Alfredo M. Bonanno
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Noi non possediamo una nozione fissa di tempo. Quella astronomica è una delle tante nozioni aritmetiche che vengono vissute dall’individuo in modo diverso e ciò in relazione alla sua situazione. In altre parole, il tempo è un problema relazionale. Anche la distinzione, certamente possibile, tra “durata” e “tempo” non sfugge a questa constatazione, la quale è tutt’altro che psicologica ma, al contrario, “sociale”. È la situazione sociale che condiziona la percezione del tempo, come per altro qualsiasi altra “percezione” dell’individuo. E ciò, ovviamente, nei limiti e nelle forme in cui questo condizionamento avviene, non nelle chimere e nelle fantasie dei deterministi e dei meccanicisti.
Ad esempio, se una maggiore o minore disponibilità di tempo libero è certamente da porsi in relazione ad una certa collocazione di classe (maggiore tempo libero per le classi più elevate, mediamente, s’intende), si verificherà che gli appartenenti a queste classi svilupperanno una dilatazione dell’unità temporale percepibile, sempre sulla base del condizionamento comune prodotto dal modello astronomico, la quale sarà più ampia per gli appartenenti alla classe privilegiata e più ristretta per i miserabili costretti a passare la loro vita nel chiuso di una fabbrica. Questo esempio può essere rivoltato in mille modi, ma non può essere disatteso. Certo, il frenetico manager che fa mille cose raccorcia la sua dilatazione del tempo fin quasi a non accorgersi di vivere, ma l’intelligente benestante, il raffinato cultore delle cose belle, il delicato sfruttatore che sa riconoscere i limiti della propria attività e cerca di non superarli, questi riescono bene a dilatare la propria unità temporale. Osservate un proletario mentre mangia. Difficilmente mangerà lentamente. Non perché abbia fame (almeno, non sempre), ma perché non conosce altro modo di “vivere” il suo pasto. Il suo tempo, dilatandosi, gli impedirebbe quasi di gustare quello che mangia, mentre, come si sa, è proprio mangiando lentamente che si gusta di più il pasto. Ma una vita o, se si vuole, diverse generazioni di fame, non possono modificare le cose. Il suo gesto resterà veloce e famelico, anche quando il processo culturale, con sforzi considerevoli riuscisse a imporre un rallentamento.
Per un altro verso, è solo il razionalismo delle classi superiori che ha imposto una valutazione positiva del tempo, principalmente in termini quantitativi. Questa classe, abituata a comprare il tempo altrui, si è fatta distributrice del concetto negativo della “perdita di tempo”, imponendo alle classi inferiori, sfruttate, un modello culturale di produttività e ordine che non trovava, se non parzialmente, riscontro nel proprio modello di comportamento basato per altro su una dilatazione dell’unità temporale, su di uno scandire del decorso del tempo fatto da minuti se non proprio oziosi, certamente ovattati e attutiti, quasi lenti, come se li si volesse gustare uno per uno, fino in fondo. Non occorre che mi si ricordi il baratro dell’angoscia, tante volte aperto davanti a questo modo di dilatare il tempo (fino a non sapere cosa fare nell’attimo ampliato a dismisura), ma si trattava, quasi sempre, di un difetto stesso del razionalismo che era filosofia dell’azione e non della contemplazione. Questo pensiero immetteva quindi nella classe stessa che lo propugnava e rinvigoriva, una straordinaria malattia: l’incapacità di vivere una vita diventata sempre più ampia e ricca. Dall’altra parte della barricata, la miseria e le ristrettezze spingevano ad un uso raccorciato del tempo: poche ore per dormire, il resto passato lavorando, aspettando, camminando, viaggiando e consumando un breve pasto.
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Alfredo M. Bonanno, Del fare e dell’agire, Ed. Anarchismo, Catania, 2001