Jean-Pierre Voyer
Introduzione alla scienza della pubblicità
Nota introduttiva alla terza edizione
Lettura attenta, questa, degli ultimi sussulti situazionisti, non accomunabile con quella puzza di cane morto che si sentiva all’epoca in altri testi. In sua compagnia pochi scritti che cercheremo di pubblicare nei prossimi numeri di questa collana.
Quale il pregio? L’avere individuato l’apparenza come sostanza dello spettacolo o, meglio, della pubblicità, di cui tutti ci strafoghiamo nella nostra vita quotidiana. Apparire e non essere. Viviamo per dar conto agli altri, mai a noi stessi. La nostra vita di fantasmi e ombre è leggibile in chiave altrui, per quel che ci concerne dobbiamo adeguarci, se appena rialziamo il capo ci inchiodano come ribelli e terroristi. Non siamo mai noi stessi ma solo il riflesso di gesti e parole che proiettiamo sul fondo della caverna dei massacri, dove i nostri contributi al comune compito sanguinoso appaiono con i contrassegni della ineluttabilità.
Non è vero che lo spettacolo ci rende estranei a noi stessi – e sul situazionismo è stata pronunciata la parola fine – anzi, la pubblicità, che è spettacolo cosciente di sé fino in fondo, ci rende perfettamente quello che siamo: apparenze in balia di codici e procedure amministrate i quali ci obbligano a fare quello che va fatto, produrre prima di tutto.
Questo libretto traduce in un’analisi altamente sofisticata il percorso di liberazione che possiamo ancora scavare all’interno delle mura che ormai ci circondano da ogni parte. Consideriamolo come strumento per l’azione che riprendiamo in mano a distanza di tanto tempo.
Insospettabilmente efficace.
Trieste, 22 ottobre 2011
Alfredo M. Bonanno
Introduzione alla scienza della pubblicità
“A poco a poco abbandonai l’idealismo
e pervenni a cercare l’idea nella stessa realtà”.
Karl Marx a suo padre, 10 novembre 1837.
Non vi spaventate, l’Idea è in ogni linea.
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La grandezza della Scienza della Logica e del suo risultato finale: la dialettica della negatività come principio motore e creatore, consiste in ciò: Hegel coglie la realtà come un’unità – come l’unità di ciò che esiste e dell’apparenza di ciò che esiste. Il reale contiene il negativo come apparenza e i popoli sono là qualche tempo prima di rendersi conto che essi sono. La filosofia che si pone dal punto di vista della realtà e vi si mantiene è rappresentata dal sistema di Hegel. La filosofia di Hegel è la teoria materialista dell’idea. Per ciò che riguarda la confutazione di un sistema filosofico, significa commettere un grossolano errore rappresentando il sistema che si vuole confutare come falso da un capo all’altro, e come se si trattasse soltanto di opporre il vero sistema al falso. Un sistema è falso solo quando pretende che il suo punto di vista sia definitivamente il più alto. Il vero punto di vista del sistema hegeliano è la risposta al problema di sapere se è vero o falso uscirsene tutti soli dall’insieme cui si ricollegano le considerazioni su questo sistema. Sarebbe errato vedere in questo punto di vista una semplice opinione, il prodotto soggettivo di un modo di rappresentazione o del pensiero di un qualsiasi individuo, di una speculazione indirizzata in modo scorretto. Hegel si pone dal punto di vista dell’economia politica moderna. Egli concepisce il lavoro, in tanto che rapporto tra la materia con se stessa, come l’essenza e la conferma dell’essenza dell’uomo.
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Tutto comincia col lavoro, questa attività comune a tutti gli animali. Il lavoro costituisce l’inizio in quanto esso è attività pura come il semplice vivente; ma questo primo cominciamento non può essere niente di mediato e di preciso fin dal principio. Il lavoro rappresenta l’indipendenza immediata di fronte alla totalità riflessa e alla sua ragione d’essere non in un tutto ma in se stesso. La definizione veramente primaria dell’umanità è, per conseguenza, che essa è il lavoro puro. E la storia deve essere storia del lavoro.
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Il lavoro è il bisogno che si sopprime. Come l’hanno chiaramente dimostrato i celebri lavori di Pavlov, il bisogno contiene il negativo come apparenza, esso si contiene esso stesso come bisogno già soppresso in apparenza. Il lavoro è immediatamente l’unità del negativo con se stesso. L’equilibrio che si stabilisce tra il bisogno e il bisogno soppresso in apparenza è prima di tutto il lavoro esso stesso. Ma quest’ultimo si contrae ugualmente per formare una calma unità. Il bisogno e il bisogno soppresso in apparenza vi sono solo in via di evanescenza, ma il lavoro come tale implica la loro diversità. L’evanescenza o sparizione del bisogno e del bisogno soppresso in apparenza equivale alla sparizione del lavoro. Il lavoro è quindi immediatamente l’unità di ciò che esiste e dell’apparenza di ciò che esiste. L’apparenza è il principio del vivente.
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L’apparenza non è qualcosa che appare o apparenza di qualcosa, e nemmeno apparenza per un altro. L’apparenza è quel cataclisma che fa che ciò che esiste diventi qualcosa. L’apparenza è la pura apparenza di ciò che esiste. L’apparenza è niente che esista. L’apparenza è astrazione assoluta; questa negatività non le è esteriore, ma l’apparenza è apparenza e niente altro che apparenza. L’apparenza è essa stessa immediatamente determinata. Essa può avere tale o tal altro contenuto; quale che sia, essa non lo fonda essa stessa ma lo possiede immediatamente.
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A Hegel spetta il grande merito di avere compreso per primo l’importanza dell’apparenza, di averle accordato nella teoria il posto che occupa comunque nella realtà. L’apparenza è la pura negatività, la negatività concepita come apparenza. Essa è considerata come qualche cosa di morto quando le si attribuiscono facoltà e forze efficienti per se stesse, che essa deve avere. Essa è allora una cosa, fatta di diverse determinazioni sussistenti indifferenti le une di fronte alle altre. L’apparenza è la stessa cosa della riflessione. Ma non si tratta qui né della riflessione della coscienza, né della riflessione più determinata della pubblicità che ha come proprie determinazioni l’individuo e il genere, ma della riflessione e basta. Di fronte ai leninfilosofi che mettono nell’apparenza tutta la ricchezza del mondo per poi negare ogni obiettività dell’apparenza, noi abbiamo come unico scopo di testimoniare l’importanza essenziale dell’apparenza nelle cose umane, importanza che il suo stesso movimento in ogni modo la porta a concedersi.
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Il lavoro è lo scopo, la presenza di ciò che non esiste nel seno di ciò che esiste, la determinazione di ciò che esiste da parte di ciò che non esiste. La proposizione del negativo o della teleologia – dello scopo – è molto semplice e si enuncia così: ciò che esiste è determinato dall’apparenza di ciò che esiste. In altre parole, il negativo risiede nell’apparenza. Darwin ha dimostrato perfettamente nella sua Origine delle specie che non c’è traccia di teleologia appartenente alla specie nella trasformazione delle specie animali. Tuttavia, egli dimostra non meno perfettamente che questa trasformazione riposa necessariamente su una teleologia, non quella della specie, ma quella dell’individuo animale, quella del bisogno. Il bisogno è l’animale che vuole vivere. La trasformazione della specie non appartiene all’individuo animale, ma risiede nell’accidente genetico. Il ruolo dell’animale si limita a vivere o a morire. Se muore, non genera. Se vive, genera. E la morte è il principio essenziale della vita della specie. La trasformazione della specie animale è l’unità negativa nella quale si risolve l’opposizione del negativo limitato e del positivo limitato. La negatività dell’animale è incapace di raffinarsi da se stessa. L’animale non è un individuo generico in quanto non intrattiene con il proprio genere altra relazione che quella negativa, come quella che lega la dimensione di un’isola e la dimensione della specie più grande che vi può esistere.
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Se il lavoro bestiale e limitato contiene il negativo, questo non è che un negativo bestiale e limitato esso stesso nella misura in cui esso non raffina niente, non calcola niente, non differenzia niente, non identifica niente. È un’apparenza cieca, sorda e muta. La negatività del lavoro animale, del lavoro indipendente, resta rinchiusa in una sfera limitata, questo negativo non esce da se stesso. Solo l’oggettivazione dell’apparenza potrà sopprimere l’indipendenza limitata del lavoro puro. Il lavoro bestiale è la varietà senza consistenza, la varietà indifferente, la totalità amorfa della multiformità, cioè totalità soltanto per un altro, varietà a-totalitaria. Esso tollera ogni limite, ogni esterno, ogni altro. Esso è limitato. In quanto cominciamento, è un cominciamento che tollera che si cominci prima di esso. Non è fondato.
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Il solo lavoro che Hegel conosce e riconosce è il lavoro intellettuale, il lavoro astratto. Marx, non soddisfatto del lavoro astratto, si appella al lavoro concreto, alla fatica; ma non concepisce la realtà come attività generica cioè come relazione dell’individuo e del suo genere – come attività propriamente umana. Marx vuole lavori concreti, realmente distinti dai lavori mentali: egli non concepisce tuttavia l’attività umana essa stessa come attività rivelante il negativo, come attività cosciente. Egli non considera quindi nella maggior parte della sua opera, come veramente umano, che il comportamento laborioso, mentre la pratica non vi è concepita e definita che nella sua manifestazione animale sordita. Di conseguenza, egli non coglie tutto il significato dell’attività “rivoluzionaria”, pratico-critica.
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Marx ignora il momento astratto dello scambio. Lo scambio è il rapporto generico per eccellenza. Il difetto principale di ogni materialismo fin qui noto – salvo quello di Hegel – è che la realtà concreta non vi è concepita che sotto forma di lavoro bestiale e limitato, non come attività propria umana, come rapporto del lavoro a se stesso, non negativamente, come rapporto. Ciò perché l’aspetto propriamente umano è stato sviluppato astrattamente, in opposizione con il materialismo, attraverso la pseudo-pubblicità commerciale, questa pubblicità di un mondo senza pubblicità, che parla di ciò che essa non vende e vende ciò di cui essa non parla, e che, naturalmente, ignora l’attività propriamente umana come tale.
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Si possono differenziare gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per il lavoro, per ciò che si vuole. Essi cominciano da se stessi a differenziarsi dagli animali dal momento che cominciano a scambiare i propri mezzi di sussistenza, questi uomini producono indirettamente il proprio genere, cioè essi stessi come uomini. L’animale si confonde interamente e direttamente con la sua attività vitale. Esso è questa attività. L’uomo fa di questa attività un oggetto di scambio. Lo scambio dell’attività umana all’interno della produzione come pure lo scambio dei prodotti umani tra essi, è l’attività generica e lo spirito generico. Per conseguenza, la definizione veramente umana dell’umanità è che essa è lo scambio puro. E la storia deve essere storia dello scambio.
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Gli uomini sono così come manifestano la propria umanità. Ciò che essi sono coincide dunque con lo scambio, sia per ciò che essi scambiano, sia per il modo in cui essi scambiano. Quello che gli uomini sono, quello che l’umanità è dipende dunque per conseguenza dalle condizioni materiali dello scambio. La storia dello scambio, l’esistenza oggettiva dello scambio, è il libro aperto delle forze essenziali dell’uomo, la psicologia umana materializzata. Una psicologia, per la quale questo libro, cioè precisamente la parte materialmente presente, la più accessibile della storia, resta chiusa, non può diventare una scienza reale, veramente ricca di contenuto.
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L’umanità non è una sostanza alla quale possono accadere accidenti. Lo stesso per una forma che metterebbe in azione questa sostanza. Nell’umanità, il principio formale è nello stesso tempo il principio sostanziale. Lo scambio è questo principio. Lo scambio è il fondamento dell’umanità come unità dell’identità e della differenza; la riflessione in sé che è del tutto altrettanto riflessione in altra cosa, e inversamente. È l’essenza umana posta come relazione.
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Lo scambio non è solo una relazione tra le tante possibili. Lo scambio è la relazione, la relazione che esiste per dire con esattezza, cioè una relazione sostanziale, che non esiste solo per un altro ma i cui termini possiedono le sue determinazioni, a cominciare dalla sua determinazione di relazione. Ogni relazione è una relazione di scambio. Non esiste relazione che di scambio. La relazione non esiste che a condizione di esistere per se stessa, nei suoi termini, in un rapporto a se stessa, in altre parole, se i suoi termini contengono il negativo come apparenza. Una relazione che non esiste per se stessa, in rapporto a se stessa, non possiede la sua determinazione di relazione. Questa determinazione le è esteriore. Essa non è relazione che per un altro.
