Renzo Novatore
Introduzione
Leggere Novatore è un’impresa. I motivi per cui, oggi, si viene respinti dalla lettura di un testo come quello che presentiamo qui di seguito sono parecchi e tutti paralleli ai motivi, altrettanto numerosi, per cui se ne rimane affascinati.
Il disgusto deriva dal modo di scrivere, dalle infiorettature stilistiche, dalle assordanti ripetizioni, dalla retorica tratta per i capelli a servire da strame per lo sbocciare di un fiore ormai fuori del tempo. Il fascino viene da quello che il lettore ricorda – il lettore provveduto, non quello accidentale – della vita di questo ribelle, morto con le armi in pugno in un conflitto a fuoco contro i carabinieri che volevano catturarlo.
Ma una vita bella, e certamente la sua lo fu, una vita “contro”: contro la guerra, contro i fascisti che della guerra furono gli esecutori testamentari, contro i padroni che mandarono i proletari a morire in un sanguinoso quanto assurdo conflitto e poi gestirono i fantocci fascisti per mettere paura alle giuste rivendicazioni dei sopravvissuti, una vita bella, dicevo, non è detto che possa trovare riscontro in belle pagine scritte. Il motivo è lo stesso per cui belle pagine sono state scritte da assurdi pagliacci sbrodoloni, come quel D’Annunzio che qui se non proprio di casa sta acquattato dietro le quinte.
Eppure le parole di Novatore meritano una riflessione, mentre non meritano l’entusiasmo di sprovveduti lettori che trovano in esse esattamente quello che non c’è, che il suo autore, quasi certamente (di questo non si può mai essere sicuri), non voleva che ci fosse. Il fatto è che la madre degli imbecilli purtroppo è sempre gravida.
Il nulla e la creazione sono concetti messi qui, apparentemente in modo innocente e spontaneo, sostanzialmente in modo provocatorio. Non avrebbero senso se non derivassero dalla “morte di Dio”. L’annuncio di Nietzsche, insieme a tanti altri, è colto da Novatore in blocco, con quella cecità di lettore frettoloso e improvvido che lo contraddistingueva. La sostanza del suo pensiero – che di pensiero robusto, anche se in forma di tenero virgulto, si tratta – sta tutta qui. Ed è bene soffermarsi un poco.
La morte di Dio, del Dio dei massacri e delle pietà raccoglitrici di tradimenti ed ignominie, propone la visione del nulla. Una «magia dell’estremo», aveva detto Nietzsche (Aurora, IV, 271).
E il suono delle parole di Novatore trasforma la tesi ancora fredda del filosofo in un canto reboante, retoricamente fastidioso, ma con tutto ciò presente nel suo cuore di uomo che amava la vita, la vita nei suoi afflati dionisiaci estremi, senza mezze misure, senza concessioni o patteggiamenti.
L’estremista Novatore va sempre più oltre, rilancia la sua posta, butta sempre i propri resti sul tappeto verde, e vince, vince comunque una cifrata condizione impensabile, vince contro tutti coloro che, parallelamente, stavano a misurare la propria esistenza con il bilancino del farmacista.
Il nulla può essere guardato in faccia solo da un immoralista. Lo stesso Nietzsche, immoralista quasi sempre a parole, stroncato da un semplice sguardo in tralice di Lou, non gli è vero compagno di strada.
Certo, lo sopravanza per vastità d’ingegno e visione d’insieme, ma la seduzione dell’estremo è ancora nelle mani di Novatore, è lui che la gestisce. La creazione del futuro sta ancora nel gesto che attacca, non in quello che – tra un bicchiere d’acqua fresca e l’altro – si raccoglie nell’aria rarefatta di Sils Maria.
E il futuro, quello che parla e dice qualcosa direttamente, non può venire da una dialettica compositiva di contraddizioni, deve venire dall’estrema rarefazione contraddittoria, dal parossismo delle Erinni.
Novatore è uomo tragico, lacerato, insopportabile, ed è bene che le sue parole scritte, nero su bianco, siano insopportabilmente illeggibili.
È bene però che i compagni lo leggano e che ne traggano non istupidita meraviglia, ma reazione di rigetto e stralunato senso di nausea, per andare oltre, verso il nocciolo concreto di quello che il suo polso fermo, lo stesso con cui impugnava la rivoltella nelle rapine, mettendo paura a borghesi e bottegai insieme al suo compagno Sante Pollastro, poteva afferrare.
Non dico che qualsiasi sedicente ribelle, pauroso della propria ombra, mentre starnazza nell’aia, possa afferrare questo nocciolo concreto, dico che qui ne ha l’occasione. Spetta a lui abbandonare i piccoli saltelli e spiccare il volo.
Se in Nietzsche, oltre all’aspirazione poetica c’è anche il concetto, in queste pagine c’è l’estasi che procurano i concetti quando si accavallano l’uno dentro l’altro fino al parossismo, azzerando la logica, rendendo turgido il desiderio non di chiarezza ma del suo contrario, di annullamento, di penetrazione nel nulla, dove il genio del cuore può finalmente dare sfogo alla sua capacità creativa.
Naturalmente Novatore non vi riesce, che lo strumento linguistico gli tarpa fastidiosamente le ali, ma il desiderio c’è tutto e anche la forza personale di andare oltre, ancora più oltre, contro ogni esprit de finesse che alla fin fine è solo sottoprodotto di un qualsiasi laboratorio letterario.
A guidargli la mente, ma più ancora il braccio, è lo sdegno, lo sdegno per le turpitudini borghesi che aveva sotto gli occhi, lo schifo per la vigliaccheria generalizzata, non solo quella dei picchiatori fascisti, sempre in cento contro uno, ma principalmente quella delle rane proletarie, incapaci di ribellarsi. Il suo bisogno di annientamento della realtà, prima di tutto la realtà dei massacri e della guerra, è anche bisogno di autoannientamento, da cui deriva l’identificazione nichilista con la rivolta definitiva e senza possibilità di ritorno.
«Sì! – cantava Nietzsche – Io so le mie radici! / Insaziato come la fiamma / Ardo io e mi consumo. / Tutto che afferro diventa luce, / Tutto che lascio si fa carbone: / Fiamma per certo son io». (Gaia scienza, II). E, allo stesso modo, il bruciare di Novatore si fa creazione, richiesta perentoria nei riguardi del futuro. Andare oltre non è incoerenza, è l’unica via possibile di fronte agli appelli del destino.
Certo, questi appelli possono ridursi al lumicino, quasi alla impercettibilità, ma quanto deve indurirsi la scorza di cui finisce per circondarsi, fino alla morte. Ogni segnale che questo profeta nascosto nelle nebbie del futuro insiste a mandare, ha con sé l’emblema della morte, ma lui non è in grado di leggere questi segnali fino in fondo, il linguaggio della morte gli resta per sempre sconosciuto. Io vi leggo l’invito pressante all’oltrepassamento, l’incitamento a trovare il coraggio e a smettere di avere paura. Non è una via di uscita, questo lo so, ed è tutt’altro che comoda.
La ragione non vince la paura dell’incompletezza, anzi la sigilla nel cerchio difettoso del produrre. Da paura e inquietudine, nella continua riconferma, alla fine si sviluppa la sostanza venefica e inevitabile del mondo che ci circonda. Novatore non si è reso conto proprio di questo, e come poteva farlo?
Dal nulla emerge soltanto la creazione dionisiaca, l’eterna volontà di generare, la fecondità che mai cessa, l’eterno ritorno. Novatore non si accorge che in questo modo, riagganciandosi a Nietzsche, crolla attorno a lui qualsiasi riferimento concreto alla terrestre fondatezza del sangue e dei morti. Queste due mitologiche figure parlano in un’altra dimensione, ma entrano in contrasto con quella della creazione che sempre si ripete, della negazione di ogni miseria e compromesso quotidiani.
L’eterno ritorno rende vicine tutte le cose, ma lontane quelle cose che ci hanno lasciato, che non sono più qui, forti e vigorose davanti a noi, che sono soltanto simboli di morte, sia pure simboli di morte che riportano alla memoria “i morti nostri”, i nostri fratelli. L’apertura all’azione è gioco dionisiaco, quindi è senza cominciamento e senza fine, ricomincia sempre daccapo. L’azione resta al di là del tempo, quindi al di là dell’edificante e del distruggente.
