Giuseppe Ciancabilla
L’immensa, verde pianura di Farsaglia, soleggiata nel meriggio luminoso d’Aprile, brulicava di uomini. Pur non poteva dirsi animata, che tutto all’intorno incombeva il silenzio grave, triste, affannoso della preoccupazione e dell’incertezza, quasi della paura.
Mario De Lilla, che era giunto quella mattina stessa con una banda d’insorti, passava vagando, bevendo l’aria e il sole, attraverso quelle file e quei crocchi di esseri muti. Egli leggeva in ogni sguardo che lo fissava con una stupida curiosità, la stessa tremula indecisione di spirito. Poi, quando lo sguardo di quegli esseri si staccava rapidamente quasi stanco per lo sforzo dalla sua persona, tornava a spaziare laggiù verso l’orizzonte aperto, quasi infinito, appena circoscritto, in un fuggevole contorno bianco-azzurro, dalla catena dell’Olimpo.
Mario si avviò verso la cittadina schiacciata a metà della montagna sotto i ruderi delle antiche fortificazioni romane.
Pompeo era fuggito per di là, dopo la disfatta; quelle mura dirute pareva si sgretolassero ancora sotto gli agili talloni dell’esercito sconfitto. Il giovane sorrideva ironicamente: avevano dato prova di buon senso quegli antichi romani, venendo ad accapigliarsi così lungi dal suolo natio, quasi nel deserto, senza arrestare il movimento e la vita di una nazione intera per le loro querele! Invece ora si stritolavano in casa propria, saltavano in aria trascinando nelle rovine tutto quanto un popolo di deboli, di cenciosi, di sventurati, di gente che non ne voleva sapere, che aveva la casa, la famiglia, il campo, il bestiame, che non voleva schiudere innanzi ai propri occhi altri orizzonti, che ne aveva abbastanza della sua Tessaglia, che voleva morir lì, che era felice lì, che succhiava da lì la vita, la forza, il selvaggio, generoso vigore!
Farsaglia, deserta di cittadini, rigurgitava di soldati. Il minareto sottile, elegante, pareva invocasse Allah, presentendone il ritorno imminente. L’eterna cicogna, eretta sull’orlo smerlato dell’antica moschea, scrutava immobile l’orizzonte. Passava nell’aria una vampata di vita calda, nuova, fremente, odorosa. Primavera, aprile, pasqua di resurrezione. La natura che cantava l’inno sensuale della fioritura, i pensieri che passavano brucianti, a frotte, nel cervello, il sangue che saliva a tuffate ardenti alla testa, tutto dava il capogiro. Mario si passò lentamente la mano sulla fronte, come per refrigerio.
Sostò un istante. Entrò quindi nell’ufficio postale e scrisse il suo nome. C’erano due lettere per lui. Le indovinò subito, al battito affrettato del cuore: una di sua madre, l’altra di Fulgida, l’amante.
Salì due scaglioni di roccia, cercò un angolo nascosto e vi si sdraiò per leggere. Quale lettera prima? Ebbe l’indecisione di un istante; ma l’immagine tenera, dolente, forse invocante, di sua madre la vinse sul profilo lieto e birichino di Fulgida. Strappò la busta e lesse avidamente:
«Non ti capisco, non ti ho mai capito, figlio mio. Forse la mia povera, piccola anima non sa comprendere le grandi cose, non sa abbracciare i vasti orizzonti. Ma io soffro, questo so. Vorrei comprenderti, vorrei approvarti, vorrei incoraggiarti, e sarei più felice. E sono invece una sventurata.
«Tu urlavi contro la guerra, contro il militarismo, contro la brutale ferocia di due popoli scagliati stupidamente l’uno contro l’altro. T’infiammavi all’idea rivoluzionaria dello sciopero generale di un esercito, alla vigilia di una guerra…. Ed ora non ti riconosco più. M’inietti nel sangue, quasi con voluttà crudele, a stilla a stilla, la narrazione delle tue gesta bellicose, le fucilate che tiri, i pericoli a cui ti esponi, e i nemici che cadono, e i compagni che urlano di dolore al tuo fianco, feriti, morenti.
«I tuoi nemici! Ma perché tuoi nemici? Li conosci tu? Se li avessi incontrati altrove, in altro tempo, avresti loro stretta la mano, forse li avresti amati, li avresti abbracciati, li avresti baciati. Tuoi nemici! Ma non sai che ognuno di essi ha una madre, una sorella, un’amante?