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Lo scambio è la relazione identica, la relazione che produce lo stesso e l’altro, l’identico e il differente, cioè essa stessa come relazione, come unità dell’identico e del differente. Lo scambio è immediatamente produzione dell’identità. Lo scambio è immediatamente produzione dell’opposizione, affermazione della differenza, dell’altro. L’affermazione della differenza nello scambio è immediatamente differenziazione dell’attività e dei prodotti dell’attività. Lo scambio produce e sopprime la differenza nello stesso momento. Identità e differenza non possono esistere che nello scambio. L’identità che non sia nello stesso tempo opposizione, non è che un’identità impropria, puramente esteriore, identità per un altro. Nello stesso modo, la differenza che non sia nello stesso tempo identità non è che diversità, differenza per un altro. Per prima cosa nello scambio si afferma la contraddizione tra le proprietà immediate e particolari del lavoro e la sua proprietà generale, propriamente umana, la sua capacità a scambiarsi. Immediatamente differente, esso deve differenziarsi da se stesso allo scopo di affermarsi come identico.
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Nello scambio, la differenza è la negatività implicante la sua soppressione, il niente enunciato nel linguaggio o nei termini dell’identità. L’identità e la differenza del lavoro non esistono che nella loro unità, lo scambio, e in quanto contrari. Esse non esistono in quanto soppresse, ma in quanto passano nel loro contrario, nell’unità della loro relazione. L’identità è qualcosa che differisce e la differenza è qualcosa d’identico. L’identità è il momento essenziale della differenza, e la differenza è il momento essenziale dell’identità. Lo scambio contiene dunque più di un’identità semplice, astratta: contiene il puro movimento della soppressione, del passaggio in altra cosa, il movimento del negativo, a favore del quale l’altro si presenta come una semplice apparenza, votata alla sparizione.
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Se il bisogno dell’uno è soppresso dal lavoro dell’altro e viceversa, senza che nessuna violenza venga esercitata, significa che l’uno è capace di produrre l’oggetto del bisogno dell’altro, e reciprocamente. Ma quando la mia produzione è calcolata in funzione del tuo bisogno, raffinata in quella prospettiva, io non produco che in apparenza questo oggetto; in verità io produco un altro oggetto, l’oggetto della tua produzione, oggetto che io penso scambiare contro l’oggetto della mia produzione, scambio che io ho già effettuato nel pensiero. Lo scambio è il lavoro che si sopprime come pura apparenza.
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Nel pensiero tedesco, sopprimere ha un doppio senso: quello di conservare, di mantenere (aufheben significa in tedesco rilevare, sollevare e sopprimere), e quello di fare cessare, di mettere un termine. Conservare, mantenere implica inoltre un significato negativo, che qualcosa è tolta, per conservarle la sua immediatezza, la sua indipendenza accessibile alle influenze esterne. Così ciò che è soppresso è nello stesso tempo ciò che è conservato, ma con la perdita della sua indipendenza soltanto, senza per ciò essere annientato. Lessicologicamente, queste due determinazioni della soppressione possono essere considerate come due significati di questa parola. Si può dunque trovare sorprendente che una lingua sia pervenuta ad impiegare una sola e identica parola per designare due determinazioni opposte. Il pensiero dialettico non può che dirsi contento di trovare nella lingua parole aventi in se stesse un significato dialettico, e il pensiero tedesco possiede molte di queste parole. Si sopprime una cosa solo facendo in modo che questa cosa formi una specie di unità con il suo contrario; in questa determinazione più accostata, si può dargli il nome di momento. Nel caso della leva, si chiama momento il peso e la distanza a partire da un dato punto, e ciò a causa dell’identità della loro azione, quali che siano, per altro, le differenze che comportano il peso e la distanza. Il senso e l’espressione più precisa che il lavoro e il lavoro soppresso ricevono così, in quanto momenti, si allargano, quando consideriamo la pubblicità come l’unità nella quale essi sono conservati. Il lavoro non è il lavoro e il lavoro soppresso non è il lavoro soppresso che nei limiti in cui si tiene presente la differenza che li separa; ma considerati dal punto di vista della loro verità, della loro unità, essi scompaiono come tali e diventano altra cosa. Il lavoro e il lavoro soppresso sono una sola e medesima cosa; ed è perché sono una sola e medesima cosa che essi non sono più lavoro e lavoro soppresso e ricevono una determinazione differente. Questa unità resta la loro base, che essi non abbandonano più per ricevere nuovamente l’astratto significato di lavoro e di lavoro soppresso.
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La soppressione è uno dei concetti più importanti della storia, una determinazione fondamentale che ritorna in ogni istante, quindi interessa comprenderne bene il senso, determinazione che bisogna soprattutto distinguere bene dal nulla. La cosa soppressa è la non-esistente, ma in quanto apparenza avente per matrice e origine ciò che esiste. Essa conserva ancora per questo motivo il carattere definito di questa matrice. Così, lo scambio è il lavoro soppresso; ma il lavoro è ciò che domina lo scambio, il soggetto reale dello scambio. Tuttavia il lavoro consente una potenza cui era impossibile pensare in assenza della sua soppressione.
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Uno dei principali pregiudizi del riformismo consiste nel vedere nell’apparenza una determinazione meno essenziale e immanente dell’esistenza. Quand’anche si fosse trattato di un problema di gerarchia e fosse stato necessario persistere nel mantenimento di queste due determinazioni isolate l’una dall’altra, sarebbe stata piuttosto l’apparenza la determinazione più profonda ed essenziale. Il fatto è che l’esistenza è, comparativamente all’apparenza, determinazione del semplice immediato; ma l’apparenza è la radice di ogni movimento storico e di ogni manifestazione umana; è solo nella misura in cui essa racchiude l’apparenza, che una cosa è capace di movimento, di attività storica, di manifestare tendenze storiche. L’apparenza è ugualmente ciò che si scarta per primo dalle cose, dalla realtà e dal vero in generale. Si confonde in particolare l’apparenza e l’errore e si dice di una cosa falsa che essa è un’apparenza. In secondo luogo, al contrario, la si respinge nella coscienza, dicendo che è quest’ultima che si lascia corrompere e che pone l’apparenza. Che si tratti della realtà o della coscienza, l’apparenza è considerata come un semplice accidente, per non dire come una anomalia o un parossismo morbido passeggero. Una determinazione assoluta dell’umanità deve ritrovarsi in ogni esperienza, in tutto ciò che è realmente umano. Quello che emerge in modo generale da ciò che stiamo dicendo riguardo la natura dell’apparenza, è che dicendo di una cosa che essa racchiude l’apparenza, non si enuncia su di essa un giudizio peggiorativo. Secondo il riformismo, l’assoluto sarebbe perché il finito è. Ma la verità è che l’assoluto – ciò che è infinito, ciò che è libero da ogni legame, ciò che non tollera alcun limite – esiste solo perché il finito è l’opposizione contraddittoria in sé, perché esso non è, perché esso contiene il negativo. Secondo la prima concezione, l’essere del finito sarebbe l’essere dell’assoluto: “Arbeit macht Frei”. Ma secondo la nostra, è il non-essere del finito che è l’essere dell’assoluto. Il finito contiene l’assoluto come negativo, esso contiene la sete di pubblicità, la sete di ricchezza. Se la dialettica materialista di Hegel ha fatto un uso abusivo della triade, è semplicemente perché la dialettica essendo l’atticità dell’apparenza, è nello stesso tempo la logica della triade: ciò che esiste, l’apparenza di ciò che esiste, l’unità di ciò che esiste e dell’apparenza di ciò che esiste.
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Lo scambio è l’inseparabilità dell’identità e della differenza; esso non è l’unità facente astrazione dell’identità e della differenza, ma, in quanto unità dell’identità e della differenza, esso è questa unità definita, o l’unità nella quale l’identità e la differenza sono, quando l’identità e la differenza, in quanto separate l’una dall’altra, non sono. Esse si trovano quindi in questa unità, ma in via di scomparire, in quanto soltanto sospese. Dalla loro presunta indipendenza, esse discendono al rango di momenti, ancora distinti, ma nello stesso tempo soppressi. Considerato dal punto di vista di questa distinzione ciascuno di essi vi è in unità con l’altro. Lo scambio contiene quindi l’identità e la differenza come due unità di questo genere, quindi ciascuno è a sua volta l’unità dell’identità e della differenza: l’identità come unità diretta e per rapporto alla differenza; e la differenza come unità diretta e per rapporto all’identità. Lo scambio è così doppiamente determinato: la prima delle sue determinazioni è costituita direttamente dalla differenza, cioè lo scambio comincia con la differenza che si rapporta all’identità, o più esattamente che passa all’identità; l’altra è costituita dall’identità, lo scambio cominciante dall’identità che si rapporta alla differenza o, più esattamente, passa alla differenza: apparizione e scomparsa. Nei due casi, si tratta della stessa cosa, cioè dello scambio. Vi è da un lato scomparsa: la differenza si trasforma in identità con la sparizione della differenza oppure l’identità si trasforma in differenza con la sparizione dell’identità. Dall’altra parte, vi è apparizione: la scomparsa della differenza è l’apparizione dell’identità, di ciò che vi è d’identico e la sparizione dell’identità è l’apparizione della differenza, di ciò che vi è di differente. Questi momenti non si sopprimono reciprocamente agendo reciprocamente esteriormente l’uno sull’altro; ma ciascuno si sopprime da se stesso e contiene in se stesso il suo contrario.
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Lo scambio è la manifestazione dell’apparenza, l’apparenza manifesta e manifestata. È il riconoscimento di ciò che non esiste da parte di ciò che non esiste, il riconoscimento pratico, il riconoscimento hegeliano purgato da ogni traccia d’idealismo. La manifestazione immediata della sua attività vitale distingue direttamente l’uomo dall’animale. Il lavoro diventa umano, quando e perché esso è umano per un altro lavoro, cioè esso è umano solo in quanto lavoro riconosciuto, in quanto lavoro soppresso. Nello scambio, l’attività vitale dell’uomo non è una determinazione con la quale esso si confonde immediatamente. Lo scambio è l’essenza manifesta dell’uomo, cioè non solo l’essenza, ma l’essenza che deve necessariamente apparire.
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Lo scambio è la scomparsa dell’identità nella differenza e della differenza nell’identità; è la scomparsa dell’identità e della differenza in generale, ma esso si basa nello stesso tempo sulla distinzione tra l’uno e l’altro. È dunque in contraddizione con se stesso, perché riunisce dei contrari; ma una simile unione si distrugge da se stessa. Lo scambio non ha l’indipendenza del lavoro o della cosa. Esso non consiste in se stesso e per se stesso. Il suo fondamento gli è necessariamente esteriore, e immediatamente lo scambio resta qualche cosa di inessenziale di fronte a qualche cosa di essenziale. Che cosa, quindi, costituisce nell’uomo il genere, l’umanità propriamente detta? Lo scambio ha per fondamento la pubblicità, cioè lo scambio di tutto con tutto. La proposizione della pubblicità si enuncia: “Ogni scambio ha per ragion d’essere sufficiente la pubblicità”. Lo scambio consiste nella pubblicità. Ciò che distingue veramente l’uomo dall’animale non è solo lo scambio, ma lo scambio generalizzato. La definizione veramente primaria dell’umanità è per conseguenza che essa è pubblicità e la storia deve essere storia della pubblicità.
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Solamente ai nostri giorni ci si è resi conto quanto era difficile assegnare all’umanità un cominciamento; e la causa di questa difficoltà, come la possibilità di risolverla, sono state oggetto di numerose discussioni. L’umanità comincia con la pubblicità. A quello che abbiamo detto riguardo questa cosa così semplice per sapere il cominciamento dell’umanità, possiamo ancora aggiungere le seguenti riflessioni, che per altro non sono destinate a chiarire o a confermare quanto esposto, che è già sufficiente da se stesso. Sono rappresentazioni e riflessioni che possiamo incontrare nel nostro cammino, ma che, come tutti i pregiudizi con cui abbiamo avuto a che fare, si dissipano in seno alla scienza stessa, per cui non c’è altro da fare che armarsi di pazienza e sopportarli con calma. L’opinione secondo la quale l’assolutamente vero deve essere un risultato e, inversamente, un risultato avere, da parte sua, per premessa una verità primaria e antecedente, ma che, in quanto primaria, non è una verità necessaria oggettivamente è l’opinione del riformismo, del positivismo, della teoria idealista della materia. La nostra opinione è, al contrario, che la progressione è una regressione verso il fondamento, verso l’originale e il vero, verso ciò da cui dipende questo che è servito per cominciamento. È così che l’apparenza, partendo dall’immediato con cui essa comincia, si trova ricondotta alla pubblicità come alla sua verità più intima. È dal fondamento che sorge il cominciamento che si presenta come l’immediato. È così che la pubblicità, che si rivela come la verità concreta, come l’ultima e più alta verità, si presenterà in tutta la sua libertà al termine dello sviluppo sotto la forma di qualche cosa d’immediato, e procederà alla creazione di un mondo che conterrà tutto ciò che era implicito nello sviluppo che ha preceduto questo risultato e che, a seguito di questo capovolgimento dei rapporti col suo cominciamento fa apparire quest’ultimo dipendente dal risultato, come se quest’ultimo era il suo principio. In quanto cominciamento, la pubblicità dipende da essa stessa come risultato. Ciò si enuncia dicendo: “Si ha il cominciamento che si merita”. L’antinomia del cominciamento dell’universo scomparirà il giorno in cui la nostra potente razza produrrà questo cominciamento. La questione della verità del pensiero umano (del pensiero tout court) non è una questione teorica, ma una questione pratica anche quando si tratta del cominciamento. La pubblicità è il cominciamento che non tollera che si cominci prima di lui, è un cominciamento che non ha finito di cominciare, è il cominciamento infinito, l’eterna novità.
