DES RUINES – Editoriale: a mo’ di avvertenza
“Non abbiamo paura delle rovine. Noi riceveremo questo mondo in eredità. La borghesia può anche far saltare in aria e demolire il suo mondo prima di abbandonare la scena della Storia. Noi portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori.”
Questa rivista si dà per ambizione quella di smuovere le riflessioni, le ricerche ed i dibattiti a proposito delle prospettive anarchiche ed antiautoritarie. Alcuni dibattiti sono vivi e sempre d’attualità, altri erano stati messi da parte e vengono esumati per l’occasione. Non si tratta di un giornale d’attualità e d’agitazione distribuito in strada e redatto nell’urgenza, ma ci è parso altrettanto necessario e complementare. Perché la sensazione di una mancanza si faceva sempre più forte, così come la necessità di ricominciare a dotarsi di strumenti più intemporali di quelli soliti, per esprimersi su cose più profonde del filo dell’attualità, con il tempo e lo spazio per farlo. Essa si indirizza quindi ad un “pubblico” avveduto (ecco quindi l’avvertimento) e vicino (o non ancora) alle questioni sollevate. Il nostro scopo è di contribuire allo sviluppo delle nostre idee, troppo spesso rinviato a più tardi da un attivismo senza basi o in una desolante passività pratica ed intellettuale.
Se la mancanza di fiducia in sé stessi della maggior parte de* compagn* ci impedisce di produrre teoria (e ci sono anche alcuni guardiani del tempio che vorrebbero che le idee restassero centralizzate nelle loro mani), qui lasceremo da parte questo atteggiamento, perché non abbiamo conti da rendere a nessuno e ce ne freghiamo alla grande dei bottegai ideologici dei vari gruppuscoli, tutti occupati ad adattarsi e a sopravvivere, a perpetrare dogmi ed egemonie raramente sottomessi all’autocritica e raramente disponibili alla critica. C’è anche che abbiamo fiducia nelle nostre capacità e rifiutiamo l’autoflagellazione permanente nella quale tanti di noi si crogiolano, rifiutando di sentirsi capaci di o pertinenti per esprimersi, mentre lo sono e di gran lunga. Ecco perché vogliamo ricordare che il pensiero non appartiene agli intellettuali, la storia non appartiene gli storici, l’anarchia nemmeno non appartiene ad una qualunque intellighenzia dell’anarchia, né all’intellighenzia avversaria, essa ci appartiene, essa appartiene a tutti quelli che si prendono la briga di farla vivere, ognun* a modo suo con ciò che lui/lei è, senza lasciarsi minare dai vescovi e dagli inquisitori delle piccole cappelle ideologiche o della borghesia.
Anche se, decostruzione dopo decostruzione, è diventato elegante farlo, rifiutiamo quindi di considerarci come della merda e come degli incapaci, cosa che questo mondo desidera e che ci inculca attraverso l’educazione e che il “movimento” finisce di farci accettare del tutto attraverso opuscoli e gruppi di parola che mirano a normalizzarci, ma in maniera differente. Ecco, anche, perché rifiutiamo di delegare ciò che ci appartiene a degli specialisti, perché le merde, precisamente, sono loro.
Ma dobbiamo ora definire quello che intendiamo per “anarchismo”, ma ciò sarebbe troppo lungo, allora lo faremo un po’ in negativo, un po’ in positivo. Ed impegniamo soltanto noi stessi in queste poche osservazioni.