«Lo so, lo so, taci, t’intendo. Tu mi parli, declamando, delle necessità storiche e sociali, delle tappe sanguinose della civiltà, delle idee sorgenti radiose e trionfatrici dal sangue delle vittime…. lo so, lo so. Tutto quello che vuoi. Ma ritorna. Io muoio di dolore. Sono tua madre, e tu sei il mio sangue, la mia carne, la mia vita. Ritorna. Sì, tutto quello che vuoi. Ma, capisci, di fronte alla tua filosofia, di fronte ai tuoi ragionamenti crudeli, c’è la filosofia e la ragione umana dell’amor materno che non vuol le guerre, che non vuole le stragi, che non vuole i sacrifici.
«Strappa di mano ai tuoi compagni i fucili e le rivoltelle, e spezza, distruggi, incenerisci quelle armi che uccidono gli esseri. Pensa alle madri dei tuoi nemici, che stanno, come me, impazzendo di dolore. Ritorna. Credilo, credilo, non vale la pena che due popoli si massacrino, quando tutti gli esseri hanno un cuore, un’intelligenza, una ragione, non ti pare, figlio mio?».
Mario ebbe quasi una scossa sdegnosa di spalle e di capo; ma i suoi occhi lacrimavano. Aveva percorso a stento le ultime righe, attraverso un velo fitto di pianto. E dovette passarsi sugli occhi il dorso della manica, prima di dissuggellare l’altra lettera.
Fulgida gli scriveva: «Io ti amo e ti odio nel tempo stesso. Sei partito senza un saluto, senza un addio, senza un bacio. Quest’idea ti ha preso dunque tanto fortemente, che ti ha strappato il cuore dal petto, il cuore che era mio? Mi cantavi all’orecchio così dolcemente che io ero l’eletta, l’unica tua. Che cosa è dunque questa guerra orribile, questo spettro sanguinoso che t’ha sfiorato colle sue ali, ti ha baciato in fronte, mi ti ha rubato? Io mi ribello, sai, non voglio, non voglio.
«Ti aspetto. Ti do il mio ultimo ritrovo, l’ultimo, al quale non dovrai mancare. Ti attenderò tutto un giorno, dalla mattina alla sera, il primo di maggio, tra una festa di rose e di viole. Vieni! La gioia di rivederti mi darà la misericordia del perdono, perché adesso non so, non posso, non voglio perdonarti. Forse ora ti odio più che non ti ami. Avrei compreso le barricate, la suprema convulsione di un popolo che strappa ai suoi tiranni l’ultima vittoria della libertà. Non comprendo la codarda buaggine di due popoli che si lasciano il veleno dell’odio reciproco, sino a mordersi, a dilaniarsi di rabbia l’un l’altro, appunto per fare il gioco dei governanti.
«Mi hai sciorinato una lirica dissertazione sull’Ellenismo, su questa barriera della civiltà latina contro il pericolo slavo. Ma ascolta. Non ti è passato ancora per la mente che se una nazione, una razza, una civiltà hanno una missione storica da compiere, e ad essa non mancano la forza, l’energia, la vita, per il compito a cui il destino la vuole, non hai mai pensato che questa missione si effettua inesorabilmente, necessariamente, malgrado tutto, contro tutto, nel modo e nello sviluppo più pacifico delle cose? Che c’entra la guerra? Credete d’imporre il vostro Ellenismo a fil di spada? Senti: se la Grecia non ha in sé la vitalità generosa, quasi eroica, di trasfondere il suo sangue, il suo spirito, la sua tradizione in altri popoli, per una lenta, pacifica evoluzione, non giovano fittizi entusiasmi bellicosi, non trionfi delle armi ad assicurarle il successo. La vostra è opera inutile.
«Devi comprenderlo e devi tornare. Ti attenderò il primo di maggio, sino a sera. Se mancassi, ricorda, mi avresti perduta per sempre, per sempre. E pensaci. Tutto forse nella vita si ritrova, si riacquista, si ripara. Basta la volontà, basta il coraggio, basta l’ostinazione, basta l’energia, basta la fortuna. Ma l’amore, il vero amore, no, mai. Non si è amati per due volte nella vita, così. E quando l’ora del ritrovo è scoccata, l’attimo, il minuto, il giorno non ritornano più indietro.
