa al richiamo potrà rivolgersi personalmente a codesta Prefettura il giorno suddetto. La dispensa non è un diritto del cittadino, ma una facoltà del Ministro. Abbia fiducia che ogni sua domanda, purché presentata esattamente e nei termini prescritti, sarà esaminata con la maggiore obiettività e comprensione. Qualora non si presenti entro la data indicata, incorrerà nelle sanzioni disciplinari o penali previste per tale inadempienza.
Sanzioni penali, amministrative e disciplinari: il comma art. 151 del C.P.M.P. – La stessa pena (reclusione militare da sei mesi a due anni) si applica al militare in congedo che, chiamato alle armi, non si presenta, senza giusto motivo, nei tre giorni successivi a quello prefisso.
Firmato: Il Presidente del Consiglio di Leva
Allegato 3
Ministero della Difesa
Lei è stato richiamato alle armi. Le Forze Armate, la Nazione hanno nuovamente bisogno di Lei.
Come Lei ben sa, il servizio militare non si esaurisce con l’adempimento del servizio di leva, ed il congedo non significa affatto che Ella ha esaurito completamente il dovere di servire le Forze Armate e la Nazione.
Il cittadino è un militare temporaneamente restituito alla vita civile, ma comunque sempre a disposizione delle Autorità Militari che possono disporre di lui in qualunque luogo, per qualunque motivo, in qualsiasi circostanza e in qualunque momento.
Questo momento è finalmente giunto anche per Lei.
È sulla base di questo principio e delle leggi che ad esso si informano che Ella deve abbandonare la sua attività, la sua famiglia, le sue occupazioni e vestire nuovamente l’uniforme, tornando così a far parte della grande famiglia delle Forze Armate.
Tale nuova esperienza non può esserLe che di alto giovamento. Una rinnovata esperienza di vita cameratesca e virile, in un ambiente e in una struttura esenti da falsi principi e da insane abitudini non può che meglio temprare quel senso civico, quello spirito di sacrificio e d’amore verso la Patria di cui sicuramente Ella è pervaso.
Il suo non è soltanto un sacro dovere, ma è, se mai se lo fosse dimenticato, anche un diritto. Come cittadino italiano Ella ha il diritto di partecipare alla vita della Nazione, ha il diritto di servirla.
Questa è vera democrazia. Le istituzioni e le pratiche democratiche le danno il diritto di essere nuovamente militare. È una conquista fondamentale di quanti hanno creato questo nostro Stato democratico, quella di aver acquisito il diritto di servire la Patria.
Non più solo un dovere, ma grazie anche a Lei che fa parte di questo Stato, un diritto, forse il più importante.
Crediamo che sia inutile rammentarle che Ella non può sottrarsi all’adempimento di questo diritto-dovere.
L’attendiamo ai nostri reparti e siamo ansiosi di vederla nuovamente tra noi.
Allegato 4
“La Stampa” – 27 ottobre 1978
“In circolazione false chiamate alle armi – Avviso del Comune ai giovani che in questi giorni hanno ricevuto fogli intestati ‘Consiglio di Leva di Torino’ contenenti il precetto di richiamo alle armi e l’invito a presentarsi in Prefettura alle 10 del prossimo 4 novembre. Spediti per posta, e recanti il timbro del Comune, questi fogli sono un falso”.
“La Stampa” – 28 ottobre 1978
“I ‘falsari’ hanno firmato la cartolina ‘dimenticando’ di apporvi il timbro in tondo del distretto militare. Una ‘dimenticanza’ probabilmente volontaria. Hanno già riprodotto un timbro del Comune – dicono i carabinieri – in modo perfetto, forse, addirittura, il timbro è autentico. Per questo falso non ci sono conseguenze penali rilevanti. Ma, se fosse stato falsificato il timbro del distretto, i responsabili avrebbero rischiato il carcere”.
“Gazzetta del Popolo” – 28 ottobre 1978
“Analizzando attentamente i testi di accompagnamento, si sono subito escluse le ipotesi di un atto programmato sia dall’estrema destra che dall’estrema sinistra. Il sospetto è così ricaduto sugli antimilitaristi, sugli obiettori di coscienza”.
“Stampa Sera” – 27 ottobre 1978
“I testi […] usano un tono e un linguaggio tipico delle dittature militari, o della destra, per dirla in gergo corrente; ma in modo così scoperto e provocatorio da insospettire e far pensare che la provocazione abbia un’origine tipo ‘brigate rosse’ e sia redatto appositamente in modo da essere attribuito alla destra”.
Allegato 5
Comunicato fatto pervenire all’ANSA giorno 27/X/78
Il Collettivo del Contropotere rivendica la diffusione dei falsi richiami alle armi come un’azione politica di lotta contro le strutture militari.
In occasione del 4 novembre, festa delle forze armate, abbiamo voluto mettere la gente di fronte al problema del militarismo.
I nostri richiami alle armi sono dei falsi, ma in qualunque momento potrebbero arrivare quelli veri.
In realtà le persone non sono libere di disporre della propria vita, ma appartengono allo Stato che può in ogni momento obbligarli a indossare una divisa, senza tenere assolutamente conto delle loro condizioni, famiglia e occupazioni.
I due grandi massacri del nostro secolo che sono state le guerre mondiali e l’imminente e sempre più probabile tragedia nucleare che attende l’umanità attraverso la costruzione di sempre nuovi e più sofisticati ordigni radioattivi (ultima in ordine di tempo la bomba al neutrone) dimostrano che il militarismo incombe su di tutti e che il bisogno di distruggerlo è urgente per tutti i proletari e i rivoluzionari.
Con il nostro atto forse abbiamo reso le notti insonni ai cittadini italiani. Ciò dimostra che nonostante la retorica militarista, la popolazione non è affatto contenta di vestire la divisa, ma se questo li ha indotti a pensare almeno per un momento a che cosa è il militarismo, il nostro gesto è un passo avanti nella lotta contro il potere.
Collettivo del Contropotere
[Pubblicato su “Anarchismo” n. 23-24, settembre-dicembre 1978, pp. 238-241]
Su un’esperienza di lotta locale
Gli episodi di lotta che esamineremo in questo scritto hanno avuto origine dalla decisione dell’Amministrazione Comunale di Forlì (giunta rossa, PCI e PSI) di raddoppiare (da 100 a 200 lire) le tariffe dei servizi di trasporto urbano e di elevare di conseguenza i prezzi dei vari tipi di abbonamento al servizio.
Una lotta, dunque, chiaramente difensiva, rivendicativa ed economicista, come origine, nata come una risposta ad un’iniziativa della controparte (il Comune, in questo caso) e non come decisione autonoma di chi ha poi condotto la lotta; nata su una questione che riguardava molto più direttamente le nostre tasche che non i nostri cervelli.
Una lotta, c’è ancora da dire, che non ha avuto niente di particolarmente epico od esaltante, niente che potesse valere la pena di essere tramandato con orgoglio alle future generazioni: non barricate, non grandi scontri in piazza, nessuna eco di cronaca sui fogli di informazione nazionale.
Ma proprio per queste sue caratteristiche di normalità, di quotidianità, ci pare che dal suo svolgimento si possa trarre qualche indicazione che, se non servirà certo a formulare qualche nuova teoria dello scontro di classe, potrà tornare utile proprio in quella quotidianità di rivoluzionari che è in fondo tanto più difficile da gestire dei rari momenti epici.
Per inquadrare il problema, va subito chiarita la dimensione sociale del fatto: Forlì non è una metropoli, non è Milano o Roma e neppure Bologna, dove i tram o la metropolitana sono parte integrante e rilevante della struttura del meccanismo produttivo. Non vi sono eserciti di operai o di impiegati che si riversano a fiume sui mezzi di trasporto pubblici per raggiungere il posto di lavoro o per tornare al proprio quartiere-ghetto, le distanze non sono incolmabili, se forniti di una bicicletta (che qui è un mezzo ancora assai usato) e, spesso, neppure a piedi; il traffico non è tanto convulso da sconsigliare l’uso della vettura privata. Perciò gli utenti del servizio, le categorie sociali più direttamente interessate alla questione, sono principalmente gli studenti, i pensionati, le casalinghe che si recano a far spese in centro e una minoranza di lavoratori che si adatta alle inefficienze del servizio, rinunciando alla comodità del mezzo proprio per risparmiare qualcosa o per sfuggire ai rigori della temperatura.
