L’occasione perduta
I due testi qui sotto, scritti in successione temporale, erano, già a partire dalle rispettive date, a conoscenza di tutti i protagonisti dell’intera vicenda, nessuno escluso.
Coglierne il senso o, viceversa, lasciarlo cadere nel silenzio, come è avvenuto, definiscono per ciascuno la quota di responsabilità.
f.
Milano, 23 dicembre 2014
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La lettera che segue è stata spedita il 25 novembre scorso a dei compagni della Latteria occupata e p.c. ad altri, meno giovani, in “busta chiusa”, cioè “ad personam”.
La questione riguardava la frequentazione della Latteria stessa da parte di due collaboratori di giustizia degli anni Settanta, genitori d’uno dei giovani occupanti, e la rottura che, a causa di ciò, s’è verificata tra compagni che hanno avuto affinità o condiviso percorsi. Compagni che ho conosciuto e, pur nelle differenze di collocazione, considerato miei.
Come si può vedere, la valutazione di merito circa la questione dei collaboratori di giustizia e del caso concreto in questione era per me indubbia già allora, tuttavia la forma di comunicazione scelta aveva l’intento, pur difficile e previa una chiarificazione definitiva sul caso, di ricostruire lo spazio per condurre sui binari di una ricomposizione possibile, tra tutti e tutte, di quello strappo.
Allo stato, al di là di formali dichiarazioni per le quali appare che tutti siano ostili ai collaboratori di giustizia nei conflitti sociali di ieri e di oggi…, non sembra siano seguiti atti conseguenti a tali dichiarazioni, né vi sono state risposte.
Tanto meno è apparso all’orizzonte un comune terreno di dibattito, confronto, eventualmente di autocritica. Sembra piuttosto che una sorta di “ragion di Stato”, declassata a ragion di parrocchie, un malriposto orgoglio e la passione triste del risentimento, siano destinati a prevalere, con buona pace degli intenti rivoluzionari dei protagonisti.
A distanza di tempo da quella data, prendo dunque atto d’una situazione che stenta a cogliere l’occasione per liberarsi di limiti e assumere responsabilità, ciascuno le proprie. Interrompo perciò la “riservatezza” rendendo pubblico quello scritto, per testimonianza e senza soverchie illusioni d’utilità, dopo averlo privato dei nomi dei numerosi destinatari.
Francesco
Milano, 12 dicembre 2014
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Lettera in “busta chiusa”, come dire “ad personam”… il contrario d’un comunicato, a… <seguivano qui i nomi di diversi compagni della Latteria>
ma anche p.c. a… <qui i nomi di numerosi altri compagni singoli o d’altre situazioni> perché comunque coinvolti…
Scelgo il piano d’una comunicazione personale, priva d’ogni presunzione spocchiosa e “dall’alto” (di che, poi?), verso voi, compagni incontrati in molteplici situazioni e di cui ho apprezzato “l’amore e la complicità che li lega” e parto dallo scritto che vi accomuna sotto la dizione, pur “limitante”, di “compagni della Latteria”.
Voi potrete scegliere se fare buon uso di questa lettera in “busta chiusa” o semplicemente cestinarla.
Scelgo di parlarvi perché con altri ho spesso incrociato i vostri percorsi (e quello di Guccio…) e specificamente perché con alcuni di voi c’è stata un’occasione recente di incontro per chiarire una questione che ha attanagliato a lungo taluni tra noi “vecchi” per una ragione etica di fondo che ormai conoscete.
Per questo motivo e per il fatto che scrivete che con certezza “gli infami non hanno mai avuto e non avranno quartiere tra noi”, non mi soffermerò affatto sul ruolo che i “collaboratori di giustizia” <personalmente preferisco l’uso della definizione tecnica, anche se ritengo vi siano comportamenti che definiscono per sempre la qualità di uomini e donne> hanno svolto nella storia del conflitto sociale di questo Paese. Nel merito voglio solo aggiungere che i dispositivi premiali posti in atto quando noi eravamo ancora giovani pendono sempre sulle teste di chi, come voi, si trova spesso sulle barricate, solo ultima in ordine di tempo quella così importante e forse entusiasmante dell’opposizione agli sgomberi e per l’abitare. Del resto voi stessi ne siete consapevoli.
Non posso e non voglio entrare nel merito delle circostanze, dei particolari che hanno condotto un compagno e una compagna a scrivere un documento sul “passaggio di testimone”. Posso solo dire: certo si trattava di questione che doveva essere affrontata. E’ andata così, poteva, doveva andar meglio, c’è però una responsabilità di tutti, a partire da noi più vecchi, passando per la generazione intermedia e non escludendo nessuno, se non si è fatto meglio. Io credo che nessuno possa tirarsi fuori, compresi i compagni di “ComunicareFaMale”.
