«Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti».
Simone Weil, 1933
Non sono pochi coloro che nel corso degli anni hanno criticato il carattere totalitario della società moderna e della sua forma politica dominante. Anziché essere l’acerrima nemica dei regimi assolutisti, fondamentale luogo comune della propaganda occidentale, la democrazia ne è la variante edulcorata. A farlo notare non sono stati solo ardenti rivoluzionari, ma anche alcuni pensatori con gli occhi bene aperti. Si tratta di un accostamento intollerabile per ogni fedele adoratore della Costituzione, dello Stato di diritto, e di quanto si presume si metta di traverso alla brutalità della tirannia. Invece, fra chi non si attarda a coltivare sinistre illusioni del genere, questa similitudine viene spesso ritenuta comprensibile e giustificata, per quanto azzardata — perché i campi di sterminio nel cuore dell’Europa non possono essere paragonati a nulla di attuale, pena l’apporto del proprio contributo alla banalizzazione del male.
Lasciamo perdere le anime belle, su cui non vale la pena sprecare parole. Siamo d’accordo che un poliziotto ad ogni angolo di strada, continue perquisizioni anche corporali, schedature amministrative di ogni genere… sono un pugno nello stomaco, prove concrete inconfutabili di uno stato di polizia? Per molti lo sono senz’altro. Ma qual è la differenza fra lo sguardo arcigno di uomini in uniforme e gli occhi neutri di una telecamera, fra mani guantate che palpeggiano corpi vestiti e scanner che vi guardano attraverso, fra un numero identificativo tatuato sul braccio e un codice identificativo abbinato al proprio nome? Che nel primo caso il controllo viene esercitato in maniera tangibile da esseri umani, nel secondo è affidato a macchine che lo svolgono in modo asettico. In caso di irregolarità, nel primo caso la polizia può intervenire immediatamente, mentre nel secondo i mezzi tecnologici fanno intervenire la polizia nello spazio di pochi minuti. Una differenza minima, quasi una sfumatura.
La nostra mente questo lo sa, ma si ostina a non percepire come totalitaria questa realtà. Non può farlo, perché ha introiettato la convinzione che il passato più cupo sia stato superato da un presente brillante che annuncia un futuro sempre più radioso. Non può farlo, perché altrimenti si sentirebbe schiacciata sotto il peso della responsabilità di non opporsi al peggiore degli orrori. Anzi, di più, di una responsabilità anche peggiore — quella di collaborare a questo orrore. Per non tormentarsi, per non trarne le ovvie conclusioni, la nostra mente si aggrappa all’assenza di quell’elemento così tipicamente totalitario che il nostro occhio non vede dovunque: fiumi di sangue, corpi martoriati, fetore di morte.
Quindi, non essendo (ancora?) vittime di retate e non sopravvivendo (ancora?) in un campo di concentramento — malmenati dai guardiani, invasi dai pidocchi, vittime dello scorbuto, e in attesa dell’esecuzione — nessuno di noi contemporanei occidentali «ha il diritto» di paragonare il mondo in cui viviamo a quello tristemente noto nella prima metà dello scorso secolo. Perché il male non è un vero male se viene sofferto da pochi. Ed eccolo l’errore. Facendo dello spargimento di sangue e della crudeltà manifesta la sola ed unica manifestazione di orrore, non si incappa in un’altra forma di banalizzazione, quella del bene? E quando si parla del mondo da incubo descritto nel romanzo 1984, del suo clima di angoscia e di terrore, si pensa al controllo onnipresente e alla capacità da parte del potere di modificare di continuo la percezione della realtà e i comportamenti umani, oppure ci si limita a pensare alla Stanza 101?
Lo scorso 20 febbraio è uscito dal carcere di Angola, in Louisiana, Albert Woodfox. Allora membro delle Pantere Nere, condannato per l’omicidio di una guardia carceraria, ha vissuto per quarantatré anni in una cella di due metri per tre, senza finestre, in assoluto isolamento, avendo diritto a un’ora d’aria al giorno da trascorrere in un cortiletto chiuso, con mani e piedi bloccati da catene. Riuscite a immaginarlo? Davanti a un simile trattamento, c’è da chiedersi se non sia preferibile e più umana una sbrigativa pallottola in testa. È la sentenza di colpevolezza (per altro assai controversa) emessa da un tribunale del «paese più libero del mondo» a rendere questa punizione forse criticabile, comunque accettabile? Avendo egli verosimilmente messo tutti i giorni qualcosa nello stomaco, potendo riempirsi gli occhi con le immagini della televisione che aveva in cella, e avendo di tanto in tanto la possibilità di farsi una doccia, va considerato un privilegiato rispetto agli scheletri viventi usciti da Auschwitz? Non essendo stato destinato ad un forno crematorio, ma solo ad essere seppellito vivo per oltre 14.600 giorni, 350.400 ore, 21.024.000 minuti, ciò che ha vissuto Woodfox non resta comunque un orrore innominabile? Eccola qui, la banalità del bene democratico.