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La pubblicità è il rapporto di tutto il lavoro a tutto il lavoro. È la totalità del lavoro che esiste, il lavoro che esiste come totalità, cioè il contrario del lavoro, il lavoro totalmente soppresso. La pubblicità è l’apparenza di tutto il lavoro in tutto il lavoro, cioè l’apparenza di tutto il lavoro in se stesso. È il lavoro che si sopprime come una totalità dell’apparenza. La pubblicità contiene il negativo come apparenza, ma come assoluto, come rapporto di tutto il negativo a tutto il negativo. La pubblicità non è altro che le condizioni materiali dello scambio e queste condizioni sono le condizioni del negativo.
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La pubblicità è infine tutto quello che esiste. Ogni elemento estraneo è soppresso nella totalità e questa esiste da essa stessa e in essa stessa. Il modo d’esistenza necessario della totalità è che appaia in se stessa e il concetto della totalità, tale che implichi la sua esistenza, è: “Tutto appare in tutto”. Allora quello che non era altro che una sottile piacevolezza riformista si rivela come il concetto adeguato della pubblicità, che è, essa, piacevolezza assoluta: “Tutto è in tutto e reciprocamente”. La pubblicità è l’identità assoluta, assolutamente differenziata, concetto che implica l’esistenza poiché è il concetto che si concepisce esso stesso. La pubblicità è la totalità che ha raggiunto la perfetta uguaglianza con se stessa, la totalità che è il suo proprio contenuto e si concepisce essa stessa. Nella pubblicità, la coscienza è identicamente il nuovo modo di produzione e il nuovo oggetto della produzione, e l’umanità scopre allora che essa ha sempre posseduto il sogno di qualcosa di cui bastava possedere la coscienza per possederla realmente.
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La pubblicità è la riflessione di se stessa in se stessa. La pubblicità contiene l’apparenza in quanto movimento infinito di se stessa all’interno di se stessa. La negazione che forma il fondo della pubblicità non è altro che l’incontro positivo della causa con se stessa, cioè dell’apparenza con se stessa. L’apparenza è il fondamento, la ragion d’essere della pubblicità. La pubblicità è la passione dell’apparenza per se stessa.
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Il genere dell’uomo non è altro che la pubblicità. Gli uomini, affermando il loro essere, creano e producono la pubblicità come loro genere, il quale non è una potenza astrattamente universale, opposta agli individui particolari, ma loro proprio essere, loro propria attività, loro propria vita, loro proprio spirito, loro propria ricchezza. Lo scambio in quanto attività generica e in quanto spirito generico non acquista un’esistenza reale e vera che con la pubblicità. La pubblicità è la verità dello scambio, la verità di questo come l’identità e la differenza si sono prodotte. La pubblicità è la forza assoluta, unica, suprema, infinita, alla quale nessun oggetto saprebbe resistere; è la tendenza dell’umanità a prodursi essa stessa in ogni cosa; è l’unità del metodo e del sistema.
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La pubblicità è l’essenza umana posta come totalità, come genere, come sostanza. È un essere della riflessione, un essere negativo, tutto non vi è prodotto che in quanto vi è soppresso. Essa è essenzialmente il processo di se stessa in se stessa e le sue parti non sono che in quanto passano in altra cosa. Nella pubblicità, l’indipendenza ancora attaccata al rapporto di scambio scompare. La pubblicità è lo scambio di tutto con tutto. In questa differenza del tutto universale, lo scambio stesso scompare ed è la sostanza o il reale che viene ad occupare il primo posto, in quanto unità assoluta dell’individuo e del genere, dell’indipendenza riflessa e dell’indipendenza immediata. La nuova indipendenza che si svincola allora dalle rovine di quelle che l’hanno preceduta è, nella pubblicità assoluta, l’indipendenza dell’individuo che è identicamente indipendenza del suo genere. L’individuo diventa la mediazione assoluta di questo scopo assoluto in cui consiste la pubblicità, perché, nella pubblicità, dipendenza e indipendenza sono confuse in una pura apparenza.
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Così, per noi è già presente il concetto di Spirito o di pubblicità. La teoria non è ancora la pubblicità, ma il suo concetto soggettivo. La teoria è la coscienza di sé dell’uomo. Ciò che verrà più tardi per l’umanità, è l’esperienza di ciò che è la pubblicità, questa sostanza sociale, che, nella perfetta libertà e indipendenza degli individui, costituisce la loro unità. Il concetto di pubblicità è uno dei più difficili perché è precisamente quello che esiste dell’umanità, il concetto della storia. Il concetto più importante e il più vero dell’epoca è precisamente misurato dall’organizzazione sopra di esso della più grande confusione e dei peggiori controsensi. Questo concetto vitale conosce di volta in volta gli utilizzi più veri e i più menzogneri, perché la lotta della realtà critica e dello spettacolo apologetico conduce a una lotta sulle parole. Non è la purga autoritaria, è la coerenza del suo impiego, nella teoria e nella vita pratica, che rivela la verità di questo concetto.
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Il concetto di pubblicità comporta il vantaggio, di fronte ai concetti di comunità, di società, di genere, di totalità, di manifestare che la totalità degli individui contiene il negativo come una totalità dell’apparenza e che è in ciò, per dirla in modo preciso, che essa è una totalità e non solo una totalità per un altro. Il concetto di pubblicità è un termine attivo. La pubblicità è l’attività dell’apparenza. La pubblicità è l’unità dell’insieme dell’apparenza e dell’apparenza dell’insieme. È l’insieme paradossale che si contiene esso stesso come apparenza.
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Il concetto di pubblicità è il punto di vista superiore che comprende i due momenti precedenti. Per esso la realtà, la verità, contiene il negativo come apparenza; il reale è l’unità di ciò che esiste e dell’apparenza di ciò che esiste, l’unità del lavoro e della soppressione del lavoro, l’unità del lavoro e dello scambio. Per esso, tutto ciò che è reale è vero; ma solo ciò che è vero è reale. La scienza della pubblicità riabilita l’apparenza, perché essa ne fa il momento essenziale della realtà, il momento per cui la realtà diventa reale, il momento del negativo. Certo, la realtà è sempre esistita, ma non sempre come realtà. I riformisti e gli stalinisti hanno anche troppo trasformato il mondo per il nostro gusto. Si tratta ora di trasformarlo interpretandolo e di interpretare trasformandolo. Noi useremo, in disprezzo di tutte le proibizioni, l’arma vendicatrice dell’idea contro ogni bestialità del materialismo limitato, contro ogni sufficienza dell’idealismo della materia.
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La coscienza che resta nella sfera del riformismo e non ha che pensieri che sono ancora legati alla sottomissione, è abituata a partire dalle cose esistenti, e, quando si eleva al pensiero della loro pubblicità, prende il rapporto della pubblicità e di ciò che è soltanto rappresentato, come se lo spettacolo fosse il reale e la pubblicità solo un’astrazione soggettiva che sostituisca il contenuto dello spettacolo. In seguito, la pubblicità, come pubblicità che non ha alcun contenuto determinato e non ha uno spettacolo come punto di partenza e punto di appoggio, è presa per entità logica semplicemente formale. Ora, qui non si tratta di tali rapporti: la cosa esistente e tutte le sue determinazioni ulteriori si sono dimostrate come non vere e sono ritornate nella pubblicità come nel loro ultimo fondamento. La pubblicità è con ciò dimostrata come ciò che è in e per sé vero e reale; e ogni contenuto che essa ha in più o in meno non può esserle dato che da se stessa.
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Per il riformismo è un compito facile presentare tutto ciò che è detto della pubblicità come contraddittorio in sé. La qual cosa può essergli restituita, come già accaduto nella storia: un cane si gratta dove ha prurito, un riformista si gratta in un altro posto. Quindi, se il riformismo dimostra, come pretende, che la pubblicità si contraddice essa stessa perché, per esempio, il soggettivo è soltanto soggettivo e l’oggettivo è opposto ad esso, che l’essere è qualche cosa del tutto diverso dallo spirito e quindi non può essere concepito come il primo, e lo stesso il finito è soltanto finito, e direttamente il contrario di infinito, dunque non è identico al primo, e così via passando per tutte le determinazioni, la teoria dimostra piuttosto l’opposto; nel sapere che il soggettivo che sarebbe soltanto soggettivo, il finito che sarebbe soltanto finito, l’infinito che sarebbe soltanto infinito, e così via, non c’è alcuna verità, essi si contraddicono e passano nel loro contrario, ciò perché questo passaggio e l’unità nella quale gli estremi si trovano a titolo di estremi soppressi, a titolo di apparenza, cioè come momenti, si rivelano come costituenti la loro verità. Il riformismo che si applica all’uomo è l’atto di intendere di traverso doppiamente, primo, gli estremi dell’uomo, in qualsiasi modo si esprimano, fin quando sono nella loro unità, prendono ancora un senso tale che non sarebbero nella loro unità concreta, ma sarebbero astrazioni al di fuori di essa; esso perde di vista, per esempio, di già la natura di ciò che unisce nella separazione, cosa che fa sì che l’individuo è prima di tutto non un individuo ma il genere, il generale. D’altra parte, il riformismo considera la riflessione secondo la quale l’uomo identico a se stesso contiene il negativo di se stesso, la contraddizione, come una riflessione esterna, che non cade nell’uomo stesso. In realtà tuttavia, non si tratta di una saggezza propria del riformismo, ma, poiché l’uomo è questa negatività, è in lui stesso la dialettica che eternamente separa l’identico a sé dal differente, il soggettivo dall’oggettivo, il finito dall’infinito, e non è che in questa misura eterna creazione, eterna vitalità e eterno spirito. Mentre l’uomo è così egli stesso il fatto di passare nel riformismo astratto, è anche ben eternamente pubblicità intanto che la dialettica fa intendere nuovamente, a questo essere alienato che proviene dal riformismo, la sua natura e l’apparenza falsa della sussistenza-per-sé delle sue produzioni, e lo riconduce all’unità. L’uomo è l’eterna intuizione di se stesso nell’Altro; il concetto che ha realizzato nella sua oggettività se stesso, l’oggetto che è finalità interna, che è soggettività essenziale. Le diverse maniere di considerare l’uomo come unità di ideale e reale, di finito e infinito, di identità e differenza, e così via, sono più o meno formali, in quanto designano un qualsiasi grado dell’individuo determinato. Nella pubblicità, solo l’individuo stesso è libero la qual cosa è veramente universale. Nella pubblicità, solo l’individuo è l’essere sociale perché la pubblicità è pura negatività. La pubblicità è il giudizio infinito che è anche assolutamente identico ai suoi lati: individuo e genere di cui ciascuno è la totalità sussistente per sé e giustamente dato che ognuno si compie in essa, e passa dall’altro lato. Ognuno degli individui altrimenti determinati non è questa totalità compiuta nei suoi due lati, al di fuori dell’individuo in se stesso e della pubblicità.
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La produzione dell’umanità è la più concreta di tutte le produzioni, per conseguenza la più alta e la più difficile. Produci te stesso, questo precetto assoluto, né in sé né nelle circostanze storiche in cui è enunciato, ha la semplice significazione di una produzione di sé secondo le attitudini, il carattere, le inclinazioni e le debolezze particolari dell’individuo, ma significa la produzione di ciò che è veramente nell’uomo, e anche ciò che è veramente in sé e per sé, l’essenza stessa (che è la verità dell’essere) in quanto pubblicità.