Inoltre Forlì è una città tutto sommato provinciale, nel cuore di una “zona rossa”, dove il controllo esercitato da partiti di sinistra e sindacati sulle componenti sociali proletarie è ancora forte e ben articolato, dove i sintomi della crisi di questo controllo sono quasi sempre solo latenti, in assenza di grosse esperienze locali di lotte rivoluzionarie negli anni più recenti, nei quali si è vissuto più che altro di riflesso quanto andava accadendo nel resto del paese.
Il movimento rivoluzionario, a Forli, è una realtà piuttosto limitata numericamente, senza grandi esperienze proprie, come si è detto, composto di compagni che si sono “fatti le ossa”, per lo più, partecipando alle lotte di altre situazioni “più avanzate”, frequentando l’università o cose del genere.
Per tutti questi motivi, l’esperienza di quanto accaduto altrove di recente in analoghe circostanze poteva fornirci solo un aiuto limitato, dovendo fare i conti con tutti i limiti della situazione oggettiva.
Va detto subito, perché questo resterà un dato costante e secondo noi molto importante da analizzare, che sin dall’inizio l’Amministrazione Comunale ha cercato di far passare la cosa nella maniera più silenziosa possibile: pochissima pubblicità al provvedimento, giusto lo stretto indispensabile perché la gente sapesse di dover pagare di più; scarsissime spiegazioni delle ragioni che lo avevano causato (il deficit crescente della gestione di un servizio rilevato qualche anno prima dalla gestione privata), praticamente nessuna consultazione, neppure formale, delle strutture di partecipazione di base (comitati di quartiere, di zona, consigli circoscrizionali, ecc.), onore e vanto della giunta rossa.
Sempre a questo proposito, va notato che le confederazioni sindacali, dopo aver fatto sapere di considerare negativamente gli aumenti delle tariffe, si sono ben guardate dal fare qualcosa di concreto per opporvisi.
Anche la stampa locale (“Resto del Carlino”), in altre occasioni pronta a scagliarsi contro l’operato della giunta per dar fiato alla propria politica di destra, è apparsa subito allineata, in questo caso, alla consegna del silenzio.
Il tentativo era palese: fare apparire tutto come un atto amministrativo indolore, spogliandolo di qualsiasi contenuto politico e sociale, vale a dire la gestione del potere come mera attività tecnica e burocratica, resa quanto più possibile asettica ed immune da pericolose ripercussioni politiche che rischiano di turbare l’apparente pace sociale. Anche a Forlì, infatti, il fuoco cova sotto la cenere: la struttura sociale è scossa dalle gravi ripercussioni della ristrutturazione, che ha portato allo smantellamento di alcune tra le più grosse entità produttive della città e della zona (Bonavita, Orsi, Mangelli, Maraldi…); centinaia di operai sopravvivono da mesi e anni grazie alla cassa integrazione o al lavoro nero, mentre prospera ed arricchisce una classe di speculatori edili e commercianti ingrassati dal boom turistico della riviera romagnola e quasi sempre legati a doppio filo al PCI, che si fa garante dei loro guadagni poco puliti. Anche il prestigio dei partiti di sinistra e dei sindacati è incrinato da alcune poco brillanti e anzi piuttosto losche operazioni amministrative che hanno indebolito il fideismo cieco di tanti militanti di base.
Ovvio dunque che in un momento come questo, dove ai problemi locali vanno a congiungersi le difficoltà di far accettare a una base fra le più convintamente staliniste d’Italia, le recenti evoluzioni strategiche degli apparati di sinistra, gli amministratori “rossi” desiderino di tutto meno che creare un casus belli con i propri amministrati.
È perciò evidente che il problema che ci si poneva sin dall’inizio era di come spezzare questa campana di piombo, come uscire da questa ragnatela di silenzio stesa su tutta la faccenda.
Le strade ormai “rituali” in questo senso (volantini, manifesti, ecc.) ci sono parse subito assai poco efficaci, se non accompagnate da qualcosa che servisse a colpire maggiormente l’attenzione di gente ormai abituata ad essere sommersa quotidianamente da valanghe di carta.
La scelta del sabotaggio delle biglietterie automatiche (pratica attuata su vasta scala in altre città, in occasioni analoghe) ci sembrò presentare due vantaggi: da una parte forniva questo elemento di rottura che poteva servire ad incentrare l’attenzione sull’aumento delle tariffe, dall’altra parte andava a danneggiare direttamente il nemico, coinvolgendo forzatamente altre persone nell’azione, giacché una volta che la macchinetta era stata sabotata nessun viaggiatore poteva più pagare il biglietto e questo suscitava da un lato la discussione sugli autobus in merito a quello che stava succedendo e dall’altro impediva fisicamente, almeno per qualche tempo, che venisse perpetrato un altro furto dalle tasche dei proletari. È notevole, marginalmente, il fatto che nessun viaggiatore, almeno per quanto ci è stato possibile osservare, di fronte alla macchinetta danneggiata, si sia offerto di pagare comunque la corsa all’autista: dopo tutto forse il senso della legalità non è così radicato e interiorizzato come vorrebbero farci credere. E comunque, sia pure in termini di monetine, l’azione diretta pagava ancora una volta.
Per i primi giorni il sabotaggio delle biglietterie automatiche fu un’azione condotta in modo massiccio ed organizzato, poi, come era facilmente ipotizzabile, continuò più sporadicamente, come pratica individuale di singoli compagni che, dovendo prendere il tram o vedendo una vettura ferma, invece delle monete introducevano nella fessura della biglietteria chewing-gum, pezzi di plastica o legno o qualcosa d’altro che servisse a mettere fuori uso il congegno.
Già su questo dato fummo portati ad una prima riflessione; potrebbe sembrare evidente che il rapido affievolirsi di una pratica organizzata e collettiva di sabotaggio segni un passo indietro della lotta. In realtà questa ci sembra solo una mezza verità. Infatti, se la cosa dimostra innegabilmente i limiti che trova sempre una lotta rivendicativa quando tarda a pagare in termini di contrattazione (anche quando questa contrattazione non esiste formalmente, ma solo a livello di scontro), ci pare d’altro canto che il radicarsi a livello individuale, tra un numero più o meno largo di persone, di una pratica di sabotaggio anche minimale, che diventa però comportamento eversivo quotidiano, sia tutto sommato un dato più significativo di qualche sporadico momento di manifestazione spettacolare di un dissenso che si produce in realtà solo nelle “feste comandate”. Vogliamo dire che le espressioni che potremo definire “politiche” dell’antagonismo sono quasi sempre previste e controllabili da parte del potere, che le mette preventivamente in conto come reazione ad ogni sua mossa antiproletaria e che può, senza troppe difficoltà, immaginarne i canali di esplosione e di sfogo.
Non a caso, nei giorni in cui praticavamo sistematicamente il sabotaggio delle biglietterie automatiche, il comune aveva predisposto un servizio “volante” di riparazione, facendo circolare al seguito dei tram dei furgoncini attrezzati per una riparazione rapida e tempestiva delle macchinette messe fuori uso.
Ma se tra un certo numero di cittadini diventa normale, ad esempio, introdurre chewig-gum anziché la monetina nella macchinetta dei biglietti, la cosa assume un aspetto assai meno scontato e prevedibile per i gestori del servizio.
Comunque anche a questo punto il dato col quale abbiamo dovuto scontrarci immediatamente ha continuato ad essere il silenzio ufficiale del comune su tutta la faccenda. Noi spaccavamo le biglietteria automatiche, i meccanici comunali le aggiustavano, ma il dibattito su quello che stava accadendo non andava al di là dei capannelli di poche persone presenti ai fatti e, del resto, i nostri mezzi non ci permettevano di allargarlo ad ambiti più vasti.
