Luigi Lucheni
Non ho complici. Io sono il mio complice.
Non mi pento di nulla!
Sono certo che rifarei quello che ho fatto!
Luigi Lucheni
Nota introduttiva
All’1,35 del 10 settembre 1898 l’anarchico Luigi Lucheni uccide sulla riva del lago di Ginevra la principessa Sissi, colpendola al petto con una lima.
Lucheni non ha la bellezza fisica di Caserio né la preparazione intellettuale di Henry né la tracotanza affascinante di Ravachol, è un povero manovale. Il suo gesto non ha quindi mai incontrato la fortuna che ha da sempre accompagnato le azioni di altri anarchici. In più, colpisce una donna, e in particolare una icona (falsa, come tutte le icone) della belle epoque, la moglie di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria.
Eppure quest’azione ha molto da insegnare nella sua esemplarità. Il comportamento di Lucheni, a volte perfino puerile nell’entusiastica accettazione del proprio destino, è unico. Non si lascia abbattere, contrattacca sempre, rivendica, non intende nemmeno fuggire per meglio assicurare la leggibilità rivoluzionaria del suo gesto, non fa nomi e si porta il suo segreto nella tomba.
Molto si potrebbe dire sulla “povera” Sissi, fantasma edulcorato perfino da una cinematografia da rotocalco, ma sarebbe un’analisi inutile. Quello che conta è che era una imperatrice, la moglie, consolatrice remota e arcigna – se si vuole perfino peggiore – dell’imperatore austriaco.
Lucheni, nel corso dei tanti interrogatori, espone bene i motivi del suo gesto. In fondo gli anarchici, in questo genere di decisioni, non hanno mai avuto soverchi dubbi.
Un povero manovale si erge da solo contro un monumento storico. Lo scontro è impari, ogni confronto perdente, eppure, alla fine, la coerenza morale dell’anarchico emerge in tutta la sua purezza. È la sua vita che egli mette in gioco, niente di più, niente di meno.
Trieste, 2 dicembre 2008
Alfredo M. Bonanno
* * * * *
Non c’è alcuna differenza tra monarchia e repubblica. Nobili, borghesi e Chiesa, sono un’unica cosa. Tutti vivono sfruttando il sudore e la miseria dei contadini e dei lavoratori diventando sempre più ricchi e più grassi
Luigi Lucheni
Come e perché ho ucciso la principessa Sissi
Il giudice istruttore Charles Léchet, alle due del pomeriggio del 10 settembre 1898, riceve la notizia che l’imperatrice d’Austria Elisabetta, moglie di Francesco Giuseppe, è stata uccisa in un luogo non precisato del cantone di Ginevra. Si reca subito al palazzo di giustizia in Place du Bourg-de-Four. Lì trova Luigi Lucheni, arrestato sul fatto.
«Vi si accusa del tentato omicidio di Sua Maestà l’Imperatrice d’Austria. Confessate di aver fatto ciò?».
«Sì».
«Vi potete sedere se volete. Come vi chiamate?».
«Lucheni».
«Nome di battesimo?».
«Luigi».
«Quando siete nato?».
«23 aprile 1873».
«Dove?».
«A Parigi».
«Ma non siete italiano?».
«Sì».
«Nome di battesimo di vostro padre?».
«Non lo so».
«Figlio illegittimo?».
«Sì».
«Nome di battesimo di vostra madre?».
«Luigia».
«Siete cresciuto a Parigi?».
«No».
«Dove allora?».
«A Parma».
«Sposato?».
«No».
«Occupazione?».
«Manovale».
«Dove abitate?».
Silenzio.
«Mi avete capito?».
«Sì».
«Allora? Voglio sapere dove abitate!».
«Rue d’Enfer n° 8».
«Qui a Ginevra?».
«Sì».
«Da quanto tempo siete a Ginevra?».
«Dal 5 settembre».
«E dove eravate prima?».
«A Losanna».
«Per quanto tempo siete rimasto lì?».
«Sono arrivato a Losanna il 20 maggio».
«Di quest’anno?».
«Sì».
«Dove abitavate a Losanna?».
«Alla Pensione Matthey, Rue Mercerie 17».
«Cosa facevate a Losanna?».
«Quello che tutti i miei connazionali fanno all’estero: lavorare».
«Dove?».
«Nei cantieri per la costruzione del nuovo palazzo delle Poste. Di fronte alla chiesa».
«Quindi, se abbiamo capito bene, voi siete arrivato qui direttamente da Losanna cinque giorni fa».
«Sì».
«Vi chiamate Lucheni, vero?».
«Sì».
«State mentendo! Voi non vi chiamate Lucheni!».
«Sì».
«Va bene. Ma permettetemi di ricordarvi che non ha senso mentire».
«Non sto mentendo!».
«Meglio così».
«Avete lasciato il vostro lavoro a Losanna così, di punto in bianco?».
«Ho avuto un incidente sul lavoro».
«Perché siete venuto a Ginevra? Cosa volete qui?».
Silenzio.
«Dovreste sapere per quale motivo siete venuto a Ginevra!».
«Certo che lo so». «Ho letto sui giornali – a Losanna – che il principe d’Orléans era a Ginevra».
«E, allora?».
«Sono venuto qui per ucciderlo!».
«II pretendente al trono di Francia?».
«Sì».
«Vi rendete conto di quello che state dicendo?».
«Ma certo».
«Vi state accusando intenzionalmente? Incredibile!».
«Mi costituisco. Volevo uccidere il principe d’Orléans. Ma a Ginevra ho sentito dire che era già ripartito per il cantone vallese. Per tornare indietro, però, doveva comunque riattraversare il lago con il vaporetto».
«Come avete scoperto tutto questo?».
«Dai giornali. Per due giorni l’ho aspettato sul molo dove partivano e arrivavano i battelli. Il 7, poiché non era ancora arrivato, sono adato a Evian».
«Perché?».
«Ad Evian soggiornano molte persone importanti. Il principe d’Orléans poteva essere lì. Ma non l’ho trovato. Così il giovedì sono tornato a Ginevra: ho deciso, quindi, di uccidere una personalità qualsiasi, principe, re o presidente della repubblica; tanto sono tutti della stessa razza!».
Al telefono Léchet riceve la notizia della morte dell’imperatrice e lo comunica a Lucheni il quale urla:
«Viva l’anarchia! Viva gli anarchici!».
Dall’interrogatorio della contessa Sztáray, dama di compagni dell’imperatrice, tenutosi lo stesso giorno
«Circa all’1,35 io e l’imperatrice abbiamo attraversato la strada e ci siamo dirette lungo la riva del lago, verso l’imbarcadero. Il sole picchiava e Sua Maestà ha aperto l’ombrellino».
«Eravate sole».
«Sì. Nei pressi dell’Hotel de la Paix, davanti al quale, dall’altra parte della strada, stazionava un cocchiere con la sua carrozza, si avvicinò un uomo. Proprio davanti a noi ha fatto finta di inciampare; la sua mano si è mossa in modo strano, pensavo stesse cercando un appiglio per non cadere. Non mi sono accorta di altro in quel momento».
«Ha visto per caso un’arma nella mano dell’uomo?».
«Sono pronta a giurare che non aveva nulla in mano. Proprio nulla».
«Cosa successe poi?».
«L’imperatrice cadde a terra senza far rumore. Capii allora che quell’essere doveva averla colpita. Aveva un’aria così poco convincente. Non riuscii subito a realizzare che la situazione era ancora più grave, anche perché non appena mi chinai terrorizzata su di lei, Sua Maestà cominciò a rialzarsi. Due cocchieri ci hanno aiutato. In pochissimo tempo Sua Maestà era nuovamente in piedi davanti a noi. Rideva. Agitatissima, le domandai in ungherese “Come state Maestà? Le è successo qualcosa?”. “No”, rispose con calma. Nel frattempo il portiere dell’Hotel Beau-Rivage ci ha raggiunte; aveva assistito all’orribile scena e ci pregò insistentemente di ritornare all’albergo. “Perché?”, chiese l’imperatrice. “Dobbiamo sbrigarci se vogliamo prendere il vaporetto!”. Si sistemò il cappello che aveva perduto, prese ventaglio e ombrellino, salutò i presenti e iniziò a camminare».
«Come se non fosse successo niente?».
«Come se non fosse successo niente. Si avvicinò a me e mi prese sotto braccio. Il portiere ci comunicò che il delinquente era stato fermato. “Cosa ha detto il portiere?”, chiese l’imperatrice. Mi meravigliai di questa domanda, Sua Maestà ha un udito molto fine. La guardai. Mi accorsi che faceva fatica a camminare e la pregai con insistenza di dirmi ciò che aveva. “Credo che mi faccia un po’ male il petto”, mi rispose. “Ma non sono molto sicura”. Raggiungemmo l’imbarcadero. Anche lungo la passerella che ci portava sul battello, il suo passo non era molto sicuro. Appena arrivata sul vaporetto mi disse con voce soffocata: “Presto il suo braccio! Presto, per favore!”. Non riuscivo a sorreggerla; caddi in ginocchio con lei, la sua testa appoggiata sul mio petto. Urlai “Un medico! Un medico!”. L’imperatrice giaceva abbandonata nelle mie braccia, pallida. Il servitore che ci aveva accompagnato sul battello portando i nostri soprabiti, mi passò dell’acqua. Non appena ne spruzzai un pochino sul suo volto, l’imperatrice aprì gli occhi. Con orrore notai nei suoi occhi la morte».
«Cosa pensa sia successo?».
«Ero convinta che avesse avuto un attacco di cuore. Qualcuno disse che era meglio portare l’imperatrice svenuta sul ponte superiore, dove avrebbe ripreso più velocemente i sensi. Due uomini la presero in braccio, la portarono di sopra e la distesero su una panca. Nel frattempo il battello era partito. Avevano ragione; con l’aria fresca l’imperatrice tornò in sé. Apri gli occhi e rimase qualche minuto a vagare con lo sguardo. Poi, con il mio aiuto, si mise a sedere. “Cosa mi è successo?”, mi domandò. Queste furono le sue ultime parole; svenne di nuovo. Le aprii la camicia e il busto di seta per permetterle di respirare meglio. Non appena allentai i nastri, notai sulla maglia sottostante una macchia scura, grossa come una monetina. Spostai la maglia e scoprii una piccola ferita all’altezza della regione cardiaca. Una gocciolina di sangue ristagnava. In quel momento capii la gravità della situazione. L’imperatrice era stata pugnalata! Non capivo come avevo fatto a non accorgermi prima di quello che era successo. Chiamai il comandante del battello e gli dissi: “Sulla sua barca giace ferita a morte Sua Maestà l’Imperatrice Elisabetta d’Austria, Regina d’Ungheria. Non la si può far morire senza cure mediche e senza i conforti religiosi. Per favore dia l’ordine di ritornare subito indietro!”. Il comandante si allontanò senza parlare; e il vaporetto invertì la rotta, direzione Ginevra».
Seconda parte dell’interrogatorio di Lucheni
«Affermate sempre di chiamarvi Luigi Lucheni?».
«Mi chiamo Lucheni!».
«Ah, già! È vero! Dunque, raccontatemi ora il fatto».
«Era appena suonata l’una e trenta, quando ho visto uscire dall’albergo l’imperatrice, in compagnia di quella signora con cui aveva passeggiato già ieri e stamattina».
«Avete detto: “… con cui aveva passeggiato già ieri e stamattina”?».
«Sì. Proprio così».
«Come fate a saperlo?».
«Come faccio a saperlo? Perché le seguo da ieri, altrimenti come?».