L’anarchismo non è una corrente politica, quindi non è né di destra né di sinistra, ma completamente al di fuori di quello scacchiere e dal sistema generale di punti di riferimento che gli serve da canovaccio. Se è nato da una scissione antiautoritaria del socialismo rivoluzionario, l’anarchismo ha smesso da tempo di essere una corrente della sinistra, rifiutando l’organizzazione e le logiche autoritarie che sono l’essenza di tutti i movimenti di sinistra. Evidentemente, non è questo il caso per tutti gli anarchici, e tra l’altro il termine “libertario” è stato inventato per descrivere ciò che assomiglia all’anarchismo e ne ha il sapore, senza esserlo veramente (a causa del rifiuto delle logiche conseguenze pratiche di queste idee). Gli anarchici non sono quindi una lobby politica che mirerebbe ad influenzare la società e lo Stato con le sue idee ed in favore dei suoi interessi.
Vi è un altro errore ricorrente, essendo gli anarchici invaghiti della libertà e poiché a partire dal XX secolo la parola “libertà” è stata profondamente rimaneggiata in un edonismo che non ha più molto a che vedere con le nostre idee. Viene quindi fatta regolarmente confusione fra l’anarchismo e la concezione liberale della libertà, sia in TV sia nei piccoli ambienti universitari o post-universitari impregnati di French Theory e dei suoi orpelli. “Vaffanculo, io faccio quello che voglio” non ha nulla a che vedere con l’anarchia così come noi la intendiamo. Lo stesso vale per lo spirito di consumo delle lotte e dei corpi che spesso accompagna questa confusione diffusa, anche all’interno del movimento.
Secondo noi gli anarchici devono affrancarsi dai totem, ma anche dai tabù, ed in particolare ritrovare le capacità di de-alienare il linguaggio utilizzato per asservirci. Ciò almeno per quanto è possibile, essendo in sé il linguaggio un’alienazione del pensiero (necessariamente più complesso delle parole). Durruti sosteneva che “la disciplina è indispensabile, ma essa deve venire dall’interno, motivata dalla risolutezza”. Disciplina, lavoro rivoluzionario, memoria, etc. Non abbiate timore! Le parole non appartengono solo al potere, hanno un senso che è loro proprio, e anarchismo non è “estrema sinistra”, non è fare il contrario, pensare il contrario, dire il contrario e quindi bandire in blocco tutte le parole ed i concetti umani utilizzati dal potere e dai suoi rapporti di dominazione.
Noi vogliamo, al contrario, fare qualcos’altro e riappropriarci dei mezzi della nostra emancipazione in quanto individui coscienti della loro unicità, associati su basi di reciprocità e pronti a venire alle mani con l’autorità.
Queste poche affermazioni, se mal comprese, troveranno senza dubbio consenso fra quelle e quelli che passano la maggior parte del loro tempo a riformare il linguaggio allo scopo di farne un cavallo di battaglia della decostruzione post-moderna. Ma non cadiamo in errore. Il linguaggio resta al giorno d’oggi uno dei soli strumenti a nostra disposizione per esprimere le nostre idee. Se siamo tutti d’accordo a dire che il linguaggio non è neutro, poiché forgiato da una tradizione millenaria di dominio, bisogna però anche accettare il fatto che esso è indispensabile per le nostre prospettive e che siamo obbligati di servircene. La questione che dobbiamo porci diventa, quindi: chi vogliamo capire? E da chi vogliamo essere capiti?
Ma queste domande in tant* rifiutano di porsele facendo la scelta facile di fregarsene con arroganza e di rifugiarsi in comode caserme identitarie.
Da tempo vediamo emanare, dagli ambienti contestatori, tentativi maldestri di aggiustare il linguaggio, attraverso diversi metodi di femminilizzazione (dal più banale e giusto fino quasi alla completa illeggibilità) o grammatiche ed ortografie alternative. Alcun* hanno addirittura la sensazione di cambiare il mondo, cullandosi nell’illusione di essere dei grandi rivoluzionari a causa del loro uso dubbio ma volontario della scrittura. Ma allora ritorna sul tappeto la vecchia domanda: da chi vogliamo essere capiti?