«Per l’ultima volta, vieni. Avrai il perdono dell’anima mia che pure è ribelle, avrai i baci delle mie labbra, avrai tutte le viole, tutte le rose del primo maggio. Vieni».
Mario rimase turbato, convulso, coi denti serrati. Ma scosse ancora le spalle sdegnosamente. Tornare, sì, proprio ora che si era in ballo. Come non capivan quella gente! E Fulgida, che bambina! Ma se la perdesse davvero? Oh, perderla poi…. Questo no. Ma già, egli le conosceva quelle gherminelle femminili dell’amore. Avrebbe potuto tornare, dopo un anno, e Fulgida, la piccola bionda radiosa, sarebbe stata sempre sua, l’avrebbe atteso, gli avrebbe aperto il cerchio caramente oblioso delle sue braccia.
Ma se fosse vero? Se ella fosse decisa all’abbandono invece che all’attesa? Perderla?… Perdere Fulgida?… Questa idea, malgrado il suo ottimismo, gli martellava il cervello a intervalli furiosi.
Si levò, stirando in uno sbadiglio stanco le braccia verso l’orizzonte aperto della pianura. Osservò: i soldati partivano, si allineavano in file regolari, andavano forse a prender posizione di battaglia.
Prese il fucile ad armacollo e balzò giù spiegazzando ancora in mano le due lettere. S’informò; non era che uno spostamento del campo, nessun allarme. E si mise a discorrere con un vecchio ufficiale pallido e triste che lo aveva salutato.
Osservarono entrambi col cannocchiale l’estrema linea della pianura verde solcata come da una processione interminabile di esseri, di carri, di cavalli, di bestiami, di branchi di armenti. Quella linea in movimento verso il sud aveva talvolta dei luccichii, degli splendori, dei guizzi di colori vivaci.
— Perché? — chiese Mario.
— Fuggono da Larissa, da Trikala, da Farsaglia, da tutti i paesi che i turchi stanno per invadere. Fuggono uomini, donne, fanciulli, bambini. È passata su loro la raffica maledetta della guerra, e vanno, e vanno, sballottati, istupiditi, inconsci dell’immensità della loro sventura, abbandonando le case e i campi verdeggianti di grano, vanno, vanno, vanno….
— E dove?
— Chi lo sa, se essi stessi l’ignorano? Certo laggiù verso il mare. Vanno. Non hanno denari, non hanno pane, non hanno vino. Hanno la paura, lo spavento, il terrore. E a loro basta fuggire. Oh, signore! Ora il loro esodo è quasi ordinato, calmo, regolare. Ma io li ho visti due giorni fa fuggire da Larissa. Non ci sono parole. Era orribile, orribile, ed io ci ho pianto tutte le mie lacrime. La paura era passata su tutto un popolo di donne, di fanciulli, di vecchi. E sono fuggiti a spintoni, incalzandosi, calpestandosi, schiacciandosi, urlando, maledicendo, senza pietà, senza compassione, senza amor di patria, di famiglia, senza più un sentimento umano. Sono fuggiti come da una foresta che incendia. Ah, la guerra, la guerra maledetta!
Mario rimase dolorosamente sorpreso. Ma dunque anch’egli, quel vecchio ufficiale, anch’egli malediceva la guerra? Tutti dunque, sua madre, l’amante, quel soldato stesso, erano d’accordo contro la sua persuasione ostinata del dovere da compiere?
Salutò, e si avviò di nuovo per la pianura. Improvvisamente, un immenso velo di tristezza, quasi di lutto, fasciò l’anima sua. Per quanto si facesse coraggio, sentiva accasciarsi sotto la desolazione. Mai, come in quell’ora, Mario intese di vivere. Il suo spirito, il suo pensiero afferravano le più tenui sensazioni della vita, dai rimpianti del passato alle paure dell’avvenire, e ne creavano una ritmica cadenza in minore che lo faceva quasi piangere di commozione. Egli voleva dominarsi, voleva rendersi padrone di quel momento di debolezza, di sconforto, e si sforzava di sorridere, e tentava di urlare al cielo e al sole un allegro motivo di festa…. Inutilmente. Le note della musica della vita si ostinavano a cadere in quel momento una sull’altra, a semitoni. E involontariamente gli tornavano all’orecchio i più flebili motivi in minore del suo repertorio sentimentale.
