di Daniele Pepino (2007)
Mi si perdoni il tono lapidario, senza fronzoli, di questi appunti, ma tali sono: non vogliono essere né una risposta alla Lettera aperta ai sopravvissuti di Sergio Ghirardi, né una sua critica, solamente qualche spunto di riflessione, nato dalla lettura del suo libro, e buttato giù velocemente e alla rinfusa, come contributo al dibattito di questa sera a El Paso (dal titolo Dall’economia della catastrofe alla società del dono) e a quelli a venire.
Viviamo davvero l’economia della catastrofe, non c’è dubbio e non credo sia il caso di dilungarsi su dimostrazioni che sono sotto gli occhi di tutti, e che sono anche ben argomentate nel libro di Sergio. Pertanto vengo subito al dunque: finita la lettura della Lettera aperta, mi è sembrata subito lampante la debolezza di quella prospettiva che emerge come contraltare salvifico di fronte alla catastrofe in atto. Mentre tutto va a rotoli, come per incanto, ci prepariamo ad accogliere nel grembo fecondo della storia il germoglio di una nuova (l’ennesima!) società. Questa volta non sarà una società mercantile ma “del dono”, e non sarà una democrazia rappresentativa ma “soggettiva”. Al di là di quest’ultima definizione – che personalmente mi fa accapponar la pelle, come anche alcune descrizioni che ne vengono accennate –, è la complessiva inconsistenza di tale “utopia” che lascia un senso di vuoto. L’impianto stesso del discorso si regge su un’astrazione: da dove germoglierà questo nuovo mondo? Dall’insorgere della volontà di vivere!? Io, semplicemente, non ci credo. Questa non è che la riproposizione del leit motiv, caro all’ideologia situazionista e in particolare a Raoul Vaneigem, per cui tutto il vecchio mondo a un certo punto crollerà di fronte all’affermarsi del soggettivo, del piacere, della pienezza di vita… Ma questi sono dei concetti, astratti, non sono dinamiche materiali e sociali, che sono le cose da cui scaturiscono i cambiamenti. Questa è l’ideologia che ha accompagnato, negli anni ’60 e ’70, il movimento rivoluzionario radicale. E – mi sbilancio – ritengo che gran parte di quell’ideologia fosse figlia dell’ottimismo tecnologico dominante di quegli anni, anche quando non lo sposava dichiaratamente. Oggi urgono autocritiche e riflessioni.
Quali sono oggi le dinamiche sociali e umane, vive e pulsanti, le viscere di questo mondo putrido da cui può generarsi quella forza in grado di rovesciarlo? (Già, «la forza», questa è ancora – se non mi sono completamente rincoglionito – la leva di ogni cosa, compresa la riscossa degli oppressi, mentre la Lettera aperta sembra dirci che la società del dono germinerà così, senza bisogno di violenza, anzi, con gaiezza…). Sono questi credo gli interrogativi centrali, ai quali non ho certo la risposta pronta, ma sui quali credo sia il caso di riflettere e che credo sia un po’ superficiale liquidare riproponendo gli schemi di una ideologia in fin dei conti progressista e stantia: sarà la volontà di vivere a risolvere tutto, insorgendo realizzerà il piacere e abolirà la schiavitù dell’uomo e della natura. (Io sinceramente, lo dico senza ironia, non ho ancora capito cosa sia questa volontà di vivere, né perché mai dovrebbe insorgere ieri oggi o domani). Insomma, la mia impressione è che si sia preferito partire dalla intoccabile teoria situazionista (o meglio dal “Vaneigem-pensiero”), per innestarci sopra un po’ di “decrescita”, un po’ di “MAUSS”, un po’ di ambientalismo, diciamo così, per aggiornarla. Per carità, non è che sia una infamia – e ciò detto ognuno fa quel che gli pare – però credo sia più fecondo rovesciare la prospettiva: cercare di comprendere le modificazioni del reale, scorgerne le crepe e avvertirne i rumori e gli scricchiolii intorno a noi, per confrontarci con questi e rimettere in discussione le nostre categorie e le nostre sicurezze.
Detto questo, mi sembra importante inquadrare un po’ più realisticamente lo scenario in cui dovrebbe irrompere questo «progetto di una decrescita piacevole e conviviale». Perché, sarò sicuramente tacciato di pessimismo apocalittico, ma sento che, ahinoi!, dovremo fare i conti, nel prossimo futuro, con ben altre «piacevolezze»: ci troviamo di fronte a un’umanità che, per una buona metà, sta letteralmente crescendo nell’odio, allattata dalla sete di vendetta. Intere generazioni, le prossime, sono quotidianamente allevate da stragi, bombe, veleni industriali, stupri, deportazioni, fame, campi di concentramento… e non vedono l’ora di riscattarsi. I privilegiati del “Primo mondo”, da parte loro, non rinunceranno spontaneamente ai loro privilegi, i cui costi umani e ambientali iniziano a tornare indietro con gli interessi. Tutto torna. Lo scenario più probabile che abbiamo di fronte – e che per certi versi è già iniziato, ma può sempre peggiorare – è quello della guerra civile totale, su scala planetaria. È su questo sfondo che mi sembra un po’ stonato il continuo richiamo al festoso sbocciare del «gioco dell’amore e dell’amore del gioco che si apprestano a umanizzare il mondo», concetti che ripetutamente tornano nelle pagine della Lettera aperta ai sopravvissuti. Insomma, queste forze in procinto di umanizzare il mondo e realizzare la felicità, dove sono? Chi sono? A mio avviso mancano di concretezza (a meno che, Dio ce ne scampi!, non sia «La volontà di vivere liberi, pronti a una rivolta sociale fraterna che si fondi sull’uguaglianza nella diversità: questa è stata e resta la sola modernità dell’Europa di cui si dovrebbe democraticamente rendere erede il mondo», come leggiamo a pag. 66. L’ideologia eurocentrica e le reminiscenze inquietanti di questa affermazione credo non meritino ulteriori commenti).