«Bene. Continuate pure il vostro racconto. Quindi, avete visto l’imperatrice e la sua dama di compagnia lasciare l’albergo».
«Sì. Camminavano lungo la riva del lago, il Quai du Mont-Blanc. Le precedeva un uomo… un servitore… con due cappotti sul braccio… cappotti, che potevano appartenere solo a delle signore di buona società; era uscito dallo stesso albergo dell’imperatrice ed era diretto al battello “Genève”. Sapevo che il battello partiva alle ore 1.40 per Territet, vicino Caux. E a Caux sapevo che l’imperatrice passava le acque».
«Come facevate a saperlo?».
«Dai giornali. Ho capito che quel servitore doveva essere dell’imperatrice e che quindi anche lei avrebbe viaggiato su quella nave. Poco dopo anche l’imperatrice è uscita dall’albergo, insieme a quell’altra donna».
«E…?».
«Tutto si è svolto secondo i miei piani!».
«Tutto si è svolto secondo i vostri piani?».
«Altrimenti come?».
«Però avete commesso un errore. Avete agito su commissione! Ora ne abbiamo le prove! Bene. Ora voi ci direte chi vi ha commissionato l’infame delitto. Immediatamente! Vogliamo saperlo subito. Parlate!».
«Potete credere ciò che volete. Tutto si è svolto come io avevo previsto. Io solo! Si sono avvicinate a me. Entrambe. L’avevo già vista a Budapest e quando…».
«Avete detto che avevate già visto l’imperatrice una volta a Budapest? Quando è stato?».
«Quattro anni fa. Io ero a Budapest e l’imperatrice pure».
«E l’imperatrice si è avvicinata così tanto a voi che siete riuscito a vederle chiaramente il viso e a riconoscerla senza alcun dubbio?».
«Esattamente».
«Bene. Dove eravate appostato questa mattina?».
«Mentre loro uscivano, io ero appoggiato alla ringhiera lungo la riva del lago».
«Dove precisamente?».
«Tra l’Hotel de la Paix e l’attracco dei vaporetti».
«Ma l’imperatrice è stata pugnalata di fronte allo spazio riservato ai fiaccherai».
«È così. Le sono corso incontro e le ho sbarrato la strada. Mi sono chinato e ho guardato sotto l’ombrellino. Non volevo colpire la persona sbagliata. Entrambe vestono sempre di nero. Non era neanche particolarmente bella. Già piuttosto vecchia. Chi dice il contrario non l’ha proprio mai vista. Oppure mente!».
«Poi cosa è successo?».
«Niente. L’ho colpita. Tutto qua».
«Con che cosa?».
«Con un’arma molto appuntita ed affilata».
«Con una lima?».
«Sì».
«Chi ve l’ha data?».
«Nessuno. L’ho comprata otto giorni fa».
«Dove?».
«A Losanna».
«Dove esattamente? Da chi?».
«Da un robivecchi. Da qualche parte nella città vecchia. Più di così non riesco proprio a ricordare. Mi dispiace».
«Avete comprato la lima per usarla espressamente nell’attentato contro l’imperatrice?».
«L’ho comprata per usarla espressamente in un attentato. All’imperatrice ancora non pensavo».
«Continuate a raccontare».
«Quando le ho inferto il colpo, sapevo benissimo che sarebbe morta. L’ho colpita con tutta la mia forza e ho sentito l’arma penetrare profondamente nel suo petto. Si è accasciata non appena è stata colpita. Poi sono corso via».
«E l’arma?».
«Nessuno l’ha trovata?».
«No. Dove l’avete lasciata?».
«L’ho buttata via».
«Dove?».
«Da qualche parte».
«La vostra fuga aveva una destinazione precisa? Dove volevate andare? Non riflettete! Rispondete!».
«Non volevo fuggire».
«Non volevate fuggire? Quindi siete corso via il più velocemente possibile… così, per divertimento?».
«Cercavo la polizia. All’inizio questo era il mio piano. Mi volevo costituire per poter spiegare davanti a tutti perché avevo agito in quel modo».
«Perché non siete rimasto sul posto? Sarebbe stato più logico».
«Non avevo voglia di fare la stessa fine di Caserio. Linciato da una folla impazzita, mezzo morto, prima dell’arrivo della polizia».
«Vorreste forse dirmi qualche cosa ancora? La vostra fuga, il cui motivo dovete ancora rendere plausibile, è terminata poco dopo il fatto, a poche centinaia di metri dal luogo del delitto. Da ore la polizia sta cercando l’arma, senza alcun risultato. Come spiegate tutto questo? Va bene. Volete aggiungere qualcosa?».
«Ammetto che il mio unico scopo era di uccidere l’imperatrice austriaca, la notizia della sua morte mi ha reso molto contento. Sono un anarchico!».
«Vi siete proposto tale scopo da solo?».
«Nulla era stato studiato. Il grande Bakunin ci ha indicato la via per scioglierci dalle catene!».
«Quali catene?».
«Le catene che l’aristocrazia depravata e la borghesia capitalista ci hanno imposto!».
«Voi sapete con esattezza dove conduce la via del vostro grande Bakunin?».
«Anche voi siete un borghese e non sapete di cosa si tratta. Io credo nella propaganda dell’azione. E come me molti altri. Migliaia e migliaia in tutto il mondo. Solo così si vincerà».
«Ancora una domanda. Come avete fatto a sapere che l’imperatrice soggiornava a Ginevra?».
«Dai giornali».
«Avete precedenti penali?».
«No. Non che la cosa giochi a mio favore».
«Non provate rimorso per aver gravato la vostra coscienza di un’azione cosi infame?».
«Coscienza? Anche le persone come me hanno una coscienza, così per lo meno si dice; ma mai nessuno ha voluto riconoscerle dignità. Chi vive nella miseria da migliaia di anni; chi è sempre stato tormentato dai potenti e dai ricchi – o da uno solo –, chi è dovuto morire nelle loro guerre, non deve pentirsi di niente!».
Continuazione dell’interrogatorio del 10 settembre 1898
«Mi è stato chiesto dove abito. Quindi ho risposto Rue d’Enfer numero 8. Sono stato lì le ultime due notti. Poi ho detto che da mercoledì a giovedì sono stato a Evian. Pertanto non posso aver alloggiato dalla signora Seydoux dal 5».
«Dove avete dormito dal 5 al 7?».
«Sempre nella città vecchia».
«Dove precisamente? Da chi?».
«Mi dispiace, non so l’indirizzo. Mentre camminavo ho letto che si affittavano camere e sono entrato. Non sono molto bravo con i nomi delle strade».
«Farò controllare tutti i registri di tutti gli affittacamere della città vecchia. Così vedremo se dite la verità!».
«Vi potete risparmiare la fatica. Nessuno mi ha chiesto generalità e documenti».
«Non vorrete farmi credere che un uomo della vostra intelligenza ha dormito da qualche parte e non sa dove e presso chi?».
«Credo che sopravvalutiate la mia intelligenza».
«Quando siete arrivato a Ginevra?».
«Il 5, verso l’una del pomeriggio».
«Bene. Voi sostenete di non sapere dove avete dormito le prime due notti. Ma avrete ben mangiato! Forse, mentre passeggiavate, siete entrato in un qualche locale… Due giorni sono molto lunghi! Avrete ben parlato con qualcuno. Fatemi i nomi di due o tre persone – è sufficiente anche una – che avete visto e con cui vi siete fermato a parlare. Qui a Ginevra, intendo dire. Tra lunedì e mercoledì, come avete detto voi. Tra il 5 e il 7 settembre! Un cameriere, un giardiniere di uno dei tanti parchi che ci sono, un poliziotto a cui magari avete chiesto un’indicazione, un commesso in un forno. Avrete ben comprato un pezzo di pane! O no?».
«Non ho parlato con nessuno».
«E impossibile! Pensateci bene!».
«Non ho parlato con nessuno».
«E non avete mangiato niente? Per tutto quel tempo non siete entrato in nessun negozio e in nessun locale? Non avete bevuto neanche un bicchiere di vino?».
«Sì, ma non mi ricordo dove».
«Va bene, lasciamo stare. Chi era quel giovane che ha pernottato con voi dalla Seydoux?».
«Non lo conoscevo».
«Forse non mi avete capito. Vi sto chiedendo di quel vostro amico con cui l’altro ieri, giovedì, siete andato dalla Seydoux…».
«Non era un mio amico».
«Come volete. Però vi accompagnava».
«Sì».
«Allora. Per quattro volte voi avete pagato anche per lui; trenta centesimi alla volta per il letto che avete poi diviso – quello a destra vicino alla porta, nella camera dove dormono altri due vostri connazionali. Vero?».
«Sì».
«Bene. E di questo uomo con cui siete arrivato giovedì, con cui avete lasciato la casa venerdì mattina presto, con cui la sera stessa avete diviso il letto… con cui stamattina siete andato via dalla casa di Rue d’Enfer… di questo uomo io parlo. Voglio sapere il nome!».
«Vi ho già detto che non lo so. Era un mio connazionale e un anarchico come me. Gli anarchici non si chiedono il nome tra di loro. L’ho incontrato sul battello… durante il viaggio da Evian a qui».
«Come facevate a sapere che era un anarchico?».
«Quando uno è anarchico riconosce facilmente i suoi pari».
«E come?».
«Non posso spiegarlo ad un borghese».
«Come mai avete pagato per lui se nemmeno lo conoscevate? E un qualcosa di usuale tra anarchici?».
«Sì. Chi ha del denaro, paga. Per noi il denaro non conta niente. Spendere soldi per un compagno è il modo migliore di usare il denaro».
«E dove è adesso questo compagno?».
«Ginevra non gli piaceva. Voleva andarsene».
«Dove?».
«Non ci siamo chiesti nulla. Né il nome, né niente altro».
«Un sistema molto pratico».
«Sì».
«Voi e il vostro… compagno sconosciuto avete affittato un letto per due notti. Vero?».
«Sì».
«Perché?».
«Non avevo soldi a sufficienza per permettermi un più lungo soggiorno».
«E, in più, entrambi volevate oggi uccidere l’imperatrice Elisabetta».
«Solo io volevo uccidere una persona importante appena me ne fosse capitata l’occasione. È così! Al mio compagno queste cose non interessano. Ma io stesso giovedì non sapevo che oggi avrei avuto la fortuna di poter attuare il mio piano».
(Cancelliere) «Devo scrivere anche questo?».
«Volete che le vostre ultime affermazioni vengano riportate nel verbale?».
«Perché no! Voi sembrate così scontento di sentire la verità. Questa è la verità!».
«Vorrei tanto sapere dove avete soggiornato a Evian, se ve lo ricordate».
«Certo che me lo ricordo».
«Mi fa molto piacere».
«In un café, al piano di sopra si poteva anche dormire. Ce ne sono tanti così a Evian. Naturalmente il nome della via, se pure ce n’era uno, non lo so. In confronto a Ginevra, Evian è un piccolo borgo».
«Siete almeno in grado di descrivere dove si trovava quel café?».
«No. Ma se fossimo sul posto potrei anche farlo».
«Evian è in Francia! Credete che un giudice svizzero e un detenuto italiano in attesa di giudizio possano passeggiare così facilmente sul suolo francese?».
«Questo dovreste saperlo voi meglio di me. Io più di dirvi che sarei disposto a mostrarvi direttamente sul posto dove ho dormito, non posso fare».
«Prima avete voluto farmi credere che avevate abitato a Rue d’Enfer dal 5. Poi, credendo di averci convinto, avete affermato di non sapere dove avevate trascorso i giorni precedenti. Dite di non sapere né l’indirizzo di Ginevra, né quello ad Evian. Infine, dell’uomo con cui avete vissuto giorno e notte per ben due giorni, dite di non conoscere nemmeno il nome di battesimo. Ma chi può credere a tutto questo? Il procuratore generale? La giuria? Chi?».