Qual è allora la differenza sostanziale fra la sua esperienza e quella vissuta dai superstiti dei campi di sterminio? La risposta rassicurante più immediata è semplice, la matematica non è un’opinione: l’annientamento psico-fisico di un pugno di sovversivi e di criminali non può essere considerato alla stessa stregua dell’olocausto di milioni di esseri umani perseguitati per il nome che portavano, per la religione che praticavano, per i tratti somatici che li distinguevano. Nonostante la sua impeccabile logica, si tratta di una risposta del tutto priva di senso. Dal punto di vista qualitativo come da quello quantitativo, è lo Stato a decidere chi è il colpevole da punire, il nemico da sterminare, ed è lo Stato a determinare le modalità per farlo — punto e basta. Ciò significa che è sufficiente una modifica di legge per trasformare il numero dei perseguibili, facendoli passare da poche migliaia a qualche milione. Allo stesso modo è sufficiente una propaganda forte e organizzata per giustificare qualsiasi misura agli occhi del resto della popolazione.
Non è forse quanto è accaduto anche in passato? Matematica per matematica, la popolazione tedesca sotto il Terzo Reich era di 90 milioni. Cosa volete che fosse sacrificare qualche milione di vite umane pur di salvaguardare il benessere di tutti gli altri, la stragrande maggioranza? Non siete d’accordo? Eppure è quanto accade ancora oggi, sotto i nostri occhi. A quelle porte di casa chiamate frontiere, come nel salotto chiamato capitale, lo Stato sta indossando robusti stivali al posto di soffici pantofole: stati d’assedio, leggi eccezionali, campi di concentramento… Ad est come ad ovest, nei paesi cosiddetti arretrati così come in quelli cosiddetti civili, milioni di esseri umani destinati al macero vengono presi a calci per contenerne la disperazione, la rabbia, l’angoscia, la rivolta. Perché il mondo è piccolo e la gente è troppa, perché le risorse sono limitate e l’avidità è infinita, perché la ricchezza è di pochi ed aumenta quando aumenta la povertà di molti. Perché oggi siamo in oltre sette miliardi ad accalcarci in questo pianeta moribondo, divorandolo e calpestandoci a vicenda, ed è ora di sacrificare qualcuno per porre rimedio a questa situazione. E perché il potere, davanti a sé, non ha più alcuna opposizione. Si può permettere qualsiasi cosa non solo contro i suoi nemici dichiarati — come sta accadendo ai due anarchici oggi sotto processo in Spagna, che rischiano una condanna a 44 anni di detenzione per accuse platealmente studiate a tavolino — ma contro chiunque.
Nel suo studio sul totalitarismo, risalente al 1948, Hannah Arendt osservava che «sia in Russia che nella Germania nazista il terrore era aumentato in proporzione inversa all’esistenza di un’opposizione politica interna, come se questa fosse stata non il pretesto per l’impiego della violenza (come ritenevano gli accusatori liberali dei regimi), ma l’ultimo impedimento al suo infuriare». Nel trionfare, il nazismo non era diventato meno violento, al contrario. Si era scatenato. La violenza statale non è causata dalla protesta, come tanti si ostinano a sostenere, anzi ne è ostacolata. Il nazismo, liberatosi dei suoi oppositori interni ed esterni, prese di mira il nemico interno che si era già creato e fece di tutto per sterminarlo, nonostante non costituisse alcun reale pericolo per la sicurezza del Terzo Reich.
Ma le democrazie moderne, che quando vogliono massacrare tendono a spostarsi in altri continenti, cosa fanno in casa propria? Commentando le parole dell’amica Arendt, nel 1953 Dwight Macdonald scriveva: «Nel mondo irrazionale del totalitarismo… [la repressione] in generale aumenta mentre l’opposizione si indebolisce, dato che la principale preoccupazione dei governanti non è solo quella di mantenere il proprio potere ma di portare avanti un laboratorio di sperimentazione per cambiare gli uomini in fasci di riflessi condizionati».