In effetti assistiamo a volte a quelle che potrebbero essere definite come delle derive settarie, in particolare quando alcuni opuscoli non sono più comprensibili da altri che da quelli e quelle che li scrivono ed i loro amic*. Si tratta allora di una forma di “secessione” che non ha più nulla di rivoluzionario, perché invece di agire sul mondo si tratta soltanto di vivere “al di fuori” di esso, cosa che costituisce un’altra illusione. Poiché a forza di esagerare nell’”aggiustamento” si finisce per diventare illeggibili, riconosciamo allora che certe forme di utilizzo del linguaggio non usciranno mai dal piccolo ambiente che le ha create. Pensiamo quindi che quelli che credono di creare un linguaggio “liberato” si sbagliano ancora. Se domani tutto quello che uscisse da iniziative rivoluzionarie scritte (volantini, manifesti, opuscoli, libri, giornali…) fosse scritto in maniera identitaria, senza indicazione del genere, non specista, non agista [che rifiuta ogni forma di dominio basato sull’età, in particolare quello degli adulti sui bambini; NdT], non-validista (e altri –ismi, all’infinto), più che essere un mezzo per comunicare, il nostro linguaggio diventerebbe una barriera che ci separerebbe dall’umanità. Completamente tagliati fuori dal mondo, non ci resterebbe allora granché da fare, a parte farci reprimere nell’isolamento più totale (perché in effetti chi si preoccupa della repressione esercitata contro delle piccole minoranze volontariamente settarie?).
Il nostro scopo non è quello di isolarci in un territorio vergine con tutt* i nostr* amic* per parlare la nostra neolingua identitaria e vivere i nostri rapporti cosiddetti “liberati”, il nostro scopo è quello d’attaccare il dominio dovunque esso si trovi. Dobbiamo renderci conto che viviamo in un mondo senza evasione possibile. Che non c’è un altrove dove guarire dal qui, che finché esisteranno il Capitale, lo Stato e le diverse forme di dominio che li mantengono in piedi non ci saranno oasi o spiagge di libertà. Siamo obbligati a combattere questo mondo dal suo interno, con tutte le contraddizioni, limiti e difficoltà che ciò comporta. Ma sopravvivere non implica già una quantità insostenibile di compromessi? È per questo che abbracciamo la proposta rivoluzionaria ed internazionalista e rigettiamo le alternative e le diverse pseudo-autonomie locali, che non sono che modelli a scala ridotta di questo mondo di merda.
Allo stesso modo, rifiutiamo che de* compagn* si riposino all’ombra di altr* compagn*, con la scusa che quest* ultim* sarebbero meglio armat*, più vecch*, con più esperienza o più capaci a parlare di loro. Facciamo quindi appello a ciascun* perché si sbarazzi dei propri numi tutelari e si prenda in mano, così come facciamo appello a questi numi tutelari affinché essi cessino di approfittare della situazione e si sbarazzino dei propri ruoli, quando acquisiti involontariamente (cosa che spesso è il frutto dell’inconsistenza degli altri), oppure, nel caso contrario, vadano a farsi fottere. Perché rifiutiamo di evolvere in un ambiente politico-mafioso.
Essere anarchic* o rivoluzionari* per noi non è una posa, un’opinione, un’arte o una cultura. Non c’è un look anarchico, nessuna identità, nessun segno di riconoscimento. Essere anarchic* significa lottare e combattere il dominio, con le braccia, le gambe, il cuore ed il cervello, con tutte le conseguenze positive tanto quanto negative che ciò implica. Essere anarchic* non consiste nell’affermare delle posizioni di principio antagoniste e leggere qualche libro con la copertina rossa e nera, né nel portare qualche opinione shoccante sulle distro, nelle università della borghesia, su internet o in posti occupati fisicamente e/o mentalmente chiusi al mondo esterno. Quello stesso mondo che in tant* pretendono di voler rivoluzionare, senza però tirare le conseguenze delle proprie pose di ribelli comodamente installati nelle proprie abitudini, relegando la distruzione a qualche slogan e titolo a grossi caratteri, senza conseguenze.