Stornare è simulare quello che non sto per fare come dissimulare è nascondere ciò che ho già fatto, due movimenti che si ricongiungono insieme a volte in modo freddamente oggettuale, a volte con una istintualità che mette in dubbio le statiche direttrici protocollari.
Dappertutto ci sono residui che propongono vie di fuga ripugnanti e inaccettabili, stimoli per una non vita patinata di vita artificiale. Combattere lo spirito inquisitore delle corrispondenze maniacali è compito della critica negativa, e in questo Novatore riesce perfino a spezzare i gangli attenuatori che lo legano alla propria prosa manifestatrice di limiti contrastati ma mai del tutto azzerati.
Egli ha più volte spezzato la saldatura ragionevole e domestica tra le parole e il senso, ma non si è mai liberato dalla sudditanza delle categorie, questo è un altro sforzo, non compierlo fino in fondo apre la porta a una sorta di ibrida manomissione che produce nuovi codici espressivi difficili e imprevedibili, comunque forieri di prossima cattura.
La ripetizione eterna è il tempo che così diventa circolare, ecco perché il sangue non appartiene a Novatore, la sua ingombrante presenza è qualcosa di spurio perché ricorda l’irreversibilità del tempo proprio nel momento in cui intende proporsi come ritornante, come risorgente, tale e quale, come sangue per l’appunto, come morti che sono “nostri”, ma la morte non ci appartiene, essa è respinta una volta che l’affrontiamo a viso aperto, una volta che andiamo avanti verso il paradossale pensiero della ripetizione.
Si tratta di un gioco, e Novatore gioca con la propria vita e vince la partita perché non ha paura di morire con le armi in pugno. Chiunque altro, non appena un battito di paura si fosse affacciato nel suo cuore, sarebbe piombato a terra in preda al panico, non lui. Il suo gioco personale riflette e interpreta, qui e subito, il grande gioco del mondo.
Nelle condizioni del suo dire non c’è una ragionevole assennatezza che coglie alcuni elementi estranei alla produzione di senso per metterli in risalto, non ci sono residui puri e semplici, non ci sono valori confezionati e codificati, ma parole dure che affrontano l’ormai incontrovertibile esperienza dell’azione.
La parola risuona così per sfumature timbriche, per improvvisi scurimenti retorici, per scintillii e supposizioni non lessicali che aprono prospettive sgradevoli e contorte, comunque consonanti con la voce dell’azione che urla la sua necessità illogica, la sua radicale connessione rivoluzionaria.
L’antico assetto labirintico è ora un gioco innocente e avventato, perfino stomacante, a volte capace di far buttare via il libro di fronte all’insorgere delle bramosie di un lettore insoddisfatto, eppure ci sono correlazioni possibili, anche se il tutto è spesso inframezzato da sconfortanti concetti che aiutano solo l’incomprensibilità, ciò a partire dalle sconnessioni grammaticali. Gli artifici hanno di certo il loro peso, ma la perdita si gioca tutta nella parola stessa e nella sua insondabile molteplicità sintattica.
«Tutte le cose che vivono a lungo, a poco a poco si intridono a tal punto di ragione, che la loro provenienza dall’irrazionale diviene perciò improbabile. Non suona paradossale ed empia per il sentimento quasi ogni precisa storia di una genesi? Il buon storico, in fondo, non contraddice continuamente?». (F. Nietzsche, Aurora, I, 1).
Esattamente. Novatore lo sa e non se ne cura, non si prende cura del logos cristiano né della secolarizzazione hegeliana, forse non ne aveva nemmeno cognizione. Che importa di fronte al suo tragico contrapporsi polemicamente inattuale?
«Ancora una volta il grande brivido ci afferra: ma chi mai avrebbe voglia di divinizzare ancora immediatamente, alla maniera antica, questo mostruoso mondo ignoto? E di adorare forse, da questo momento, questa cosa ignota come “colui che è ignoto”? Ah, in questo ignoto sono comprese troppe non divine possibilità d’interpretazione, troppa stregoneria, scempiaggine, bizzarria d’interpretazione: quella nostra umana, anche troppo umana, interpretazione, che noi conosciamo». (Gaia scienza, V, 374). Che farsene del sangue dei morti? So bene che quella di Novatore non è una nuova forma di adorazione, ma non può nemmeno costituire quello che lui si illude di utilizzare, il punto di appoggio su cui far leva per innalzare il proprio urlo di combattimento.
È comunque evidente che la maggiore strutturazione comporta al più alto grado un giganteggiare della volontà. Come rendere possibile l’oltrepassamento dell’inquietudine e della sofferenza, questo è un altro discorso. Tutto questo può procurare un avvitamento della volontà e, come risposta, un rafforzamento dei controlli e delle limitazioni.
La retorica, alla fin fine, non svolge un ruolo anche in questo gioco di bassa forza? Galleani docet.
L’azione urge alle porte ma rimane ribollente contrasto al di là della creazione, ogni esclusività intuitiva, compresi i contributi posteriori dell’azione, gli esaltanti deliri di onnipotenza, sono inefficaci se lasciati tristemente da soli.
La parola decrepita non può produrre nuovi virgulti se non c’è un violento coinvolgimento che esalta l’avviarsi di un itinerario diverso. Se insisto, nell’indirizzarmi verso l’azione, o nel prendere il largo, a identificarmi con gli oggetti e i rapporti perduti, lasciati sul molo, pretendo di portare con me il dolore del mondo intero, un coacervo di recriminazioni e rivendicazioni che mi trascina indietro, sempre più radicandomi nel rifiuto. La rinuncia è così all’orizzonte con il suo richiamo pervasivo.
Sono molti i rodomonti che a tutta prima sembrerebbero in grado di mangiarsi il mondo. So bene che Novatore non era di simile pasta molliccia, ma potrebbe sembrarlo, e questo, in fondo, non mi farebbe piacere.
«Ridiamo di colui che esce dalla sua camera proprio nel minuto in cui il sole esce dalla sua, e dice: “io voglio, che il sole sorga”; e di quello che non può fermare una ruota e dice: “io voglio che essa rotoli”; e di colui che nella lotta è gettato a terra e dice: “io qui giaccio a terra, ma sono io che voglio questo!”. Ma, a parte le risate, facciamo noi forse qualcosa di diverso da uno di questi tre, quando usiamo la parola: “io voglio”?». (F. Nietzsche, Aurora, II, 124).
Ecco, di certo Novatore non lesse mai questa frase del suo amato Nietzsche.
Trieste, 27 novembre 2008
Alfredo M. Bonanno
Verso il nulla creatore
I
La nostra epoca è un’epoca di decadenza. La civiltà borghese-cristiano-plebea è giunta da parecchio tempo al punto morto della sua evoluzione…
È giunta la democrazia!
Ma sotto il falso splendore della civiltà democratica, i più alti valori spirituali sono caduti infranti.
La forza volitiva, l’individualità barbara, l’arte libera, l’eroismo, il genio, la poesia, sono stati scherniti, derisi, calunniati.
E non in nome dell’“io”, ma della “collettività”. Non in nome dell’“unico”, ma della “società”.
Così il cristianesimo – condannando la forza primitiva e selvaggia del vergine istinto – uccise il “concetto” vigorosamente pagano della gioia terrena. La democrazia – sua figliola – lo glorificò facendo l’apologia di questo delitto e celebrandone la bieca e volgare grandezza…
Ormai lo sappiamo!
Il cristianesimo fu la lama avvelenata piantata brutalmente nella carne sana e palpitante di tutta l’umanità; fu una fredda ondata di tenebra spinta con furia misticamente brutale ad offuscare il tripudio sereno e festante dello spirito dionisiaco dei nostri padri pagani.
In una fredda serata invernale fatalmente piombata sopra un caldo meriggio d’estate! Fu egli – il cristianesimo – che sostituendo il fantasma del “dio” alla realtà palpitante dell’“io”, si dichiarò nemico feroce della gioia del vivere, e si vendicò canagliescamente colla vita terrena.
Col cristianesimo la Vita fu mandata a rimpiangere nei paurosi abissi delle più amare rinunce; fu spinta verso i ghiacciai della rinnegazione e della morte. E da questa ghiacciaia di rinnegazione e di morte nacque la democrazia…
Poiché essa – la madre del socialismo – è figlia del cristianesimo.