Non c’è perciò nulla di cui rallegrarsi laddove una spaccatura così grave si è prodotta. E… ora tutti i protagonisti della vicenda si dichiarano contro la collaborazione di giustizia…
Qui però sta il punto compagni: essere pienamente conseguenti alle dichiarazioni che si fanno.
Ciò di cui voglio parlare è la valutazione che si dà del documento “Affinché riprenda il passaggio di testimone” e della vostra risposta.
A margine di ciò, ma non è affatto secondario, sta anche una mail fatta circolare e commentata da uno di voi in qualche mailing list. Questa mail è stata poi diffusa con un duro attacco su Indymedia Piemonte da qualcuno che ne è venuto a conoscenza.
Certo, oggi si tratta di avere tutti delle ferite, ma su una questione così grave e importante quale quella posta dal documento, questione a più riprese discussa tra alcuni dei vecchi e della generazione intermedia, variamente suggerita a taluno dei più giovani, ma mai affrontata davvero… (per sottovalutazione? per “spallucce” rispetto alla cosa? per difficoltà nell’affrontare il contrasto tra piano etico e piano amicale/affinitario?) siamo certi di poter pensare a cuor leggero di attribuire una “colpa” a chi alfine l’ha posta?
Voi dite che in quel documento “si allude che tra di noi si organizzino dissociati e pentiti degli anni 70” e che “lasciare intendere che frequentiamo ci organizziamo con i collaboratori di giustizia è una calunnia inaccettabile”.
Però compagni… si può negare davvero che il “bazzicare situazioni di movimento”, il “frequentare alcune occupazioni” <uso appositamente il virgolettato traendolo dal documento sul passaggio di testimone> sia stato un fatto reale? Potete davvero sostenere, come fate nel merito di quelle frequentazioni, che s’è trattato di “almeno un’occasione”… e poi precisare che ”si è trattato di un compleanno”…? In quell’ “almeno” non v’è forse già implicita un’ammissione, peraltro dovuta…?
Il “bazzicare”, ché di questo mi pare si sia trattato, non di “organizzare insieme”, non costituiva già cosa più che sufficiente per correre ai ripari prima ancora che qualcuno lo scrivesse pubblicamente? Serve ora denunciare delle “allusioni”? E ancor più, è appropriato parlare di “calunnia”?
Riferendovi a uno dei due casi in questione dite “Non succederà più”. Questo è bene.
Chi, nello scontro sociale di quegli anni, ha assunto comportamenti da collaboratore di giustizia (e ci sono stati peraltro casi diversi da quelli presenti, almeno perché per taluni si è trattato di cedere sotto tortura), dovrebbe avere la decenza di non pretendere di tornare a frequentare situazioni di movimento. Dell’oblio ha già usufruito, ché in gioco ci sono state le vite.
Si occupi di altro, si renda invisibile, se ne vada altrove. Prenda atto del suo destino di non poter vivere una terza vita in virtù della prima, stante la seconda.
Ciò che qui si vorrebbe non è ricerca di vendetta, personalmente tra l’altro non mi sentirei d’averne alcun titolo, ma solo impedire, se possibile, il ripetersi di vicende così terribili.
Tuttavia non resta a tuttora pubblicamente chiarito l’altro caso, per il quale gli stessi compagni che hanno aperto la questione, riconoscevano “quanto devastante possa essere la scoperta” d’una verità tenuta nascosta da madre a figlio.
Concordo su questa devastazione e forse è proprio questa la ragione per cui in molti non ci siamo spinti oltre… Dire questo tuttavia, non può equivalere a negarsi una verità per quanto dura essa possa essere. La vita riserva purtroppo anche durezze di questo tipo. Lo dico col rispetto umano che si deve a chi questa prova si trova ad affrontare da figlio verso una madre.
Tuttavia ci sono etiche che in taluni casi entrano in conflitto anche con gli affetti più profondi.
Voi avete parlato di necessarie ricerche in merito. A questo punto dovrebbero essere concluse.
Se a frenarvi dal dare seguito anche a questo chiarimento è ciò che dice l’avvocato di cui mi avete inoltrato il messaggio, dirò: innegabilmente a questa donna hanno applicato l’articolo 3 della legge sui collaboratori di giustizia, questo ne definisce il ruolo.
Le differenze di comma suggerite dall’avvocato definiscono diversità comunque interne a quell’articolo (e a quella legge) e le “preziose conferme dell’attendibilità altrui”, da lui stesso riprese dalla sentenza e fornite dalla donna agli inquirenti, suggellano verità giudiziarie volte a carcerazioni. Su cos’altro si pensa che lo Stato contasse per elargire sconti di pena?
E quand’anche si fosse trattato d’una specie molto sui generis di dissociata, dite compagni, cosa sarebbe cambiato rispetto al suo frequentarvi o no?
Tale avvocato sembra anche mancare del tutto di consapevolezza d’una più che trentennale battaglia contro pentitismo e dissociazione, condotta forse non da molti, ma nelle più varie circostanze, condizioni e modalità, in carcere e fuori.