L’unica soluzione era di costringere il comune ad uscire allo scoperto, giustificando pubblicamente l’intera faccenda, ma era chiaro che i nostri amministratori non si sognavano neppure di farlo. Allora alcuni di noi hanno avuto un’idea: se il comune rosso non intendeva spendere una sola parola sugli aumenti delle tariffe, l’avremmo fatto noi al suo posto. Preparammo un manifesto formalmente identico a quelli soliti del municipio, con tanto di stemma e firma del sindaco e lo affiggemmo a tutte le fermate del tram. Il testo era il seguente:
Comune di Forlì
Avviso agli utenti
In relazione al recente provvedimento che elevava a L. 200 la tariffa della corsa semplice dei servizi di trasporto urbano;
considerato che la precaria situazione del bilancio dell’A.T.R. ha costretto questa amministrazione a varare un decreto d’urgenza senza consultare previamente le istanze elettive e sindacali di base;
valutato il vasto senso di disagio diffuso nella cittadinanza e fomentato da ristrette minoranze per dar adito a veri e propri atti di sabotaggio ai danni delle vetture dall’A.T.R.;
questa Amministrazione ha deciso, nella seduta del 5/10/78, di accollarsi, in via temporanea, il passivo del bilancio A.T.R., riportando la tariffa della corsa semplice a L. 100, in attesa di una vasta consultazione degli organi rappresentativi di base che individui le soluzioni più consone al problema.
Il Sindaco”
Con questo “falso” intendevamo da un lato costringere l’amministrazione comunale ad una smentita ufficiale che la obbligasse nello stesso tempo ad assumere la responsabilità politica della propria decisione e dall’altra pensavamo di indurre chi prendeva il tram a riflettere sul modo in cui le decisioni e le scelte venivano effettuate dai vertici senza neppure sognarsi non solo di consultare gli interessati, ma nemmeno di spiegare loro le motivazioni di tali scelte.
Inoltre immaginavamo che la presenza di quei manifesti, in tutto e per tutto credibili, avrebbe provocato non poco disorientamento fra la gente e fra i conducenti dei mezzi pubblici. Purtroppo i nostri conti erano troppo ottimistici. In realtà, nel giro di un paio d’ore, i vigili urbani, opportunamente avvertiti da qualche tranviere zelante e particolarmente fedele alla “causa”, hanno provveduto a far sparire i manifesti dalla circolazione, cosicché ancora una volta la discussione è stata rinchiusa in ambiti molto limitati (ad esempio, alla Zanussi gli operai avevano portato il manifesto dentro la fabbrica e lo avevano fatto circolare con commenti piuttosto divertiti).
Questo parziale fallimento ci ha costretti ad alcune riflessioni, che costituiscono in pratica l’unico patrimonio lasciatoci da questa esperienza di lotta e che pensiamo valga la pena di esternare ai compagni anche al di fuori del nostro ambito locale.
Innanzitutto abbiamo verificato che, almeno nelle zone “rosse”, il potere può contare sulla fedeltà pressocché cieca di alcune categorie di lavoratori che ha legato a sé con un discorso tra il ricattatorio e l’ideologico. Molti tranvieri a Forlì si sono comportati come se i loro interessi si identificassero con quelli dell’Amministrazione, anziché con quelli degli altri proletari, fungendo perciò da apparato para-poliziesco che si faceva carico del mantenimento della normalità nel settore a loro affidato. Va detto anche, comunque, che questo atteggiamento inquisitorio mostrava sintomi di cedimento quando lo affrontavamo di petto e direttamente con molti di loro, riuscendo a far affiorare le contraddizioni esistenti tra il ruolo pubblico loro assegnato e il proprio atteggiamento personale sulla questione: “per me fate bene, ma io non posso perdere il posto per voi”, era in genere la motivazione con la quale cercavano di giustificarsi, esclusi ovviamente i più beceri servi sciocchi del partito, per i quali l’amministrazione comunale era una specie di divinità intoccabile. Questa constatazione ci ha portati a diffondere un volantino rivolto in particolare ai conducenti degli autobus, nel quale, in sostanza, chiedevamo loro se si considerassero ancora lavoratori come tutti gli altri o se invece avremmo dovuto trattarli come un nuovo corpo paramilitare al servizio della giunta rossa, volantino che ha suscitato reazioni per lo più positive tra coloro ai quali si indirizzava.
L’altro aspetto, senza dubbio più rilevante, che abbiamo cercato di comprendere, era quali fossero stati, al di là delle apparenze, i risultati della nostra lotta contro il comune.
Mantenendo fino all’ultimo la sua ferma attitudine al più completo silenzio su tutta la faccenda, il potere locale ha dato senz’altro una dimostrazione della sua capacità di sottrarsi agli attacchi portatigli con i nostri scarsi mezzi, ma ha nello stesso tempo messo in luce una sua fondamentale debolezza. Il suo meccanismo di gestione del consenso, cioè, funziona mirabilmente dal punto di vista tecnico-amministrativo, ma fa acqua dal punto di vista politico-ideologico, tant’è vero che la sua prima preoccupazione è stata costantemente quella di evitare questo terreno.
Ciò è apparso soprattutto evidente nella foga con la quale ha cercato di far scomparire dalla circolazione il nostro manifesto falso, che, oltre a costringerlo ad uscire dal guscio, avrebbe posto davanti agli occhi di tutti un’altra immagine con la quale confrontare quella che il potere stesso vuol dare di sé e avrebbe potuto fare scattare nella gente dei meccanismi di confronto, di valutazione critica, di riflessione sui quali l’apparato non può garantire il controllo, visto anche che quanto successo non rientrava negli schemi usuali di funzionamento del gioco politico.
All’interno di questo gioco il potere ha sempre facilmente partita vinta, anche perché è riuscito a costruire un ruolo prefabbricato anche per i suoi oppositori, ruolo al quale anche noi non sappiamo sempre sottrarci.
Lo strumento occasionalmente scelto (il manifesto) non ci ha permesso di portare avanti come avremmo voluto questa forzatura dei ruoli predeterminati e del gioco telecomandato. Ma cosa sarebbe successo invece se ogni cittadino (solo per fare un altro esempio) si fosse visto recapitare a casa una delle tante lettere aperte del sindaco che, invece dei soliti imbonimenti, dicesse le cose dette col manifesto “falso”? Di che tempi e di che strumenti di recupero avrebbe avuto in questo caso bisogno la giunta “rossa”?
Da questo punto di vista, che ci pare piuttosto interessante, il problema diviene per noi essenzialmente tecnico: come riuscire ad inserirsi nei meccanismi di comunicazione del potere, non per usarli a nostro favore (utopia di stampo demenzial-riformista), ma per disturbarne il funzionamento e renderli tendenzialmente inservibili?
Se è vero, come affermano gli esperti di comunicazione di massa, che il messaggio sta già nel mezzo con cui viene trasmesso, studiare il funzionamento e lo stravolgimento di questi mezzi è un compito al quale, come rivoluzionari, dovremo dedicarci con maggiore attenzione.
Compagni di Forlì
[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 23-24, settembre-dicembre 1978, pp. 242-245]
I falsari della rivolta a…narchica
Mi è capitato di leggere un ciclostilato sui “falsi richiami alle armi” che un “Collettivo del Contropotere” va diffondendo per rivendicare “l’uso del falso come strumento politico” oltre logicamente “la diffusione dei falsi richiami alle armi” che danno “come un’azione politica di lotta contro le strutture militari”. Dopo la “musica”, il “sesso”, la “droga”, la “minigonna”, gli “zoccoli di legno”, l’“angoscia”, lo “Zen”, i “tarocchi”, l’“esoterismo”, la “magia” e altre cazzate del genere, sta divenendo di moda il falso. Nel gran merdaio capitalista-statolatra ove il falso (il vero falso) è imperativo di sopravvivenza, una pisciatina di falso (di falso veramente falso) “rivoluzionario” chissà che fiammata… goliardica darà al mondo e all’umanità! Staremo a vedere.