II
Col trionfo della civiltà democratica venne glorificata la plebe dello spirito. Col suo feroce antindividualismo – la democrazia – calpestò – perché incapace di comprenderla – ogni eroica bellezza dell’“io” anticollettivista e creatore.
I rospi borghesi e le rane proletarie si strinsero le mani in una comune volgarità spirituale, comunicandosi religiosamente nel calice di piombo contenente il viscido liquore delle stesse menzogne sociali che la democrazia agli uni e agli altri porgeva.
Ed i canti, che borghesi e proletari innalzarono alla loro spirituale comunione, furono un comune e fragoroso “Hurrà!” all’Oca vittoriosa e trionfante.
E mentre gli “hurrà!” scoppiavano alti e frenetici, ella – la democrazia – si calcava il berretto plebeo sulla livida fronte, proclamando – bieca e feroce ironia – gli eguali diritti… dell’Uomo!
Fu allora che le aquile, nella loro consapevolezza prudente, batterono più forte le loro ali titaniche, librandosi – nauseate dal triviale spettacolo – verso le vette solitarie della meditazione.
Così, l’Oca democratica, rimasta regina del mondo e signora di tutte le cose, imperò padrona e sovrana.
Ma visto che al di sopra di lei qualcosa rideva attendendo, ella, per mezzo del socialismo, suo unico e vero figliolo, fece lanciare una pietra ed un verbo, nel basso dominio paludoso ove gracchiavano i rospi e le rane, per sollevare un pugilato ventristico, e farlo passare per una guerra titanica di idee superbe e di spiritualità. E nelle paludi, il pugilato avvenne… Avvenne così plateale, fino a schizzare il fango tanto in alto da insudiciare le stelle!
Così, colla democrazia, tutto fu contaminato.
Tutto!
Anche ciò che vi era di migliore.
Anche ciò che vi era di peggiore.
Nel regno della democrazia, le lotte che si apersero tra capitale e lavoro, furono lotte rachitiche, larve impotenti di guerra, prive d’ogni contenuto d’alta spiritualità, e d’ogni valorosa grandezza rivoluzionaria, incapaci a creare un altro concetto di vita più forte e più bella!
Borghesi e proletari, pure urtandosi per questione di classe, di dominio e di ventre, rimasero pur sempre affratellati nell’odio comune verso i grandi vagabondi dello spirito, contro i solitari dell’idea. Contro tutti gli straziati del pensiero, contro tutti i trasfigurati da una superiore bellezza.
Colla civiltà democratica, Cristo ha trionfato…
“I poveri di spirito”, oltre il paradiso dei cieli, hanno avuto la democrazia sulla terra. Se il trionfo non fosse ancora completo, lo completerà il socialismo. Nel suo concetto teorico lo ha già da lungo tempo annunciato. Egli tende a “livellare” tutti i valori umani.
Attenti, o giovani spiriti!
La guerra contro l’uomo-individuo fu incominciata da Cristo in nome di Dio, fu sviluppata attraverso la democrazia in nome della società, minaccia di completarsi nel socialismo, in nome dell’umanità.
Se non sapremo distruggere in tempo questi tre assurdi quanto pericolosi fantasmi, l’individuo sarà inesorabilmente perduto.
Bisogna che la rivolta dell’“io” si espanda, si allarghi, si generalizzi!
Noi – i precorritori del tempo – abbiamo già acceso i fari!
Abbiamo acceso le torce del pensiero.
Abbiamo brandito la scure dell’azione.
E abbiamo infranto.
Abbiamo scardinato!
Ma i nostri “delitti” individuali devono essere l’annuncio fatale della grande tempesta sociale.
Quella grande e tremenda tempesta che frantumerà tutti gli edifici delle menzogne convenzionali, che scardinerà i muri di tutte le ipocrisie, che ridurrà il vecchio mondo in un mucchio di macerie e di rovine fumanti!
Perché è da queste macerie di dio, della società, della famiglia e dell’umanità, che potrà nascere rigogliosa e festante la nuova anima umana. Quella nuova anima umana che sulle rovine di tutto un passato canterà la nascita dell’uomo liberato: dell’“io” libero e grande.
III
Cristo fu un paradossale equivoco degli evangeli. Fu un triste e doloroso fenomeno di decadenza, nato dalla stanchezza pagana.
L’Anticristo è il figlio sano di tutto l’odio gagliardo che la Vita ha covato nel segreto del suo seno fecondo, durante i venti e più secoli del dominio cristiano.
Perché la storia ritorna.
Perché l’eterno ritorno è la legge che regola l’universo.
È il destino del mondo!
È l’asse a cui si aggira intorno la vita!
Per perpetuarsi.
Per ricorrersi.
Per contraddirsi.
Per rincorrersi.
Per non morire…
Perché la vita è un moto, un’azione.
Che rincorre il pensiero.
Che cerca il pensiero.
Che ama il pensiero.
E questo cammina, corre, si affanna.
Vuole trascinare la Vita nel regno delle idee.
Ma quando la via è impraticabile, allora, piange il pensiero.
Piange e si dispera…
Poi la stanchezza lo fa debole, lo rende cristiano.
Allora egli prende la sorella Vita per mano e cerca di confinarla nel regno della morte.
Ma l’Anticristo – lo spirito dell’istinto più misterioso e profondo – richiama a sé la Vita, gridandole barbaramente: Ricominciamo!
E la Vita ricomincia!
Perché non vuole morire.
E se Cristo simboleggia la stanchezza della vita, il tramonto del pensiero: la morte dell’idea!
L’Anticristo simboleggia l’istinto della vita.
Simboleggia la resurrezione del pensiero.
L’Anticristo è il simbolo di una nuova aurora.
IV
Se la morente civiltà democratica (borghese-cristiano-plebea) riuscì a livellare l’anima umana, negando ogni alto valore spirituale emergente al di sopra di essa, non riuscì – fortunatamente – a livellare le differenze di classe, di privilegio e di casta, le quali – come già abbiamo detto – rimasero divise soltanto per una questione di ventre.
Poiché – per gli uni e gli altri – il ventre rimase – bisogna pur confessarlo, e non confessarlo soltanto – come ideale supremo. E il socialismo tutto ciò lo comprese…
Lo comprese, e da abile – e praticamente forse utile, ormai speculatore – gettò il veleno delle sue grossolane dottrine di eguaglianza (eguaglianza di pidocchi, innanzi alla sacra maestà dello Stato sovrano) dentro i pozzi della schiavitù ove felice si dissetava l’innocenza.
Ma il veleno che il socialismo sparse non era il veleno possente capace di dare delle virtù eroiche a chi lo avesse bevuto.
No: non era il veleno radicale capace a compiere il miracolo che innalza – trasfigurandola e liberandola – l’anima umana. Ma era un’ibrida miscela di “sì” e di “no”. Un livido impasto di “autorità” e di “fede”, di “Stato” e di “avvenire”!
Cosicché, col socialismo, la plebe proletaria si sentì ancora una volta vicina alla plebe borghese ed insieme si volsero verso l’orizzonte, attendendo fidenti il Sole dell’Avvenire!
E questo perché, mentre il socialismo non fu capace di tramutare le mani tremanti degli schiavi in tanti artigli iconoclasti, empi e rapaci; fu pure incapace di tramutare la gretta avarizia dei tiranni in alta e superiore virtù donatrice.
Col socialismo, il cerchio vizioso e vischioso, creato dal cristianesimo e sviluppato dalla democrazia, non fu spezzato. Anzi: si consolidò maggiormente…
Il Socialismo rimase in mezzo al tiranno ed allo schiavo come un ponte pericoloso ed impraticabile; come un anello falso di congiunzione; come l’equivoco del “sì” e del “no” di cui è impastato il suo assurdo principio informatore.