Silenzio.
«Dovete rispondere immediatamente quando vi chiedo qualcosa. Oppure, se preferite, vi lascio un paio di giorni in cella di isolamento. Così facendo, a tante altre persone è ritornata la memoria! Vi passerà la voglia di ridere».
«Perché siete così cattivo con me? Mi avete. E avete anche la mia confessione. Non è sufficiente?».
Inventario degli effetti personali, di proprietà di Luigi Lucheni
4 monete della Confederazione svizzera del valore di 10 centesimi l’una;
1 moneta della Confederazione svizzera del valore di 20 centesimi; 1 moneta della Confederazione svizzera del valore di 50 centesimi.
Inoltre:
3 monete francesi del valore di 10 centesimi l’una; l moneta francese del valore di 5 centesimi;
l moneta belga corrispondente a 5 franchi belgi.
L’ammontare dei contanti permetteva di arrivare alla conclusione che l’attentatore non doveva aver soggiornato troppo tempo né in Francia né in Belgio. Entrambi i Paesi erano centri del movimento anarchico.
1 piccola busta di stoffa contenente: 7 buoni pasto della mensa cittadina della città di Ginevra, ognuno dei quali del valore di 10 centesimi.
1 foglio di servizio.
1 foglio di conferimento della medaglia d’Africa.
1 fotografia in uniforme della cavalleria italiana.
1 lista degli ospiti stranieri presenti a Evian dal 3 al 5 settembre 1898.
4 mozziconi di sigaro.
Lettera di Lucheni, indirizzata a Giuseppe Turco, proprietario e caporedattore del giornale liberale di Napoli “Don Marzio”
Ginevra, 11 settembre 1898
Signor Direttore,
Il Vostro giornale mi sembra il più adatto al mio scopo: dare alcune spiegazioni. Per questo ho deciso di rivolgermi a Voi. Inoltre, la maggior parte dei miei conoscenti vive a Napoli.
Vi prego di opporvi a quei giornali (o forse dovrei dire a tutti i giornali) che osano classificarmi come un assassino nato, rifacendosi alle teorie di quel professore (di nome Lombroso, se non sbaglio) che sostiene che la consistente grandezza della testa di una persona sia il segno della sua potenzialità a diventare un assassino. Mi dispiace molto dovergli comunicare che, se crede di aver scoperto l’America, si sbaglia di grosso. Almeno nel mio caso.
Vi prego inoltre di opporvi a tutti quei giornali che sostengono che Lucheni abbia agito a causa della miseria. Anche questo è completamente falso!
Concludendo, voglio precisare: se le classi dominanti non ammetteranno di sfruttare il prossimo, a loro verrà inflitta la stessa punizione che il sottoscritto ha già imposto ad un’altra persona. Non solo nei confronti di sovrani, presidenti o ministri, ma verso tutti coloro che opprimono il prossimo. Non è molto lontano il giorno in cui i veri amici dell’umanità elimineranno gli sfruttatori, come io ho già scritto. Per costruire un nuovo mondo, è sufficiente un solo motto: Solo chi lavora può mangiare!
Il Vostro obbligato Luigi Lucheni
anarchico convinto
Risultato dell’autopsia durata 55 minuti
Dall’esame della salma di Sua Maestà l’imperatrice e Regina Elisabetta, che si è svolto alla presenza dell’imperial regio ambasciatore Conte Kuefstein, del luogotenente feldmaresciallo von Berzeviczy, della dama di corte contessa Sztáray, del procuratore generale e del giudice istruttore, è stata constatata una ferita da punta lunga circa otto centimetri e mezzo, che è penetrata nella cassa toracica all’altezza della quarta costola e che ha attraversato il polmone e il cuore, provocando una forte emorragia interna; la morte è stata graduale e indolore.
Dichiarazione del prof. Reverdin
Poiché i tre spigoli dell’arma erano stranamente molto affilati, all’inizio l’emorragia era davvero insignificante. Pertanto, il sangue scorreva fuori dal cuore e si andava a raccogliere nel pericardio. Fino a quando quest’ultimo non è completamente pieno di sangue, bloccando così l’attività cardiaca, la persona riesce a vivere. In questo periodo di tempo, l’imperatrice camminò dal luogo dell’attentato fino al battello. Con il cuore trafitto. L’uscita del sangue nel pericardio ha man mano bloccato l’attività cardiaca fino a farla completamente fermare. Questo lento processo è la spiegazione fisiologica del perché la sovrana si sia risollevata e senza l’aiuto di nessuno abbia ripreso a camminare. Tuttavia, ci vogliono un’insolita forza di volontà e un enorme autocontrollo di base, che solo pochi uomini al mondo hanno.
Interrogatorio dell’11 settembre 1898
«Avete seguito l’imperatrice e la contessa Sztáray, di nascosto, mentre le due signore facevano un giro in città».
«Chi vi ha raccontato tutto questo?».
«Non ha importanza. Sappiamo anche qualcosa di più. Sappiamo che dopo l’attentato due tipi vi aspettavano alla stazione. Poiché voi non siete arrivato, i vostri due amici sono saliti su un treno per il confine francese, alle 14.10. Credo che sia ora che voi confessiate tutto. Una confessione piena. Ciò significa che noi vogliamo sapere non solo chi erano quei due tipi della stazione, ma anche i nomi di tutte le persone che fin dall’inizio sapevano del vostro piano e che vi hanno aiutato a realizzarlo. Cercate di essere franco e onesto».
«Amen!».
«Sarebbe meglio smetterla di sfidare il mondo intero; potrebbe solo danneggiarvi. Potrebbe essere pericoloso continuare a negare circostanze di cui noi abbiamo già le prove».
«Quali circostanze?».
«È vero che ieri mattina, verso le 10, eravate seduto su una panchina nelle vicinanze dell’Hotel Beau-Rivage? Sì o no?».
«Lo ammetto».
«Ammettete che sulla panchina avete parlato con un uomo sulla cinquantina, ben vestito, e con una barba bianca?».
«Perché non dovrei ammetterlo!».
«Chi era quell’uomo? Chi era quell’uomo con la barba bianca?».
«Un cittadino di Ginevra. In un primo momento l’ho scambiato per un ospite dell’albergo, visto che era così distinto. Mi sono intrattenuto un po’ con lui – se ancora non lo sapeste!».
«Sappiamo molto di più di quello che potete immaginare! Voi avete parlato di viaggi e di fuga! Cosa mi dite in proposito?».
«Non mi ricordo il tema della conversazione. Forse parlavamo di viaggi, non di partenze. E sicuramente non di fughe. Ho cominciato a parlare con quel signore esattamente come fanno tutte le persone sedute su una panchina che hanno voglia di scambiare qualche parola con il proprio vicino. Ciò non significa necessariamente parlare di fughe!».
«Quell’uomo non era un cittadino di Ginevra!».
«Davvero? Mi ha detto di essere di Ginevra. Ma se voi lo sapete meglio di me, lungi da me il contestarvi».
«Avete parlato in italiano con lui!».
«Sì, alla meno peggio. Pensavo volesse rinfrescare la sua conoscenza della lingua italiana. Forse era così gentile con me proprio per questo. Solitamente delle persone così garbate sono molto più riservate con gente come me».
«Siete un attore perfetto, Lucheni. Ma non ci ingannate. Per vostra sfortuna sappiamo che la sera prima dell’omicidio voi, quell’“innocente cittadino ginevrino” e quel giovane con cui avete dormito dalla Seydoux, avete pedinato l’imperatrice. Forse volevate ucciderla venerdì, ma non ve ne è capitata l’occasione. È così?».
«Queste sono solo fantasticherie! Io non ho complici! Ho degli amici, è vero. Molte migliaia. Decine di migliaia».
«Cosa significa “amici”?».
«Non è difficile capirlo. Guardatevi attorno. Li potete trovare alla mercé dei ricchi e degli schiavisti capitalisti. Nelle fabbriche buie e ammuffite. Nei campi che fin dall’inizio dell’umanità sono stati lavorati dagli affamati per saziare i ricchi. Le prigioni di questo mondo non basterebbero a rinchiudere tutti i miei amici! Tutti erano già pronti ad aiutarmi; dovevo solo chiamarli. Ma io non avevo bisogno del loro aiuto».
«In base alla vostra dichiarazione, facevate già la posta all’imperatrice da venerdì! Lo avete sottoscritto e noi abbiamo anche un testimone oculare».
«È vero che venerdì ho aspettato l’imperatrice davanti all’Hotel Beau-Rivage. Ho visto lei e la sua dama scendere da una carrozza e entrare nell’albergo. Questo era tutto quello che mi interessava sapere. Ho lasciato il mio posto di osservazione e me ne sono andato».
«Quando è successo questo? A che ora?».
«Poco dopo le sei di sera».
«E dove siete andato poi?».
«In Rue d’Enfer».
«Mentite di nuovo! Non potete essere andato in Rue d’Enfer alle sei di sera! Madame Seydoux non vuole nessuno in casa fino alle otto!».
«Vero. Sono rimasto seduto un po’ su una panchina nel Jardin Anglais e poi sono andato dalla Seydoux».
«Con chi?».
«Da solo».
Interrogatorio del 12 settembre 1898
«Perché sostenevate di aver ucciso l’imperatrice con un pugnale? Non avete pensato al fatto che l’autopsia avrebbe confutato la vostra tesi anche se l’arma non fosse stata ritrovata?».
Silenzio.
«Perché volevate tanto nascondere l’esistenza dell’arma? Ci deve pur essere un motivo».
«Non c’è alcun motivo in particolare. Siete stato voi a mettermi in bocca la parola pugnale!».
«Mi pare piuttosto che fino ad ora sia stato sempre molto difficile mettervi in bocca qualcosa che non volevate! Come è venuta in vostro possesso quella lima?».
«L’ho comprata».
«Quando? Dove?».
«A Losanna. Al mercato vicino a Place de la Riponne. Era su una bancarella. Da circa due settimane. Veramente volevo comprare un coltello, ma era troppo caro per me. Così ho deciso di comprare una lima. Dovevo solo fare il manico e poi sarebbe stata perfetta. Ho intagliato un pezzo di legno in modo che potesse stare bene in mano. Per la lima ho pagato un franco. Non ho avuto altre spese».
«Siete fiero della vostra trovata della lima?».
«Sì».
«Lo vedo. Tuttavia rimango stupito dal fatto che non ci abbiate sciorinato prima questa splendida storia».
Silenzio.
«Va bene. Lasciamo stare per il momento. Raccontateci qualcosa di Budapest. Avete detto di aver visto l’imperatrice Elisabetta in questa città, vero?».
«Sì».
«Quando siete stato a Budapest?».
«Quattro anni fa, nel 1894».
«Questo lo sapevo già. In quale mese? Per quanto tempo? Da quando a quando? Dove abitavate? Dove lavoravate? Allora?».
«Doveva essere in primavera».
«Cosa intendete per primavera? Marzo, aprile, maggio o giugno?».
«Non me lo ricordo con precisione. Era già abbastanza caldo. Credo in giugno. O forse in luglio».
«Luglio non è in primavera!».
«No».
«Allora non era in primavera. Bene. Dove abitavate a Budapest?».
«Nel decimo distretto, nel rione Steinbruch. Il nome della strada non lo so più. Ci sono rimasto meno di due settimane. Anche perché ho trovato da lavorare solo per cinque giorni».
«Dove? Da chi?».