Intanto, i nostri del “Collettivo del Contropotere”, in una estesa nota introduttiva ci vengono a spiegare che: “Questo tipo di lotta è importante perché ottiene un duplice risultato: da una parte si costringe il potere a smentirsi, svelando la propria natura, dall’altra si mina la credibilità delle istituzioni […] al punto di rendere inverosimile qualsiasi notizia ufficiale”. Se ci si avesse pensato prima! I “nostri” continuano: “Inoltre si provocano in modo shockante le persone inducendole forzatamente (il sottolineato è mio) a pensare a cose che le avrebbero lasciate indifferenti…”. E come se non bastasse (e già, la rivoluzione non è cosa semplice e facile!), aggiungono (cioè, insinuano) che “da sempre (sic!) i rivoluzionari (chi? dove?) sono stati anche falsari”. E, avvertendo che “questo strumento di lotta va perfezionato” ti lanciano la bordata decisiva: “Sembra che i servizi di sicurezza siano rimasti scossi da tanto ardire (c’è di mezzo nientemeno che il ministero della difesa)”! Sono argomenti così fascinosi e definitivi che, pare, molti militanti – anche anarchici – si vanno a iscrivere alla nuova scuola e progettano di praticare il “nuovo metodo” su larga scala e già pregustano risultati talmente strabilianti da offuscare, ridicolizzare, annientare ogni uso del vero, la ricerca della verità, la verità come metodo di propaganda, di lotta e di azione rivoluzionaria individuale e collettiva.
La “cosa” non è di poco conto ed io sono molto perplesso anche per il fatto che nessuno – anarchico o rivoluzionario, libertario o militante del movimento – abbia trovato da obiettare. Vuol dire che proprio tutto il movimento (e in particolare mi riferisco agli anarchici) sia già schierato sulla linea che sostiene il “falso” come “metodo” e “strumento” di lotta politica e rivoluzionaria talmente valido ed efficace da assumerlo e farlo proprio, propagandarlo e praticarlo? Possibile che tutti gli anarchici siano arrivati a tal grado di paranoia da ritenere il metodo del falso coerente e conseguente con l’anarchismo e la propaganda e la lotta e l’azione che l’anarchismo postula contro lo Stato e i Mostri e gli Dèi falsi e bugiardi? Se per dannata ipotesi così fosse, io, magari ad essere il solo, voglio lo stesso esprimere pubblicamente il mio totale dissenso e il mio rifiuto a questo “metodo” perché lo considero ingannevole, deviante, controproducente, pericoloso, ridicolo, contrario all’affermazione della prospettiva, contrario all’affermazione dell’identità che il militante rivoluzionario anarchico si deve forgiare e consapevolmente assumere.
A me pare che i patrocinatori entusiasti del falso come metodo di lotta e di propaganda rivoluzionaria non tengono nel dovuto conto che l’assumerlo così come fanno loro – ma anche oggettivamente – è dimostrazione d’impotenza e di incapacità (“non riesco in altro modo, ripiego e adotto quest’altro che oltretutto non danneggia nemmeno me, e poi fa anche ridere la gente”).
A questo punto ricordare la favoletta del pastorello e del lupo mi sembra più che opportuno.
Può sembrare (e forse lo è) puerile, ma io sono convinto che il falso è sempre facile che venga ben manipolato e sfruttato dai furfanti privati e di Stato, dai preti, dai magistrati, dai militari e dagli sfruttatori di ogni risma e colore, i quali tutti, senza scrupoli come sono, ne hanno tratto, ne traggono e ne trarranno vantaggio e potere e ferocia. Dobbiamo noi rivoluzionari anarchici metterci in concorrenza con detti maiali e assassini?
Insomma, diciamolo chiaramente: un conto è falsificare il passaporto, le proprie generalità, la propria residenza o nascondiglio, i propri movimenti, la propria fisionomia, il proprio nome, le proprie abitudini, il proprio abbigliamento, e ben altro conto è quello di adottare il falso come metodo, come propaganda, tattica, come lotta. Un conto è far circolare, propagandare, la falsa notizia che la Standa (o Corel, o Bata, o uno dei tantissimi supermarket delle multinazionali) distribuisce gratuitamente la merce dei propri magazzini e tutt’altro conto propagandare e meglio praticare l’espropriazione, gli espropri proletari. Nel primo caso la gente, i proletari, si vedrebbero ingannati e derisi, presi per il culo. Nell’altro… magari aspetteranno la buona occasione che i rivoluzionari devono studiarsi di creare, realizzare. Un conto è indicare un falso obiettivo per attaccare e distruggere quello che veramente si è deciso di colpire e far saltare in aria, e ben altro conto misero e ridicolo quello di giocare con i… “falsi richiami alle armi”. Un conto è falsificare i modi e i mezzi di trasportare e diffondere un giornale, un volantino, un opuscoletto “non autorizzato”, stampato alla macchia, e ben altro conto cretino e idiota è quello di riempirli di falsi (tanto varrebbe diffondere “L’Unita”, o “Il Popolo” o “Il Corrierone”)! Un conto mettere in giro la falsa voce che si può viaggiare gratuitamente (ma chi sarebbe quell’idiota che prima di correre alla stazione o all’aeroporto non farebbe una telefonata per averne la conferma?!), e ben altro conto quello di convincere e spingere ferrovieri e autisti che invece di fare un ennesimo sciopero fasullo che magari riuscirà a far fermare tutti i treni ma che più treni farà fermare più fastidio, danno e irritazione arrecherà alle migliaia di lavoratori e proletari (e son ben questi che viaggiano sui treni!), sarebbe più producente, più efficace, più rivoluzionario praticare la non collaborazione facendo cioè correre i treni (senza le “prime classi” e bloccando i treni di lusso e i treni merci) e non chiedendo i biglietti ai viaggiatori, anzi solidarizzando con questi e magari rivestendo tutte le vetture e le macchine di bandiere rosso-nere. Certo è un po’… più difficile, più complicato, più rischioso del far circolare la notizia falsa. Non si gioca… con la guerra e coi… Mostri. O si ha la forza, il coraggio, la capacità e i coglioni di saltare al collo del nemico, di distribuire sventagliate di mitra, di far saltare cariche di dinamite e incendiare, incendiare e bruciare e organizzarsi per tutte queste cose o è perfettamente, veramente un’impostura menzognera e ingannatrice sostituirle col falso come metodo-strumento di lotta e propaganda. È perfettamente inutile, anzi è terribilmente idiota correre dietro le… BR e scimmiottarne le azioni e la guerra guerreggiata (queste sì vere!) con i falsi. Non si farebbe, non si fa che portare… credibilità e nuovi combattenti alle BR (cioè allo stalinismo, al comunismo da caserma militare o da convento tardo-cristiano). E per contro sarebbe denigrare la verità e l’anarchismo, ridicolizzarli, svuotarli di quella carica che né il tempo né i repressori più feroci sono riusciti a coartare del tutto e a distruggere.
Prima di chiudere voglio ritornare brevissimamente al ciclostilato del “Collettivo del Contropotere”. L’azione specifica tanto esaltata nel ciclostilato a me sembra che contrariamente a quanto si vuole affermare non fa altro che ridicolizzare e svuotare di contenuti l’antimilitarismo anarchico, l’obiezione di coscienza totale dei compagni che per praticarla si trovano in galera. E inoltre, ad assumerla come metodo, propagandarla e praticarla, verrebbe ad abituare le persone non a lottare contro ma a giocare coi mostri i quali stanno benissimo a giochi così innocui e a falsi così risibili tenendosi sempre pronti alla zampata repressiva o assassina. E in più, finirebbe coll’infastidire le persone che si vedrebbero prese per il culo e ingannate. E finirebbero col girarci le spalle…
Franco Leggio
[Pubblicato su “Anarchismo” n. 23-24, settembre-dicembre 1978, pp. 246-247]
Ancora sul falso e sul problema della comunicazione
Poiché l’articolo del compagno Bonanno: “Il falso come strumento di lotta”, apparso sul n. 20 della rivista “Anarchismo”, oltre ad aver evidentemente colto una realtà emergente (in questo stesso numero diamo conto di 2 esempi di azioni nelle quali i compagni hanno in qualche modo fatto uso del falso), comincia anche a suscitare un certo dibattito e poiché l’argomento ci pare interessante, non essendo confinato ai puri cieli della teoria, riteniamo di dire qualcosa a tale proposito.