E noi abbiamo veduto, ancora una volta, il giuoco fatalmente osceno che ci ha nauseati. Abbiamo veduto socialismo, proletariato e borghesia, rientrare entrambi nell’orbita della più bassa povertà spirituale per adorare la democrazia. Ma essendo – la democrazia – il popolo che governa il popolo a colpi di bastone – per amore del popolo come un giorno Oscar Wilde ebbe a sentenziare – era logico che i veri liberi spiriti, i grandi vagabondi dell’idea, sentissero più forte il bisogno di spingersi decisamente verso l’estremo confine della loro iconoclastia di solitari, per preparare nel silenzioso deserto le agguerrite falangi delle aquile umane, che interverranno furenti alla tragica celebrazione del vespro sociale, per travolgere la civiltà democratica tra i loro artigli ferrigni, ed inabissarla nel vuoto d’un vecchio tempo che fu!
V
Quando i borghesi furono inginocchiati a destra del socialismo, nel sacro tempio della democrazia, si adagiarono tranquillamente sul letto dell’attesa per dormire il loro assurdo sogno di pace. Ma i proletari, che bevendo il veleno socialista avevano perduto la loro innocenza felice, urlarono dalla parte sinistra, turbando il sonno tranquillo dell’idiota borghesia criminale.
Intanto, sulle più alte montagne del pensiero i vagabondi dell’idea vincevano la nausea, annunciando che qualche cosa simile al riso scrosciante di Zarathustra aveva sinistramente echeggiato…
Il vento dello spirito, simile all’uragano, avrebbe dovuto compenetrare l’anima umana e sollevarla impetuosamente nel turbine delle idee per travolgere tutti i vecchi valori nella tenebra del tempo, rialzando nel sole la vita dell’istinto sublimato dal nuovo pensiero.
Ma i rospi borghesi compresero, svegliandosi, che qualche cosa di incompreso gridava nell’alto, minacciando la loro bassa esistenza. Sì: compresero che dall’alto giungeva una qualche cosa come una pietra, un rombo, una minaccia.
Compresero che la voce satanica dei frenetici precorritori del tempo annunciava una furibonda tempesta che, partendo dalla volontà rinnovatrice dei pochi solitari, esplodeva nelle viscere della società per raderla al suolo.
Ma non compresero (e non lo comprenderanno mai finché non saranno schiacciati) che ciò che passava sul mondo era l’ala possente d’una libera vita, nel battito della quale stava la morte dell’“uomo borghese” e dell’“uomo proletario”, perché tutti gli uomini fossero “unici” ed “universali” al medesimo tempo.
E questo fu il motivo per cui tutte le borghesie del mondo suonarono a stormo le loro campane, coniate di falso metallo idealistico, chiamandosi in grande adunata.
E l’adunata fu generale…
Tutte le borghesie si raccolsero.
Si raccolsero fra i viscidi giunchi cresciuti nel pantano delle loro comuni menzogne e lì, nel silenzio del fango, decisero lo sterminio delle rane proletarie, loro serve e loro amiche…
Al feroce complotto fecero parte tutti i sacerdoti di Cristo e della democrazia.
Presenziavano pure tutti gli ex apostoli delle rane. La guerra fu decisa e il principe delle vipere nere benedisse le armi fratricide in nome di quel dio che disse “non uccidere”, mentre il simbolico vicario della morte implorò la sua dea che venisse a danzare sul mondo.
Allora il socialismo – da abile acrobata e pratico saltimbanco – fece un balzo in avanti.
Saltò sul filo teso della sentimentale speculazione politica, si cinse di nero la fronte; e, dolorando e piangendo, così più o meno, parlò: “Io sono il vero nemico della violenza.
“Sono nemico della guerra, e più nemico della rivoluzione. Sono il nemico del sangue”.
E dopo avere ancora parlato di “pace” e di “eguaglianza”, di “fede” e di “martirio”, d’“umanità” e di “avvenire”, intonò una canzone sui motivi del “sì” e del “no”, piegò il capo e pianse…
Pianse le lacrime di Giuda, che non sono neppure il “me ne lavo le mani” di Pilato!
E le rane partirono…
Partirono verso il regno della suprema viltà umana.
Partirono verso il fango di tutte le trincee.
Partirono…
E la morte venne!
Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul mondo.
Per cinque lunghi anni…
Fu allora che i grandi vagabondi dello spirito, presi da nuova nausea, cavalcarono un’altra volta le loro libere aquile per librarsi vertiginosamente nella solitudine dei loro lontani ghiacciai a ridere e maledire.
Anche lo spirito di Zarathustra – il più vero amante della guerra e il più sincero amico dei guerrieri – dovette rimanere abbastanza nauseato e sdegnato poiché qualcuno lo sentì esclamare: “Voi dovete essere per me coloro che tendono gli sguardi in cerca del nemico – del vostro nemico. E in alcuni di voi divampa l’odio al primo sguardo. Voi dovete cercare il vostro nemico, combattere la vostra guerra, e ciò per le vostre idee!
“E se la vostra idea soccombe, che la vostra rettitudine gridi al trionfo!”.
Ma, ahimè! La predicazione eroica del barbaro liberatore a nulla valse!
Le rane umane non seppero distinguere il loro nemico, né combattere per le proprie idee. (Le rane non hanno idee!).
E non conoscendo il loro nemico, né avendo idee proprie, combatterono per il ventre dei loro fratelli in Cristo, per i loro eguali in democrazia.
Combatterono contro se stessi per il loro nemico.
Abele, risorto, moriva per Caino una seconda volta.
Ma questa volta da sé!
Volontariamente…
Volontariamente, perché poteva rivoltarsi e non lo ha fatto…
Perché poteva dire: no!
O sì!
Perché dicendo: “no”, sarebbe stato forte!
Perché dicendo: “sì”, avrebbe dimostrato di “credere” alla “causa” per cui combatteva.
Ma non ha detto né “sì” né “no”.
È partito!
Da imbelle!
Come sempre!
È partito…
È andato verso la morte!…
Senza sapere il perché.
Come sempre.
E la morte è venuta…
È venuta a danzare sul mondo: per cinque lunghi anni!
E danzò macabramente sulle fangose trincee di tutte le parti del mondo.
Danzò con piedi di folgore…
Danzò e rise…
Rise e danzò…
Per cinque lunghi anni!
Ah! Come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un’idea…
Che cosa idiota il morire senza sapere il perché…
Noi l’abbiamo veduta – quando danzava – la Morte.
Era una Morte nera, senza trasparenze di luce.
Era una Morte senz’ali!
Come era brutta e volgare…
Come era goffa la danza.
Ma pure danzava!
E come li falciava – danzando – tutti i superflui, e tutti quelli che c’erano di più. Tutti coloro per cui – dice il grande liberatore – fu inventato lo Stato.
Ma ohimè! Non soltanto quelli falciava…
La morte – per vendicare lo Stato – ha falciato anche i non inutili, anche i necessari!…
Ma coloro che non erano inutili, coloro che non c’erano di più, coloro che sono caduti dicendo di “no!”
Saranno vendicati.
Noi li vendicheremo.
Li vendicheremo perché erano fratelli nostri!
Li vendicheremo perché sono caduti con negli occhi le stelle.
Perché morendo hanno bevuto il sole.
Il sole della vita, il sole della lotta, il sole di un’Idea.
VI
Che cosa ha rinnovato la guerra?
Ov’è la trasfigurazione eroica dello spirito?
Ove le hanno appese le tavole fosforescenti dei nuovi valori umani?
In quale tempio sono state deposte le sacre anfore d’oro racchiudenti i cuori luminosi e fiammanti degli eroi dominatori e creatori?
Ov’è lo splendore maestoso del grande e nuovo meriggio?
Fiumi paurosi di sangue lavarono tutte le zolle e percorsero tutti i sentieri del mondo.
Torrenti spaventosi di lacrime fecero echeggiare il loro straziante lamento attraverso i vortici di tutta la terra: montagne di ossa e di carname umano ovunque biancheggiarono e ovunque imputridirono al sole.
Ma nulla si trasformò, nulla si evolse!
Solo il ventre borghese ruttò per sazietà e quello proletario urlò per troppa fame.
E basta!
Con Carlo Marx l’anima umana discese all’intestino.
Il ruggito che oggi passa sul mondo è sempre un ruggito ventrista.
Possa la nostra volontà trasformarlo in grido d’anima.
In tempesta spirituale.
In urlo di libera vita.
In uragano di fulmini.
Possa la folgore nostra scardinare la realtà del presente, squarciare la porta dell’ignoto mistero dal sogno nostro anelato, e mostrarci la bellezza suprema dell’uomo liberato.