Qui siamo nel bel mezzo di una guerra civile, con prospettive che per la specie umana, e non solo, non sono mai state così apocalittiche. Non si tratta neanche più di scegliere tra la guerra e la pace, si tratta di vedere quale direzione prenderà il conflitto, e noi che parte ne avremo e cosa possiamo fare. Mi si accuserà di non “credere nei miei desideri”, ma sono convinto che questo sarà il quadro dell’eventuale prossima rivoluzione sociale, lo scatenarsi delle cattive passioni. Noi qui dobbiamo essere pronti, dobbiamo attrezzarci. Altro che “giochi dell’amore”!
Ultimo appunto: la questione dell’«autoproduzione» o, meglio, dell’«autonomia». In occidente, viviamo in una dipendenza totale da un sistema tecnologico che da un lato è fuori da ogni nostro controllo, dall’altro è di una fragilità impressionante. Basta pensare a quel che può accadere nelle nostre metropoli (che si avviano a diventare sempre più mostruose e affollate), nel momento di una calamità, anche parziale. Pensiamo a New Orleans, a cosa può essere il panico di trovarsi intrappolati in gabbie di chilometri di cemento, con il cibo che finisce… è un incubo da far impallidire l’Abisso di London! Non ci riflettiamo mai abbastanza: siamo come dei polli in batteria, se si interrompe il flusso di mangime lo scenario è il collasso. Siamo una società di handicappati! È proprio di fronte a questo spossessamento che un movimento rivoluzionario in occidente non può non porre tra le sue priorità problematiche la difesa e la riconquista di autonomia, anche materiale, anche alimentare. Possiamo anche chiamarla autoproduzione, se vogliamo, ma l’ottica da cui è inscindibile è quella della guerra civile. Cosa sarebbe stata la guerriglia partigiana senza gli approvvigionamenti, anche materiali, della montagna, di un’economia di villaggio che ne costituiva le retrovie? Oggi, a mio avviso, parlare di autoproduzione e di liberazione di spazi di vita e libertà, ha senso solo in quest’ottica: quella di garantirsi quegli spazi di autonomia, di costruire quelle retrovie che serviranno all’apertura di un fronte interno in occidente («portare la guerra in casa», dicevano i Weathermen di fronte alla guerra USA in Vietnam). Spazi in cui, beninteso, sia possibile viverci nel frattempo e il meglio possibile… Spesso, per altro, è proprio la mancanza di mezzi, di strumenti, di luoghi, di forza materiale, di energia, a costituire limiti e a sancire la rassegnazione; anche di questo è responsabile lo spossessamento e il controllo nella metropoli; garantirsi le postazioni da cui attaccar battaglia e rientrare, non solo è vitale, ma è anche un ulteriore stimolo a sferrare gli assalti.
Qui sta l’importanza dell’autoproduzione, nel senso di spazi sottratti al controllo, di riappropriazione di mezzi e saper-fare: per evitare che il sacrosanto desiderio di gratuità e autonomia, invece che armare la resistenza, apparecchi l’accomodamento in ghetti neo-fricchettoni o post-punk o che altro. Il discorso è vecchio, quel che si ha e quel che si riesce a conquistare va protetto con le unghie e con i denti, questo è fuori discussione. Altrettanto vero però è che, come gli ultimi decenni dimostrano, spesso questo patrimonio – sia un centro sociale, un orto, una pratica – diventa un ghetto in cui rinchiudersi, una ideologia da difendere…, e l’arma si trasforma in zavorra. È vero, l’equilibrio è precario, il confine è incerto e talvolta attraversarlo è addirittura inevitabile. Proprio per questo però è importante non smarrire la rotta, rimettendosi sempre in causa e confrontandosi senza sosta sul senso e la portata di quel che facciamo. Queste brevi note, senza pretese, volevano essere un contributo a tale confronto.
Un lettore sopravvissuto (Pepi)
Piemonte, 16 novembre 2007
[Quello che segue è un intervento al dibattito tenutosi a El Paso in occasione della presentazione del libro di Sergio Ghirardi, Lettera aperta ai sopravvissuti, Nautilus, 2007]