Che mamma e Fulgida avessero ragione? Eccola, la guerra: un popolo in fuga per la colpa o per il capriccio di pochi. Eccolo, l’Ellenismo: tutto quanto un territorio spalancato all’invasione e alla barbarie musulmana. Ed egli? Che faceva dunque là semi-brigante in una banda di briganti?
Passò accanto a un gruppo di soldati inebetiti, a cui un piccolo ufficiale cogli occhiali urlava un mondezzaio d’insolenze, di vituperi, d’imprecazioni, finché, furioso, andò sotto il viso di un povero diavolo di quasi quarant’anni, un richiamato, senza dubbio un riservista, come si diceva, e afferratolo per i bottoni della tunica, lo scosse brutalmente a due o tre riprese.
Mario s’intese furibondo per la rabbia e per la nausea. Quando il piccolo ufficiale lo scorse, si calmò e abbassò la voce.
Eccolo, il militarismo, questo mostro divoratore per il quale si creano le guerre! Ecco i difensori della patria! Non quei poveri, piccoli soldati mal vestiti, mal calzati, mal nutriti che si spingevano, a calci, verso un nemico di cui ignoravano, in fondo, la ragion d’avversione; quei poveri, piccoli soldati che ad ogni scontro rimanevano squarciati, stritolati, spezzati, sfigurati uccisi. Oh no, non loro. Ma quella minoranza di gallonati, di ambiziosi, di professionisti del massacro, che esistono perché esiste la guerra, come esistono i vermi perché esiste la putrefazione. Ma quella minoranza di prepotenti che, a furia di rendere schiavi gl’inferiori, si abituano a insultare chiunque non è soldato, non è militare.
Mario ricordava dolorosamente. Una litania di tristi episodi della vita militare gli ritornava adesso alla mente. E il dubbio, lo spasimo angoscioso del dubbio, lo tormentava ora sempre più acuto, sempre più ostinato. La guerra! Ma chi voleva la guerra, se non quell’organismo parassitario che deve giustificare la sua esistenza appunto colla guerra? Il popolo… ma il popolo se ne infischiava della guerra! Laggiù, all’orizzonte, gli abitanti di una regione intera abbandonavano, maledicendo, il focolaio natio. Qui, un esercito di povera gioventù avvilita attendeva penosamente l’ora paurosa in cui gli ordini e le minacce lo spingessero al massacro, perché… Perché gli altri, i pochi, la minoranza dei privilegiati voleva così!
E Mario rammentava tutte le sue veementi crociate contro il militarismo. Povera mamma aveva ragione, sì. Ah, quante volte egli aveva inneggiato non all’esercito che si pavoneggia, speroni al piede e sciabola al fianco, sui marciapiedi delle passeggiate cittadine, ma all’esercito dei lavoratori che marcia verso l’avvenire, serrato, compatto conquistando ogni giorno un lembo di libertà, di civiltà, di progresso, uno sprazzo di luce, un raggio di felicità!
Perché, infine, chi era che creava le contese fra i popoli? Forse i popoli stessi? No; i loro padroni, i governi. E chi spingeva i governi alla guerra? Il partito militare. Egli l’aveva ben visto. Erano quei mille ufficiali ambiziosi di far carriera che avevano protestato più violentemente contro le esitazioni del gabinetto greco prima della dichiarazione di guerra.
E questa guerra era poi necessaria? Egli si era certamente detto di si, giacché era venuto là, per battersi, per dare se stesso alla causa ellenica. Ma in fondo non aveva ragione sua madre allorché diceva che non vale la pena di massacrarsi l’un l’altro, quando gli esseri hanno un cuore, una intelligenza, una ragione?
Già, si perdeva: era la disfatta quotidiana che preludiava al disastro finale, irreparabile. Ma anche vincendo, valeva la pena di annegarsi in un mare di sangue per conquistare un briciolo di possesso? Ma quale infinito riscatto avrebbe mai potuto compensare, o vinti o vincitori, quell’orrenda ferita aperta nel cuore dell’umanità, di cui si uccidevano a migliaia i figli più giovani, più forti, più generosi, più ricchi di energia e di vitalità mentre si distruggevano lembi di territorio, paesi fiorenti, campagne lussureggianti, pascoli, armenti, bestiame? Quale compenso di soddisfazione e di gioia avrebbe potuto sollevare gli strazi delle madri, le angoscie delle sorelle, la desolazione delle amanti e delle spose?