Perché noi siamo i folli precorritori del tempo.
I roghi.
I fari.
I segni.
I primi annunci.
VII
La guerra!
La ricordate?
Che cosa ha creato la guerra?
Ecco:
La donna vendette il suo corpo e la sua prostituzione chiamò libero amore.
L’uomo, che s’“imboscò” a fabbricare proiettili e a predicare la sublime bellezza della guerra, chiamò la sua viltà: “fine furberia e scaltrezza eroica!”.
Colui che visse sempre di infamia incosciente, di viltà, di umiltà, di indifferenza e di rinunce deboli, imprecò contro i pochi audaci – che aveva sempre detestato – perché non ebbero da soli la forza di impedire che il suo ventre non fosse squarciato da quelle armi ch’egli stesso aveva costruito per un vile tozzo di pane.
Perché anche i pezzenti dello spirito – coloro che, mentre la parte più nobile dell’umanità entra nell’inferno della vita, rimangono sempre fuori a scaldarsi – questi servi umili e devoti del loro tiranno, questi calunniatori incoscienti delle anime superiori, anche costoro, diciamo, non volevano partire.
Non volevano morire.
Si contorcevano, piangevano, imploravano, pregavano!
Ma tutto ciò per un basso istinto di conservazione impotente ed animalesca, priva di ogni fremito eroico di rivolta e non per altre questioni di umanità superiore, di raffinata profondità sentimentale, di bellezza spirituale.
No, no, no!
Nulla di tutto ciò!
Il ventre!
Il ventre animalesco soltanto.
Ideale borghese – ideale proletario – a ventre!
Ma intanto la morte venne…
Venne a danzare sul mondo senza avere sul dorso le ali di un’idea!
E danzò…
Danzò e rise.
Per cinque lunghi anni…
E mentre sui confini, ubriaca di sangue, la morte senz’ali danzava, a casa, nella sacra abside dell’interno fronte, si declamava e cantava – sulle volgari “gazzette” della menzogna – la miracolosa evoluzione morale e materiale compiuta dalle nostre donne nonché la suprema vetta spirituale su cui ascendeva il nostro eroico fante glorioso. Colui che moriva piangendo, senza sapere il “perché”.
Quante menzogne feroci, quanto cinismo volgare vomitavano sulle loro “gazzette” le bieche anime della democratica società e dello Stato.
Chi la ricorda la guerra?
Come gracchiavano i corvi…
I corvi e le civette!
E intanto la Morte danzava!
Danzava senza avere sul dorso le ali di un’idea!
Di un’idea pericolosa che feconda e che crea!
Danzava…
Danzava e rideva!
E come li falciava – danzando – i superflui. Tutti coloro che c’erano di più. Quelli per cui fu inventato lo Stato.
Ma, ohimè! Non soltanto quelli falciava…
Falciava anche quelli che avevano negli occhi raggi di sole, che avevano nelle pupille le stelle!
VIII
Ov’è l’arte epica, l’arte eroica, l’arte suprema che la guerra ci aveva promesso?
Ov’è la vita libera, il trionfo della nuova aurora, lo splendore del meriggio, la gloria festante del sole?
Ov’è la redenzione dalla schiavitù materiale?
Ov’è chi ha creato la fine e profonda poesia che doveva germinare dolorosamente in questo tragico e pauroso abisso di sangue e di morte, per dirci lo strazio silenzioso e crudele provato dall’anima umana?
Chi ce l’ha detta la parola dolce e buona che dice un mattino sereno dopo una terribile notte d’uragano?
Chi ce l’ha detta la parola dominatrice che fa grandi come il proprio dolore, puri nella bellezza e profondi nell’umanità?
Chi è, chi è mai il genio che ha saputo curvarsi con amore e con fede sopra le ferite aperteci nella carne viva della nostra vita, per accoglierne tutto il nobile pianto, acciocché il sereno riso dello spirito redentore potesse strappare gli artigli ai famelici mostri dei nostri errori passati per farci ascendere verso il concetto di un’etica superiore, ove, attraverso il principio luminoso della bellezza umana purificata nel sangue e nel dolore, potessimo ergerci forti e maestosi – come freccia tesa sull’arco della volontà – per cantare alla vita terrena la più profonda e soave melodia della più alta di tutte le nostre speranze!
Ove? Ove?
Io non la vedo!
Io non la sento!
Mi guardo attorno, ma altro non vedo che volgare pornografia, e falso cinismo…
Almeno un Omero dell’arte, ed un Napoleone dell’azione la guerra ci avesse dato…
Un uomo che avesse avuto la forza di distruggere un’epoca, di creare una nuova storia…
Ma niente!
Né grandi cantori, né grandi dominatori, la guerra ci ha dato.
Solo larve bugiarde e bieche parodie.
IX
La guerra è passata lavando la storia e l’umanità nel pianto e nel sangue, ma l’epoca è rimasta immutata.
Epoca di disfacimento…
Il collettivismo è morente e l’individualismo non si è ancora affermato.
Nessuno sa ubbidire, nessuno sa comandare.
Ma da tutto questo, al saper vivere liberi, c’è ancora di mezzo un abisso.
Abisso che potrà essere riempito soltanto col cadavere della schiavitù e quello dell’autorità.
La guerra non poteva riempire questo abisso. Poteva soltanto scavarlo più profondo. Ma ciò che la guerra non poteva fare, deve farlo la rivoluzione.
La guerra ha reso gli uomini più bestiali e plebei.
Più triviali e più brutti!
La rivoluzione deve renderli migliori.
Deve nobilitarli!
X
Ormai – socialmente parlando – siamo sdrucciolati nella china fatale, e non c’è più possibilità di tornare indietro.
Il tentarlo soltanto sarebbe un delitto.
Ma non un delitto nobile e grande.
Solo un delitto volgare. Un delitto più che inutile e vano. Un delitto contro la carne delle nostre idee.
Perché noi non siamo i nemici del sangue…
Siamo i nemici della volgarità!
Ora che l’età del dovere e della schiavitù è agonizzante, vogliamo chiudere il ciclo del pensiero teorico e contemplativo per aprire il varco all’azione violenta, che è volontà di vita e tripudio di espansione.
Sulle macerie della pietà e della religione vogliamo erigere la durezza creatrice del nostro cuore superbo.
Noi non siamo gli ammiratori dell’“uomo ideale” dai “diritti sociali”, ma i proclamatori dell’“individuo reale”, nemico delle astrazioni sociali.
Noi lottiamo per la liberazione dell’individuo.
Per la conquista della vita.
Per il trionfo della nostra idea.
Per la realizzazione dei nostri sogni.
E se le nostre idee sono pericolose, è perché noi siamo coloro che amano vivere pericolosamente.
E se i nostri sogni sono folli, è perché siamo folli.
Ma la nostra follia è la saggezza suprema.
Ma le nostre idee sono il cuore della vita; ma i nostri pensieri sono i fari dell’umanità.
E ciò che la guerra non ha fatto deve farlo la rivoluzione.
Perché la rivoluzione è il fuoco della nostra volontà e un bisogno delle nostre anime solitarie, è un dovere dell’aristocrazia libertaria.
Per creare nuovi valori etici.
Per creare nuovi valori estetici.
Per comunizzare la ricchezza materiale.
Per individualizzare la ricchezza spirituale.
Perché noi – cerebralisti violenti e sentimentalisti passionali al medesimo tempo – comprendiamo e sappiamo che la rivoluzione e una necessità del dolore silenzioso che spasima nel basso, ed un bisogno dei liberi spiriti che spasimano in alto.
Perché, se il dolore che spasima in basso vuole ascendere nel sorriso felice del sole, gli spiriti liberi che spasimano in alto non vogliono più sentirsi le pupille offese dallo strazio della volgare schiavitù che li circonda.
Lo spirito umano è diviso in tre correnti:
La corrente della schiavitù, la corrente della tirannia, la corrente della libertà!
Colla rivoluzione bisogna che l’ultima di queste tre correnti irrompa sulle altre due e le travolga.
Bisogna che crei la bellezza spirituale, che insegni ai poveri la vergogna della loro povertà, ed ai ricchi la vergogna della loro ricchezza.
Bisogna che tutto ciò che si chiama “proprietà materiale”, “proprietà privata”, “proprietà esteriore” diventi per gli individui ciò che è il sole, la luce, il cielo, il mare, le stelle.
