Da quando la struttura in corso Brunelleschi ha aperto migliaia di persone sono state rinchiuse tra quelle mura. Negli anni le leggi sull’immigrazione sono cambiate così come pure la funzione che certi luoghi detentivi dovevano avere all’interno del sistema di gestione dei flussi migratori. Nonostante l’evolversi della legislazione sulla detenzione amministrativa, per chi nei Cie ci è finito, anche quando ancora venivano chiamati Cpt, la violenza della carcerazione è sempre stata la stessa.
Proprio per questo, negli anni, i reclusi hanno tentato di ribellarsi sempre più spesso. Le pessime condizioni di detenzione, i soprusi della polizia e degli operatori, la rabbia per essere rinchiusi solo per non avere i documenti in tasca hanno dato ai reclusi la spinta per lottare: a volte come potevano con scioperi della fame, atti di autolesionismo, rifiuto del vitto; in altre, con maggior forza e organizzandosi insieme, hanno dato vita a evasioni, resistenze alle espulsioni, rivolte e incendi. In tanti o in pochi, organizzati o meno, la voglia di farla finita con i Cie ha sempre animato le persone rinchiuse.
La realtà, del resto, parla da sé. Basti pensare che i pochi Cie in funzione al momento in Italia versano in pessime condizioni e da Crotone a Torino passando per Roma e Bari, i reclusi si rivoltano di continuo danneggiando e bruciando le gabbie in cui sono costretti.
Fuori si è provato a stare al passo, a sviluppare e organizzare la solidarietà trovando modi per farsi sentire dentro, per non lasciare solo chi lotta e si ribella, per portare le proteste dei reclusi fuori da quelle mura, a volte fin sotto le case dei diretti responsabili.
La lotta negli anni ha saputo dotarsi di strumenti per dare continuità e ritmo al percorso intrapreso e ha conquistato spazi sotto le mura del Centro e per le strade.
Nel Cie torinese nell’ultimo anno, i reclusi hanno dato parecchio filo da torcere ai gestori che tentavano la ristrutturazione delle aree danneggiate dalle rivolte. L’intento degli ultimi provvedimenti legislativi è una messa a regime funzionale delle strutture e per quello torinese parecchi sono stati i finanziamenti stanziati dal governo centrale. A ogni ristrutturazione prima o dopo seguivano nuove rivolte, nuovi danneggiamenti, nuovi incendi. Così la capienza massima non si raggiunge da anni e nel Cie ora son disponibili una sessantina di posti appena, nuovamente messi in discussione dal fuoco appiccato la scorsa settimana nell’unica area ancora interamente funzionante.
Forse per questo da un po’ di tempo all’interno del Centro polizia ed enti gestori stanno affinando il sistema di disciplinamento per cercare di pacificare gli animi. La differenziazione tra chi sta buono e chi reagisce si fa più capillare e costante, l’utilizzo dell’ospedaletto come luogo d’isolamento a scopo punitivo è diventato ormai la normalità mentre è in via di sperimentazione il sequestro arbitrario di telefoni cellulari per togliere ogni possibilità di comunicazione tra le aree e con l’esterno. A tutto ciò si aggiungono le solite prepotenze della polizia, i pestaggi e il sottile controllo informale che si insinua grazie alla presenza di operatori che parlano la stessa lingua delle persone rinchiuse.
Il tentativo di riorganizzare la reclusione nel Centro va di pari passo con il tentativo di spezzare la solidarietà fuori. Negli ultimi mesi i presidi che si è soliti fare sotto le mura subiscono la pressione della polizia che prende metri abbandonando le postazioni lungo la ricenzione per avvicinarsi sempre di più ai solidali. Con atteggiamento muscolare si fa notare che non verranno tollerati lanci di palline con messaggi di solidarietà verso dentro né lo scoppio di fuochi d’artificio. Anche il saluto estemporaneo è diventato faticoso a causa della presenza di una volante che gira intorno al Centro pronta a chiamar rinforzi alla bisogna. Così sempre più spesso il saluto si traduce in fermo per qualcuno. Nelle scorse settimane tre compagni, due francesi e uno spagnolo, fermati sotto le mura del Cie, dopo una notte in Questura sono stati espulsi.
Disincentivare la solidarietà diretta quindi ma anche zittire le voci, bloccare la circolazione di informazioni, nascondere sotto un velo. Così qualche settimana fa dai social network sparisce il pagina “ICieliBruciano” dove venivano raccolte notizie, informazioni e testimonianze dai e sui Cie. Persino un recluso riceve minacce dopo che sul suo profilo vengono trovati video e foto dall’interno di Caltanissetta, prontamente fatti cancellare dalla polizia.
Di fronte ai tentativi di togliere terreno dobbiamo rispondere rilanciando la lotta a fianco di chi è rinchiuso e per questo si ribella.
In questi anni in tanti in questa città hanno sentito la necessità di trovarsi sotto le mura del Cie per far sentire la propria voce. La possibilità di occupare il prato fuori dal Centro per fare un presidio lanciando messaggi di coraggio e solidarietà all’interno o andare in maniera estemporanea e fulminea a salutare i reclusi, a sparare qualche fuoco d’artificio, a urlare “libertà” sono conquiste della lotta, dell’impegno e della determinazioni dei tanti e tante che in questo percorso ci hanno messo volontà ed energie, più o meno di continuo, più o meno intensamente.
Ma gli spazi strappati e gli strumenti affinati con l’esperienza non sono conquiste definitive.
Questi spazi e questi strumenti hanno bisogno di essere consolidati, adeguati alle esigenze della situazione ma sopratutto hanno bisogno di essere difesi. Perché capita sempre, a momenti alterni e per motivi diversi, che la repressione provi un giro di vite, dentro come fuori si intensifica il controllo e si prova a togliere ciò che la lotta aveva conquistato.
Bisogna allora serrare le file, sentire il momento e rispondere all’appello.
Quale migliore indicazione a non abbassare la testa se non quella che ci viene proprio dagli incendi della settimana scorsa?
Torniamo sotto le mura del Cie in tanti, riprendiamoci lo spazio che vorrebbero rosicarci via e, perché no, strappiamone di nuovo, troviamo nuove strategie e nuovi modi per lottare insieme ai reclusi fino a che del Cie non resti che un rudere inutilizzabile.
Giovedì 7 aprile ore 18 e 30 aperitivo e discussione in preparazione al presidio alle serrande della casa occupata di corso Giulio Cesare 45.
Domenica 10 aprile ore 16 presidio solidale sotto le mura del Cie in corso Brunelleschi angolo via Monginevro.