Che urlo immenso, straziante di dolore saliva nell’aria da tutto quel paese desolato, da tutto quel popolo in fuga!… Perché? Perché? Ma quegli esseri non avevano cuore, intelligenza, ragione? Non avrebbero potuto intendersi come uomini liberi s’intendono con uomini liberi, e discutere, spiegare, convincersi, persuadersi? Perché quella guerra inutile, allora?
Mario si sedette al suolo, accasciato, sfinito, come se avesse percorso un lunghissimo cammino. Riprese la lettera di sua madre e la rilesse: «I tuoi nemici? Ma perché tuoi nemici? Li conosci tu?».
No, egli non li conosceva. Li vedeva avanzarsi giovani, belli, superbi, spinti anch’essi dalla forza imperiosa e brutale del militarismo, ed egli si era creduto in dovere di sparar contro di loro il suo fucile. Ne aveva ucciso nessuno? Ah no, no! Meglio no. Sperava che no, si augurava che no, voleva che no. Non poteva, non doveva averne ucciso nessuno. «Se li avessi incontrati altrove, in altro tempo, forse li avresti amati».
Ma certo, ma certo. Sua madre aveva ragione. Anche Fulgida, infine, non aveva torto, povera bimba. Può forse imporsi un paese ad un altro colla forza, colle armi in pugno? Potrà sottomettere, ma non conquistare. Nel cuore dei vinti regnerà sempre il segreto spirito di rivolta contro i dominatori brutali.
Le idee e lo spirito delle nazioni debbono conquistar terreno, assimilando lentamente, pacificamente, gli elementi eterogenei, non imponendosi con la violenza. È vero, è vero, Fulgida.
Ma dunque, se la madre e Fulgida avevano ragione, egli doveva partire, doveva liberarsi da quelle armi omicide, doveva tornare… Ah, tornare no. Impossibile. Che si sarebbe detto di lui? Certo, che aveva avuto paura. Tornare no, mai.
Ma sua madre, ma Fulgida invocavano, attendevano! Oh, la voluttà pregustata del ritrovo del primo maggio! E tornare ai suoi studi, alla sua arte, al suo ideale, alle lotte per la libertà! Chi sa che se egli avesse lasciato sfuggire il destino quella volta, la sua vita non sarebbe stata spezzata per sempre? Mentre allora!… Egli si sentiva forte, superbo, raggiante! Egli sentiva la vita in quel proposito di lavoro, in quella festa di speranza, in quella promessa di amore. Egli si sentiva un conquistatore dell’avvenire, egli sentiva che avrebbe toccato le vette eccelse del suo sogno d’amore, di gloria, di libertà. Mentre se non fosse tornato… La vita avrebbe potuto cacciargli tra le gambe i fatali impacci della realtà meschina e volgare. Il destino si può vincere talvolta, ma non la disdetta voluta. Certe volte, dove il destino gigante è impotente, vince la piccola disdetta a punture di spillo.
Egli doveva tornare, non doveva esitare. Sentiva che, se avesse perduto quell’occasione, il suo posto nell’omnibus della vita sarebbe stato occupato. Se egli si fosse lasciato rubare i tre soldi della corsa, forse non li avrebbe mai posseduti di nuovo, e sarebbe rimasto a trascinarsi carponi per terra, come tutti i poveri esseri sventurati, diseredati, cattivi, maledetti. Era logico il ritorno. Ormai egli aveva veduto, aveva compreso, aveva sentito la guerra, ne aveva abbastanza di quel sudiciume. Aveva paura già per il suo cuore e per la sua anima. Più di una volta egli aveva guardato in fondo al suo io, e si era accorto con terrore di certi depositi d’insensibilità, di cattiveria che vi si andavano accumulando. Una volta vi aveva persino scoperto della crudeltà. Aveva provato un sentimento di odio, di disgusto, di livore per un povero prigioniero turco preso in uno scontro sanguinoso. In quel momento aveva dovuto essere ubriaco di sangue, di fucilate, dì polvere. Forse.