Faremo riferimento innanzitutto proprio all’articolo del compagno Leggio che pubblichiamo, anche perché costituisce finora l’unica voce contraria che ci è pervenuta (ma siamo certi che quelle posizioni non sono solo sue), anche se c’è da rammaricarsi del fatto che lo stesso compagno, chiaramente e sinceramente preoccupato da azioni che, secondo lui, danneggerebbero il nostro movimento, si lasci un po’ prendere la mano e finisca talvolta per insultare più che criticare e giunge quasi ad assumere a sua volta il falso come strumento, mutilando e stravolgendo nel loro senso le affermazioni dei compagni del Collettivo del Contropotere (e di ciò tutti potranno rendersi conto leggendo il testo integrale che pubblichiamo).
Ma al di là di questi eccessi polemici, lo scritto del compagno Leggio è interessante in quanto ci permette di approfondire la discussione su una proposta di lotta i cui contorni forse non sono ancora chiaramente definiti.
Infatti, se c’è qualcosa che ci sentiamo di far nostro in quanto scritto da Franco Leggio è il timore che lo strumento del falso si trasformi in una specie di moda, venga cioè assunto e consumato acriticamente dai compagni per la sua apparenza, senza verificare a fondo la sostanza di ciò che si vuole comunicare attraverso quel mezzo. Se questo metodo viene usato come un divertimento fine a se stesso, finisce per trasformarsi in un giocattolo innocuo, in un passatempo che il potere non avrà certo difficoltà a concederci e c’è da temere che un abuso in questo senso finisca per svuotare di significato anche un uso più appropriato ed incisivo del “falso”.
Ci pare però che le preoccupazioni del compagno Leggio si indirizzino in un senso sbagliato. Sembra infatti che per lui si tratti di un problema di credibilità dei rivoluzionari e non invece di un problema di credibilità dei meccanismi di acquisizione del consenso da parte del potere, che sono proprio quelli che l’uso del falso dovrebbe disarticolare e rendere non più credibili, cioè inservibili. Evidentemente ci sono dei malintesi che sarà utile cercare di chiarire.
Riteniamo innanzitutto che nessuno abbia mai pensato di sostituire con l’uso del falso tutta l’attività dei rivoluzionari e che l’unico ad avere le idee confuse in proposito sia proprio il compagno Leggio (“O si ha la forza, il coraggio, la capacità e i coglioni” – ?!. “I coglioni”?!, compagno? – “di saltare al collo del nemico, di distribuire sventagliate di mitra, di far saltare cariche di dinamite e incendiare, incendiare e bruciare e organizzarsi per tutte queste cose, o e perfettamente, veramente un’impostura menzognera e ingannatrice sostituirle col falso…”).
Ci pare chiaro che il compagno Leggio, nella sua foga polemica, abbia purtroppo scambiato lucciole per lanterne. Esamini con un po’ di attenzione i due esempi che troverà su queste pagine e si renderà conto che nessuno pensa di sostituire il falso al proprio coraggio e alla dinamite, ma che si tratta molto più semplicemente di trovare il modo di aggiungere intelligentemente un nuovo strumento al fianco di altri che non possono venire surrogati.
E ci pare che egli non si accorga neppure che gli esempi di azione da lui proposti come antitesi al falso non siano in realtà affatto antitetici, bensì complementari, anche se a volte le sue proposte ci sembrano in realtà piuttosto semplicistiche e buttate là alla meno peggio.
Il problema reale, forse, è che il compagno Leggio sembra non rendersi conto che né il mitra né la dinamite (né tantomeno i “coglioni”, per fortuna) sono strumenti universalmente validi ed autosufficienti, pur se indispensabili (a parte, di nuovo, quei misteriosi “coglioni”), per condurre la guerra di classe, che ha fronti ben più vasti ed articolati di quelli immaginati da chi vorrebbe risolverla con un colpo di mano del “partito combattente”.
Se è vero che il potere si serve, per mantenere assoggettata l’immensa maggioranza dell’umanità, non solo delle armi dei suoi sgherri (alle quali è necessario opporre le armi dei rivoluzionari), ma anche di un uso generalizzato e costante della falsificazione, gestita attraverso canali che hanno assunto presso miliardi di persone una credibilità di stampo religioso, allora è indubbiamente necessario non solo rivolgere le armi contro i “padroni della guerra”, ma anche rivoltare contro chi li gestisce i mezzi di indottrinamento di massa.
Il cumulo di cazzate, di falsità spudorate, che un fogliaccio come “L’Unita” somministra quotidianamente ai suoi numerosi fedeli vengono da questi assunte come altrettante verità sacrosante semplicemente in base al dogma che “L’Unita” (o la televisione, o la radio, o la “Gazzetta Ufficiale”) non può mentire.
Ora non si tratta, come sembra fraintendere il compagno Leggio, di contrastare questo cumulo di menzogne con un equivalente cumulo di menzogne di marca anarchica. Non si tratta di fornire a nostra volta un’ulteriore visione mistificata della realtà per crearci il nostro personale stuolo di fedeli, convinti che “Anarchismo” o “Umanità Nova” non possono mentire, ma invece di porre la gente in condizioni di accorgersi che anche “L’Unita” (o la RAI-TV o il porcodiddio) dice il falso.
Non si tratta di dare a intendere che alla Standa, o in qualunque altro posto, ci si possa servire gratis (cosa che del resto sarebbe assolutamente giusta e dunque, in questo senso, niente affatto “falsa”), ma, invece, di porre concretamente la gente di fronte alla realtà del furto quotidiano perpetrato ai suoi danni dal capitale, e costringere quest’ultimo a gettare la maschera della mistificazione economica che ne nasconde l’essenza.
Può l’uso del falso servire a questi scopi? Riteniamo di sì.
È l’unico strumento che è opportuno usare a questi scopi? Certamente no.
Partendo da questi termini pensiamo che il discorso possa essere ancora sviluppato.
È noto che vi fu un periodo in cui alcuni compagni pensarono che attraverso un uso massiccio della falsificazione della carta moneta, si sarebbe giunti a far crollare il capitalismo e perciò dedicarono a questa attività tutte le loro forze. Si trattava, evidentemente, di un eccesso di semplicismo.
È tuttavia innegabile che avere a disposizione una certa quantità di banconote abilmente contraffatte, oltre a provocare un relativo danno al complesso sistema monetario, renda di più facile soluzione alcuni dei problemi che si pongono quotidianamente di fronte ad ogni sfruttato.
Nell’attuale dominio dell’assurdità e dell’apparenza, vi sono migliaia di possibilità che vengono sancite da pezzi di carta molto più facilmente riproducibili delle banconote. Oltre ai vari documenti, tessere, lasciapassare, eccetera, basterà pensare che basta l’affissione di un manifesto intestato e firmato in un certo modo per mettere automaticamente in moto sommovimenti e meccanismi sociali di vastissima portata (chiamate alle armi, pagamento di tasse e gabelle varie, scioperi, manifestazioni, ecc.).
Basta leggere in un muro che “Il Sindaco ordina che venga pagata la tassa sui muli” o che “il Sindacato invita i lavoratori a manifestare” perché una fiumana di proprietari di muli o di metalmeccanici si metta in moto per eseguire l’ordine.
O ancora, basta che un annunciatore del telegiornale affermi che “lo sciopero generale indetto per domani è stato revocato in seguito agli accordi raggiunti…” perché le masse lavoratrici si sentano automaticamente sollevate da ogni necessità di lotta.
In tali condizioni è chiaro che la gestione del potere si avvia a raggiungere livelli ottimali, nei quali il meccanismo del dominio funziona e si perpetua da solo in base ad un rapporto di fede coi propri sottoposti. In questo caso gli strumenti di repressione possono venire dedicati totalmente alla cura dei limitati casi di devianza sovversiva e criminale, facilmente giustificabili come fenomeni patologici inevitabili e da estirpare.
Quando per mandare i proletari a macellarsi non sono più necessarie le decimazioni, ma basta la cartolina precetto, i plotoni di esecuzione possono dedicarsi con cura allo sterminio delle minoranze rivoluzionarie. Per questo riteniamo che lo sconvolgimento di questi strumenti di controllo dei comportamenti di massa basati sulla “fede pubblica” non sia un semplice passatempo goliardico o un ripiego, ma costituisca invece una necessità imprescindibile per i rivoluzionari.