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La pubblicità è l’inseparabilità dell’individuo e del genere; essa non è l’unità facente astrazione dell’individuo e del genere, ma in quanto unità dell’individuo e del genere, essa è questa unità definita, o l’unità nella quale l’individuo e il genere sono, mentre l’individuo e il genere, in quanto separati l’uno dall’altro, non sono. Essi si trovano quindi in questa unità, ma in via di sparizione, in quanto solamente sospesi. Dalla loro presunta indipendenza, essi discendono al rango di momenti, ancora distinti, ma nello stesso tempo soppressi. Nella pubblicità assoluta l’individuo e il genere sono la stessa cosa. Quello che è vero non è né l’individuo né il genere, ma il passaggio e il passaggio già effettuato (la preistoria terminata, che è storia di questo passaggio nell’effettività) dell’individuo nel genere e di questo in quello. Ma è anche vero che lungi dall’essere indistinti, lungi dall’essere la stessa cosa, l’individuo e il genere differiscono assolutamente l’uno dall’altro, pur essendo inseparati e inseparabili, ciascuno apparendo direttamente nel suo contrario. La verità consiste quindi in questo movimento di apparenza diretta dell’uno nell’altro: nella pubblicità, movimento che, nello stesso tempo che fa uscire la loro differenza, la riduce e la sopprime.
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Che il risultato, in base al quale il genere e l’individuo sono la stessa cosa, sia fatto per sorprendere certuni o apparire loro paradossale, importa poco; ciò che vi si potrebbe trovare di stupefacente, è lo stupore che si manifesta da qualche tempo in pubblicità e che proviene dal fatto che si dimentica che questa scienza comporta delle determinazioni del tutto diverse da quelle della coscienza ordinaria e di ciò che si chiama la comprensione riformista corrente, che non è per nulla il modo di comprendere proletario, ma la comprensione indirizzata verso l’astrazione o la credenza, diremmo anche verso la credenza superstiziosa delle astrazioni. Si pensa che il genere sia ben altra cosa dell’individuo, che nulla sia più evidente della loro differenza assoluta e che non ci sia niente di più facile del rilevare e riconoscere questa differenza. Ma nulla è così facile che il constatare che ciò è impossibile, che questa differenza è inesprimibile. Quelli che insistono sulla differenza tra il genere e l’individuo farebbero bene a dirci in cosa essa consista. Esigere l’indicazione precisa della differenza tra il genere e l’individuo, significa esigere nello stesso tempo la definizione dell’uno e dell’altro. Quelli che si rifiutano di riconoscere che il genere e l’individuo sono destinati a passare l’uno nell’altro e affermano questa o quella cosa dell’uno e dell’altro, dovrebbero dirci esattamente di cosa parlano; in altre parole, essi dovrebbero non solo dare una definizione di genere e di individuo, ma ancora dimostrare che questa definizione sia giusta. Fin quando non hanno soddisfatto a questa prima esigenza della vecchia scienza di cui tuttavia sottolineano il valore ed applicano le regole logiche, tutte queste affermazioni relative al genere e all’individuo resteranno affermazioni senza valore scientifico. La differenza non è quindi su ciò che essi sono in essi stessi: è una differenza pensata, chiamata anche “dato puramente soggettivo” che non viene tenuto qui in considerazione. Si tratta quindi di qualcosa che abbraccia sia il genere e l’individuo e che fa parte di questa serie, e ciò esiste sotto forma di pubblicità. È nella pubblicità che esiste la distinzione tra il genere e l’individuo, e la pubblicità non è che in ragione di questa stessa distinzione. Ma la pubblicità, a sua volta, non si confonde né con il genere né con l’individuo. Essa esiste in essi, la qual cosa significa che essa non esiste per se stessa. Tuttavia, la pubblicità comprende sia il genere che l’individuo; essi non esistono che per quello che riescono ad essere nell’unità della pubblicità ed è ciò che cancella la loro differenza. Si passa dal genere agli individui e dagli individui al genere, e in uno dei termini si dimentica l’opposizione dell’altro, mentre ogni lato per se stesso è preso come un’esistenza sussistente per sé. Oppure, mentre gli individui dovrebbero avere la loro consistenza nel genere, e quest’ultimo trarla da quelli, è una volta l’uno e una volta gli altri che diventano termine consistente. Bisogna soprattutto evitare di fissare la “società” come un’astrazione di fronte all’individuo: l’individuo è l’essere sociale. Inversamente, per quanto il genere non possa consistere che negli individui, non può definirsi come loro inerte molteplicità, come l’inerte consistenza di processi identici e legati da semplici rapporti di esteriorità, cioè da un’assenza di rapporto, da rapporti per un altro. Non sarebbe allora che un genere per un altro, come il genere dell’elefante per lo scienziato Cuvier o per l’audace cacciatore. L’individuo è la forma assoluta. Il genere è la sostanza concreta. La pubblicità è l’unità effettiva della forma assoluta e della sostanza concreta.
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La pubblicità è il sillogismo dell’umanità, la presenza perfetta dell’umanità in ciascuno dei suoi momenti, individuo, genere, rapporto di genere e di individuo. Il genere è la totalità degli individui. Il genere consiste negli individui il contrario di se stesso. Gli individui sono ciò che sussiste per sé; ma essi non sono individui che nella loro relazione identica gli uni agli altri, e per quanto sono presi nell’insieme costituiscono il genere. L’individuo contiene il genere, che forma la sua sostanza; il genere resta immutato negli individui; gli individui differiscono non nel genere, ma gli uni dagli altri. L’individuo ha con gli altri individui, con i quali presenta dei rapporti, un solo e medesimo genere. Nello stesso tempo, data l’identità che esiste tra individui e genere, la differenza che li separa è, in quanto tale, generale; essa è totalità. L’individuo non contiene solo il genere, esso lo rappresenta come generalità. Il genere costituisce così una sfera che l’individuo deve esaurire. L’individuo è l’uomo totale, l’uomo i cui bisogni si estendono a tutto quello che esiste. Il genere è la sostanza concreta dell’individuo e l’individuo è la potenza sostanziale del genere che esiste per se stessa come persona. Nella pubblicità, l’individuo è ciò che è libero: 1) in quanto è la pura negatività della riflessione del genere in se stesso; 2) in quanto è la totalità di questa negatività in e per se stessa determinata.
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La pubblicità è il vero in e per sé, l’unità assoluta dell’individuo e dell’oggettività. La definizione di umanità secondo la quale essa è la pubblicità è adesso essa stessa pubblica. Ogni definizione precedente fa ritorno in quest’ultima. Ogni individuo effettivo, per quanto è un vero individuo, non ha la sua verità che nella pubblicità e in virtù di essa. L’individuo singolo è un lato qualsiasi della pubblicità, ciò perché, per lui, sono necessari ancora altre individualità che appaiano ugualmente come sussistenti in se stesse in particolare; è solo in esse tutte insieme e nelle loro relazioni che l’individuo è realizzato. L’individuo per se stesso non corrisponde al suo concetto; questo carattere limitato del suo essere separato costituisce la sua limitazione e la sua perdita.
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La pubblicità è la scienza assoluta, la realizzazione del Bello e del Bene, il reale esistente in sé e per sé: in sé, come identità semplice del possibile e del reale, come essenza assoluta, contenente tutto il possibile e tutto il reale; per sé, in quanto potenza assoluta o semplicemente in quanto negatività che si rapporta a sé. Ecco in cosa consiste il movimento della pubblicità, posto dai suoi momenti. Come elemento adeguato dell’umanità, la pubblicità è per prima cosa l’essenza reale, cioè ciò che esiste, unito all’apparenza di ciò che esiste.
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La pubblicità è la cosa più bella del mondo, più bella ancora di un milione di dollari, perché essa è ciò che vi è di bello in un milione di dollari. La pubblicità è una rivelazione più alta dell’arte e della filosofia perché essa è ciò che rivelano l’arte e la filosofia. La pubblicità è la vittoria sulle chimere, la novità eterna, la regola in cui geme il caos, il soggetto della conciliazione, lo scambio padroneggiato, la situazione costruita. Essa giudica ogni cosa. Essa è ammasso di certezza, gloria dell’universo. La pubblicità è un fiume maestoso e fertile. La teoria è la tempesta, l’Hegelsturm. La teoria deve avere per scopo la pubblicità.
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Tutto ciò è in effetti una definizione della pubblicità assoluta o una definizione assoluta della pubblicità. È difficile dare una definizione diretta della natura della pubblicità che non sia assoluta, perché la pubblicità appare subito come il terzo elemento accanto agli altri due che sono il lavoro e lo scambio, l’immediato e la relazione. Allo stesso modo si può dire che il lavoro e lo scambio sono i momenti del divenire della pubblicità; ma essa è, essa, la loro base e la loro verità, in quanto identità nella quale essi sono immersi e in cui essi si mantengono. Essi sono in essa perché essa è il loro risultato, ma essi non vi sono più in quanto lavoro e scambio, essi non sono lavoro e scambio che fin quando non hanno contratto questa unità. Di più: il divenire della pubblicità è la storia dell’opposizione del lavoro e dello scambio. I momenti di questo divenire sono lo sfruttamento e l’alienazione. Una definizione non assoluta della pubblicità sarebbe: la pubblicità è dapprima l’opposizione agente del lavoro e dello scambio, poi in seguito la riconciliazione del lavoro e dello scambio in un’unità superiore. Solo che, l’opposizione del lavoro e dello scambio, che è la storia della pubblicità, è tutto il contrario della pubblicità. Il lavoro e lo scambio si oppongono solo perché la pubblicità fa difetto. Ma dire che il lavoro e lo scambio si oppongono perché la pubblicità non esiste, significa dire che la causa di questa opposizione, ciò che agisce in questa opposizione, è l’assenza stessa della pubblicità, o ancora che la pubblicità che non esiste è quella cosa che esiste, e che l’assenza della pubblicità non si distingue dalla necessità di pubblicità, cioè dalla pubblicità come necessità.
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Si commetterebbe un errore fissando la successione delle categorie storiche nell’ordine della loro influenza presente. Al contrario, il loro ordine è determinato dal loro rapporto in seno alla società dello spettacolo moderno. Si ottiene allora esattamente l’inverso del loro ordine di sviluppo storico. La riflessione sulle forme della vita sociale e, per conseguenza, la loro analisi scientifica, segue una strada completamente opposta al movimento reale. Essa comincia quando è tutto fatto, con i dati già tutti fissati, con i risultati dello sviluppo.
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La pubblicità ha come immediato preliminare la sua assenza. Non c’è nulla di più inetto e di più falso che fondare una speranza di pubblicità su di una immediatezza, quando lo scambio è immediatamente il contrario della pubblicità. La pubblicità non saprebbe essere immediata, perché, essendo il negativo assoluto, il negativo che si rapporta a se stesso, essa è essenzialmente il suo proprio risultato. Il divenire della pubblicità è quindi il movimento dell’apparire in sé della totalità. La storia si confonde con la progressione dell’apparenza.
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Oggi la pubblicità è diventata pura espressione astratta di se stessa, pura espressione astratta del rapporto più generale e più antico della produzione umana, della categoria valida in ogni tipo di società. Hegel ha giustamente concepito il reale come il risultato della pubblicità che si concentra su se stessa, si approfondisce e si muove da se stessa e il carattere generale di ogni tentativo rivoluzionario recente è quello di sforzarsi perché lo Spirito sia riconosciuto come principio. Se il metodo che consiste nell’elevarsi dal concreto all’astratto è, per il pensiero, il modo di appropriarsi del concreto, di riprodurlo sotto forma di pensiero concreto, ciò non è in alcun modo la maniera del processo di genesi del concreto stesso. L’astratto è il momento essenziale del concreto e domanda a questo titolo di essere esso stesso prodotto.
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Il processo di produzione del concreto è principalmente produzione di un’astrazione crescente. Col completamento di questo processo nella società dello spettacolo, è la totalità di ciò che esiste che è passata dal lato dell’astrazione, e il concreto non è più che un momento dell’astratto. Così le astrazioni più generali non sorgono che con lo sviluppo concreto più ricco, ed è perché tutti i nostri concetti sono concetti presi al nemico. Questa astrazione più generale che è diventata la pubblicità – a dire il vero, la generalità come astrazione – posta dallo spettacolo al primo posto ed esprimente il rapporto ancestrale valido per tutte le forme di società, non è praticamente vera in ogni sua astrazione, cioè contemporaneamente efficace ed astratta, che come categoria della società più moderna dove si è precisamente sviluppata l’assenza totale della pubblicità, cioè l’esistenza della pubblicità unita all’inesistenza della pubblicità. Questa assenza è una produzione di questa società più sviluppata, e i mezzi di questa produzione non sono altro che i mezzi della pubblicità. Così l’assenza della pubblicità è essa infine diventata la sua astrazione realizzata, la sua idea materializzata. In altre parole, noi non conosciamo questa espressione astratta che in quanto realizzata come astrazione. Tuttavia, come categoria, la pubblicità ha una esistenza antidiluviana. Le categorie astratte, per quanto valide per tutte le epoche, in ragione della loro astrazione, non sono di meno il prodotto delle condizioni storiche. La storia è la storia dell’astrazione; e se le astrazioni moderne sono sempre esistite, non sempre sono state sotto forma di astrazione.