Molte volte, aveva visto cadersi a lato feriti amici e compagni. Alcuni ne aveva veduti agonizzare tra gli spasimi, e morire; e mai una lacrima gli aveva velato gli occhi, a lui così facile il pianto. Si era accorto anche di un sentimento di egoismo che gli faceva paura, tanto lo sentiva fortemente radicato nel suo spirito. Quando l’ora del pericolo suonava, egli non aveva mai avuto l’idea di poter cader morto o ferito. Invece, gli si affacciava naturale il pensiero che tutti i suoi compagni dovessero essere le vittime della giornata, tutti, meno lui. Perché?
Nella fucilata, in qualche istante di lucido intervallo, si era sorpreso a puntar l’arma con voluttà crudele, quasi a sangue freddo, contro il tale o il tal altro dei nemici avanzanti, per colpirlo. E ostinarsi in quella specie di feroce tiro a bersaglio.
Possibile? Egli così mite, così dolce, così affettuoso, così sentimentale, come lo chiamavano?
Che orrendo traviamento del cuore, la guerra! Ah sì, doveva partire, doveva andarsene. Se avesse continuato a rimanere, avrebbe finito col diventare malvagio, lo presentiva.
Gli venne da piangere su se stesso, tanto gli faceva pena il suo stato. Posò la faccia sulle palme, e riuscendo, nella meditazione, a sdoppiare il proprio io, guardò sino in fondo all’anima, sino nelle intime latebre del cuore. Che guasti già vi si erano prodotti, e forse guasti irrimediabili. Si sentiva freddo, cattivo, insensibile, egoista. Esitava ancora. Mamma e Fulgida lo invocavano, ed egli non aveva la forza di levarsi, di gettare all’aria il fucile, di tornare libero, puro, generoso ai suoi affetti, alle sue battaglie.
No, era già cattivo, forse inesorabilmente cattivo. Perché provava quel senso ancora di avversione contro i suoi nemici? Perché avrebbe voluto tuffarsi anche una volta, una volta sola, in un bagno di stragi e di sangue, in una gigantesca, ultima battaglia? Possibile che in lui si fosse compiuto così inavvertitamente quel tremendo fenomeno di perversione morale? Certe volte si era detto che forse andava acquistando il senso pratico della vita. Ma ora si accorgeva che andava invece perdendo il tesoro di sensazioni squisite e delicate che formavano la sua gioia, la sua predilezione, la sua voluttà, il suo orgoglio.
Si levò sempre più stanco e spossato. Intorno a lui era movimento, agitazione, confusione, spavento. Gli ufficiali allineavano in fretta convulsa quegli esseri impauriti che stavano per essere lanciati di nuovo al macello. Mario comprese che il nemico si appressava. Già le colonne dell’avanguardia si stendevano in lunghe file sottili, innanzi, nella pianura verde, soleggiata. Già i primi avamposti erano in posizione, in ginocchio, dietro alcuni deboli ripari a terrapieno.
D’un tratto, cominciò lo stridulo, rabbioso miagolio della fucilata. La sensazione che allora provò Mario lo spaventò, tanto gli fece orrore. Si era inteso riprender d’un tratto dall’istinto feroce di cacciarsi nella mischia, di uccidere qualcuno. Egli ebbe talmente terrore e disgusto di se stesso, che non esitò un istante. Prese il suo fucile, lo caricò, e andò a raggiungere la banda d’insorti colla quale s’era unito. Il capo ebbe per lui un sorriso muto di contentezza feroce, e gli strinse la mano.
E allora Mario comprese che non era più degno di vivere, non era più degno di sua madre, non era più degno di Fulgida, piccola, dolce bambina radiosa, che lo avrebbe atteso invano, in una festa di rose, il primo di maggio; non era più degno di se stesso, della sua arte, del suo ideale.
E quando la compagnia d’insorti si mosse svelta e audace per conquistar la sua posizione di battaglia in prima linea, Mario volle preceder tutti, a denti serrati, con un’amara gioia feroce nello sguardo, colla smorfia di un triste sorriso sulle labbra. E, a sbalzi, piegando il capo sotto la raffica delle palle che gli urlavano intorno, si slanciò innanzi, in prima linea, scoperto, verso la morte.
[Il grido della Folla, anno II, n. 25 del 5 maggio 1906]