«In un cantiere di lavori stradali. Ho dimenticato il nome del datore di lavoro. Era così complicato. Intendo dire per uno straniero come me».
«E a Budapest avete visto l’imperatrice?».
«Sì».
«Venne dove stavate lavorando?».
«No. Era un giorno in cui non lavoravo. Ho fatto una passeggiata per vedere un po’ la città, la parte vecchia, sull’altra riva del Danubio. L’imperatrice mi passò vicino; era su una carrozza aperta. Nelle vicinanze del castello».
«Dimenticate facilmente tante cose, ma il viso della vostra futura vittima ve lo siete impresso in modo indelebile nella memoria!».
«Sì».
«Perché? Avevate già all’epoca intenzione di uccidere l’imperatrice?».
«No. Non ci pensavo ancora».
«Da quando siete un anarchico?».
«Da quando ho cominciato a ragionare. Ero amareggiato per come veniva trattata e sfruttata la gente come me. Ho iniziato ad incolpare le autorità, lo Stato e la Chiesa della nostra miseria. Più tardi capii che coloro che ci governavano e che ci reprimevano violentemente con l’aiuto della polizia e dei soldati, non avevano alcuna intenzione di cambiare la situazione. Anzi. Volevano mantenere le cose così come erano, tutto a loro vantaggio. Non c’è alcuna differenza tra monarchia e repubblica. Nobili, borghesi e Chiesa sono un’unica cosa. Tutti vivono sfruttando il sudore e la miseria dei contadini e dei lavoratori, diventando sempre più ricchi e più grassi».
«Da quando siete anarchico dichiarato?».
«Ho cominciato a interessarmi maggiormente alla cosa quando facevo il servizio militare».
«Fate parte di un gruppo o di un’organizzazione anarchica?».
«No. Sono un anarchico solitario. Respingo qualsiasi forma di associazione. Le vere idee anarchiche non ammettono alcun tipo di organizzazione. Un’organizzazione, anche la più semplice, richiede burocrazia, e la burocrazia non è altro che l’elemento essenziale dell’odiata autorità statale».
«Per quanto tempo siete andato a scuola?».
«Circa due anni. Mi sarebbe piaciuto studiare per dieci o quindici anni come voi. Ma verrà un giorno in cui le scuole e le università saranno aperte a tutti. Anche ai più poveri e disgraziati».
«Avete detto di essere nato a Parigi. Quando avete lasciato la città?».
«Dovevo essere molto piccolo. I miei primi ricordi riguardano l’ospizio per trovatelli di Parma».
«Cosa sapete dei vostri genitori?».
«Niente. Non li ho mai conosciuti e nessuno mi ha mai parlato di loro. Mia madre mi ha rinnegato il giorno stesso in cui sono nato; mio padre ancora prima, quando mi ha concepito. Quando ho cominciato a ragionare vivevo con degli esseri avidi che si definivano miei genitori adottivi e che riuscirono a comprarsi un negozio con le poche lire che lo Stato dava loro per me».
«Dove è successo tutto questo?».
«A Parma. E più tardi nelle vicinanze della città, presso nuovi genitori adottivi. In un piccolo paese chiamato Varano. Andavo a scuola a quell’epoca. Ma contemporaneamente dovevo guadagnare dei soldi e darli a loro. Prima ho fatto il giardiniere e il cameriere per i parroci dei comuni limitrofi. A dieci anni smisi di andare a scuola; lavorai allora come scalpellino. Più crescevo e mi irrobustivo e più pesante diventava il lavoro. A sedici anni trascinavo traversine e rotaie nei cantieri per la linea ferroviaria Parma-La Spezia. Da allora ho cambiato più volte lavoro».
«Perché?».
«Perché sì. Perché ci si convince che da una parte o dall’altra si può guadagnare qualche lira in più. O un paio di miseri centesimi. Perché uno dice che altrove il pane è meno caro. O il dormire. O il vino. O perché le persone sono più gentili con gli stranieri. Perché si spera di ottenere sempre qualcosa in più, e poi non succede. Ecco perché».
«Quando avete lasciato i vostri genitori adottivi?».
«Gli ultimi?».
«Sì».
«Quando ho smesso di lavorare nei cantieri della ferrovia e sono andato a Genova. Nell’autunno dell’89. Nel porto di Genova trovai impieghi giornalieri. Ma la maggior parte del tempo ho patito la fame e il freddo. Era un inverno particolarmente freddo. In primavera venni per la prima volta in Svizzera. A Tessin. Prima a Chiasso poi ad Airolo. Lavoravo nei cantieri stradali. Tessin mi piaceva. Le condizioni di lavoro erano migliori che da noi in Italia. E poi ci si sentiva a casa; le persone erano molto comprensive. Non ci si sentiva stranieri. Sono rimasto a Tessin per due anni. Ho resistito per tutto quel tempo».
«E poi?».
«In primavera…».
«1892?».
“Sì, Un mio connazionale mi ha detto che al di là delle Alpi era meglio. C’era più lavoro e meno operai. Quando la neve si sciolse partiamo. Prima su per il San Gottardo fino ad Andermatt, poi su per il passo della Furca. Era peggio del Gottardo. Abbiamo quindi attraversato il Rodano ghiacciato, giù per la valle del Reno fino al lago di Ginevra».
«A piedi?».
«E come altrimenti? E per la maggior parte del tempo senza scarpe. A piedi nudi o avvolti in stracci».
«Quanto tempo avete viaggiato?».
«Non saprei dire con precisione. Circa un mese, credo. Doveva essere fine aprile o i primi di maggio quando ci incamminammo per Versoix via Losanna e Nyon. A Versoix ho trovato lavoro».
«Ancora nei cantieri stradali. Il datore di lavoro si chiamava Papis ed era un uomo ragionevole. Per la prima volta nella mia vita avevo una piccola camera tutta per me. Senza riscaldamento, senza luce, ma con una porta che si poteva chiudere. Era qualcosa di nuovo per me».
«Dove abitavate?».
«In un hotel. Così lo chiamavano. Hotel de la Balance! Lì ho dormito e mangiato».
«II vostro soggiorno a Versoix è avvenuto molto tempo prima della vostra visita a Budapest, e di Budapest non vi ricordate dove avete lavorato e dove avete abitato! Come spiegate che ci sono cose che ricordate bene e altre che vi sfuggono completamente?».
«Non ne ho idea».
«Quando ero a Versoix visitai per la prima volta Ginevra distante solo quindici chilometri. Avevo dei conoscenti in quella città; oggi però non ci sono più. A Versoix rimasi circa dieci mesi. All’inizio del 1893 ripresi a peregrinare per il Nord. A Uetikon, nei pressi del lago di Zurigo, lavorai per circa sei mesi come muratore presso il signor Casagrande; poi, a Sonnenberg, due chilometri più distante impiegato nella costruzione di un grosso ponte. I1 capo si chiamava Fischer, così per lo meno me lo ricordo. Nella primavera del 1894 intrapresi un nuovo viaggio. Via Vienna dove mi fermai solo un paio di giorni, poi raggiunsi la capitale ungherese. Può capitare di incontrare qualcuno lungo la strada che ha deciso di andare in un certo luogo e alla fine ci si unisce a lui. Potevo andare a Budapest come a Berlino».
«O a Bruxelles!».
«Sì. Perché no?».
«Non siete rimasto molto tempo in Belgio!».
«In Belgio? No. Non ci sono mai stato. Mai».
«Come è possibile se avevate in tasca una moneta belga?».
«L’ho trovata a Losanna, sul Quai d’Ouchy. Non molto lontano dal porto».
«Siete andato molte volte in giro vicino al porto?».
«Ho passeggiato qualche volta lungo la riva del lago, ma questo non è sicuramente vietato».
«Forse aspettavate l’imperatrice?».
«A Ouchy?».
«Sì, a Ouchy! Mi avete capito bene!».
«Non sapevo che l’imperatrice fosse a Ouchy o a Losanna, o che avesse intenzione di andarvi».
«Però sapevate che aveva intenzione di venire a Ginevra!».
«No, non lo sapevo. E non ho mai detto il contrario.
Continuazione dell’interrogatorio del 12 settembre 1898
«Dunque siete stato a Budapest! Budapest, in primavera o agli inizi dell’estate 1894. Giusto?».
«Sì».
«Spiegatemi una cosa: dopo essere stato lì due settimane avete ripercorso l’enorme distanza tra Zurigo e Budapest per tornare indietro?».
«Sì».
«È davvero sorprendente. Perché non vi siete fermato un po’ più a lungo?».
«Perché non trovavo lavoro. Perché non avevo più il becco di un quattrino; perché non potevo comprare un pezzo di pane; perché non sapevo dove andare a dormire. Poi un compagno che aveva più esperienza di me in questi casi, ebbe un’idea fantastica. Siamo andati al consolato italiano, abbiamo detto di essere nullatenenti e che volevamo tornare in Italia. Il risultato fu sorprendente anche perché a quell’epoca c’erano pochi lavoratori italiani a Budapest. Il console ci ha dato un buono col quale abbiamo ritirato dalla polizia di frontiera un biglietto ferroviario per Fiume».
«Perché proprio per Fiume?».
«Non lo so. Dovreste chiederlo al console. Non lo abbiamo chiesto per paura che cambiasse idea. La polizia ci ha trattenuti per la notte. Il mattino dopo ci hanno dato delle provviste per il viaggio e siamo saliti sul treno. Abbiamo viaggiato per due giorni e per due notti; avevamo da mangiare; ci sembrava di essere dei signori. A Fiume ci siamo divisi. Io sono andato a piedi a Trieste. Lì sono stato arrestato dalla polizia austriaca, ho passato due giorni in prigione e poi sono stato espulso».
«Quando è successo tutto questo?».
«Doveva essere fine giugno, primi di luglio, anche perché a metà luglio del 1894 sono andato a militare».
«Ascoltatemi bene, Lucheni, se la vostra espulsione dall’Austria è avvenuta a fine giugno, primi di luglio, il vostro arrivo a Budapest, dove siete rimasto per non più di due settimane, deve essere stato nei primi giorni di giugno. Non in marzo o aprile come avete sostenuto ieri!».
Silenzio.
«Siete ancora convinto di essere stato a Budapest in marzo o aprile?».
«Non lo so. È possibile che le date non sempre coincidano».
«Io credo piuttosto che voi siate arrivato a un punto molto importante per l’indagine di cui non volete ricordarvi di proposito».
«Perché il mio soggiorno a Budapest è così importante?».
«Questo ve lo dirò a tempo debito. Proseguiamo. Nel luglio del 1894 siete andato a militare. In quale reggimento?».
«Nel terzo squadrone di cavalleria, 13° reggimento Monferrato».
«Dove stazionava il reggimento?».
«A Caserta e a Napoli. Il capo del mio squadrone era il principe d’Aragona».
«Per quanto tempo avete fatto il militare?».
«Tre anni e mezzo, come prescrive la legge italiana».
«Lo facevate volentieri?».
«No. Tuttavia ero un buon soldato. Potete chiederlo al mio superiore».
«Quando avete lasciato le armi?».
«A metà dicembre del 1897. Sono comunque rimasto al servizio del principe d’Aragona per altri tre mesi e mezzo in forma privata; eravamo a volte a Napoli, a volte a Palermo. Volevo rendermi conto di come si vive sfruttando il sudore dei lavoratori e vi posso assicurare che è molto piacevole. Ne avevo abbastanza. Il 1° aprile sono partito per Genova con un nave da carico. Da lì, via Ventimiglia e Montecarlo, sono andato a Torino, sempre a piedi. Ho dormito all’asilo per i senzatetto. Il tempo era bello; sembrava proprio che la primavera fosse arrivata prima del tempo. Così ho deciso di intraprendere l’attraversata del San Bernardo».