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Allo stesso modo, l’astrazione assoluta che è l’apparenza, posta al primo posto dalla filosofia hegeliana ed esprimente il momento essenziale del rapporto umano ancestrale valido per tutte le forme di società, non è praticamente vera in tutta la sua astrazione, cioè nello stesso tempo efficace ed astratta, che come realtà della società più moderna in cui, precisamente, la vita si presenta come immensa accumulazione di spettacoli e dove tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione. La scoperta scientifica del carattere sociale dell’apparenza caratterizza un’epoca, nella storia dello sviluppo dell’umanità, e la sua pubblicità dissiperà la fantasmagoria che fa apparire l’apparenza come una proprietà delle cose stesse.
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Per alcuni praticanti delle grottesche scienze umane, il passato è tenuto a spiegare il presente. Questo non è che la confessione mascherata della loro impotenza a comprendere il presente. Non si frequenta impunemente l’università. Il segreto della società moderna non è nelle società arcaiche o le società animali, ma la società più moderna è il segreto rivelato delle società arcaiche o animali. Allo stesso modo, il fatto che l’animale scambia non significa che l’uomo sia bestiale, ma al contrario che l’animale è umano. Contrariamente all’idea molto diffusa e falsa, il fatto che l’uomo conosca lo scambio sessuale non significa che l’uomo sia bestiale, ma al contrario che l’animale è umano in questo rapporto. Le determinazioni che distinguono l’animale dall’uomo sono le determinazioni dell’uomo stesso. L’uomo è la verità dell’animale, l’animale vero. Il genere umano è il genere di tutti gli animali. Così, l’uomo è più animale dell’animale in quanto è l’animale vero, e la pubblicità è essa più universale dell’universo poiché è la verità dell’universo, l’universo verificato, l’universo fondato, l’universo soppresso.
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L’etnografia non può fornire idee a quelli che non ne hanno. Come miserabili che hanno rinunciato a ogni speranza di ricchezza, che non hanno criticato nella loro vita nessuno degli aspetti del nostro mondo triviale e si sono adattati a tutto, come costoro potrebbero concepire la ricchezza? Quando la società moderna è incapace di comprendere una società antica, è semplicemente perché è essa stessa troppo arcaica e non ha prodotto un sufficiente grado di astrazione, di assenza, di rarità. L’etnografia non può essere che la pietra di paragone della scienza della pubblicità e non può assolutamente fornire il principio di questa scienza. Se una società resta incomprensibile per la scienza della pubblicità, è solo perché questa scienza è insufficientemente sviluppata in una società insufficientemente sviluppata e perché essa ignora il suo fondamento. Con l’assenza compiuta della pubblicità come spettacolo della pubblicità, l’assenza della pubblicità raggiunge il concetto della pubblicità. L’indifferenza assoluta a ogni contenuto specifico dello scambio manifesta chiaramente che il fondamento dello scambio è un’altra cosa dello scambio stesso e che questo fondamento è ancora esterno allo scambio.
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Fin quando si insisterà nel vedere nel selvaggio arcaico un bambino dalla natura pigra e senza preoccupazioni, che evita per quanto possibile d’impegnarsi in un compito e di darsi fastidi, che aspetta che gli cadano maturi in bocca i frutti che una natura tropicale feconda gli dispensa con generosità, si abuserà, e si resterà incapaci di cogliere i motivi che lo spingono e gli scopi che persegue quando si lancia in una spedizione Kula, o in ogni altra intrapresa. Ma, al contrario, la verità è che il selvaggio arcaico può lavorare, e in certe occasioni lavora effettivamente in modo molto duro e sistematico, con costanza e volontà, e non attende per farlo di esserci obbligato dai bisogni urgenti. Basta leggere qualche pagina di Malinowski per cogliere immediatamente la grandezza di questi Papuasiani che si danno esplicitamente alla pratica dell’umanità a rischio della loro vita, e per comprendere che il solo motivo del loro lavoro è – apoditticità della felicità – il puro e semplice piacere della soppressione del lavoro, la pratica dello scambio e della pubblicità. Non si può che essere presi da grande rispetto per la scienza di questi selvaggi che conoscono come il lavoro diventa umano quando è soppresso, che il lavoro umano è il lavoro soppresso e che la pubblicità è il solo lavoro degno dell’uomo. In opposizione alla profonda miseria del ricco moderno, si ammira la grandezza del ricco capo papuasiano che dispensa in pubblicità tutte le sue risorse.
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I punti di vista correnti sull’uomo economico primitivo dipingono quest’ultimo come un essere indolente, individualista, asociale, ma nello stesso tempo logico e conseguente nella sua condotta, guidato in modo esclusivo da motivi strettamente riformisti e utilitari. Un altro sofisma inerente a questa concezione è che il selvaggio non saprebbe concepire che forme di lavoro molto semplici, senza metodo e organizzazione. Un altro errore, più o meno esplicitamente formulato in tutti gli scritti di oggi sull’economia primitiva, consiste nel credere che i primitivi non dispongono che di forme rudimentali di commercio e di scambio, che queste forme non giocano un ruolo essenziale nell’esistenza della tribù, che intervengono solo di tanto in tanto, quando necessità fa legge, e che lo scambio scompare altrettanto improvvisamente come era comparso. Che si tratti dell’illusione molto diffusa di una primitiva Età dell’Oro, caratterizzata soprattutto dall’assenza di ogni distinzione tra il mio e il tuo; o che si tratti dell’idea più specifica che suppone l’esistenza di stadi in cui l’uomo cercava tutto solo il proprio nutrimento e in cui le famiglie perseguivano isolatamente i propri bisogni; oppure che si considerino le numerose teorie che non vedono altro nell’economia primitiva che una semplice ricerca di mezzi di sussistenza, tutto ciò è posto in crisi dall’etnografia che dimostra a gara come ogni vita tribale riposi su un sistema continuo di scambi di cose materiali, e dall’archeologia moderna, che, ispirandosi sempre all’etnografia, dimostra come il commercio, passando dal semplice scambio dei beni a un’organizzazione nettamente più complessa, è stato un importante agente di trasformazione sociale, e come abbia aperto la via alle economie centralizzate di Cnosso e di Micene, culle della moderna pubblicità.
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Queste concezioni sbagliate procedono da due errori fondamentali. La prima consiste nel credere che il primitivo considera i beni materiali in uno spirito puramente riformista e che in queste condizioni non c’è posto per la nozione di ricchezza. La seconda ritorna a dire con Engels e Marx che non c’è alcun bisogno di scambio quando tutti e ciascuno possono, col proprio lavoro e la propria abilità, produrre tutto ciò che costituisce la sussistenza dell’uomo. Ciò significa disconoscere che il bisogno di scambio non ha la propria ragione d’essere in se stesso, o nel lavoro, ma nella pubblicità.
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L’idea che l’uomo del neolitico contemporaneo possa vivere allo stadio della ricerca individuale del nutrimento o a quello dell’approvvigionamento familiare isolato, fa supporre che si ha a che fare con un essere riformista, asociale e freddamente calcolatore, e anche che l’uomo è soltanto capace di un godimento circoscritto alle cose in se stesse. Simile concezione ignora questo sentimento profondo della pubblicità che spinge gli uomini a far mostra di ciò che essi possiedono, a dividere, a dare. Al di fuori di ogni considerazione sul fatto di sapere se gli scambi sono necessari o anche utili, scambiare per il piacere di scambiare costituisce una delle caratteristiche essenziali rivelate dall’etnografia, la cui natura universale e fondamentale consente di concludere che si tratta di una caratteristica comune a tutte le società arcaiche.
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Un ultimo sofisma secondo cui il selvaggio arcaico conserverebbe presso di sé tutto ciò di cui ha bisogno e non si priverebbe mai di propria volontà di qualcosa a favore di altri, come il selvaggio moderno, deve essere rigettato senza riserve. La qual cosa non significa però che i selvaggi arcaici non siano fortemente inclini a conservare quello che posseggono. Immaginarsi che essi si distinguono in ciò dagli altri uomini, sarebbe un cadere nell’errore opposto consistente nel credere a una specie di comunismo primitivo, idea cara a Marx ma oggi superata. Al contrario, è proprio perché essi danno tanta importanza al fatto di dare, che la distinzione tra il tuo e il mio si trova rafforzata invece che schiacciata. L’opinione che l’umanità arcaica non conosceva la proprietà individuale è un vecchio pregiudizio, condiviso da numerosi autori moderni, che serve specialmente a puntellare le teorie comuniste e le concezioni cosiddette materialiste della storia. Questa concezione afferma che in molte comunità primitive, la ricerca effettiva del nutrimento, come tutte le attività che ne derivano direttamente, occupano la maggior parte dell’energia e del tempo della popolazione, lasciando poche occasioni di soddisfare ogni altro bisogno meno imperioso, mentre in una società primitiva, tutto è materia di pubblicità, tutto è buono come pretesto alla pubblicità. Questo concetto costituisce manifestamente il postulato di tutte le teorie ingenuamente evoluzioniste che tendono a ricostituire le fasi successive di uno sviluppo economico concepito sul modello riformista, e che non sono altro che l’appendice scientifica del riformismo il quale ha, come tutti sanno, un profondo orrore della violenza del negativo.
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La teoria [dal tardo latino Théoria, parola greca, propriamente: “azione di osservare” (Dauzat/Larousse)], deve essere difesa, cioè criticata. Le cattive critiche del pensiero di Hegel, di Marx o di Debord fanno altrettanto torto allo Spirito delle opere stesse. Una buona valutazione di queste opere è preferibile alle opere in questione. Bisogna che la critica non attacchi la forma, ma il fondo di queste idee. Arrangiatevi. Sotto il pretesto che la concezione hegeliana della storia suppone uno spirito astratto o assoluto che si sviluppa in modo tale che l’umanità non è che una massa impregnata più o meno coscientemente di quello spirito, la qual cosa si vorrebbe far passare per materialismo, si è fatta della massa umana una materia assoluta o astratta, priva di spirito, che si sviluppa per altro alla maniera dello Spirito hegeliano. La storia dell’umanità diventa la storia della materia astratta dell’umanità, di conseguenza estranea all’uomo reale. È la versione cibernetica della storia, quale si immagina a Mosca, a Pechino o alla Rand Corporation. Questo materialismo non ha messo la dialettica hegeliana sui suoi piedi; ma sul suo culo. Ecco ormai questa dialettica calzata e vestita, pronta a ogni eventualità. L’elemento essenziale del concreto, è l’astrazione in quanto essa stessa come produzione concreta. Lo Spirito è di questo mondo, perché l’astrazione non è solo il concreto pensato, ma il momento essenziale del concreto. È anche il trionfo dell’astrazione nella società dello spettacolo che coincide con la sconfitta totale del pensiero del concreto. [Il completo fallimento dell’apparire in sé spettacolare della totalità mi dona un doppio motivo di appagamento: questo mondo non mi sopravviverà. Oppure cambierà nel senso che io l’intendo. Oppure scomparirà sotto la merda con le sue legioni di schiavi ecologisti e i loro clamori di servile indignazione, le sue orde di studenti rispettosi, frementi di sottomissione, le coorti di sindacalisti che protestano la loro determinazione a produrre qualsiasi cosa abbia un costo, sempre più cravatte, sempre più alimenti per cani e gatti, sempre più Citroën, fino a che morte non sopraggiunga. Tutto quello che riforma perirà inghiottito dall’elemento che gli è proprio]. Fino ad oggi, è il mondo che ha pensato al nostro posto.
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La storia della pubblicità è la storia della generalizzazione dello scambio. Bisogna rendere generale lo scambio, questo rapporto che sopprime l’indipendenza del lavoro. Lo scambio è l’elemento adeguato della pubblicità, ma immediatamente lo scambio ha il suo fondamento fuori di se stesso, in una totalità, e resta qualcosa di inessenziale di fronte a qualcosa di essenziale. Lo scambio è la pubblicità essa stessa, ma la pubblicità in una certa determinazione di maniera non ha altro da poter essere che il suo momento. Le determinazioni che distinguono lo scambio dalla pubblicità sono le determinazioni della pubblicità stessa. Immediatamente, lo scambio è il contrario della pubblicità e l’individuo è il contrario del genere. Gli uomini producono la loro pubblicità come qualche cosa di estraneo e di esteriore a loro stessi e la storia della pubblicità è la storia della sua assenza, una Odissea.