Che senso ha azzoppare un servo del potere e poi rivendicare e spiegare l’azione con un volantino che verrà sistematicamente ignorato dai mezzi di comunicazione, in modo tale che non solo praticamente nessuno ne verrà a conoscenza, ma a tutti verrà somministrata una versione falsa e stravolta dei fatti che verrà quasi sempre presa per oro colato? Resta, senza dubbio, il senso di aver eliminato o messo fuori uso un nemico, ma tutte le potenzialità di indicazione e di incitamento che un tale atto contiene rimangono inespresse.
Né su questi livelli è possibile sperare di coinvolgere le pavide forze cosiddette “autenticamente democratiche” in una campagna di controinformazione: il caso Moro dovrebbe ben averci insegnato qualcosa a riguardo di questa gentaglia. Tali forze “democratiche”, la stampa cosiddetta di “sinistra” sono ormai definitivamente arruolate in servizio permanente effettivo per fornire il fuoco di copertura agli assalti antirivoluzionari dei marine di Dalla Chiesa.
Se nel 1970 questa accozzaglia di arrivisti, intellettuali a cottimo e venditori di idiotismo progressista, aveva fatto il calcolo di schierarsi convenientemente dalla parte della controinformazione gestita dai compagni, per condurre vittoriosamente a termine la propria guerra privata contro l’opposta fazione di scribacchini imbecilli di destra, oggi tutti costoro aspettano solo le veline degli appelli antiterroristici stilati dal Viminale o dalle Botteghe Oscure per apporvi le loro poco onorate firme.
Dunque, i rivoluzionari oggi devono (finalmente?) fare i conti con le sole proprie forze per contrastare la montante marea di menzogne quotidianamente cucinate dai centri di potere, condite di sinistrismo degli intellettuali a gettone e servite sul piatto d’argento della grande stampa. Se queste forze debbono essere limitate ai pochi spazi “garantiti” che il potere ci concede per salvare la facciata liberista e democratica, allora saremo costretti ad una inutile battaglia a colpi di spillo, condotta su terreni predeterminati dall’avversario e nella quale non abbiamo possibilità di successo.
È dunque assolutamente necessario essere in grado di affiancare alla capacità di colpire il nemico, l’intelligenza di saper gestire l’informazione sulla nostra azione.
Ciò significa, in primo luogo, riuscire a togliere credibilità alle menzogne istituzionali e ai canali attraverso i quali esse vengono trasformate in dogmi e poi diffuse e, in secondo luogo, sapere sfruttare ogni possibilità esistente per generalizzare la diffusione della nostra verità. Questa verità non risiede nel fatto di essere stati unti da qualche ideologia infallibile che ci rende immuni da errori, ma nel significato sociale delle nostre azioni, ben più che delle nostre parole.
Un noto slogan del maggio francese avvertiva che quando il dito indica la luna l’imbecille guarda il dito. Riteniamo, conoscendolo, che il compagno Leggio sia tutt’altro che un imbecille, e dunque non possiamo che stupirci del fatto che egli non abbia capito che la falsificazione che si propone riguarda appunto il dito e non la luna ed abbia così finito per stravolgere anche il significato dell’azione dei compagni di Torino, che riteniamo invece costituisca l’indicazione più interessante fra quelle finora prodotte in questo campo.
Noi non abbiamo e, per quanto ci riguarda, non intendiamo neppure avere, nessuna facciata da mantenere credibile, nessuna liturgia da conservare incontaminata, nessuna ragione sociale il cui buon nome vada preservato. Siamo addirittura spaventati dall’ipotesi che qualcuno ci segua perché il nostro nome “vuol dire fiducia”, come i famosi formaggini. E pertanto non abbiamo timore di sporcarci le mani con strumenti che colpiscano le suscettibilità o il perbenismo della gente poiché, lo ripetiamo, il nostro scopo non è quello di formarci un esercito di fedeli da imbonire, o da ingannare, ma è invece quello di indicare agli sfruttati dove si annida il nemico, di che forma esteriore si ammanta, attraverso quali meccanismi perpetua il suo dominio e quindi innescare un processo di attacco generalizzato e diffuso che possa tendenzialmente sfociare in un evento insurrezionale.
È fuori discussione che questo attacco dovrà essere gestito individualmente e collettivamente dagli sfruttati stessi e non certo da qualche specialista degno di fiducia (fosse anche il più anarchico degli anarchici) al di fuori di loro.
E ancora, ci stupisce che il compagno Leggio accenni a rispolverare l’ormai risaputa problematica del rapporto mezzi-fine, chiedendosi come si possa “ritenere il metodo del falso coerente e conseguente con l’anarchismo”, proprio lui che pochi capoversi dopo si lancia in un panegirico della insostituibilità della dinamite, della mitraglia e dei “coglioni”, tutti mezzi che hanno ben poco di coerente e di conseguente con la visione ideale dell’anarchismo.
È un argomento che è stato già trattato ampiamente su queste pagine e che, soprattutto, ha trovato una sua ben precisa definizione nella pratica del movimento rivoluzionario, oggi e ieri. Ci sembrerebbe dunque un insulto all’intelligenza nostra e del compagno Leggio, tornare a riproporlo nei suoi termini ormai arcinoti. L’importante è evitare che quello che è, e deve rimanere, un semplice strumento, si trasformi in qualche modo in un contenuto e invece di essere controllato da noi prenda il sopravvento sulla nostra iniziale volontà.
Se ciò che diciamo, che facciamo o che proponiamo è sostanzialmente corretto, cioè va nel senso dell’attacco al sistema di dominio, ha ben poca rilevanza il fatto che l’involucro che lo contiene e che serve a trasmetterlo sia più o meno “falso”.
Oggi la gente è effettivamente e continuamente “presa per il culo” proprio perché inghiotte quotidianamente un cumulo di idiozie e menzogne, prendendole per buone solo perché ritiene che l’involucro che le contiene sia assolutamente degno di fede. Sta a noi rovesciare i termini della questione, senza restare impelagati in assurdi moralismi di nessun genere.
Franco Lombardi
[Pubblicato su “Anarchismo” n. 23-24, settembre-dicembre 1978, pp. 248-251]
Un falso come sabotaggio alla BNL
Attaccata la BNL di Palermo quale sponsor del rincoglionimento totale che è stato il mondiale di calcio [1990]. Il falso può essere un efficace strumento di sabotaggio alla portata di tutti.
Palermo, così come tante altre città d’Italia ha avuto “l’onore” di ospitare partite di calcio dei mondiali svoltisi quest’anno. Così, come dappertutto, anche in questa città si è tentato di fare respirare un’aria nuova, senza pensare ai problemi di mancanza di acqua e di lavoro, alla crescente militarizzazione che ha raggiunto livelli asfissianti. Il simpatico “Ciao” avrebbe reso la vita più allegra, i tifosi avrebbero fatto colore, e forse, portato qualche soldino ai poveri albergatori e bottegai, la gente si sarebbe divertita a vedere spingere una palla da un lato all’altro dello stadio.
Ma non tutti hanno avuto il buon senso di usufruire di un così caro regalo, e qualcuno di questi scontenti, speriamo tanti, ha cercato di guastare la festa ideando e realizzando un falso, spedito a parecchie persone, che le invitava a recarsi alla Banca Nazionale del Lavoro per prendere un biglietto omaggio per lo stadio. Di seguito pubblichiamo una rivendicazione dell’azione e la lettera mandata ai bravi cittadini amanti del calcio.
Occasioni come il mondiale di calcio per uno Stato a democrazia avanzata, altamente post-industrializzato, esportatore di tecnologia di morte e di ricatti economici, rappresentano un grande atto propagandistico capace di radunare grandi folle intorno all’obelisco dell’esistenza-spettacolo sfruttando simili opportunità per autocelebrarsi e rendere la masse consenzienti e partecipi del proprio annullamento.
In questo contesto dissentire è reato!
Vivere la propria autenticità, la propria estraneità a un tale sistema di cose è severamente vietato.