Egli s’è fatto tutore della riabilitazione <verso lo Stato, s’intende> del Ferrandi, e fin lì potremmo solo obiettargli di continuare ad occuparsi di quel genere di cose e persone, senza però immischiarsi in cose di compagni. Nel caso presente però, <spinto da chi?> indirettamente pretende pure di giustificare il reinserimento <tra i compagni>, <in spazi da questi occupati>, di soggetti che sono stati collaboratori di giustizia…
Vengo ora alla mail, al ragionamento ivi contenuto, ma specificamente alla considerazione d’uno di voi circa la possibile sua utilità per la discussione. Questo che segue ne è il testo integrale.
“L’uomo invidia l’animale, che subito dimentica l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve nel presente l’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte. Per ogni agire ci vuole oblìo: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non solo luce, ma anche oscurità.
La serenità, la buona coscienza, la lieta azione la fiducia nel futuro dipendono dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto.
(F. Nietzsche, Considerazioni inattuali)
Il movimento italiano a volte sembra una animale ingabbiato, che continua a inciampare nelle stesse zavorre. Una di queste zavorre è appunto l’incapacità di gestire la sconfitta degli anni 70.
Senza voler entrare nel merito del giudizio etico sulla dissociazione o sul pentitismo, si vorrebbe entrare nel merito di una pratica discorsiva che fa del concetto di colpa e tradimento uno dei suoi pilastri fondamentali. Quali reali effetti pratici ha, dopo trent’ anni, il culto dell’appestato e dell’infame su una rivoluzione fallita ? La sconfitta è stata collettiva, e se lo stato ha manovrato alcune pedine meglio di altre, non è certo accanendosi contro queste pedine che si cambia il corso della storia. Con questo non si vuole sminuire o trattare con leggerezza le scelte di vita di chi ha passato la propria esistenza in carcere assumendo a suo tempo un certo tipo di posizione, ma si vuole ragionare sul reale effetto pratico che l’atteggiamento della legge del taglione ha sull’insorgere di pratiche rivoluzionarie oggi.
Si parla di passaggio di testimone, ma quale testimone dobbiamo passare?
Forse allora anche quello dei brigatisti che in carcere hanno ammazzato compagni colpevoli di aver parlato sotto tortura, e, oso dir di più, forse in questo passaggio del testimone , sarebbe utile anche l’esercizio del dubbio, perché di fronte al dolore e alla galera forse ci sono questioni cosi intime e personali che è difficile risolverle a suon di comunicati.
I tribunali del popolo, a un certo punto, diventano non solo sterili, ma anche grotteschi.
Spesso ci sentiamo deboli e soli di fronte allo meccanismo di repressione e controllo della polizia, ma siamo davvero sicuri che questa sia la strada che ci faccia diventare più forti?
Forse ciò di cui ha bisogno il movimento in italia , più che il culto dell’appestato, è di voltare pagina.
Voltare pagina da un passato che non passa giustamente perché si fa un esercizio della memoria che è contro rivoluzionario.
A volte è meglio essere orfani che ereditare dissidi e odi vecchi di trent’anni che hanno fatto e continuano a fare il gioco dello stato.
Essere senza padri sarebbe, forse, oggi, un privilegio”.
Dunque citazioni colte e linguaggio sottile su “concetto di colpa e tradimento”, “culto dell’appestato e dell’infame”, “legge del taglione e tribunali del popolo”, cui non si resterebbe affatto insensibili se ciò non servisse semplicemente a giustificare un passato impresentabile riproponendolo al presente… e se <forse non l’intenzione ultima (?)> ma certamente l’esito… non fosse quello di gettar via il bimbo <cioè l’intera storia di chi non solo non s’è dissociato, tanto meno pentito, ma contro quei dispositivi ha impegnato l’intera sua vita, in carcere o fuori> insieme con l’acqua sporca, magari con l’alibi della “zavorra” e del “non voler entrare nel merito del giudizio etico sulla dissociazione o sul pentitismo”…
La zavorra, caro giovane compagno, quella vera, è il destino infame che ti è toccato. I compagni ti possono essere vicini, ma non al prezzo di confusioni in questo campo.
Dunque, è grave anche questo compagni. E se è lecito chiedere: sono questi i termini di dibattito che vengono valorizzati oggi in Latteria, o si tratta d’un singolo punto di vista magari da ridiscutere e rivedere…?
Non penso si tratti del primo caso, che non voglio neppure prendere in considerazione, ma se è vera la seconda ipotesi, non pensate sia opportuno chiarire tra voi e poi pubblicamente anche questo?
Senza le opportunità dei chiarimenti che vi si chiedono, il rischio è che un’ombra resti sulle tante cose belle che avete portato in questa città al vetriolo.
Con l’affetto di sempre e la durezza se necessaria
Francesco
Milano, 25 novembre 2014