Non abbiamo mai vissuto in un campo di concentramento, noi. Quindi — ci viene insegnato — non viviamo in una società totalitaria, noi. No, noi siamo soltanto nati e cresciuti in un laboratorio di sperimentazione per cambiare gli uomini in fasci di riflessi condizionati. Niente sangue raccapricciante, solo aria asettica. Come quella che si respirerà nel primo centro di «de-radicalizzazione» chiamato «Centro di reinserimento e di cittadinanza» che il governo francese inaugurerà il prossimo giugno: per dieci mesi una trentina di giovani dai 18 ai 30 anni saranno sorvegliati giorno e notte all’interno di una struttura preposta a tale compito. Non è una galera in cui prevale la punizione, no, è piuttosto da considerare come una specie di clinica dove si viene messi in forma. Non per far perdere peso o per curare la dipendenza dalla droga: per sradicare certe idee. Le proprie, innanzitutto.
Negli Stati Uniti invece puntano sulla prevenzione. Lo scorso gennaio l’FBI ha diffuso fra il personale di tutte le scuole superiori il documento Preventing violent extremism in schools, che invita gli «educatori» a sorvegliare e segnalare i comportamenti sospetti degli studenti. Definiti «obiettivi ideali per il reclutamento da parte di estremisti violenti che cercano sostegno per le loro ideologie radicali», i ragazzi dai 13 ai 18 anni potrebbero infatti cadere nelle mani dei martiri della guerra santa, o di gruppi di «suprematisti bianchi, eco-terroristi e per i diritti animali, anti-governativi e radicali separatisti». Per scongiurare tale ipotesi, gli insegnanti dovranno includere nei loro corsi alcune ore di addestramento contro il «radicalismo».
A ben guardare, esattamente come per la «questione ebraica», c’è una discrepanza incredibile fra le misure repressive prese e l’effettiva minaccia che dovrebbero fronteggiare. Non tanto nei grandi allarmi sociali internazionali, quanto in quelli piccoli e locali. Solo che non è facile accorgersene. Davanti allo spettro del kamikaze che con la sua cintura esplosiva si aggira implacabile da qualche parte in Europa, chissà dove chissà contro chi, è facile imporre maggiori restrizioni. Tutti ne parlano come di un pericolo imminente, tutti se ne preoccupano perché temono di rimanerne vittime, tutti si aspettano provvedimenti salvifici. Ben venga lo stato d’emergenza, quindi, come quello che nella patria dei diritti dell’uomo ha portato a 3.458 perquisizioni domiciliari e oltre 350 obblighi di residenza nel giro di quattro mesi. Ma non sono solo le misure prese contro le persone «sospette» a venire giustificate. Chiudere i locali notturni? È insopportabile, ma del resto… Sospendere gli appuntamenti pubblici? È una rinuncia, ma del resto… L’esercito per le strade? Fa impressione, ma del resto… Bisogna adeguarsi, bisogna tollerare, bisogna capire. Bisogna stringersi attorno alle istituzioni. Pur di sconfiggere il Male, bisogna obbedire.
Che incredibile mutazione, quella cui stiamo assistendo! Lo Stato sociale sostituito dallo Stato poliziotto (dallo Stato pappone?). Oggi l’obbedienza non viene più pretesa in cambio del cosiddetto benessere a base di frigoriferi pieni, case riscaldate, automobili nuove, pensioni assicurate. No, viene pretesa in cambio della mera sopravvivenza. Anzi, nemmeno di quella. Perché lo Stato — oltre a non fingere più nemmeno di dare qualcosa in cambio del consenso, a non offrire più nessun servizio appena dignitoso — si preoccupa più che altro di evitare che i propri sudditi vengano ammazzati da qualcun altro. La paura del Male, un Male grande, enorme, terribile, mostruoso, è il sentimento che deve occupare i pensieri di tutti. Per non farli pensare al Bene, alla sua banalità, alla sua mediocrità, alla sua miseria, alla sua infamia.