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Gli uomini devono necessariamente produrre le loro relazioni prima di poterle sopprimere. La pubblicità deve necessariamente apparire. Il suo fenomeno è la soppressione di se stessa in direzione dell’immediatezza dello scambio che, tuttavia, non ha maggiore immediatezza del lavoro bestiale ma ha la pubblicità per fondamento. [Sarebbe una specie di pleonasmo parlare di una fenomenologia dell’assenza dello Spirito, poiché l’assenza dello Spirito è precisamente il suo fenomeno, la sua produzione come fenomeno. La storia dello Spirito – come storia e basta – è una fenomenologia dello Spirito come la voleva Hegel. Questo movimento dialettico che la pubblicità esercita in se stessa, in quanto davanti a essa sgorga il nuovo vero oggetto, cioè essa stessa come oggetto, è propriamente ciò che si definisce esperienza. L’umanità è prima di tutto l’esperienza della pubblicità. L’assenza della pubblicità è questa esperienza. Felice chi come Ulisse ha fatto un lungo viaggio]. Posto come nulla in se stesso e per se stesso, ma come fondato su altra cosa, lo scambio è dapprima manifestazione di una totalità di scambi. Lo scambio è immediatamente retto da altra cosa di se stesso, esso conosce una legge. La soppressione generale del lavoro è la legge di questo fenomeno. Lo scambio è immediatamente il fenomeno della pubblicità, quindi il fondamento manca.
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Come assenza, la pubblicità consiste nel suo fenomeno, e il suo fenomeno è manifestazione della sua consistenza. Essa è identicamente consistente e soppressione di questa consistenza. Come assenza, la pubblicità è una causa puramente fenomenale, ma è a questo titolo che essa agisce. Consideriamo il denaro che è attualmente il solo mezzo di pubblicità, esso ha la qualità di acquistare tutto, ed è a causa di questo fatto la cosa più desiderabile del mondo. La celebrità della sua qualità fa l’onnipotenza della sua essenza mentre la sua qualità consiste solo in questa celebrità. La celebrità è manifestazione di una totalità, questo doppio movimento di consistenza e di soppressione della consistenza. La celebrità è la pubblicità come assenza, l’unità negativa dell’esistenza e dell’inesistenza della pubblicità.
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Nella sua celebrità, il rapporto di scambio è dato anteriormente alle cose scambiate e indipendentemente da esse. La celebrità è lo scambio effettuato in apparenza indipendentemente da ogni scambio particolare e da ogni lavoro particolare. La celebrità è l’indipendenza dell’apparenza, l’apparenza che si modifica essa stessa. La celebrità è la forma stessa della separazione sociale, della società come separazione. Dove c’è opposizione di individui e della loro totalità, questa opposizione prende la forma della celebrità. La celebrità è il rapporto sociale che è assente di rapporto sociale, che cade e che non cade sotto il senso. La celebrità è il contrario della pubblicità, la pubblicità di qualcuno o di qualcosa di fronte all’oscurità di tutti e, al limite, nello spettacolo moderno, la celebrità di tutti di fronte all’oscurità di ciascuno. Che si tratti della celebrità di una persona o della celebrità di una cosa, e al limite della celebrità di tutto ciò che esiste, quello che è generale – la totalità dell’apparenza – si manifesta in qualcosa di particolare e vi si mantiene. Come scienza particolare, la scienza della pubblicità è la critica della celebrità.
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Hic Rhodus. Eccoci alla fine del nostro lavoro. Bisogna che diciamo tutto su questa forza che cade e che non cade sotto il senso, che vuole senza volere, che agisce senza agire, che è la totalità delle nascite e delle morti e che essa stessa non è mai nata né mai morta; su questa forza che è propriamente parlando l’assenza della pubblicità come attività, la dialettica dell’antidialettica e che è tuttavia, in questa determinazione dell’assenza, la stessa cosa della pubblicità, la stessa cosa della dialettica. La teoria della pubblicità dovrà limitarsi a elementi iniziali e a concetti fondamentali di cui essa dovrà sforzarsi di ridurre il numero. Di fronte all’instancabile ridondanza della celebrità acquisita, la critica deve essere breve e tendere verso l’unità e la semplicità del diverso soppresso. Infine la teoria della pubblicità sarà una enciclopedia nella misura in cui la separazione e la connessione delle sue parti saranno esposte seguendo la necessità della storia. La divisione qui indicata di una Enciclopedia delle apparenze, come tutta la discussione precedente sulla celebrità, è da considerare come una semplice anticipazione, e la sua giustificazione o la sua prova non possono liberarsi che dall’esame condotto a termine della realtà essa stessa; perché provare significa, per la teoria che ha la storia per oggetto, la stessa cosa che mostrare come questo oggetto si fa da se stesso ciò che è. La prova essa stessa è un momento determinante di questo oggetto. Così Penso. Prossimamente dirò di più. La grandezza del suo oggetto servirà da scusa all’imperfezione di questo lavoro.
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Dobbiamo persuaderci che la natura del vero è di penetrare quando è venuto il suo tempo, e che esso si manifesta solo quando questo tempo è venuto; per questo motivo esso non si manifesta troppo presto e non trova un pubblico senza maturità per riceverlo; dobbiamo anche essere persuasi che l’individuo ha bisogno di questo risultato in quanto si conferma come pubblica quella convinzione sua che prima era solitaria, come pure per provare come qualcosa di generale la convinzione che appartiene dapprima soltanto alla particolarità. Ogni vita sociale è essenzialmente pubblica. Essa contiene il negativo come apparenza. Essa è l’unità di ciò che esiste e dell’apparenza di ciò che esiste. Tutti i misteri che trascinano l’individuo al misticismo spettacolare trovano la loro soluzione razionale nella pubblicità. Sotto un aspetto alienato ed astratto, la pubblicità è diventata una moda sulla terra perché sembra glorificare le cose esistenti. Sotto il suo aspetto razionale, essa è uno scandalo e un abominio per le classi dirigenti e gli ideologi dottrinari, perché nella concezione positiva delle cose esistenti essa include nello stesso sacco l’intelligenza e la loro negazione; perché essendo il movimento stesso della storia umana non le si può imporre nulla; perché essa è essenzialmente critica e rivoluzionaria; perché la pubblicità della miseria non si distingue dall’idea della sua soppressione.
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Questo stato di cose raggiunge il suo più grande sviluppo nella forma più moderna della società borghese: la società dello spettacolo. Quindi è soltanto là che la categoria astratta dello scambio in generale, dello scambio come generalità, diventa vera nella pratica. Gli individui considerano allora come fortuito il contenuto particolare dello scambio la forma particolare del bisogno, per non s’attaccare che alla sua generalità. Lo spettacolo è il furore dell’astrazione che prende il sopravvento. L’indifferenza a ogni contenuto particolare dello scambio suppone che esiste una diversità allargata di contenuti concreti dello scambio che ognuno di essi predomina sugli altri. L’astrazione dello scambio pubblico, dello scambio in generale, non è solo il risultato intellettuale di una totalità concreta della diversità: l’indifferenza a ogni contenuto determinato dello scambio risponde a una forma di società in cui si ritrovano realizzate la diversità dei prodotti e dei bisogni, e la generalizzazione dello scambio. È allora che la grande massa della diversità si riduce a una stessa unità generale e che si cessa di concepirla sotto una forma particolare. Solo la forma della pubblicità è presa in considerazione, a prezzo del suo contenuto. Solo la forma della ricchezza (la generalità) è presa in considerazione, a disprezzo del suo contenuto (la diversità). È questo che esprime poveramente l’imbecille McLuhan: “Il mezzo è il messaggio”. Cosa importa dell’ubriacatura purché ci sia il vino.
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La società dello spettacolo è il fenomeno portato a compimento della pubblicità, in cui la pubblicità assente raggiunge il suo concetto a forza d’assenza. Se il fenomeno è la causa, è anche l’effetto. Così, lo spettacolo è questo concetto fuori di se stesso, puramente esteriore. Lo spettacolo è il concetto oggettivo della pubblicità, lo spirito oggettivo, la pubblicità come natura. Il pensiero di Hegel diventa vero. La natura è un’imitazione dell’idea. Lo spettacolo è la pubblicità sotto la forma dell’alterità, assolutamente parlante, dell’oggettualità indifferente, esteriore, e dell’effettuazione concreta, individualizzata, dei suoi momenti – cioè la pubblicità sotto la determinazione dell’immediatezza, assolutamente parlando, in rapporto alla sua mediazione. Il divenire dello spettacolo è un divenire in direzione della pubblicità.
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Debord parte dal fatto che lo spettacolo rende l’uomo estraneo a se stesso e sdoppia il mondo in un mondo pubblico, oggetto di contemplazione, e in un mondo quotidiano. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo pubblico nella sua miseria quotidiana. Egli non vede che compiuto questo lavoro, il più importante resta ancora da fare. In particolare, il fatto che il mondo pubblico si stacchi dalla vita quotidiana, costituendo così un reame autonomo della pubblicità, non può esplicarsi precisamente che con l’identità dello spettacolo e dell’oggettività della pubblicità. Debord non nomina ciò di cui lo spettacolo è lo spettacolo. Egli non nomina ciò che si è allontanato in una rappresentazione e non fu tuttavia mai così vicino, tanto completato come allontanamento, e che può essere direttamente vissuto. “Not just data. Reality!”. Lo spettacolo è lo spettacolo della pubblicità, la pubblicità realizzata come oggetto astratto, e il solo bisogno prodotto dallo spettacolo è il bisogno della pubblicità. La pubblicità comprende tre momenti: 1) il momento della notorietà, ciò che è fatto in presenza del pubblico; 2) il momento della proprietà, ciò che appartiene al pubblico; 3) il momento dell’unità dei due precedenti, ciò che è fatto dal pubblico in presenza del pubblico, la pubblicità assoluta. Nello spettacolo non c’è di notorio che lo spettacolo della pubblicità; non c’è proprietà che di una comune privazione della pubblicità. Ciò che è notorio non appartiene al pubblico. Ciò che appartiene al pubblico non è notorio. La vita quotidiana è la vita totalmente privata di pubblicità.
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L’interesse individuale è determinato dalla pubblicità. Esso può essere raggiunto solo nelle condizioni date dalla pubblicità, grazie ai mezzi forniti da essa. Oggi, lo spettacolo della pubblicità – la celebrità generalizzata ed estesa a tutti – ha superato tutti i rapporti di produzione. La dipendenza reciproca degli individui che è quindi completata – mentre per altro essi restano positivamente ostili gli uni contro gli altri – si manifesta con la necessità perpetua dello scambio. È solo con lo scambio ormai che l’attività o il prodotto di ogni individuo diventa per esso un’attività o un prodotto. Ma quando le condizioni della pubblicità sono riunite e quando, tramite lo spettacolo, la totalità del lavoro si rapporta a se stessa, la pubblicità ha disertato totalmente lo scambio particolare per porsi di fronte a esso. Lo scambio universale delle attività e dei prodotti, che è diventato la condizione di vita e il rapporto reciproco di tutti gli individui particolari si presenta a essi come una cosa straniera e indipendente. Lo spettacolo è la dittatura della pubblicità e il selvaggio moderno è sottomesso a questa dittatura a un punto tale che il selvaggio arcaico non poteva mai concepire. Attraverso la letteratura etnografica, riconosciamo nella pratica della pubblicità del selvaggio arcaico una grandezza che ci fa difetto. Ma, è perché siamo totalmente privi di questa grandezza che noi la conosciamo.
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Lo scambio è l’elemento della pubblicità. Solo che la pubblicità non vi ha mai trovato posto. In ogni tempo, lo scambio fu una invocazione della pubblicità, oggi più che mai. Man mano che si andò sviluppando lo spettacolo come rapporto di produzione, tutti i lavoratori vennero destinati a diventare quadri. Il contrasto tra i mezzi di pubblicità e il ritiro assoluto della pubblicità fuori del suo elemento rende derisori, ridicoli e grotteschi i maneggi magici dei quadri e di tutti coloro che vogliono diventarlo. Il quadro, quello che lavora a pieno tempo. Cioè quello che non lavora mai, o piuttosto che si stanca a non lavorare mai. È esso stesso il suo proprio capitalista, la sua propria impresa di soppressione del lavoro. Tutta la sua attività, tutta la sua ambizione è indirizzata verso un solo scopo: provare che non lavora. Ma, qualsiasi cosa faccia, la pubblicità gli si rifiuta. Dopo il coito, il quadro è triste.