Cancellate con un solo colpo di spugna le fresche macchie di sangue e la fuligine sui monumenti delle nostre città, le opere avveniristiche attorno agli stadi sono belle e pronte!
Con quanta personalità l’Italietta entra finalmente a far parte della tavola rotonda dei paesi che contano e che partecipano alla nuova spartizione del mondo…
Le punte avanzate della finanza e dell’economia made in Italy sono al loro posto: ed ecco che la BNL non poteva venire meno alle sue prestazioni di grande levatura morale. Così come non aveva perduto l’appuntamento con il regime apartheid di Botha e di De Klerk… così come non si era tirata indietro in quel lussuoso giro turistico di capitali che andavano a finanziare uno dei paesi protagonisti della carneficina che è stata la guerra Iran-Iraq.
Con lo stesso spirito filantropico, sempre per la pace e il progresso, oggi finanzia e sponsorizza Italia ’90. Niente è casuale!
Colpire la BNL e l’immagine del mondiale è un diritto dell’intelligenza.
Alla vigilia della partita Egiutto-Olanda circa 250 persone si sono presentate agli sportelli della BNL di Paleremo mostrando la lettera, da noi inviatagli e che pubblichiamo qui di seguito, importunando o irritando il personale della banca distogliendolo dal lavoro.
Il falso, efficace strumento dell’antagonismo, è gioiosamente alla portata di tutti coloro i quali hanno ancora coglia di sognare e di agire per inceppare il meccanismo oppressivo del potere.
A (cerchiata)
L’obiettivo dell’azione, a quello che risulta dalla rivendicazione, era di colpire l’immagine della BNL, non certamente di fare scomodare qualche centinaio di coglioni cittadini che abbagliati dal grande calcio si sono fatti in quattro per presentarsi davanti agli sportelli della banca a chiedere il sospirato biglietto.
Il tempo è prezioso per il buon funzionamento della banca impegnata a depredare soldi alla povera gente che le affida i risparmi accumulati per la sicurezza del domani che, considerando la miseria degli interessi, è sicuramente un obiettivo di lotta e di sabotaggio.
Attaccare le banche, in quanto pilastri del capitalismo, è un diritto/dovere degli anarchici e il falso, usato allo scopo di inceppare o rallentare il lavoro delle stesse, è sicuramente uno strumento di lotta al pari del sabotaggio di casse continue, bancomat, e della dinamite messa di notte negli uffici bancari.
Non pensiamo, e non crediamo lo facciano i compagni autori di questo falso, di sostituire questo strumento di lotta a quelli già conosciuti e applicati, ma pensiamo sia doveroso allargare il campo delle azioni che portano fastidio, che creano disordine nel campo nemico. Questo strumento di lotta vede la nostra approvazione in quanto è facilmente riproducibile, alla portata di tutti (anche economicamente, visto che, a quanto vediamo, le buste sono state spedite con il timbro fotocopiato della stessa BNL), e può avere anche, se ben architettato, effetti di notevole portata.
Certamente il falso può essere anche usato in forma goliardica e per fare qualche scherzo mondiale. Non è il mezzo in se stesso ma gli obiettivi che con esso si vogliono raggiungere che distinguono un’azione goliardica da una forma di lotta.
Nel passato altri compagni hanno usato lo strumento del falso per cercare di minare la credibilità dei canali ufficiali di informazione, per dare diffusione maggiore ad un messaggio valido, per individuare e sfruttare le debolezze del nemico, in ognuno di questi casi esso non è niente altro che uno strumento di lotta.
Nel 1978 a Torino i compagni del Collettivo del contropotere hanno diffuso falsi richiami alle armi in occasione della festa delle “forze armate” portando avanti un’azione politica di lotta contro le strutture militari.
Il 28 settembre 1977 un nucleo di Azione Rivoluzionaria ha interrotto parzialmente le comunicazioni urbane di Milano e ha diffuso un falso volantino a nome delle confederazioni sindacali, dove si denunciavano le condizioni disumane e le torture nelle carceri speciali.
Questi sono solo alcuni esempi della possibile applicazione di questo strumento, però mille altre possibilità esso ci offre, basta affinare un po’ l’intelligenza e mettersi al lavoro.
Banca Nazionale del Lavoro
Sede Centrale di Paleremo
Prot. N. 6112/438/B
Oggetto: Sorteggio biglietti omaggio Mondiali ’90.
Gentile Signore,
La B.N.L. è lieta di comunicarLe che in occasione del Mondiale ’90 ha messo a disposizione 56 biglietti omaggio per ognuna delle città in cui si svolgerà la prestigiosa manifestazione. La Direzione nazionale dell’Istituto, consapevole del proprio contributo al mondo del lavoro e in diverse espressioni dell’attività umana, non poteva disattendere un’occasione di così rilevante portata il cui significato travalica il mero ambito sportivo collocandosi in una prospettiva di pace e di progresso.
La B.N.L. si è trovata in prima fila in questo graditissimo compito divenendo la banca ufficiale della manifestazione, conscia di portare l’8 giugno nel nostro Paese bandiere e popoli diversi accomunati proprio in un momento in cui crollano le barriere ed i muri e la società civile ha fatto suo lo stendardo della democrazia e della solidarietà.
La scelta del Suo nome e degli altri 55 cittadini fortunati di Palermo l’ha già fatta il nostro computer.
La invitiamo, pertanto, a presentarsi presso i nostri sportelli il giorno 11 del c.m. esigendo la presente e un documento di riconoscimento, con i quali potrà ritirare il biglietto utile per una qualsiasi delle tre partite che si disputeranno allo Stadio della Favorita di Palermo.
Per l’occasione verranno messi a disposizione sportelli aperti esclusivamente dalle ore 10 alle ore 11, siti al 291-307 di via Roma.
Distinti saluti
Il direttore responsabile
[Pubblicato su “Provocazione” n. 25, agosto 1990, p. 3]
Test nucleari: a mali estremi, estremi rimedi
Considerato il pervicace menefreghismo dimostrato da Chirac e dalle potenti lobby nucleari, nei confronti dell’inalienabile diritto dell’umanità di vivere in un ambiente sano e incontaminato – e questo a dispetto delle accorate proteste che in tutto il pianeta si sono levate contro la barbarie atomica –, l’associazione Greenpeace, da sempre in prima linea nella lotta per l’ambiente, invita tutti coloro che hanno a cuore il futuro della terra a derogare momentaneamente dai principi di non violenza che hanno finora contraddistinto il nostro movimento.
Quando il potere diventa tirannico e terrorista, il ricorso alla violenza è giusto e necessario.
Di fronte all’incombente minaccia radioattiva, che rischia di trasformare il nostro pianeta in un terribile deserto di desolazione, è giunta l’ora di passare con risolutezza all’azione diretta, al sabotaggio, alla demolizione delle organizzazioni politiche, economiche e sociali che diffondono la morte, nonché all’eliminazione fisica dei responsabili.
Facciamo presto, prima che la catastrofe ponga fine all’umanità intera.
Ass. Greenpeace
V.le M. Gelsomini, 28 – 00153 Roma
Tel. 06/5782484-5780479
[Volantino diffuso nel settembre 1995]
Volantino relativo ad un’azione realizzata a Milano
Alle ore 5 del 28 settembre [1977] un nucleo di Azione Rivoluzionaria ha interrotto parzialmente le comunicazioni urbane di Milano e diffuso un volantino a nome della Confederazione. Volevamo attirare l’attenzione dei lavoratori sul problema della tortura e dei lager. Ci scusino i compagni se abbiamo vestito, ma solo per un momento, i panni luridi della segreteria confederale. Il solo pensare che gli apparati sindacali e di partito siano sensibili al problema della tortura e dei lager è peccare di grave ingenuità. Se qualche volta, nel passato, hanno agitato questi temi, l’hanno fatto solo strumentalmente; una volta associati al potere esauriscono presto i loro tratti democratici e rivelano il volto livido del potere. Domani non esiteranno a sparare sui lavoratori, come fanno già oggi contro i proletari emarginati, ammazzati come tordi su tutte le strade d’Italia, come fanno contro i compagni rivoluzionari.