«In aprile?».
«Sì. Sono partito e sono arrivato, come potete vedere! Se non mi credete, potete chiedere alla ragazza dell’ospizio lassù; quella che vende le sigarette. Si ricorderà sicuramente di me. Tra le altre cose, le ho anche regalato una mia fotografia».
«Come si chiamava la ragazza?».
«Non me lo ha detto. Qualcos’altro da chiedermi?».
«Sì. Dove avete pernottato la prima notte che siete arrivato in Svizzera?».
«Martigny. Lì ho conosciuto il signor Massera che mi ha subito assunto come muratore a Salvan. Credo di essere rimasto da lui per almeno cinque settimane. Da Salvan sono venuto direttamente a Losanna. Il 20 o il 22 maggio. E lì sono rimasto fino al 5 settembre, cioè fino a quando non sono venuto a Ginevra».
«Dove eravate durante i tumulti di Milano?».
«A Salvan».
«Non è che per caso eravate a Milano?».
«No. Ero a Salvan».
«Un uomo con le vostre convinzioni avrebbe dovuto essere insieme ai suoi compagni in lotta. Come è possibile che siate rimasto a Salvan, invece di correre in aiuto dei vostri connazionali che combattevano sulle barricate a Milano?».
«Ho già precisato che io sono un anarchico isolato. Preferisco impegnare le mie forze in altri modi piuttosto che in inutili lotte aperte contro il potere che sono destinate a fallire».
«Avete detto che volevate compiere un attentato al principe d’Orléans».
«Sì. Era il mio proposito originale».
«State mentendo».
«Non sto mentendo!».
«Perché mai allora siete venuto a Ginevra il 5 per uccidere il principe d’Orléans, se in settembre nessun membro della casa d’Orléans era in città o nei suoi dintorni?».
«L’ho letto sul giornale».
«Dove? In quale giornale?».
«A Losanna. Ma non mi ricordo più su quale».
«È ormai dato per certo che nessun Orléans era a Ginevra in quel periodo. L’abbiamo verificato. Se avete letto il contrario, la notizia doveva essere falsa. Siete d’accordo?».
«Ma io l’ho letto!».
«Allora il giornale si è sbagliato. Sì o no?».
«Se l’Orléans non era qui, allora sì».
«Oppure il giornale non esiste proprio. Anche questo lo verificheremo velocemente. Chi è Giuseppe Turco?».
«Giuseppe Turco? Turco è il direttore di un giornale di Napoli. Del “Don Marzio”».
«È anarchico?».
«No, non credo».
«Lo conoscete? Siete amici?».
«Non lo conosco. E non sono suo amico».
«Perché gli avete scritto?».
«Perché credo che il signor Turco abbia il coraggio di pubblicare la mia lettera».
«Perché proprio il “Don Marzio”? È forse il più adatto?».
«È sicuramente meglio dell’“Osservatore romano”». Ma il “Don Marzio” non è un giornale anarchico, anche se a voi piacerebbe sostenerlo».
«Perché avete scritto la lettera?».
«Perché? Perché tutti sapessero quello che avevo fatto e perché non pensassero che fossi matto».
Lettera di Luigi Lucheni indirizzata a Eugène Ruffy, presidente della Confederazione svizzera
Ginevra, 14 settembre 1898
Signoria Illustrissima,
poiché il sottoscritto si trova nella condizione di essere condannato a morte e poiché una simile pena non esiste nel cantone e nella repubblica di Ginevra, ho l’onore di chiedere a Sua Eccellenza di farmi giudicare nel cantone di Lucerna, dove una simile pena è in vigore.
Prego Sua Eccellenza di non pensare che la mia istanza sia priva di serietà. Al contrario! Se dovesse rendersi necessario, Vi prego di consigliarvi con il rappresentante del cantone svizzero in questione.
Il Vostro obbligato Luigi Lucheni,
anarchico e uno tra i più pericolosi
Lettera di Luigi Lucheni alla Signora Dolores de Vera d’Aragona Principessa della Guardia, via Torre Arza (Palazzo Alliata) Palermo, Sicilia, Italia
Ginevra, 14 settembre 1898
Signora Principessa,
so di non essere degno di scriverVi. Ma lo faccio, perché devo combattere contro l’infame malvagità, contro la violenza perpetuata dalle persone della Vostra classe nei confronti degli altri uomini; poiché ho la bocca, voglio che tutti sappiano che mi considero un Vostro fratello. Essendo un vero comunista, non posso più sopportare questa ingiustizia. Ed essendo un vero filantropo, Vi comunico che non è più molto lontano il momento in cui un nuovo sole, uguale per tutti, splenderà!
Per quel che mi riguarda, so benissimo che non vedrò né il nuovo sole, né il vecchio. Nei 25 anni che ho trascorso in questo mondo, l’ho visto a sufficienza. Signora Principessa, Vi assicuro con tutto il cuore (con il mio cuore selvaggio o, se preferite, ragionevole), che non sono mai stato più soddisfatto di oggi. E dico apertamente che, se possibile, vorrei essere giudicato dal tribunale del cantone di Lucerna; l’ho chiesto direttamente al presidente della confederazione svizzera…
… perché voglio salire i gradini che mi porteranno alla ghigliottina; e non avrò bisogno di alcun aiuto. E se la mia richiesta non verrà accolta, chiederò al giudice di costruirmi un carcere sotterraneo sotto lo splendido lago di Ginevra in modo che non possa più vedere ed incontrare quegli infami re che villeggiano sotto il sole per tutto il tempo che vogliono.
Voglio terminare dicendo che devo ancora scrivere delle altre lettere e che al momento sono molto impegnato nella lettura di libri che reputo idonei per me. Posso menzionarvi i titoli di modo che possa mettersi a ridere? Si tratta della “Revue des deux mondes”: contiene delle splendide massime (peccato che non siano delle storie intere!). Proprio quello di cui Lucheni ha bisogno! Ecco una di queste arguzie: “Meglio vivere come un cane ma in pace che come un uomo nell’anarchia!”. Splendida, vero Madame? E un’altra: “Solo dal rispetto della legge può nascere la pace!”. A questa non devo proprio aggiungere altro! Peccato che non ci sia il nome dell’autore. Avrei potuto recitare per lui un rosario tutte le sere. Il tempo non mi manca davvero!
Prego Voi e il capitano di cavalleria di scusarmi se, in un qualche modo, Vi ho causato delle seccature. So bene, tuttavia, che quanto è successo a Ginevra non Vi avrà sicuramente toccato. Prego il capitano di cavalleria di salutare tutto lo squadrone a nome mio… Saluti speciali a tutti coloro che hanno conosciuto il reggimento Monferrato. Saluti anche a tutta la casa da parte del Vostro servitore
Luigi Lucheni
comunista convinto
Nel caso aveste voglia di rispondermi, non credo sia necessario che Vi dia il mio indirizzo.
Lettera indirizzata a Luigi Lucheni
Ginevra, 14 settembre
Caro compagno,
il Tuo grande gesto nobilita il lavoro degli uomini decorosi, ovvero di quelli che non vivono della fatica altrui… e che lottano per il bene dell’umanità. Ci ha dato la certezza di una rapida vittoria. Il popolo ha ancora degli eroi! Altri seguiranno il Tuo esempio! Hai ucciso una donna; i servi e i furfanti che vengono pagati con il denaro degli appartenenti alla classe della morta, hanno detto ai giornali che il tuo atto è inutile. Hanno completamente perso la ragione. Sono carichi di furia, di paura e di orrore. E, fanno bene!… Questa donna è stata una criminale fin dalla sua nascita. Non ha mai lavorato! E non voleva lavorare! Ha solo e sempre voluto comandare. È infame tanto quanto suo marito. Entrambi sono colpevoli della morte di loro figlio che aveva deciso di essere amico del popolo. Ma anche l’altro, l’Orléans, prima o poi cadrà!…
Sappiamo che il socialismo uscirà trionfante e vincitore da tutti i tentativi di sopprimerlo. Nobile compagno, non perdere la speranza! La grande vittoria è vicina! Il popolo aprirà le porte della Tua prigione! Non verrai mai dimenticato! Rimarrai sempre nei nostri cuori! Sii un uomo! Spera!
Uno per tutti!
Altra lettera indirizzata a Luigi Lucheni
Carissimo Luigi,
mi ha fatto molta impressione il generoso colpo che hai inferto alla rappresentante della borghesia austriaca. Naturalmente ha anche avuto pesanti ripercussioni per tutti noi che viviamo in Svizzera. Non perdere il coraggio; altri seguiranno il Tuo esempio. Ma non in Svizzera. Sarebbe inutile. Pensa alla nostra patria infelice! Aspettiamo il Tuo processo, che si svolgerà fra poco a Ginevra, anche se il governo austriaco dovrebbe chiedere l’estradizione.
Non scrivere a nessuno, così eviterai di compromettere gli altri.
A Te e alle idee!
A.R.
A nome dei compagni di Ginevra!
e con un saluto da parte di tutti
Lettera di Luigi Lucheni indirizzata al Direttore del giornale “Gazzetta di Parma”, Parma, Italia
Ginevra, 15 settembre 1898
Signor Direttore,
con questa lettera voglio spiegarVi per quale motivo sono un benefattore dell’umanità e perché mi fregio del titolo di “anarchico”. Non dovete temermi. Durante il mio servizio militare a Napoli, ho letto con piacere i giornali “Il Mattino” e il “Corriere di Napoli” che avevano l’onore di pubblicare le vicende della cricca di Crispi, il nobile ed eccellente aristocratico napoletano. Sapete per quale motivo volevo leggere quei giornali? No. Ve lo spiego subito. Per la grande stagione di opera lirica di Napoli! Due colonne della prima pagina erano interamente dedicate, da cima a fondo, alla descrizione della toeletta della baronessa B., del cappotto della contessa F. e così via fino alla fine della colonna (non voglio farVi sprecare del tempo).
Quando poi si giravano le pagine, immancabilmente veniva riportata la descrizione minuziosa del ricevimento della principessa D. o della marchesa T. tenutosi la sera precedente. Era un peccato sapere che il ballo non era durato fino alle cinque del mattino, per cui la contessina non poté ballare nelle braccia del marchese delle altre quadriglie, anche se ne aveva voglia.
Signor Direttore, sento di non poter sopportare una simile tragedia; la mia temperatura sale fino a 43 gradi. Pertanto muoio e dimentico la mia vita signorile…
In una strada di Posillipo è stata trovata una persona che non dava più segni di vita. Poteva essere anche una donna. Per quale motivo era morta? Perché tutti i nostri fratelli sono condannati a morire di fame.
E Voi avete ancora il coraggio di metterci il bastone fra le ruote? Assassino! Voi Vi dissetate con il sangue umano! Perché non vengo ad ucciderVi? Miseria! Miseria!
… Il sigaro che avete dato come mancia a un cameriere, non è più sufficiente. Non ha più tempo per puntellare le Vostre marce baracche! Vi cadranno sulla testa!
… Pregate il Papa Leone XIII, ormai morente, di intercedere. Ma è troppo tardi!
Vi ripeto che, da parte mia, passerò le mie giornate a fracassarmi la testa agli angoli della cella per vedere ancora una volta quel sole di cui Voi e i Vostri pari ci avete vigliaccamente privato!
Il Vostro obbligato
Luigi Lucheni
molto convinto
delle idee dell’anarchia
Interrogatorio del 15 settembre 1898
«Posso comunicarvi che uno dei vostri complici è stato messo sotto chiave».