Infatti la cronaca odierna segnala parecchi casi di panico collettivo davanti a chi pronuncia le parole «Allah Akbar», ma purtroppo nessuno si terrorizza quando vede mettere la museruola alla libertà al suono di «se non avete nulla da nascondere, non avete nulla da temere». Eppure questa frase, che potrebbe ben essere il motto del totalitarismo, è lo slogan della società panoptica moderna dove chiunque sappia d’essere potenzialmente osservato tende ad inibirsi. Come spiega bene Orwell, il punto non è l’essere costantemente sorvegliati, ma avere la consapevolezza di poterlo essere in ogni istante. Ciò basta per frenare ogni slancio, per spingere gli esseri umani a controllare il proprio comportamento adeguandolo alle norme.
Gli esseri umani, che feccia! Si comportassero bene, non ci sarebbe bisogno di prendere certi provvedimenti. Ma, del resto… Così ogni episodio conflittuale — grande o piccolo che sia — diventa il pretesto per lanciare un allarme che precede una messa in sicurezza generale. Qualsiasi cosa accade, proliferano divieti che esondano dal loro contesto originario per venire applicati un po’ dovunque. Ad esempio, restando in Francia, le discussioni sulla nuova legge “antiterrorismo” hanno permesso di far passare sotto silenzio la nuova legge sul trasporto pubblico che prevede condanne penali per chi venga trovato almeno cinque volte senza biglietto o per chi avvisi altri passeggeri della presenza dei controllori.
Insomma, lo Stato non si lascia sfuggire più nessuna occasione. Se è stato compiuto uno stupro in un villaggio, si prende il DNA a tutti gli abitanti. Anzi, dato che i reati sono commessi da esseri umani, tanto vale prelevare il DNA a tutti fin dalla nascita (come accade negli Stati Uniti, ed ormai anche in Italia col «prelievo dal tallone»). Se un alunno ha portato in classe un coltello, si installa un metal detector all’ingresso delle scuole. Se una maestra ha malmenato un bimbo, si piazzano le telecamere negli asili nido. Se un graffitaro ha sporcato un muro, si riempiono di telecamere le piazze. Se un automobilista ha superato in curva, si mettono le telecamere sulle strade. Se un viaggiatore ha rubato una borsetta, si predispongono le telecamere sui treni. Se un cliente ha rubato sugli scaffali, si posizionano telecamere nei negozi. Se un ubriaco ha spaccato una panchina, si piantano telecamere nei parchi. Sono rimasti spazi scoperti? Persino i bidoni della spazzatura hanno bisogno di telecamere che li sovrastino per scoprire chi butta vetro dove dovrebbe esserci solo plastica (mentre in una cittadina italiana il sindaco vuole schedare il DNA dei cani per poter scovare e multare i proprietari che non ne ripuliscano le feci in mezzo alla strada!). Non solo, ma dopo le telecamere che hanno il difetto di aver bisogno di un ambiente urbano per funzionare efficacemente, ecco arrivare i droni per tenere sotto controllo anche le zone interne o più impervie. Ed è così, senza brutalità, che ci fanno rigare diritto. «Ma non è il passo dell’oca!» — si consolano le anime belle…
Sempre visibili, siamo sempre reperibili. Fino a non molti anni fa il telefono si trovava in casa e in qualche luogo pubblico. E si viveva lo stesso, sapete? Oggi è dappertutto. Le cabine telefoniche pubbliche sono quasi scomparse, le hanno tolte tutte così da costringere le persone a portarsi dietro il telefono cellulare (su cui tutti quanti stanno continuamente piegati in segno di sottomissione). Perché così si è sempre rintracciabili. Lo stesso si può dire dei «social network». Chi non ha un profilo Facebook appare sospetto, perché chi non vuol rendere pubblici i fatti propri deve avere senz’altro un segreto da nascondere. Nei colloqui di lavoro, avere o non avere quel profilo può fare la differenza fra una assunzione sinonimo di stipendio e un rifiuto sinonimo di fame. Restando in ambito elettronico, che dire di tutte le tracce personali che vengono lasciate ad ogni connessione, ad ogni passaggio sui motori di ricerca, ad ogni consultazione di un sito, ad ogni pagamento effettuato via web? Tutti dati che vengono incrociati, studiati, vagliati, per poter essere meglio destinati ad un unico fine, quello di trasformarci in «riflessi condizionati».