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L’aumento di salario eccita nel quadro la sete d’arricchimento del capitalista ma questa non può per principio essere soddisfatta. Lo spettacolo è tanto la riduzione a zero del salario, dato che tutto ciò che consuma lo pseudo-lavoratore è per lui superfluo e soltanto utile alla conservazione dello spettacolo; quanto la sua estensione infinita a tutto, dato che tutto non è più prodotto che in vista del consumo spettacolare dallo pseudo-lavoratore, consumo spettacolare che è in effetti consumo produttivo di spettacolo, pseudo-lavoro e pseudo-vita, equatore assoluto dell’alienazione. Per il capitale, il solo lavoro è il lavoro altrui. L’economia è l’economia del lavoro altrui. Così, il lavoro del capitalista non è lavoro. È lavoro fittizio, tempo passato a sopprimere l’indipendenza del lavoro altrui. La funzione sociale dello scambio è concentrata nel capitalista. Nello spettacolo, tutta la vita tende a diventare lavoro del capitalista, pseudo-lavoro. “Fate della vostra vita un affare”. Il quadro, come il poliziotto, è uno pseudo-lavoratore. Lo spettacolo ha essenzialmente lo scopo di produrre pseudo-lavoratori. Di già negli Stati Uniti d’America il 70 per cento della popolazione cosiddetta attiva fa finta di lavorare nell’agricoltura, nelle industrie di estrazione, nelle industrie di trasformazione, nei trasporti e nelle telecomunicazioni. Il capitale appare sempre di più come una potenza sociale di cui il quadro è il funzionario. Così il quadro è la verità del capitalista. Il quadro è lo schiavo della pubblicità. Il quadro è l’eclatante rivelazione del segreto della miseria del misterioso polo positivo dell’alienazione, il segreto dello schiavo senza padrone.
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L’uomo che non ha provato l’angoscia del quadro non sa che il mondo della pubblicità spettacolare gli è ostile, che tende a ucciderlo, a annientarlo, che è essenzialmente inadatto a soddisfarlo realmente. Quest’uomo resta quindi in fondo solidale con il mondo dello spettacolo. Vorrà al più riformarlo, cioè cambiare i dettagli; fare trasformazioni particolari senza modificare i suoi caratteri essenziali. Quest’uomo agirà da abile riformista, o conformista, ma giammai da vero rivoluzionario. Ora il mondo dove egli vive non appartiene più a nessun padrone umano o divino, e in questo mondo egli è necessariamente schiavo senza padrone. Non è quindi la riforma e il cambiamento di padrone ma la soppressione dialettica, rivoluzionaria, del mondo che potrà liberarlo e, di conseguenza, soddisfarlo. Questa trasformazione rivoluzionaria del mondo presuppone la negazione, la non accettazione del mondo dello spettacolo nel suo insieme. E l’origine di questa negazione assoluta non può essere che il terrore assoluto ispirato dal mondo dello spettacolo. Il mondo dello spettacolo è precisamente il mondo che si dà nel suo insieme, e come insieme non appartenente a nessun padrone specifico. Solo il quadro può trasformare il mondo che lo forma e lo fissa nella servitù e creare un mondo formato da lui e dove gli è assolutamente impossibile vivere. E il quadro non vi perviene che attraverso lo pseudo-lavoro forzato e angoscioso esercitato al servizio dello spettacolo. Certo, questo lavoro non libera ed è il contrario della liberazione. Ma trasformando il mondo in mondo abominevole attraverso questo lavoro insensato, il quadro crea anche le condizioni oggettive nuove che permetteranno di riprendere la lotta liberamente per il riconoscimento che egli aveva dapprima rifiutato per la paura della morte. Ed è così che ogni lavoro spettacolare, ogni consumazione spettacolare del capitale, realizza non un mondo dello spettacolo, ma incoscientemente per prima cosa lo Spirito che finalmente riesce là dove lo spettacolo fallisce.
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La teoria del plusvalore e i relativi lamenti riformisti, riposano sull’idea che un uomo possa vivere di patate. Questa idea, come l’epoca che l’ha generata, è falsa. Solo uno di sinistra o una bestia possono vivere di patate. L’uomo vive principalmente di pubblicità. Lo spettacolo è la rovina effettiva di questa teoria prodotta da un determinato momento dello sfruttamento che è scomparso con essa. Tutto si rivela identicamente necessario e superfluo, mentre il fondamento viene a occupare il primo posto, ma fuori portata per i nani contemplativi, come un oggetto astratto, come un’idea oggettiva. La società dello spettacolo è l’abolizione di ogni distinzione tra lavoro necessario e sopralavoro, tra salario e profitto, tra vita e lavoro. Lo sfruttamento si abolisce nell’alienazione assoluta, nella estraneità della totalità degli individui per la totalità degli individui. Lo sfruttamento è il medio termine dell’alienazione. Lo sfruttamento ebbe in ogni tempo la pubblicità come unico scopo. Così dopo l’invenzione dell’esogamia, che è pubblicità propriamente detta, una metà della nostra potente razza viene scartata dalla pubblicità. Fin dall’origine, le donne sono state sacrificate alla pratica della pubblicità e con ciò escluse da questa pratica, oggetti di scambio tra braccialetti, collane, pezzi di rame e canoe. Lo scambio costituito dal matrimonio esogamico non si stabilisce tra un uomo e una donna: esso si stabilisce tra due gruppi di uomini, e la donna vi figura come uno degli oggetti di scambio e non come uno dei termini tra i quali ha luogo. E lo scambio sessuale tra l’uomo e la donna resta obbligatoriamente una comunicazione privata, privata di pubblicità. La mancanza di pubblicità dello scambio sessuale, che resta in ciò bestiale, non è che la contropartita di un fatto universale: il legame della pubblicità che fonda il matrimonio esogamico non è stato fissato tra uomini e donne, ma tra uomini per mezzo di donne che ne sono soltanto la principale occasione. Per l’uomo maschio, lo scambio sessuale, come ogni altro scambio, non è altro che un mezzo per praticare un’attività più alta. Il matrimonio esogamico, liberatore per l’uomo maschio che entra nel cerchio dei detentori dell’autorità, del potere cerimoniale e del sapere superiore, pubblico, è soggezione per l’uomo femmina che si vede relegato a un rango inferiore e racchiuso nella regione domestica, privata della pubblicità. Questo punto di vista deve essere mantenuto in tutto il suo rigore per quanto riguarda la nostra società dove questa situazione è strettamente immobile, a un punto tale che è ormai la totalità dell’umanità che è priva di pubblicità. La società dello spettacolo è il completamento del torto assoluto che lo sfruttatore fa a se stesso tramite il torto relativo che fa all’umanità. L’alienazione assoluta è la verità dello sfruttamento. Lo sfruttamento della donna da parte dell’uomo fu solo lo sfruttamento iniziale dell’uomo da parte dell’uomo. Nell’alienazione assoluta, che è anche sfruttamento assoluto, lo sfruttamento di tutti da parte di tutti, bestialità assoluta, tutto esiste infine, ma esiste altrove. La proposizione dell’alienazione è quindi: “Tutto è lontano da tutto e reciprocamente”.
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Lo spettacolo ha ritirato il suo favore al produttore per accordarlo al consumatore. Gli ha attaccato un sacro terrore per le sanguinose atrocità del capitale semplice; ha dichiarato che la pubblicità è un legame di amicizia e di unione tra le nazioni e gli individui. Ogni cosa è nobiltà e generosità. Tuttavia, in questa società di abbondanza e di consumo, non c’è abbondanza e consumo che come abbondanza di capitale e consumo di capitale. Cioè abbondanza di lavoro salariato, poiché il lavoro salariato è per definizione consumo di capitale. La “produzione” capitalista diventa assolutamente quello che era essenzialmente: consumo di capitale, dove lo scopo diventa mezzo e reciprocamente. Il consumo di capitale è produzione di capitale, cioè produzione della pubblicità come indipendenza, come mezzo che non è esso stesso qualcosa di mediato. Lo scambio è diventato lo scopo della pubblicità e la pubblicità è diventata il mezzo dello scambio. Ecco qual è il concetto del mondo realmente capovolto dove il vero è un momento del falso.
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Fino a oggi, le rivoluzioni furono cambiamenti di padrone. Con il fallimento dello sfruttamento, è la totalità dell’umanità che è espropriata della propria umanità. La totalità è malata di se stessa. L’umanità come unità negativa, come unità dell’inumano, è compiuta. Con il fallimento accertato dei padroni, l’umanità si è rovinata ogni soddisfazione parziale. La pubblicità completata come idea oggettiva si è ritirata da tutti i settori della vita. È il divenire pulito del denaro, il divenire pulito della rarità, la rarità assoluta. È soltanto quando tutto esiste che l’uomo può essere privato di tutto. Nella società dello spettacolo, lo spettatore è una pura soggettività, povertà assoluta senza mani, occhi, orecchie, senza niente; ma la cosa che gli sta di fronte è l’idea della vera comunità: egli cerca di scoprirla, ma è quest’ultima che lo divora. La società dello spettacolo è la pura soggettività e la pura oggettività che infine si affrontano.
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Le classi dominanti del passato si limitavano a pretendere alla necessità della miseria. Esse sperimentarono con la loro scomparsa, che la pubblicità non si distingue dalla sua soppressione. Istruiti da questi disastri e per la prima volta nella storia, quelli che s’immaginano di dirigere questo mondo non pretendono più alla necessità della miseria. Non solo essi non vi pretendono più, ma pretendono alla sua soppressione. Ora è una sola e identica cosa pretendere all’inesistenza della miseria o pretendere alla realizzazione della pubblicità, perché non c’è miseria che della pubblicità. La strategia della burocrazia è quindi: per quanto nella truppa vi sono molte gambe di legno, fare in modo che ciò non si veda. La nostra è: fare che ciò si veda. Certo, ognuno è perfettamente rassegnato alla sua propria miseria. Non si tratta dunque per noi d’avere la tracotanza di quelli che pretendono mostrare a ciascuno quanto è sfortunato, in quanto ognuno è piazzato meglio di quello che gli altri possano sapere. Questo tipo di falsa indiscrezione terrorista è anche la tattica d’intimidazione della polizia pubblicitaria: “Non avete ancora la carta personale! Ciò nasconde qualcosa!” Al contrario, ciò che è realmente nascosto, ciò su cui ognuno è perfettamente ignorante, grazie agli sforzi spiegati dai dirigenti, è la miseria degli altri, dirigenti compresi. Essi hanno la carta personale! Ciò nasconde qualcosa! Nello spettacolare diffuso, sono gli spettatori stessi che si danno in spettacolo. In questo senso, dunque, ognuno è male informato anche sulla propria miseria, poiché la propria miseria non consiste che nell’ignoranza di quella degli altri. Lo scopo della scienza è allora fissato: si tratta di dare la prova della miseria degli altri – principalmente dei dirigenti. 1) Bisogna prima comprendere una simile miseria nel suo principio, ciò che significa fissarne la prova. La teoria della pubblicità è la critica dell’assenza della pubblicità dal punto di vista superiore e tuttavia non esteriore della pubblicità. La prova della miseria consiste nel mettere in luce ciò che ha di specificatamente, di precisamente moderno, la forma attuale di miseria, ciò con cui essa è completata, nello stesso tempo ancestrale e nuova. La prova della miseria, la prova della sua immensità consiste nel fissare l’immensità dell’aspirazione incoraggiata dallo spettacolo, cioè l’immensità dell’aspirazione regolarmente delusa dallo spettacolo. L’aspirazione identicamente incoraggiata e delusa dallo spettacolo è l’aspirazione alla pubblicità. La forma moderna della miseria è prima di tutto la privazione della pubblicità, l’insoddisfazione del bisogno di pubblicità. Ed è pertanto anche la produzione completata di questo bisogno. Così la prova tramite la pubblicità è una prova non esteriore, una prova ad hominem, del genere di quelle che vengono comprese volentieri dalle masse. La pubblicità è un’idea che è in tutte le teste e non siamo noi che ve l’abbiamo messa. 2) Bisogna poi assicurare la notorietà di questa prova. Ciò che si produce allora è ineluttabile. La storia fornisce molti esempi celebri. La notorietà di questa prova non offre più ai nostri giorni alcuna seria difficoltà. Si tratta del capovolgimento della strategia dei dirigenti: pretendendo alla realizzazione della pubblicità, essi danno a ciascuno il gusto per la pubblicità. Questa società è in balia di un’indiscrezione. Bisogna curare sistematicamente questo genere d’indiscrezione che poggia sul fondamento, al contrario delle pseudo-indiscrezioni riformiste “kleine krämerie” dell’indiscrezione, che poggiano sul prezzo del burro! È là la nostra strategia. La strategia del colpo definitivo, progressivo, poi brusco. La strategia dei nemici dello Stato. La strategia dei nemici della strategia, dei nemici dei manipolatori, perché la pubblicità è sempre rivoluzionaria. La riabilitazione dell’apparenza non si limita alla sua riabilitazione teorica. È prima di tutto la restaurazione pratica dell’apparenza nella sua purezza, nella sua non-esistenza, nella sua pura negatività, come ciò che è capace di dissolvere l’apparenza che è, il fenomeno, lo spettacolo.