«Non ho complici!».
«C’è una confessione di colpevolezza».
«È un’idiozia! Io ho ucciso l’imperatrice! Nessun altro!».
«Con una lima il cui manico il vostro complice, Martinelli, vi ha intagliato».
«È vero! Martinelli ha fatto l’impugnatura».
«E volevate farci credere che l’avevate fatta voi!».
«No, no, è stato Martinelli. Ma non sapeva a cosa mi serviva la lima».
«Lo sapeva perfettamente! E prima confessate tutto, meglio è!».
«Senza il manico non riuscivo a fare forza; per cui sono andato da Martinelli. Mi chiese che cosa volevo fare con quell’arma. Gli ho risposto che ne avevo bisogno per difesa personale».
«Mentite! Perché sabato ci avete fatto credere che avevate usato un pugnale per uccidere l’imperatrice? Perché volevate proteggere Martinelli. Perché Martinelli sapeva a cosa serviva la lima; e nonostante lo sapesse ha deciso di aiutarvi. Questo lo fa vostro complice!».
«Martinelli non è un anarchico!».
«Ci sono persone di Losanna che dicono il contrario».
«Allora mentono!».
«Qui c’è solo una persona che mente: e siete voi! Troveremo i vostri complici. Tutti! Su questo ci potete giurare! Vi porteremo tutti in tribunale. Non prendeteci per stupidi!».
«Non ho complici e non vi ho mai detto delle falsità».
«Cosa volevate fare a Vevey?».
«A Vevey?».
«Siete stato a Vevey. E non da solo, ma con un amico. E lì, voi e Posio, il vostro secondo complice, siete andati in un negozio per comprare un pugnale. Vi siete dimenticato di dirci questo».
«È importante? Non lo abbiamo comprato».
«Con quel pugnale volevate compiere il vostro attentato! Posio lo sapeva! Vado ancora più in là. Siete andato da Vevey a Caux forse di corsa, visto che non sono molto lontane fra loro. Se aveste avuto il denaro necessario per comprare il pugnale, avreste compiuto il vostro attentato direttamente lì. Le vostre possibilità di fuga a Caux, dove c’è un solo albergo, erano sicuramente migliori di quelle offerte dalla città di Ginevra. Poiché l’acquisto dell’arma fallì, il vostro complice Posio ha importunato l’imperatrice mentre voi nascosto nelle vicinanze osservavate la scena, in modo tale da permettervi di imprimervi bene nella memoria i tratti della vostra vittima. Avete visto per la prima volta l’imperatrice a Caux e non a Budapest!».
«Non posso obbligarvi a credermi. Non sono mai stato a Caux nella mia vita. Volevo uccidere il principe d’Orléans. Poi, visto che non lo trovavo, ho deciso di occuparmi dell’imperatrice. L’ho uccisa perché sono un anarchico! Posio e Martinelli non lo sono! Chiedetelo a loro! Non sanno chi sia Malatesta. O Bakunin. O Kropotkin. Non leggono nulla e non studiano niente. Si rispecchiano nel mondo attuale, disgustoso, indegno e ripugnante!».
«Ne ho abbastanza di voi per oggi».
Interrogatorio del 16 settembre 1898
«So che mi nascondete ancora molto. So anche che mi avete raccontato delle mezze verità, ma fino a stamattina vi ho anche creduto, qualche volta. Ora però basta!».
«Mi sforzo di dirvi sempre la verità».
«Non mi sembra! Ecco i vostri Cantici anarchici.
«I miei cantici, quelli sono i miei cantici che qualcuno mi aveva preso».
«Giusto!».
«Li avete scritti voi?».
«Copiati, non scritti. Ma copiati da me!».
«Come è arrivato questo quaderno nelle mani della polizia?».
«Quando era a Losanna trascorrevo molto spesso le serate nel parco vicino a Place Montbenon. Ogni tanto vi incontravo degli amici, passeggiavo con loro e discutevamo. Oppure mi sedevo su una panchina e leggevo. Quando diventava buio, cominciavo a riflettere su ciò che avevo letto. Il 16 agosto, mentre me ne stava beato e tranquillo su una panchina, una pattuglia della polizia attraversò il parco. Era già piuttosto scuro. I gendarmi si diressero subito verso di me e mi domandarono i documenti. Poiché non li avevo, venni portato al commissariato, le mie tasche vennero perquisite, uscì fuori il quaderno e venne sequestrato. Poi mi ordinarono di presentarmi all’ufficio stranieri il giorno dopo con i documenti. Ci sono andato, come mi avevano detto, terminò ma non mi hanno ridato i miei cantici».
«Qui ho il verbale redatto il 16 agosto all’ufficio stranieri di Losanna, nel quale dichiarate di aver soggiornato nella città per due settimane. Ma a noi, avete detto di essere stato lì dal 20 maggio».
«È vero».
«Cosa è vero?».
«Sono arrivato a Losanna in maggio».
«Perché avete detto altre cose all’ufficio stranieri?».
«Perché non mi ero fatto registrare al mio arrivo. Pertanto è meglio dire che uno è in città da pochi giorni».
«Abbiamo modi e mezzi per provare quello che dite».
«L’imperatrice d’Austria sarebbe ancora viva oggi se avessi avuto 50 franchi per andare a Roma».
«Questo ce l’avevate già detto!».
«Avrei fatto meglio di Acciarito. Avrei infilato il coltello così in profondità tra le costole, che Umberto sarebbe morto sul colpo!».
«Ascoltatemi! Guardate il quaderno! È nelle stesse condizioni di quando ve lo hanno sequestrato? Non è cambiato nulla? Non è stato aggiunto nulla?».
«Questo è il mio quaderno».
«Bene. Allora spiegateci cosa avete fatto a Lione».
«A Lione?».
«Nel vostro quaderno è scritto che il 25 aprile eravate a Lione. Il 5, il 9 e il 26 giugno a Ginevra… il 21 a Montreux… il 22 e il 23 luglio a Zurigo… il 2 e il 29 a Berna… il 4 agosto a Thonon… ».
«Non sono mai stato a Thonon!».
«Qui è scritto chiaramente. Scritto da voi!».
«L’ho scritto io. È vero. Ma io ho solo immaginato questi viaggi. Nella mia fantasia. In verità, sono stato tutto il tempo a Losanna».
«E il viaggio a Vevey con il vostro amico Posio? Quello cos’era?».
«Era solo una gita».
«Una gita come quella a Neuchâtel del 20 giugno, e quella del 21 a Montreux?».
«No, no! Sono sempre stato a Losanna!».
«Non raccontateci balle! Avete preso appunti dei vostri viaggi. Qui, in questo quaderno!».
«Lo so! Io quei viaggi li ho fatti solo con la fantasia. Potevo prendere appunti di viaggi immaginari a San Francisco… Shanghai… o al Polo Nord».
«Ma avete parlato di Zurigo, Neuchâtel! Tutti luoghi facilmente raggiungibili».
«Non ci sono mai stato. Mi dispiaceva dover stare tutto il tempo fermo a Losanna e così ho cominciato a fantasticare sui luoghi dove mi sarebbe sempre piaciuto andare. E anche in quale periodo. Poi ho scritto il tutto».
«Siete stato a Lione il 25 aprile! Perché?».
«Non lo so».
«Pensateci, per favore! Perché volevate proprio essere a Lione il 25 aprile? Chi c’era? Un raduno di anarchici?».
«Non lo so».
«Cosa avete fatto il 22 e il 23 luglio a Zurigo? Spiegatecelo!».
«Non posso spiegarvelo. Non ero a Zurigo. Sono stato tutto il tempo a Losanna».
«Voi stesso avete detto che volevate andare nelle città appuntate sul vostro quaderno con tanto di date. Dovevate ben avere un motivo».
«No! Non c’era alcun motivo. Nessuno! Anche le date sono di fantasia. Lo giuro!».
«Va bene, lasciamo stare. Io ho qui un foglietto che è stato sequestrato nella pensione Matthey dopo la vostra partenza. Avete annotato gli orari di partenza dei vaporetti e dei treni diretti a Ginevra».
«Volevo andare a Ginevra. Dovevo pur sapere quando partivano i treni. O i vaporetti. Non avevo ancora deciso se viaggiare con la ferrovia o con i battelli».
«Allora spiegatemi perché avete preso gli orari di partenza nelle direzioni opposte. Verso Montreux! Verso Territet! Questa è la direzione per Caux!».
«Quando uno non ha il lavoro e non sa come passare il tempo, è contento se trova qualcosa da fare. Qualunque cosa. Così li ho scritti tutti».
«Questa è davvero bella!».
Silenzio.
«Non è difficile capire per quale motivo abbiate scritto gli orari delle partenze per Montreux. Volevate andarci nel caso in cui l’imperatrice non fosse venuta a Ginevra!».
«Vi ho già detto il perché. Non ce ne sono altri!».
«Non credo a una sola parola. Potete andare».
Interrogatorio del 19 settembre 1898
«Ricordo che voi avete avuto un’onorificenza militare della quale andrete fiero, immagino. Per quale motivo vi è stata data?».
«Per una battaglia persa, alla quale non ho neanche partecipato».
«È conosciuta come la battaglia di Adua. In realtà è stata combattuta a Sevi. Il 1° marzo 1896. Lì 100.000 forti abissini hanno massacrato 20.000 miserabili soldati italiani. Io ho avuto la fortuna di trovarmi in quel momento a bordo di una minuscola e puzzolente nave da trasporto con altri 500 compagni; andavamo da Palermo in Eritrea. Ci siamo persi la battaglia; siamo arrivati in tempo per vedere la sconfitta. Visto che non avevano niente da darci, ci venne data l’onorificenza. Tutto qui».
«Avete uno strano modo di congedarvi. Al vostro amico Papis di Versoix dovete ancora 80 franchi…».
«Non a Papis, ma all’Hotel de la Balance».
«Con Matthey a Losanna siete debitore di 30 franchi e nel 1894 siete scomparso da Zurigo senza lasciar traccia e senza pagare».
«A Zurigo? Può essere, credo che il titolare della pensione si chiamasse Benesch».
«Esatto! Quell’uomo si chiama Benesch. Per alcune cose avete una buona memoria! E visto che il signor Benesch è convinto che voi abbiate il denaro per pagarlo, ha deciso di sporgere una denuncia nei vostri confronti».
«Mi ha denunciato perché gli paghi il mio debito? Ditegli che sono disposto ad andare a Zurigo non appena avrò scontato la mia pena».
«Visto che la vostra memoria oggi sembra molto buona, vorrei tornare alle prime due notti che avete trascorso a Ginevra. Quelle fra il 5 e il 6 e fra il 6 e il 7 settembre».
«Vi ho già detto tutto quello che so».
Interrogatorio del 26 settembre 1898
«Conoscete un uomo chiamato Guerzola?».
«Gustavo?».
«Il caso vuole che si chiami proprio Gustavo. Chi è quest’uomo?».
«Un soldato del mio reggimento. Mi ha scritto?».
«No. Siete suo amico?».
«Amico?».
«Sì, amico. Rispondete per favore!».
«Gustavo viene da un paese non molto lontano dal posto dove sono cresciuto».
«E?».
«Tutto qui!».
«Inoltre, è un anarchico. Vi siete dimenticato di dirmelo».
«No, Gustavo non è un anarchico».
«Allora perché gli avete mandato dei giornali anarchici?».
«Perché lo conoscevo. Potevo mandarli solo a qualcuno che conoscevo!».
Interrogatorio del 3 ottobre 1898
«Un vostro conoscente, un certo Bignami, ci ha comunicato che eravate insieme a lui nell’ospizio dei monaci sul Gran S. Bernardo».