Ormai simili tecniche appaiono talmente normali e comuni da venir candidamente usate anche solo per togliersi una qualche curiosità. All’inizio di marzo gli studiosi della Queen Mary University di Londra hanno annunciato di aver risolto «l’enigma Bansky», ovvero di aver scoperto l’identità dell’artista inglese famoso in tutto il mondo per i suoi graffiti. Prendendo spunto dai metodi polizieschi, hanno usato una tecnologia di localizzazione geografica che ha permesso di trovare numerose corrispondenze fra i luoghi in cui sono apparse le opere di Bansky e i contatti del maggiore «sospettato». Secondo le agenzie stampa «la stessa tecnica potrebbe avere un importante utilizzo nell’anti-terrorismo, ad esempio per analizzare i luoghi frequentati da estremisti come quelli in cui si distribuiscono volantini o fanno graffiti contro le autorità, in modo da individuare e “seguire” potenziali attentatori». È vero che persistono «diversi dubbi per quanto riguarda il rispetto della privacy», ma siamo certi che verranno presto fugati: se chi volantina e chi fa graffiti non ha nulla da nascondere…
Il titolo originale del capolavoro di George Orwell avrebbe dovuto essere L’ultimo uomo in Europa. Oggi, quest’ultimo uomo si guarda attorno sgomento e non sa più né cosa dire né che fare. A chi rivolgersi, quando nessuno è interessato ad ascoltare o non è letteralmente più in grado di comprendere quanto viene detto? Che l’ignoranza sia forza, forza al servizio del potere, non è solo la battuta di un romanzo.
Ci sembra sia stato il più famigerato uomo politico del Novecento a sostenere che, più è elevato il numero di persone che si intende raggiungere e influenzare, più i concetti che si esprimono devono essere piatti e banali. Quando si cerca di destare l’interesse delle masse è del tutto inutile fare ragionamenti brillanti e profondi; nessuno li capirà e l’attenzione verrà sostituita presto dalla noia. Molto meglio affidarsi ai soliti luoghi comuni conditi con qualche slogan ad effetto fortificante. L’intelligenza va bene per conquistare poche persone, ma per molte altre ci vuole la stupidità. Nella consapevolezza che la propaganda è stata l’arma più efficace nelle mani dell’ex imbianchino coi baffetti per raccogliere consensi ed imporre il proprio regime nel paese, ancor più del terrore esercitato dai suoi sgherri, non è il caso di liquidare con un’alzata di spalle simili considerazioni. Anche perché, per avere conferma della loro sempiterna funzionalità, è sufficiente osservare i mass-media contemporanei. Tutte queste parole, i suoni e le immagini che ci bombardano quotidianamente, invitano alla riflessione che alimenta la conoscenza o spazzano via ogni pensiero trascinando nell’abbrutimento? Cosa trasmettono, intelligenza critica oppure dozzinale idiozia? Rispondere non dovrebbe essere poi così difficile. Come è noto, il principale strumento tecnico della propaganda nazista è stata la radio. Oggi qui in Italia il programma radiofonico più ascoltato è anche quello più sguaiato e volgare, caratteristica riscontrabile anche nel cinema che ha da poco sfornato un film la cui greve demenzialità ha sbriciolato tutti i record di incassi. Se poi si passa alla televisione, è sempre il cosiddetto trash a regnare sovrano. Quell’italico trash televisivo che ha fornito anche la sua definizione dell’essere umano contemporaneo: «bimbominkia».
Il bimbominkia è il vero essere qualunque dei nostri giorni. Privo di qualsiasi individualità, di qualsiasi idea, di qualsiasi etica, con un linguaggio talmente ridotto da renderlo al massimo in grado di ruttare commenti pro o contro, il bimbominkia vive in branco, ne adotta le regole e si muove seguendo gli spostamenti del proprio (capo)branco. Dietro impulso, annuisce e si spella le mani in applausi; dietro impulso, si contraria e sputa insulti. Ovviamente non vuole sentire ragioni, non essendo in grado di capirle e non sapendo né cosa né come rispondervi. Per cui, davanti ad ogni critica puntualmente identificata come un mero attacco da parte di un branco avversario, si limita a sbavare e a sghignazzare. Al massimo ripete l’ameno ritornello imparato a memoria: il rutto è la protesta della gente autentica, reale, pratica, contro l’intellighenzia che vorrebbe dominare con le sue teorie astratte. Ignorante è bello, divertente e semplice (come sostiene anche il possibile futuro presidente degli Stati Uniti col ciuffo), intelligente invece è triste, noioso ed arrogante. Si tratta della stessa linea di difesa adottata da chi vuole proteggere i «social network» dall’accusa di accogliere «l’invasione degli imbecilli»; anche qui si evoca la condivisibile libertà dell’ignoranza contro l’esclusivo privilegio del sapere.