E ciò avverrà!
Avverrà perché noi – gli iconoclasti – la violenteremo!
Solo la ricchezza etica e spirituale è invulnerabile.
È vera proprietà dell’individuo. Il resto no!
Il resto è vulnerabile! E tutto ciò che è vulnerabile sarà vulnerato.
Lo sarà dalla potenza spregiudicata dell’“io”.
Dalla forza eroica dell’uomo liberato.
E al di là d’ogni legge, d’ogni morale tiranna, d’ogni società, d’ogni concetto di falsa umanità…
Noi dobbiamo tendere il nostro sforzo a tramutare la rivoluzione che si avanza in “delitto anarchico”, per spingere l’umanità al di là dello Stato, al di là del socialismo.
Verso l’Anarchia.
Se con la guerra gli uomini non poterono sublimarsi nella morte, la morte ha purificato il sangue dei caduti.
E il sangue che la morte ha purificato – e che il suolo ha avidamente bevuto – ora urla di sotterra!
E noi solitari, noi non siamo i cantori del ventre, ma gli ascoltatori dei morti; della voce dei morti che urlano di sotterra!
Della voce del sangue “impuro” che si è purificato nella morte.
E il sangue di tutti i caduti urla!
Urla di sotterra!
E l’urlo di questo sangue chiama pure noi verso l’abisso…
Ha bisogno di essere sprigionato!
O giovani minatori, siate pronti!
Prepariamo torce e paramine.
Bisogna dissodare il terreno.
È tempo! È tempo! È tempo!
Il sangue dei morti dev’essere sprigionato.
Vuole alzarsi dalle tenebrose profondità per lanciarsi verso il cielo e conquistare le stelle.
Perché le stelle sono le amiche dei morti.
Sono le buone sorelle che li hanno veduti morire.
Sono coloro che tutte le sere vanno al loro sepolcro coi piedi di luce e dicono loro:
Domani!…
E noi – i figli del Domani – siamo venuti oggi a dirvi:
È tempo! È tempo! È tempo!
E siamo venuti nelle ore antelucane…
In compagnia dell’alba e delle ultime stelle!
Ed ai morti abbiamo aggiunto altri morti…
Ma tutti coloro che cadono hanno nella pupilla una stella d’oro che brilla!
Una stella d’oro che dice:
“La viltà dei fratelli rimasti si tramuterà in sogno creatore: in eroismo vendicatore!
“Perché, se così non fosse, non meriterebbe di morire!”.
Come dev’essere triste il morire.
Senza una speranza nel cuore… senza un rogo nel cervello; senza un gran sogno nell’anima; senza una stella d’oro che brilla nella nostra pupilla!
* * *
II sangue dei morti – dei nostri morti – urla di sotterra. Noi lo udiamo chiaro e distinto quel grido. Quel grido che ci inebria di strazio e di dolore.
E non possiamo, né vogliamo, essere sordi a quella voce… noi. Non vogliamo esserle sordi, perché la vita ci ha detto: “Chi è sordo alla voce del sangue non è degno di me.
“Perché il sangue è il mio vino; e i morti il mio segreto. Solo a colui che ascolterà la voce dei morti, scioglierò l’enigma del mio grande mistero!”.
E noi risponderemo a questa voce:
Perché solo coloro che sanno rispondere alla voce dell’abisso possono conquistare le stelle!
Io mi rivolgo a te, o mio fratello! A te mi rivolgo e ti dico:
“Se sei di coloro che stanno inginocchiati sul cerchio di mezzo, chiudi gli occhi nella tenebra e precipitati nell’abisso.
“Solo così potrai rimbalzare sulle più alte vette e spalancare le pupille tue grandi nel sole”.
Perché non si può essere aquile se non si è palombari.
Non si può spaziare sulle vette quando si è incapaci alle profondità.
Nel basso abita il dolore, nell’alto il tormento.
Sul tramonto di tutte le età, sorge un’alba unica fra due vespri diversi.
Fra la luce vergine di quest’unica alba, il dolore del palombaro che è in noi deve congiungersi al tormento dell’aquila che pur vive in noi, per celebrare le nozze tragiche e feconde della perpetua rinnovazione.
Rinnovazione dell’“io” personale fra le tempeste collettive e gli uragani sociali.
Perché la solitudine perenne è solo dei santi che riconoscono in dio il loro testimonio. Ma noi siamo i figli atei della solitudine.
Siamo i demoni solitari senza testimoni.
Nel basso, vogliamo vivere la realtà del dolore; nell’alto, il dolore del sogno…
Per vivere intensamente e pericolosamente tutte le battaglie, tutte le sconfitte, tutte le vittorie, tutti i sogni, tutti i dolori e tutte le speranze!
E vogliamo cantare nel sole, vogliamo urlare nei venti!
Perché il nostro cervello è un rogo sfavillante ove il gran fuoco del pensiero crepita e arde in folli e gioiosi tormenti.
Perché la purezza di tutte le albe, la fiamma di tutti i meriggi, la melanconia di tutti i tramonti, il silenzio di tutte le tombe, l’odio di tutti i cuori, il mormorio di tutte le foreste, ed il sorriso di tutte le stelle, sono le note misteriose componenti la musica segreta dell’anima nostra traboccante di esuberanza vitale.
Perché nel profondo del nostro cuore udiamo parlare una voce di umana individuazione così imperiosa e gagliarda che, spesse volte, nell’ascoltarla proviamo paura e terrore.
Perché la voce che parla, è la voce di Lui: il Demone alato delle nostre profondità.
XI
Ormai è provato…
La vita è dolore!
Ma noi abbiamo imparato ad amare il dolore, per amare la vita!
Perché nell’amare il dolore abbiamo imparato a lottare.
E nella lotta – nella lotta soltanto – sta la gioia del vivere nostro.
Restare sospesi a metà non è mestiere per noi.
Il cerchio di mezzo simboleggia il vecchio “sì e no”.
L’impotenza del vivere e del morire.
È il cerchio del socialismo, della pietà e della fede.
Ma noi non siamo socialisti…
Siamo anarchici. E individualisti, e nichilisti, e aristocratici.
Perché veniamo dai monti.
Da vicino alle stelle.
Veniamo dall’alto: da ridere e maledire!
Siamo venuti ad accendere sulla terra una selva di roghi, per illuminarla lungo la notte che precede il grande meriggio.
E i roghi nostri saranno spenti soltanto quando l’incendio del sole scoppierà maestoso sul mare. E se quel giorno non dovesse venire, i nostri roghi continueranno a crepitare tragicamente fra la tenebra della notte eterna.
Perché noi amiamo tutto ciò che è grande.
Siamo gli amanti di ogni miracolo, i fautori d’ogni prodigio, i creatori d’ogni meraviglia!
Sì: lo sappiamo!…
Vi sono cose grandi nel bene come nel male.
Ma noi viviamo al di là del bene e del male, perché tutto ciò che è grande appartiene alla bellezza!
Anche il “delitto”.
Anche la “perversità”.
Anche il “dolore”!
E noi vogliamo essere grandi come il nostro delitto!
Per non calunniarlo.
Vogliamo essere grandi come la nostra perversità!
Per renderla cosciente.
Vogliamo essere grandi come il nostro dolore!
Per esserne degni.
Perché veniamo dall’alto. Dalla casa della Bellezza.
Siamo venuti ad accendere sulla terra una selva di roghi per illuminarla lungo la notte che precede il grande meriggio.
Fino l’ora in cui l’incendio del sole scoppierà maestoso sul mare.
Perché vogliamo celebrare la festa del gran prodigio umano.
Vogliamo che l’anima nostra vibri in un nuovo sogno.
Vogliamo che da questo tragico vespro sociale il nostro “io” ne esca calmo e fremente di luce universale.
Perché siamo i nichilisti dei fantasmi sociali.
Perché sentiamo la voce del sangue urlare di sotterra.
Prepariamo le paramine e le torce, o giovani minatori.
L’abisso ci attende. Precipitiamoci in fondo: Verso il nulla creatore!
XII
Il nostro nichilismo non è nichilismo cristiano.
Noi non neghiamo la vita. No! Noi siamo i grandi iconoclasti della menzogna. E tutto ciò che è proclamato “sacro” è menzogna.