«Bignami…, il nome non lo conosco, ma ho capito a chi vi riferite. Credo che venisse da Sitten. Comunque sia, voleva ritornare in Italia. Un povero diavolo. Uno stupido. Aveva vagato per l’Italia perché era convinto di trovarvi lavoro. Ovvero nel posto dove gli italiani corrono tutto il giorno per potersela passare decentemente».
«Cosa ne è stato di lui?».
«Non lo so. Ci siamo separati a Martigny. Ha proseguito da solo».
«Avevate davvero intenzione di arruolarvi nella legione straniera?».
«Sì. Sarei andato nella legione straniera solo se fossi stato certo che mi avrebbero messo nella cavalleria. O forse no».
«Cosa vi aveva spinto?».
«La feccia dell’umanità si trova nella legione straniera. Quelli che nessuno vuole. Quelli che vengono rifiutati da tutti».
«È questo il motivo? Da fonte sicura ho saputo che il vostro amico Posio non è venuto con voi solo a Vevey, ma anche a Thonon. E per più di una volta. Per esempio, il 6 settembre. C’era anche Barbotti».
«Non ne so niente».
«La cosa mi stupisce, disse perché anche voi eravate a Thonon il 6 settembre».
«II 6 settembre ero a Ginevra e non a Thonon».
«Questo me lo avete detto più volte. Tuttavia io ho delle informazioni che dicono esattamente l’opposto. Siete stato invitato a un incontro anarchico tenutosi a Thonon il 6 settembre e lì avete ricevuto le istruzioni per eseguire l’attentato all’imperatrice!».
«Chi lo dice, mente!».
«Non sono del vostro stesso parere. Conoscete il sarto Cenci in Rue Perron?».
«No».
«Mi è stato invece riferito che avete mangiato presso di lui. Insieme a Gualducci e a Silva».
«Non lo conosco».
«E Ciancabilla?».
«Non lo conosco».
«Un anarchico che non conosce Ciancabilla?».
«Può essere che abbia letto qualcosa che lo riguardava su “L’Agitatore”».
«E di notte lo incontravate a Place Montbenon, a Losanna!».
«Mai».
«Però sapete che gli anarchici si incontrano là da quando Garino… è scomparso con la cassa del club dei socialisti. Voi stesso siete stato fermato dalla polizia a Place Montbenon! Perché giravate là se non dovevate incontrare i vostri amici?».
«Non ho alcun legame con gli altri anarchici».
«Come siete noioso! Raccontate sempre la stessa storia! Potreste dirci molte cose senza necessariamente compromettere i vostri complici».
«Non ho alcun complice!».
«Peccato, speravo dimostraste di avere più cervello».
Interrogatorio del 4 ottobre 1898
«Nella settimana in cui credevate di avermi preso in giro, ho imparato qualcosa dei vostri maestri. Intendo dire degli anarchici. E ho ascoltato delle persone che capiscono molto in materia e non ripetono a pappagallo come fate voi! Vorrei precisare che rifiuto l’anarchia. È un’utopia e una tragedia per i suoi seguaci. Ma visto che non mi aspetto che condividiate le mie opinioni, voglio leggervi una lettera indirizzata a voi».
«Perché non mi è stata data la mia posta? Per quanto tempo mi sequestrerete le mie lettere?».
«Le avrete tutte».
«Quando?».
«Non appena chiuderemo l’istruttoria preliminare».
«E quando sarà?».
«Presto. Vorrei che sapeste cosa pensa di voi un lavoratore. Un uomo come voi. Fra l’altro, la lettera arriva da Losanna».
«Monsieur Lucheni,
«Ora, che sarete sicuramente più tranquillo, leggete attentamente queste righe scritte da un lavoratore e cerchiamo di capire insieme a quale scopo ha servito il Vostro delitto.
«Voi dichiarate di essere un anarchico. Ma io Vi posso assicurare che un terzo degli uomini che si dichiarano anarchici sono persone brutali; gli altri due terzi, la maggioranza, gente furba e attenta, sono interessati solo a salvaguardare con tutti i mezzi a loro disposizione uno stato di malumore, ovvero un eterno, focolaio di rivolte.
«Qualcuno Vi avrà raccontato la bella favola nella quale si profetizza la distruzione del mondo borghese e la fine dei governi. Tutti i mezzi usati per raggiungere lo scopo sono legittimi! Bombe, coltelli, eccetera. Dopo che, mio caro signore, la Vostra testa si era riempita fino all’orlo di questo profluvio di parole, di questi insegnamenti per distruggere, Vi siete armato, bestia brutale, di una lima e avete compiuto l’infame delitto che un anarchico non avrebbe mai portato a termine!
«Come siete vile!
«E stupido! è come se aveste detto alla gente che avete istigato con il Vostro atto sovversivo: voi, che siete stati esortati al furto, al fuoco, all’attentato, ecco la vostra fiamma, la bomba e il coltello! Ecco la strada! La teoria è bella, ma c’è bisogno di agire. E visto che siete il più intelligente, avete dovuto iniziare. Potete star sicuro, Monsieur, che due terzi dei teorici si sarebbero rifiutati, perché sono rispettosi della vita, cosa di grande valore».
«Capite cosa dice l’autore di questa lettera? Voi siete la vittima di uomini calcolatori che hanno sfruttato il vostro coraggio e la vostra disperazione per compiere un’azione che non avrebbero mai fatto personalmente. Si cercava uno stupido e vi hanno trovato! Vi hanno abbindolato Lucheni! Ingannato! Ridotto a puro strumento!».
«Mentite! Questo non è un lavoratore! È un traditore del proletariato! Un leccapiedi! Uno schiavo nato! Nessuno mi ha usato! Ho agito da solo e intenzionalmente! L’ordine è venuto da me stesso! Da nessun altro! In questo mondo, così com’è, non vale la pena di vivere. Bisogna distruggerlo!».
«Non avete fatto niente in grado di portare il mondo intero alla rovina. Non pensateci nemmeno. Proprio no! Questo lo sa anche l’autore della lettera».
«È un deficiente misero, limitato; solo uno così poteva scrivere la lettera».
* * * * *
Da Ginevra
A Lucheni!
Tra pochi giorni comparirai davanti a un tribunale, tu nobile vittima della lotta per la liberazione dell’umanità. Ci si arroga il diritto di giudicarti per l’azione che hai commesso. Verrai coperto di insulti e di ingiurie; verrai chiamato assassino, omicida, vigliacco, e non so cos’altro ancora.
O ironia! In un Paese che si professa essere una repubblica, si devono sentire simili discorsi e si rende omaggio, con dei panegirici, agli imperatori e ai re, ovvero a coloro che provocano l’infelicità dell’umanità. Imperatori e re sono inutili, ridicoli, grotteschi e cattivi. Sono degli asini sulle cui orecchie una corona pone un destino cieco, sulle cui zampe è posto uno scettro per renderli ancora più miseri e ripugnanti. Così gli ebrei hanno incoronato Gesù Cristo per potersi prendere meglio gioco di lui.
Il vecchio gatto randagio che si fa chiamare imperatore d’Austria, re d’Ungheria, di Boemia e non so di cos’altro, recita inni d’amore mai sentiti prima davanti al lago di Ginevra. Lui, il tiranno del popolo italiano, recita la parte del martire! Lui, l’assassino che ha affogato le speranze di un intero popolo in un mare di sangue, si erge a vittima dell’attentato! O Lucheni! O ironia! Questa è la più grande vergogna del popolo svizzero. O Guglielmo Tell, non comparire più sui palcoscenici! O Calvino, impedisci alla tua ombra di aggirarsi per questa città che oggi tradisce le sue tradizioni e la sua religione. O Voltaire, oseresti ancora celebrare il lago di Ginevra?
Bene, miei signori! Impiccate questo povero diavolo. Ma noi, noi figli del popolo sofferente, vi disprezziamo!
O Lucheni! Vai verso il tuo calvario come se fosse un trionfo: la testa alta, lo sguardo fiero, il cuore sereno. Il tuo esempio verrà seguito! In tutti gli angoli della terra i difensori dei poveri e degli afflitti si uniranno a te!… Presto non ci saranno più re e padroni! I mortali sono tutti uguali! Non è la nascita a differenziarli, ma la virtù.
Lucheni, ti bacio le mani; tu sei mille volte più nobile di tutte le ridicole maestà di questo mondo!
L’anarchia regna!
Il processo
Dichiarazioni spontanee di Luigi Lucheni
«La miseria mi ha costretto a fare quello che ho fatto, per vendicarmi di come vivevo».
«Non ho complici. Io sono il mio complice».
«Non mi pento di nulla!».
«Sono certo che rifarei quello che ho fatto!».
Requisitoria del procuratore generale
Lucheni ha rilasciato una confessione. Ma ci ha nascosto una parte della verità. Ci ha assicurato di essere venuto a Ginevra per uccidere il principe d’Orléans. Non ci credo. E non credo nemmeno che sia andato a Evian per lo stesso motivo. Il principe ha soggiornato solo per un giorno a Ginevra. Il 18 agosto. Alloggiava all’Hotel de la Paix, dove anche suo padre, il duca di Chartres, abitava. Quando Lucheni scomparve da Losanna, il 5 settembre, nessun giornale riferiva una sola parola sul principe d’Orléans o su suo padre. Anche se Lucheni continua a dirci il contrario. Ma se Lucheni ha lasciato Losanna un motivo ce lo doveva avere. È andato a Montreux, o nei suoi dintorni, per orientarsi circa le intenzioni dell’imperatrice? Sapeva che soggiornava a Caux. La visita dell’imperatrice era stata annunciata da diverse settimane. Lucheni venne a sapere della cosa da una terza persona? L’infelice sovrana era sorvegliata dai complici dell’imputato? Tutte queste ipotesi sono ammissibili, perché è impossibile trovare tracce di Lucheni tra il 5 e l’8 settembre.
Lucheni mente quando dice di aver saputo dell’arrivo dell’imperatrice dai giornali di venerdì 9 settembre. Le indagini hanno chiaramente accertato che il suo arrivo venne annunciato dalla stampa solo sabato 10 settembre. Ma già da venerdì pomeriggio Lucheni aspettava l’imperatrice davanti all’Hotel Beau-Rivage! Deve quindi aver saputo del suo arrivo in un altro modo. Era già fuori dall’albergo da tempo, quando l’imperatrice vi mise piede per la prima volta alle 6 di sera. Più o meno a quell’ora, infatti, fece ritorno a Ginevra dalla visita alla baronessa Rothschild a Pregny.
Lucheni mente anche quando dice di aver visto l’imperatrice quattro anni fa a Budapest, in marzo o in giugno. È stato accertato che l’imperatrice nel 1894 non è mai andata a Budapest prima del mese di ottobre. A quell’epoca Lucheni stava ancora facendo il servizio militare in Italia. Perché queste bugie? Non è forse che l’imperatrice gli è stata mostrata la sera prima dell’attentato da un qualcuno che noi non conosciamo?
Lucheni mente ancora quando dice di essere arrivato a Ginevra il 5 settembre e di essere andato a Evian il 7 di quel mese. Nonostante le varie indagini svolte, a Evian non c’è alcuna traccia del suo viaggio. Anche a Ginevra non si è riusciti ad accertare dove abbia pernottato. L’8 è stato visto in un café e il giorno stesso ha scritto un cartolina alla principessa de Vera di Palermo; la cartolina raffigurava il tratto del Quai du Mont-Blanc dove avrebbe poi commesso l’attentato. Scrisse alla principessa che aveva dovuto rinunciare a un viaggio a Parigi per motivi che non poteva spiegarle; era stato quindi costretto a tornare a Culoz e poi a Ginevra. Sabato 10 settembre avrebbe voluto lasciare nuovamente Ginevra. Che strana cosa!