Negli anni più bui del secolo scorso il ministro della propaganda nazista — esperto nel lavaggio di cervelli e coscienze — andava assai più per le spicce; quando sentiva pronunciare la parola cultura, la mano gli andava alla rivoltella.
All’alba del Novecento, e proprio in Germania, c’era chi interpretava l’impotenza del linguaggio come frutto delle scoperte scientifiche che avevano ampliato a dismisura il mondo dell’essere umano, ponendolo in uno stato di prostrazione. Sgomento davanti a quel fluire indistinto di cose incomprensibili e innominabili, indice di una realtà che debordava dalle vecchie cornici razionaliste, l’essere umano perdeva ogni punto di riferimento sprofondando nell’angoscia e nell’afasia. Fa una certa impressione pensare che già un secolo fa il linguaggio era considerato composto da «parole che appiattiscono ogni realtà e la assopiscono a furia di chiacchiere», motivo per cui «è impossibile aprire bocca senza suscitare le più disastrose confusioni!». Davanti alla deflagrazione di una realtà inafferrabile, i concetti che dovrebbero racchiuderla vengono meno, sfuggono, diventano imperfetti e quindi sostanzialmente inutili. Di conseguenza, le bocche ammutoliscono o coprono il dramma dell’esistenza umana con un brillante chiacchiericcio.
Mezzo secolo dopo, all’indomani della seconda guerra mondiale, ci fu chi effettivamente si chiuse nel silenzio dopo decenni di fervente agitazione, constatando con amarezza sulle pagine del proprio diario la «prodigiosa dissolutezza di espressioni senza contenuto» e l’universalizzazione del «rumore come linguaggio attuale dell’umanità». Davanti alle palesi manipolazioni delle parole, meglio adottare il silenzio. Davanti alle palesi ipocrisie di una socialità fittizia, meglio circondarsi di solitudine. Altrimenti, qualsiasi cosa si dica non potrà che far lievitare ulteriormente la schiuma degli avvenimenti.
Oggi, all’alba del terzo millennio, si può ben dire che la tecnologia ha portato a compimento la distruzione del linguaggio mettendo ogni espressione al servizio della funzionalità tecnica. E quindi, cosa resta da dire? E come? E a chi? La parola diretta e chiara non riesce a raggiungere il bersaglio. La parola oscura ed enigmatica non riesce ad evitare di venir arruolata. Nell’era di Facebook, Twitter o Instagram è diventato fin troppo evidente che ogni contributo alla riflessione e al dibattito non fa altro che alimentare la bava del chiacchiericcio. Il centenario di Dada vede così trionfare la sua principale rivendicazione: l’idiozia dovunque. Solo che ciò non è opera di chi vorrebbe invertire i valori al fine di mettere a soqquadro l’ordine costituito. No, è questo stesso ordine ad aver fatto dell’idiozia un valore per potersi difendere da ogni messa in discussione. È risaputo che per impedire la costruzione di una Torre di Babele che faccia da ponte d’assalto agli dèi, il linguaggio deve diventare incomprensibile.
Ora, per quanto nella mezzanotte del millennio la tentazione nichilista più estrema possa essere forte, in cosa un silenzio sovrano si differenzierebbe da un rassegnato mutismo? «La parola è impotente, l’azione limitata. Eppure, cosa abbiamo al di fuori della parola e dell’azione?», veniva osservato di recente nel corso di un incontro fra teste calde di vari paesi. L’una come l’altra sopravvivono come testimonianza singolare di dignità, allo stato brado, semi-nascoste nei boschi come lupi solitari in via di estinzione. È vero. Ma questa attuale consapevolezza non può nasconderne un’altra assai più essenziale, ovvero che il destino potrà anche essere programmato, ma non per questo verrà senz’altro realizzato. Variabili impreviste o fattori di rischio, è questa la nostra poesia.
«Le bombe atomiche si ammassano nelle fabbriche, la polizia si aggira per le città in cerca di prede, le menzogne escono a fiotti dagli altoparlanti, ma la Terra continua a girare intorno al sole e, per quanto possano disapprovare il fatto, dittatori e burocrati non riusciranno certo a impedirglielo»
George Orwell, 1946
[19/3/16]