Carniti lamenta lo strangolamento della democrazia e del dibattito politico operato dal compromesso storico, i socialisti scalpitano di fronte al puzzo tremendo che emana l’alleanza dei nuovi gesuiti laici con quelli clericali, ma chi può credere alle sincere aspirazioni democratiche di costoro?
Se davvero volevano la difesa, non rivoluzionaria, democratica dei diritti civili, dovevano porre un rifiuto netto agli assassinii quotidiani di proletari, alla tortura, ai lager. Un craxiano, Federico Mancini, è andato all’Asinara. Cosa ne ha ricavato? La sua preoccupazione non è stata la sorte dei detenuti politici e comuni, esposti all’arbitrio sadico delle guardie: l’Asinara ha detto, va abbandonata perché è un carcere insicuro!! Dopo tanti appelli umanitari (per salvare Moro) quando un “socialista” visita un lager a cosa si appella? all’umanità? no, alla sicurezza. Evidentemente per Mancini l’umanità è solo della borghesia, dei democristiani e degli idioti come lui. Ancora una volta sicurezza, ordine, potere sono gli idoli cui si sacrifica tutto, anche la moralità. Vi sarebbe una eccezione costituita dal neo-presidente Pertini. Si è fatto un gran parlare delle qualità morali che spiccherebbero in un uomo i cui orizzonti politici non vanno al di là del CLN di augusta memoria e la cui saggezza filosofica si sarebbe raffinata leggendo la cronaca sportiva di Antonio Ghirelli. Ma è tutto oro quel che luce?
I pennivendoli del regime hanno fatto un sacco di congetture sulle potenze straniere che sarebbero dietro il movimento rivoluzionario; di fronte a tanta malignità avanziamo anche noi una congettura che tanto maligna non è e chiediamoci, come il buon giudice Gallucci, innanzitutto chi aveva interesse alla morte di Moro. Moro era il candidato numero uno alla presidenza della repubblica. Chi erano i suoi concorrenti? Si fanno subito due nomi: La Malfa e Pertini. Pietà cristiana e moralità socialista volevano che i due concorrenti si astenessero almeno dal caldeggiare la linea di intransigenza che portava dritta al sacrificio del loro “amico” e “amato” Moro. La Malfa può dimostrare che le sue tendenze forcaiole risalivano a un periodo precedente alla cattura di Moro. È un’attenuante. Ma Pertini? Non ha scoperto troppo repentinamente la sua vocazione forcaiola? Chi l’ha spinto ad abbracciare il partito della morte, l’ala oltranzista e forcaiola del regime (PCI, PRI, DC) sino ai limiti della rottura col suo partito? forse Berlinguer, in cambio della presidenza? Oppure che si sia detto: “La Presidenza val bene una forca?”.
Altre domande si addensano alla mente. Cosa pensa la famiglia Moro del “socialista” Pertini? Gli regalerebbe una macchina blindata? e ancora: cosa ha detto veramente Craxi a Mitterand a proposito della posizione anomala di Pertini?
Pennivendoli del regime, voi che siete capaci di trasformare Corrado Alunni nel più grande mostro del secolo, prendete il filo che vi abbiamo porto, ma per carità di fantasia non dite subito che Pertini è il mandante delle Brigate Rosse. Se volete trovare i complici dovete cercarli all’interno del più grande assassino del secolo, “l’uomo che uccise Aldo Moro”.
Compagni, facciamo nostre le indicazioni che ci vengono dai compagni detenuti all’Asinara. Essi scrivono: “In tutta l’area metropolitana il combattente antimperialista prigioniero è considerato un ostaggio nelle mani dello Stato che tende a sviluppare nei suoi confronti una duplice azione: da un lato un trattamento orientato alla progressiva distruzione della sua volontà, personalità, identità politica attraverso l’isolamento. Dall’altro il suo utilizzo propagandistico in funzione ‘deterrente’ verso le forze rivoluzionarie e proletarie. Su tutta l’area metropolitana a questo ‘trattamento di guerra’ il movimento rivoluzionario è impegnato a rispondere ‘con azioni di guerra’”.
Compagni, rispondiamo al tentativo dello Stato di annientarci con altrettante misure di annientamento. Non credano i fautori della linea dura di nascondersi dietro l’ombra del generale Dalla Chiesa, né credano i fautori della linea morbida di rifugiarsi dietro le “necessità del quadro politico”. Cadranno tutti, travolti dalle macerie dei loro lager di Stato.
Azione Rivoluzionaria
Il falso volantino delle Confederazioni sindacali
PROCLAMATA DALLA FEDERAZIONE C.G.I.L. C.I.S.L. U.I.L. GIORNATA PROVINCIALE DI LOTTA CONTRO LA TORTURA, LE CARCERI SPECIALI E LA SVOLTA REAZIONARIA CHE SI VUOLE IMPORRE AL MOVIMENTO SINDACALE.
LAVORATORI,
la segreteria della Federazione CGIL/CISL/UIL vi chiama ad una giornata di lotta contro la svolta reazionaria in atto nel Paese.
Facciamo nostre le parole di Pierre Carniti: “Siamo in presenza di una svolta che tende a strangolare la Democrazia e il dibattito politico, e far divenire lo Stato onnipotente, di un tentativo, da parte di alcuni partiti d’imporre una svolta moderata al Sindacato”. Una volta che il partito si è fatto Stato, è nella sua logica perversa trasformare il Sindacato in una cinghia di trasmissione. Di qui “il ridimensionamento della contingenza, la regolamentazione dello sciopero e le precettazioni”, di questo passo ci avviamo a una situazione tipo est-europeo, in cui gli apparati di partito dominano incontrastati con la polizia e l’esercito, su milioni di lavoratori e la dissidenza segregata nei manicomi e nelle carceri, viene praticamente annientata.
La Segreteria Confederale non può non denunciare i pericoli insiti in questo processo che ha di fatto portato anche in Italia alla legalizzazione della tortura contro i dissidenti. I fatti di Puteano, di Alcamo, di Roma, fra gli altri, stanno a dimostrare come la tortura stia divenendo prassi normale contro i dissidenti.
I Sindacati non possono, inoltre, ignorare quanto sta avvenendo nelle carceri. Non possono accettare le distinzioni a dir poco bizantine, fra carceri punitive avanzate e lager a proposito dell’Asinara. Infatti, quando un detenuto è costretto in una cella 22 ore su 24 e le due ore d’aria le passa in un cubicolo coperto da una rete metallica tipo gabbia vietnamita, si trova in un lager o in un carcere punitivo? Se ogni protesta viene punita con pestaggi fino ai limiti dell’esistenza, cosa dovremo pensare? Prima di parlare di lager dovremo forse attendere catene di “suicidi” come a Stammhein? In Italia abbiamo già avuto l’esperienza del manicomio di Aversa.
Continuare a tacere su questi punti significherebbe dare il proprio avallo a questa svolta reazionaria i cui fautori sono purtroppo presenti all’interno del Movimento Sindacale.
Continuare, infatti, a negare l’esistenza di detenuti politici in Italia, come è stato fatto da certi leader sindacali, significa appoggiare questo processo liberticida, oltre che negare l’evidenza; infatti, se non esistono detenuti politici, che senso ha la legge che li discrimina dai detenuti comuni e richiede per essi un trattamento speciale?
A forza di negare l’evidenza ci troveremo coinvolti in un processo che con la libertà distrugge anche la verità.
COMPAGNI LAVORATORI, NOI VI CHIAMIAMO AD UNA GIORNATA DI LOTTA PER L’ABOLIZIONE DELLA TORTURA, DEI LAGER, PER RINTUZZARE QUELLA SVOLTA REAZIONARIA CHE VUOLE UN MOVIMENTO SINDACALE SUCCUBE, INERTE OLTRE CHE CIECO E OTTUSO.
SMASCHERIAMO I REAZIONARI CHE SI ANNIDANO NEL MOVIMENTO SINDACALE E VOGLIONO LA SUA MORTE!
ISOLIAMO GLI STRANGOLATORI DELLA DEMOCRAZIA E DEL DIBATTITO POLITICO!
METTIAMO IN CONDIZIONI DI NON NUOCERE LE SPIE DEL NUOVO STATO!
La Segreteria milanese della
Federazione CGIL–CISL–UIL