Noi siamo i nemici del “sacro”.
E vi è una legge “sacra”; una società “sacra”; una morale “sacra”; un’idea “sacra”!
Ma noi – i padroni e gli amanti della forza empia e della bellezza volitiva, dell’Idea violentatrice – noi, gli iconoclasti di tutto ciò che è consacrato – ridiamo satanicamente, d’un bel riso largo e beffardo.
Ridiamo!…
E ridendo teniamo l’arco della nostra pagana volontà di gioire sempre teso verso la piena integrità della vita.
E le nostre verità le scriviamo col riso.
E le nostre passioni le scriviamo col sangue.
E ridiamo!…
Ridiamo il bel riso sano e rosso dell’odio.
Ridiamo il bel riso azzurro e fresco dell’amore.
Ridiamo!…
Ma ridendo ci ricordiamo, con somma serietà, di essere i legittimi figli, e i degni eredi, d’una grande aristocrazia libertaria che ci trasmise nel sangue satanici impeti di folle eroismo, e nella carne ondate di poesia, di soli e di canzoni!
Il nostro cervello è un rogo sfavillante, ove il crepitante fuoco del pensiero arde in gioiosi tormenti.
L’anima nostra è un’oasi solitaria sempre fiorita e festante ove una musica segreta canta le complicate melodie del nostro alato mistero.
E nel cervello ci urlano tutti i venti del monte; nella carne ci urlano tutte le tempeste del mare; tutte le Ninfe del Male; i nostri sogni sono cicli reali abitati da vergini muse frementi.
Noi siamo i veri demoni della Vita.
I precorritori del tempo.
I primi annunci!
La nostra esuberanza vitale ci ubriaca di forza e di sdegno.
Ci insegna a disprezzare la Morte!
XIII
Oggi siamo giunti alla tragica celebrazione d’un grande vespro sociale.
Il crepuscolo è rosso.
Il tramonto è insanguinato.
L’ansia batte nel vento le sue ali frementi.
Ali rosse di sangue; ali nere di morte!
Il Dolore organizza nell’ombra l’esercito dei suoi figli ignoti.
La bellezza è nel giardino della Vita, e sta intrecciando ghirlande di fiori per incoronare la fronte degli eroi.
I liberi spiriti hanno già lanciato le loro folgori attraverso il crepuscolo.
Come primi annunci di fuoco: primi segnali di guerra!
L’epoca nostra è sotto le ruote della storia.
La civiltà democratica volge verso la tomba.
La società borghese e plebea si sfascia fatalmente, inesorabilmente!
II fenomeno fascista ne è la prova più certa e inconfutabile.
Per dimostrarlo non ci sarebbe bisogno che di risalire il tempo e interrogare la storia.
Ma questo bisogno non c’è!
Il presente parla con abbastanza eloquenza!
Il fascismo altro non è che lo spasimo convulsionario e crudele d’una società plebea, smidollata e volgare, che agonizza tragicamente affogata nel pantano dei suoi vizi e delle sue proprie menzogne.
Egli – il fascismo – celebra questi suoi baccanali con roghi di fiamme, e orge malvagie di sangue.
Ma dal fosco crepitio dei suoi lividi fuochi non sprizza neppure una sola scintilla di gagliarda spiritualità innovatrice, mentre il sangue che sparge si tramuta in vino che i precorritori del tempo raccolgono tacitamente nei calici rossi dell’odio, destinandolo come bevanda eroica per comunicare tutti i figli del dolore sociale chiamati alla crepuscolare celebrazione del vespro.
Perché i grandi precorritori del tempo sono i fratelli e gli amici dei figli del dolore.
Del dolore che lotta.
Del dolore che ascende.
Del dolore che crea!
Noi prenderemo per mano questi fratelli ignoti per marciare assieme contro tutti i “no” della negazione, ed assieme salire verso tutti i “sì” dell’affermazione; verso nuove albe spirituali: verso nuovi meriggi di vita.
Perché noi siamo gli amanti del pericolo; i temerari di tutte le imprese, i conquistatori dell’impossibile, i fautori e i precursori di tutte le “prove”!
Perché la vita è una prova!
Dopo la celebrazione negatrice del vespro sociale, vogliamo celebrare il rito dell’“io”: il grande meriggio dell’individuo integro e reale.
Acciocché la notte più non trionfi.
Acciocché la tenebra più non ci avvolga.
Acciocché il maestoso incendio del sole perpetui la sua festa di luce nel cielo e nel mare.
XIV
Il fascismo è un ostacolo troppo effimero ed impotente per impedire il corso dell’umano pensiero che irrompe al di là d’ogni diga e straripa al di là d’ogni segno, trascinando sui suoi passi l’azione.
È impotente perché è forza bruta.
È materia senza spirito: è notte senz’alba!
Il fascismo è l’altra faccia del socialismo.
L’uno e l’altro sono due corpi senz’anima.
XV
Il socialismo è la forza materiale che, agendo all’ ombra di un dogma, si risolve e dissolve in un “no” spirituale.
Il fascismo è un tisico del “no” spirituale che tende – infelice – ad un sì materiale…
L’uno e l’altro mancano di qualità volitive.
Sono i cerotti del tempo: i temporeggiatori del fatto!
Sono reazionari e conservatori.
Sono i fossili cristallizzati che il dinamismo volitivo della storia che passa travolgerà assieme.
Perché, nel campo volitivo dei valori morali e spirituali, i due nemici si equivalgono…
E si noti che, se il fascismo è nato, solo il socialismo ne è il complice diretto ed il padre responsabile.
Perché, se quando la nazione, se quando lo Stato, se quando l’Italia democratica, se quando la società borghese fremeva di spasimo e di agonia fra le mani nodose e poderose del “proletariato” in rivolta, il socialismo non ne avesse impedito vilmente la tragica stretta mortale – perdendo i lumi della ragione innanzi agli sbarrati occhi di lei – certo che il fascismo non sarebbe neppure nato, oltre a non avere vissuto.
Ma il goffo colosso senz’anima si è invece lasciato prendere – per tema che i vagabondi dell’idea spingessero il movimento di rivolta oltre il segno prestabilito – in un volgarissimo giuoco di bieca pietà conservatrice, e falso amore umano.
Così l’Italia borghese invece di morire ha partorito…
Ha partorito il fascismo!
Perché il fascismo è una creatura tisica e deforme, nata dagli amori impotenti del socialismo colla borghesia.
Uno n’è il padre, l’altra la madre. Ma l’uno e l’altra non ne vogliono la responsabilità.
Forse lo trovano un figlio troppo snaturato.
Ed è questo il perché lo chiamano “bastardo”!
Ed egli si vendica…
Già abbastanza infelice per essere nato così, si ribella al padre e oltraggia la madre… E forse ha ragione…
Ma noi, tutto questo lo rileviamo per la storia. Per la storia e per la verità, non per noi. Per noi – il fascismo – è un fungo velenoso piantato tanto bene nel marcio cuore della società, che proprio ci contenta…
XVI
Solo i grandi vagabondi dell’idea potranno – e dovranno – essere il luminoso fulcro spirituale della tempestosa rivoluzione, che cupa sul mondo si avanza…
Il sangue chiede sangue.
È vecchia storia!
Indietro non si può più tornare.
Tentare di tornare indietro – come fa il socialismo – sarebbe un delitto inutile e vano.
Noi dobbiamo precipitarci nell’abisso.
Dobbiamo rispondere alla voce dei morti.
Di quei morti che sono caduti con nelle pupille immense stelle d’oro.
Bisogna dissodare il suolo.
Sprigionare il sangue di sotterra!
Perché vuole ascendere verso le stelle.
Vuole bruciare le sue buone sorelle luminose e lontane che l’hanno veduto morire.
Dicono i morti, i morti nostri:
“Noi siamo morti con negli occhi le stelle.
“Noi siamo morti con nelle pupille raggi di sole.
“Noi siamo morti col cuore gonfio di sogni.
“Noi siamo morti con nell’anima il canto della più bella speranza.
“Noi siamo morti con nel cervello il fuoco di un’idea.
“Noi siamo morti…”.
Come deve essere triste il morire come gli altri morti – i morti non nostri – senza tutto ciò nel cervello, nell’anima, nel cuore, negli occhi, nelle pupille!