Il venerdì Lucheni è stato visto in compagnia di diverse persone che però sostiene di non conoscere. Tutto mi fa ritenere che Lucheni si sia preso il disturbo di nasconderci tutti i suoi incontri e i suoi affari avvenuti durante il periodo preparatorio dell’attentato. Se è effettivamente arrivato a Ginevra il 5 settembre, allora ci sta tenendo nascosto dove ha soggiornato e con chi è stato.
Lucheni non ha mai cercato di discolparsi. Anche quando ci celava la verità, in certi momenti lo faceva per il proprio tornaconto. Lo faceva per non compromettere un altro.
Questa riflessione ci porta a una domanda: il Lucheni che ha commesso l’attentato è stato anche l’autore morale dello stesso o ha qualche complice? Le nostre indagini si sono mosse in questa direzione.
Seguendo l’esempio dei suoi predecessori, Lucheni sostiene che l’azione sia il punto di arrivo delle sue idee anarchiche. Sacrifica la sua libertà per tutta la vita e la gioia che oggi sente. Vuole accollarsi tutta la responsabilità e non è disposto a dividere anche solo una piccola parte della sua triste gloria con qualcun altro. Così hanno agito tutti gli anarchici fino ad oggi!
Nonostante tutte le sue ostinate bugie, è possibile che ci sia un complotto dietro all’attentato. Non ve lo posso assicurare. Non siamo in grado di dimostrarlo. Ma se questa ipotesi fosse vera, allora non si tratterebbe di una congiura locale. Come si sa, gli anarchici viaggiano molto. Si muovono da un posto all’altro, come degli inviati speciali. Un complotto si attua in una determinata città, ma è stato progettato in un’altra, e preparato in un’altra ancora. Capirete quindi, quanto sia difficile scoprirli…
Considerato che Lucheni abbia dei complici, che ruolo ha avuto? È stato un semplice strumento? Ha soltanto seguito degli ordini? È stato solo il burattino degli apostoli anarchici che se ne stanno seduti nel cenacolo e che con i loro scritti infiammano i cuori e provocano poi gli incendi? Si rivestono di una parvenza di anarchia filosofica e svolgono il compito di profeta e di predicatore e poi respingono ogni forma di solidarietà con chi ha commesso il fatto? Non ho alcuna pietà per questi anarchici “da tavolo” che si limitano soltanto ad incitare gli altri; dovrebbero essere loro ad essere giudicati per primi. Dovrebbero essere minacciati e perseguitati in modo tale da poter provare poi della pietà per i giovani a cui commissionano dei delitti!…
Se c’è stato un complotto contro Sua Maestà l’Imperatrice d’Austria, allora Lucheni non ha avuto un ruolo di secondo piano. Senza dubbio era perfettamente consapevole di quello che stava per fare. Già da parecchio tempo si preparava di sua spontanea volontà a un’azione del genere; aveva cercato di procurarsi un’arma: un coltello, una pistola, una lima. Non era importante quale delle tre.
Se quindi c’è stato un complotto, allora non si può dire che sia stato un semplice strumento. La risolutezza e l’audacia con cui ha agito, lo fanno a pieno entrare tra i cospiratori principali. Ma se nonostante tutto Lucheni è stato davvero solo uno strumento, allora è uno tra i più pericolosi che ci si presenta davanti.
Lucheni, miei signori, non è un assassino nato, è – cito le sue stesse parole – un baluardo dell’anarchia! Gli anarchici, questi parassiti della seconda metà del nostro secolo, hanno riconosciuto la sua natura audace e risoluta e gli hanno affidato la realizzazione di un delitto insensato e ripugnante.
L’anarchia, questa inumana e illusoria eresia, raggira molti uomini forti ed intelligenti; è come un polipo con i tentacoli. Nega i doveri sociali dell’individuo e distrugge il suo sentimento di appartenenza alla patria e alla famiglia. Poi cerca di minare i muri maestri della nostra società, il patrimonio ereditario morale degli uomini, che ci è stato tramandato nei secoli. Quando tutto questo avviene la società rimane in balia della rovina morale.
L’anarchia è una dottrina senza dogmi, senza scopi e senza statuti. Si concentra in una sola affermazione: morte ai sovrani! È il prodotto dell’odio e dell’invidia. Raggiunge il suo culmine con la propaganda dell’azione e con i suoi scritti sovversivi, che ogni giorno convincono nuove persone.
L’anarchia mette un coltello nella mano di un uomo vanitoso; specula sulla sua sete di gloria; gli fa credere che il suo nome rimarrà scritto in eterno a lettere d’oro sui libri anarchici. In realtà entrerà solo nella storia criminale.
È riuscito ad attirare l’attenzione del mondo intero, colpendo il cuore di una signora di sessant’anni. È stata soddisfatta così la sua vanità, Lucheni? Dovrebbe riuscire a capire quanto sia stato vigliacco e quanto superficialmente abbia scelto la sua vittima. Saprà sicuramente che i suoi compagni l’ammirano per questo. Dovrebbe farsi risarcire di tutti gli anni di solitudine che le si prospettano, visto che le viene negata l’apoteosi della ghigliottina…
La nostra società non ha alcuna pretesa di essere perfetta. Ma tutto questo sta a significare che ci stiamo imbattendo in un decadimento morale e materiale? La società deve seguire una sua tendenza evolutiva, a volte lenta, a volte rapida, per adeguarsi alle circostanze. Speriamo di trovare sempre uomini disposti a mettersi sulla via degli ideali sociali. Cercheranno di attuarli senza l’aiuto di questi maestri dell’odio, di questi senza patria che forse non ammettono che i sistemi radicali, ma che poi perseguono gli stessi fini.
La società deve prendere misure preventive nei confronti dell’anarchia. Lo potrà fare se si preoccupa delle reali possibilità di sostentamento della popolazione e combatte la miseria. Sarebbe un perfetta misura preventiva cercare di migliorare le nostre leggi e le nostre istituzioni per renderle più umane. Solo con il progresso e l’evoluzione si riuscirà a strappare all’anarchia le sue giovani generazioni di seguaci; ci ha derubato di esse e le tratta in malo modo. La società deve uscire dalla sua posizione sulla difensiva e deve entrare apertamente in lotta contro l’anarchia. Solo così riuscirà a ridurre le file dei seguaci del suo nemico…
Dobbiamo mettere insieme delle valide misure preventive per arginare la diffusione delle idee anarchiche. E dobbiamo anche trovare un metodo che ci consenta di tenere in scacco questi delinquenti, in modo tale da garantire la pace sociale e bandire il pericolo anarchia.
Il pericolo è reale. Incombe… Oggi stiamo assistendo a un grande duello tra l’ordine e il caos. Il risultato potrebbe essere tragico; ma la vittoria sarebbe assicurata se ognuno di noi facesse il suo dovere, a qualunque livello della gerarchia sociale, principe o proletario che sia.
Voi, miei cari giurati, avete il compito di dimostrare al mondo intero che la giurisdizione ginevrina è perfettamente consapevole delle proprie responsabilità.
Se Lucheni fosse stato processato in uno degli Stati con noi confinanti, sarebbe stato sicuro di andare sul patibolo, come lui cinicamente desidera tanto. Qui gli viene risparmiata la vita. Ma deve perdere per sempre la libertà. Deve scomparire dalla vista degli uomini. Gli deve essere inflitta la pena che noi prevediamo al posto dell’esecuzione capitale; una pena che, non per questo, è meno dura. Anzi, è forse più spietata; fa dimenticare per sempre il condannato e lo lascia solo con il suo delitto, giorno e notte.
Pochi minuti prima delle 7 di sera, il presidente lesse la condanna: ergastolo.
Lucheni si alzò e gridò ai presenti con convinzione: «L’anarchia regna! Morte all’aristocrazia!».
Poi si fece portare via, senza resistenza.
Alle 7,05 di sera la seduta era tolta.
Lettera di Luigi Lucheni al principe Ramero de Vera d’Aragona a Palermo
Ginevra, 12 settembre 1898
Signor comandante di cavalleria,
La ringrazio infinitamente per la testimonianza che avete rilasciato alle autorità svizzere su di me. E vero, la realtà è dura, ma lo sapevo in anticipo. Il mio destino non è bello. Il mio futuro è triste, signor comandante. Non posso di certo dire che non lo sapevo. Anzi: l’ho cercato. Ero venuto troppo a contatto con la vita reale e mi ero troppo impegnato a trovare il mio ruolo nella società, il mio lavoro di manovale non riusciva più a soddisfare le mie esigenze. Ma non ho imparato nulla. Questo è il motivo principale per cui mi sono impegnato a cercare un posto di lavoro nel governo. Non ho mai odiato il lavoro. Ho sempre lavorato, ma guardate che ricompensa ne ho avuto. Non volevo di sicuro abitare in un grande albergo! Non ho mai invidiato le persone come Voi che viaggiavano in ferrovia con il vagone personale. Non ho mai voluto andare a teatro e sedere in prima o seconda fila della balconata. Sarei stato pienamente soddisfatto se avessi avuto la possibilità di vivere come un uomo, ma la società non me lo ha permesso. Pazienza! Sono felice di aver servito la mia patria in qualità di soldato e di aver fatto bene il mio dovere. Era mio dovere. Ho attirato su di me l’attenzione di tutti i soldati e gli ufficiali che mi hanno conosciuto. Chi volevo che sapesse quanto ero buono e bravo non lo ha mai saputo. Ma non fa niente. Mia madre, carne della mia carne e sangue del mio sangue, mi ha piantato in asso. Mi ha cacciato da casa sua, ma la perdono.
Signor comandante, Vi posso assicurare che il direttore del carcere può considerarmi davvero un buon detenuto, esattamente come Voi mi avete definito un buon soldato. Mi sono impegnato a fare il mio dovere, come se avessi un superiore a cui rendere conto. So che la mia buona condotta non mi aiuterà, ma non importa. Se sono stato capace di uccidere posso essere anche un bravo detenuto. Non perderò mai il coraggio, neanche a ottant’anni. Sarò sempre Lucheni. Signor comandante, con grande piacere Vi comunico che non potevo avere una difesa migliore. Mi ha fatto rivivere tutta la mia vita. Non glielo avevo chiesto io. Morirò in prigione; non lo dico per rendermi la pena più leggera. Ma adesso sono contento che tutti conoscano la vita di Lucheni dal momento in cui è venuto al mondo.
Ieri ho ricevuto la visita di un prete. A dire la verità non so se era di fede cattolica o musulmana. Comunque sia, ha trovato in me un cliente un po’ testardo. Mi ha promesso di ritornare spesso. Non so che cosa mi dirà per farmi passare il tempo. Gli ho detto che sarà molto difficile convertirmi. Nel caso vi faccia piacere, potrei forse farVi sapere se qualcosa dovesse cambiare.
Vi saluto e saluto anche tutto lo squadrone. Perdonatemi se il Vostro nome è comparso sui giornali insieme a quello di un assassino.
Saluti a tutti!
Luigi Lucheni
Per favore, dite a Rota che penso sempre al suo consiglio. Ma ormai è troppo tardi. Sono un morto vivente.
Il 19 ottobre 1910 Lucheni si suicidò impiccandosi nella sua cella con la cintura dei pantaloni.
Edizioni Anarchismo,
http://archivio.edizionianarchismo.net/library/luigi-lucheni-come-e-perche-ho-ucciso-la-principessa-sissi