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Il bisogno di pubblicità è la civiltà completata dal bisogno bestiale e limitato che morde quando si prende il suo osso, e che, durante i millenni, ha mantenuto la sua legge attraverso tutto il suo processo di raffinamento. Il bisogno di pubblicità è il bisogno raffinato e civilizzato, il bisogno in ciò che vi è di specificamente umano, il bisogno sotto la sua forma umana completa. Una cosa è ormai certa: il bisogno di pubblicità è diventato il primo bisogno dell’uomo. La passione della pubblicità è sempre stata la passione dominante dell’uomo; ma è solo con la realizzazione completa della pubblicità come astrazione che il bisogno di pubblicità è diventato il primo bisogno dell’uomo. La produzione del bisogno di pubblicità è identicamente – nel movimento di astrazione e di alienazione che fu il movimento della sua realizzazione – la produzione della sua insoddisfazione. L’insoddisfazione del bisogno di pubblicità è la forma specificatamente moderna della miseria, in ciò che essa ha di completo, di nuovo e di ancestrale. La forma generale della miseria ha spogliato tutte le sue forme accidentali per diventare essenziale, perché la ricchezza essa stessa ha spogliato tutte le sue forme accidentali per diventare essenziale. La forma specificatamente moderna della ricchezza non è altro che pubblicità, questa vera sostanza umana; ma come spettacolo e come astrazione. Mai la miseria fu così grande e così segreta, perché mai la ricchezza fu più grande e più ostensibile. Ma questa ricchezza è diventata una illusione pura – contrariamente alla ricchezza passata, mezza realtà, mezza illusione – una ricchezza per nessuno e una miseria per tutti. La ricchezza non è più che la ricchezza del genere umano. Essa non è la ricchezza di nessun individuo in particolare. L’opposizione dell’individuo e del genere è completata, ciò significa che la produzione dell’individuo è imminente. L’estensione della miseria non si distingue più dall’estensione della ricchezza. Infatti, l’opposizione ancestrale di ricchezza e miseria ha di già smesso di essere l’equatore dell’alienazione. Se la pubblicità è il bene supremo, la pubblicità astratta è il male assoluto, il vero peccato contro l’umanità. Il frutto è maturo, i ricchi non sono più che sporchi poveri, e i poveri sono sporchi ricchi.
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Il bisogno di pubblicità non potrebbe essere soddisfatto dall’astrazione della pubblicità, che è il contrario della pubblicità, conoscendo l’opposizione del particolare e del generale. Per cui, un’inchiesta sulla miseria della gente si risolve in un solo problema: che cosa fa comprare? Qual è il potere occulto della merce? La risposta è molto semplice: ciò che fa comprare, il potere occulto della merce, è il bisogno di pubblicità. Sì, la noia è la taglia dell’individualità astratta! Sì, la noia è la nostalgia di un contenuto sostanziale! Se la gente compra, se la gente scambia con furore, non è per qualche motivo particolare, ma per una sola ragione generale. La conoscenza di questa ragione non si distingue dalla conoscenza dell’immensità della miseria moderna. Essa ne è la prova indiscutibile.
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Il ribasso tendenziale dell’utilità particolare nell’inflazione spettacolare non si distingue dall’aumento conseguente all’utilità generale che si oppone a ogni utilità particolare: l’uso dello scambio per lo scambio, l’uso della merce in quanto merce: cioè in quanto la merce è rappresentante del denaro. La società dello spettacolo è la democratizzazione del denaro. Il divenire privo di denaro è l’avvilimento del denaro, ecco il grande corruttore corrotto. Se l’antico ricco faceva uso del denaro per se stesso e conosceva nella prodigalità o nell’avarizia una certa grandezza, lo spettatore non conosce più che la forma imperfetta del denaro, il denaro fatto merce particolare. Per lo spettatore particolare, il denaro consiste nella pia comunione dell’acquisto, esso esiste come liturgia [dal latino ecclesiastico liturgia, derivato dal greco leitourgia, servizio pubblico (Dauzat/Larousse)], il santissimo mistero dell’incarnazione. Con il suo avvilimento, il denaro che si guarda soltanto prende corpo nella sostanza della ricchezza, il denaro diventa visibile in questa corteccia carnale. Così è rivelata alla stupefatta umanità la presenza della divina forma umana nella modesta sostanza mercantile. Ogni bisogno particolare diventa un semplice pretesto per praticare il denaro; ogni spettatore vorrebbe persuadersi persuadendo che è un grande scambista. Egli ricerca derisoriamente la generalità in una diversità multiforme. Questa pratica non è altro che una pseudo-pratica della generalità e resta qualcosa di disperatamente particolare.
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Bisogna qui differenziare seguendo la loro propria determinazione il generale e il particolare; il generale, preso formalmente e posto a fianco del particolare, diventa esso stesso qualcosa di particolare. Una simile posizione, nel caso degli oggetti della vita corrente, colpirebbe da se stessa come inadeguata e maldestra, come se per esempio qualcuno che reclamasse della frutta respingesse ciliegie, pere, uva, ecc. col pretesto che queste sarebbero ciliegie, pere, uva, ma non frutta. E che cosa fanno d’altro i miserabili moderni che pretendono superare lo scambio, respingono i frutti dell’industria sotto il pretesto che non è là che si trova l’umanità in generale? La posizione inversa che consisterebbe nel gustare ciliegie, pere, uva sotto il pretesto che sono ciliegie, pere e uva, ma cercando furiosamente il frutto, senza fare attenzione al loro sapore particolare, è anch’essa inadeguata e maldestra. Ora, cosa fanno d’altro i miserabili moderni che consumano febbrilmente i frutti dell’industria nella sola speranza non confessata di praticare l’umanità in generale? Facendo ciò, colui che aspira a essere un magro scambista, come colui che aspira a essere un grosso scambista, si privano del particolare e del generale. L’oggetto che era prestigioso nello spettacolo diventa volgare nel momento in cui entra nello spettatore; ma coloro che pretendono di rinunciare a tali oggetti devono in effetti rinunciare anche all’umanità. Il generale non si gusta realmente che nel particolare; ma il particolare è scipito fuori del generale. La forma della ricchezza è la generalità. La sostanza della ricchezza è la particolarità. La pubblicità è l’identità della forma e della sostanza della ricchezza; è l’unità del particolare e del generale; è la ricchezza restaurata attraverso la soppressione dell’opposizione della ricchezza e della miseria.
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Il bisogno della pubblicità, il bisogno di generalità è l’enigma risolto della famosa questione degli pseudo-bisogni. Un solo bisogno fondamentale si manifesta nel formicolare dei bisogni particolari, raffinati dal desiderio dello spettacolo: il bisogno di scambiare, il bisogno di praticare la pubblicità, il bisogno di praticare l’umanità. Ne consegue che ogni bisogno è identicamente vero e falso. È vero perché è un modo del bisogno di pubblicità, un modo della vera sostanza umana. È falso perché è un modo non effettivo, privato di effetto, un modo che porta al suo parossismo l’opposizione del generale e del particolare. Si immagina facilmente, con il soccorso della scienza, l’immensa delusione del miserabile spettatore della liturgia mercantile, quando conosce la grandezza di quanto è in gioco e la derisione dei mezzi. Tuttavia, lo schiavo spettatore – e principalmente il “quadro”, questo funzionario modello del capitale chiamato a diventare il tipo comune dell’umanità spettacolare – preferirebbe farsi tagliare a pezzi piuttosto che lasciar scorgere la vastità della sua disperazione. Adesso che la scienza si è impadronita della cosa e che il terrore abietto nel quale vive lo spettatore sarà ben presto conosciuto, come farà a presentarsi nella strada che in questo momento ingombra con una falsa euforia? Quello che pretendiamo, e che stiamo provando, è estremamente semplice: pretendiamo che questa gente che mostra una superba apparenza vive in un terrore senza limiti; pretendiamo che essi sono, senza sosta, in preda a una ossessione insostenibile che raggiunge l’abbrutimento. E noi sappiamo ormai quale sia questa ossessione di cui Krafft Ebing e Reich avevano di già fatto notare dei casi particolari e che abbiamo indicato nel nostro Reich, modo d’uso. Questa ossessione è l’ossessione della pubblicità. Cittadini, questa gente che vuole imporci qualcosa quando l’incontriamo nella strada – o altrove – non sono in realtà che miserabili ossessionati dal bisogno di pubblicità, alle prese con una disperazione opprimente che non lascia loro respiro, a fianco della quale le ossessioni prodotte dall’insoddisfazione del bisogno sessuale – questa forma particolare del bisogno di pubblicità – non sono che frottole. Chi l’avrebbe creduto! Giammai la pubblicità fu tanto assente. Giammai la pubblicità fu tanto presente. Ogni giorno diventa sempre più difficile, sempre più doloroso, essere uno scemo e una scema. La stupidaggine ha smesso di essere una sinecura, la stupidaggine proselitica moderna si dà a se stessa senza pensieri. Per la prima volta nella storia, la bestialità smette di essere un enigma per l’intelligenza e l’intelligenza diventa una promessa di felicità. Oh spettatori comprensivi, non sarò io che lancerò ingiurie alla vostra grande degradazione, non sarò io che getterò il disprezzo sulla vostra vita informe. È sufficiente la noia vergognosa e quasi incurabile che vi assedia, essa porta in se stessa il vostro immancabile castigo. Non è una domanda che vi pongo, perché dal momento che cominciai a frequentare da osservatore la sublime bassezza delle vostre limitate intelligenze, so dove posso arrivare. Mi servono esseri che mi somiglino, sulla cui fronte la nobiltà umana sia segnata a caratteri marcati e incancellabili. Siete certi che chi contempla sia della mia stessa natura? Io non lo credo e non cambierò la mia opinione. Spettatori di tutti i paesi sopprimetevi.
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Abbiamo quindi scoperto nel segreto dei nostri laboratori l’apriti sesamo che popola i sogni di tutti i pubblicitari. Per la prima volta nella storia mondiale, sappiamo che cosa fa vendere, che cosa fa comprare. La sete di oggi è una sete di pubblicità, una sete di ciò che è vero. Come potranno restare insensibili i pubblicitari davanti a una simile scoperta? I più arditi tra di loro dovranno immediatamente applicare le nostre tesi per portarsi al primo posto nella loro miserabile professione. Saranno i nostri migliori propagandisti! Bisogna penetrare la forza del nemico, ha detto Hegel! Questa società è in balia di un’indiscrezione e tuttavia ogni pubblicitario deve mostrarsi ancora più indiscreto di quanto non sia stato finora. A forza di dire ogni giorno un poco di più per fare vendere ancora un poco di più, i pubblicitari finiranno per dire tutto! La loro applicazione dei nostri princìpi scientifici farà vendere ancora di più per qualche tempo. Ma soprattutto essa farà cessare di vendere del tutto in brevissimo tempo. Nella battaglia della pubblicità, nella battaglia della coscienza che è di già ingaggiata, ecco una tattica che è stupidamente comica! Questo mondo non tiene conto ogni giorno della realtà. La realtà potrà ben presto non tener conto di questo mondo.
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La forma che abbiamo data a questa esposizione non presenta solamente il vantaggio scientifico ed estetico di un’intelligenza perfettamente padroneggiata. Essa si adatta in modo particolare a una scienza diretta non verso il mantenimento e lo sviluppo scontato del presente ordine spettacolare, economico e sociale, ma verso il suo abbattimento rivoluzionario. Essa non permetterà nemmeno per un istante al cittadino lettore di darsi alla contemplazione delle realtà direttamente coglibili e alle loro connessioni fantasiste, ma va diritto al malessere interno che esiste dappertutto.
Abbasso il lavoro!
Abbasso la vita quotidiana!
Abbasso la Francia!
Titolo originale: Introduction è la science de la publicité, Champ Libre, Paris 1975
Prima edizione: settembre 1978, collana “Nuovi contributi per una rivoluzione anarchica” – 9
Seconda edizione: nel volume Limiti e prospettive del situazionismo, luglio 1989
Terza edizione: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 29