Oh morti, oh morti!… Oh morti nostri! Oh torce luminose! Oh fari ardenti! Oh roghi crepitanti! Oh morti…
Ecco, siamo al crepuscolo!
La tragica celebrazione del grande vespro sociale si appressa.
La nostra anima grande già si spalanca verso la vasta luce sotterranea, oh morti!
Perché anche noi abbiamo negli occhi le stelle, il sole nelle pupille, il sogno nel cuore, il canto della speranza nell’anima e, nel cervello, un’idea.
Sì, anche noi, anche noi!
Oh morti, oh morti! Oh morti nostri! Oh torce! Oh fari! Oh roghi!
Noi vi abbiamo intesi parlare nel silenzio solenne delle nostre notti profonde.
Dicevate:
“Noi volevamo ascendere nel ciclo del libero sole…
“Noi volevamo ascendere nel ciclo della libera vita…
“Noi volevamo ascendere lassù, dove un giorno si fissò lo sguardo penetrante del pagano poeta:
“Dove sorgono e stanno come inviolabili querce tra gli uomini i grandi pensieri; dove scende, invocata dai puri poeti, e serena tra gli uomini sta la bellezza; dove l’amore crea la vita e respira la gioia!
“Lassù, dove la vita tripudia e si espande in piena armonia di splendore…
“E per questo, per questo sogno lottammo, per questa grande sogno morimmo…
“E la nostra lotta fu chiamata delitto.
“Ma il nostro ‘delitto’ non deve essere considerato che come virtù titanica, che come sforzo prometeaco di liberazione.
“Perché fummo i nemici di ogni dominazione materiale e dì ogni livellazione spirituale.
“Perché noi, al di là di ogni schiavitù e di ogni dogma, vedemmo danzare libera e nuda la vita.
“E la nostra morte deve insegnare a voi la bellezza del vivere eroico!”.
Oh morti, oh morti! Oh morti nostri…
Noi l’abbiamo udita la vostra voce…
L’abbiamo udita parlare così, nel silenzio solenne delle nostre notti profonde!
Profonde, profonde, profonde!
Perché noi siamo i sensitivi.
Il nostro cuore è una torcia, la nostra anima è un faro, il nostro cervello è un rogo!…
Noi siamo l’anima della vita!…
Siamo gli antelucani che bevono la rugiada nel calice dei fiori.
Ma i fiori hanno le radici fosforiche abbarbicate nell’oscurità della terra.
In quella terra che ha bevuto il vostro sangue.
Oh morti! Oh morti nostri!
Quel vostro sangue che urla, che ruggisce, che vuole essere sprigionato, per lanciarsi verso il ciclo e conquistare le stelle! Quelle vostre lontane e luminose sorelle che vi hanno veduti morire.
E noi – i vagabondi dello spirito, i solitari dell’idea – vogliamo che l’anima nostra, libera e grande, spalanchi le sue ali nel sole.
Vogliamo che il vespro sociale sia celebrato in questo crepuscolo di società borghese, acciocché l’ultima notte nera si faccia vermiglia di sangue.
Perché i figli dell’aurora devono nascere dal sangue…
Perché i mostri della tenebra devono essere uccisi dall’alba…
Perché le nuove idee individuali devono nascere dalle tragedie sociali…
Perché gli uomini nuovi devono essere forgiati nel fuoco!
E solo dalla tragedia, dal fuoco e dal sangue, nascerà il vero Anticristo profondo d’umanità e di pensiero.
Il vero figlio della terra e del sole.
L’Anticristo deve nascere dalle macerie fumanti della rivoluzione per animare i figli della nuova aurora.
Perché l’Anticristo è colui che viene dall’abisso, per ascendere oltre ogni confine.
È il nemico volitivo della cristallizzazione, della prestabilizzazione, della conservazione !…
Egli è colui che sospingerà gli uomini attraverso le misteriose caverne dell’ignoto allo scoprimento perenne di nuove sorgenti di vita e di pensiero.
E noi – i liberi spiriti, gli atei della solitudine, i demoni del deserto – senza-testimoni – ci siamo già spinti verso le vette più estreme…
Perché ogni cosa – con noi – deve essere spinta al massimo delle sue conseguenze.
Anche l’Odio.
Anche la Violenza.
Anche il delitto!
Perché l’Odio dà la forza.
La violenza scardina.
Il delitto rinnova.
La crudeltà crea.
E noi vogliamo scardinare, rinnovare, creare!
Perché tutto ciò che è volgarità pigmea deve essere superato.
Perché tutto ciò che vive deve essere grande.
Perché tutto ciò che è grande appartiene alla bellezza!
E la vita deve essere bella!
XVII
Noi abbiamo ucciso il “dovere” acciocché la nostra brama di libera fraternità acquisti un valore eroico nella vita.
Noi abbiamo ucciso la “pietà” perché siamo barbari capaci del più grande amore.
Noi abbiamo ucciso l’“altruismo” perché siamo egoisti donatori.
Noi abbiamo ucciso la “solidarietà filantropica” acciocché l’uomo sociale scavi il suo “io” più segreto e trovi la forza dell’“Unico”.
Perché noi lo sappiamo. La Vita è stanca di avere amanti rachitici.
Perché la terra è stanca di sentirsi pestata da lunghe falangi di pigmei salmodianti preci cristiane.
Ed infine, perché siamo stanchi dei nostri fratelli, carogne incapaci alla pace e alla guerra.
Inferiori all’odio e all’amore.
Stanchi e nauseati siamo…
Sì, molto stanchi: molto nauseati!
E poi quella voce dei morti… Dei morti nostri!
La voce di quel sangue che urla di sotterra!
Di quel sangue che vuole sprigionarsi per lanciarsi verso il ciclo e conquistare le stelle!
Quelle stelle che – benedicendoli – hanno brillato nelle loro pupille nell’ultimo momento della morte, trasformando i loro occhi sognanti in vasti dischi d’oro.
Perché gli occhi dei morti – dei nostri morti – sono dischi d’oro.
Sono meteore luminose che vagano nell’infinito per additarci il cammino.
Quel cammino senza fine che è la strada dell’eternità.
Gli occhi dei nostri morti ci dicono il “perché” della vita, mostrandoci il fuoco segreto che arde nel nostro mistero. Di quel nostro segreto mistero che nessuno ha cantato finora…
Ma oggi il crepuscolo è rosso…
Il tramonto è insanguinato…
Siamo prossimi alla tragica celebrazione del gran vespro sociale.
Già sulle campane della storia il tempo ha battuto i primi colpì antelucani d’un nuovo giorno.
Basta, basta, basta! È l’ora della tragedia sociale!
Noi distruggeremo ridendo.
Noi incendieremo ridendo.
Noi uccideremo ridendo.
Noi esproprieremo ridendo.
E la società cadrà. La patria cadrà. La famiglia cadrà.
Tutto cadrà, poiché l’Uomo libero è nato.
È nato colui che attraverso il pianto e il dolore ha imparato l’arte dionisiaca della gioia e del riso.
È giunta l’ora di affogare il nemico nel sangue…
È giunta l’ora di lavare l’anima nostra nel sangue.
Basta, basta, basta!
Che il poeta tramuti in pugnale la sua lira!
Che il filosofo tramuti in bomba la sua sonda!
Che il pescatore tramuti il suo remo in formidabile scure.
Che il minatore esca armato del suo ferro lucente dagli antri micidiali delle oscure miniere.
Che il contadino tramuti in lancia guerriera la sua vanga feconda.
Che l’operaio tramuti il suo martello in falce e scure.
E avanti, avanti, avanti!
È tempo, è tempo – è tempo!
E la società cadrà.
La patria cadrà.
La famiglia cadrà.
Tutto cadrà, poiché l’Uomo Libero è nato.
Avanti, avanti, avanti, o giocondi distruttori.
Sotto il labaro nero della morte, noi conquisteremo la Vita!
Ridendo!
E la faremo nostra schiava.
Ridendo!
E l’ameremo ridendo!
Poiché gli uomini seri sono soltanto coloro che sanno operare ridendo.
E il nostro odio ride…
Ride rosso. Avanti!
Avanti, per la totale distruzione della menzogna e dei fantasmi!
Avanti, per l’integrale conquista dell’Individualità e della Vita!