Non si tratta nemmeno, però, di accontentarsi dell’azione pura e semplice, per soddisfare un nostro piccolo piacere edonista o per sfogare le nostre frustrazioni esaltando la sola “bellezza del gesto”, come futuristi dei giorni d’oggi. Non si tratta nemmeno di un’agitazione che consisterebbe nell’informare o venire in aiuto agli sfruttati, poiché gli anarchici non sono dei giornalisti alternativi, degli umanitari o delle anime pie ed altruiste. In effetti, i nostri atti sono tutti realizzati per interesse, non per simpatia né per rimborsare un debito morale, sociale o intellettuale. Non ci battiamo per i poveri o al loro servizio, ma contro la povertà. Non per i clandestini senza documenti, ma contro i documenti, gli Stati e le frontiere. Non per i prigionieri, ma per farla finita con tutte le prigioni e con la giustizia. I nostri interessi sono tutto ciò che contribuisce ad accentuare la conflittualità nel seno della società, senza allo stesso tempo riprodurre quest’ultima. Il nostro obiettivo è di fare a pugni con i rapporti di dominio che sono interni alla società ed infondervi, con i nostri diversi interventi, delle prospettive reali e chiare, come la rivoluzione e la vittoria, portando un messaggio antisociale comprensibile all’interno della guerra sociale che è in corso da sempre.
Tutto ciò senza credere che questi obiettivi appartengano, o debbano appartenere, soltanto a noi. Chi crede ancora seriamente in un movimento anarchico (armato o meno) che basterebbe a sé stesso e riuscirebbe a vincere lo Stato sul suo terreno militare e strategico (o su un terreno sociale, per mezzo di un’immaginaria opinione pubblica davanti alla quale bisognerebbe dimostrare di essere raccomandabili), chi vuole ancora crederci? Innanzitutto a causa dell’evidente asimmetria, poi perché pensiamo che le nostre sole vittorie verranno da tensioni sociali insurrezionali che non potranno mai appoggiarsi solo su di noi e la nostra evidente debolezza numerica. Bisogna essere capaci di abbandonare i vecchi miti delle rivoluzioni anarchiche pure e perfette ed abbracciare le possibilità così come esse si presentano a noi, sempre restando fedeli a noi stessi, cioè senza cedere alle sirene del populismo e del possibilismo.
Di questi tempi, gli anarchici non possono pretendere ad altro che alla costituzione di una minoranza agente con una reale capacità d’intervento, di distruzione ma anche di costruzione. Costruzione non di un nuovo mondo angelico oppure di alternative o “forme di vita”, ma di iniziative, di spine nel fianco, di agitazione, di attacchi, di continuità, di approfondimento, di capacità tecniche e teoriche reali. Perché vogliamo davvero la rivoluzione, non accontentarci di un romanticismo piacevole ma inconseguente.
Il nostro scopo non è quindi quello di creare o di contribuire a creare una nuova anarchia, visto che la vecchia, quando libera dalle logiche dei partiti e dei loro congressi internazionali di ieri e di oggi, di ogni politica, di ogni demagogia e di ogni organizzazione permanente (cosiddetta informale oppure no), ci basta alla grande e ci avanza. Come conferma il contenuto di questa rivista, non si tratta per noi di fare tabula rasa del passato o di cercare il nuovo ad ogni costo, come ci spinge a fare quest’epoca di noia morbosa. Nessuna anarchia 2.0 quindi, qui. La memoria del movimento anarchico è bella e complessa, la sua tradizione è la sola tradizione che rispettiamo, foggiandola a nostra volta, attraverso gli atti e, qui, attraverso il pensiero e la critica. Questa rivista costituisce quindi anche un omaggio ed un ricordo delle lotte e de* compagn* del passato, sempre presenti in un angolo delle nostre teste, e minacciati dall’imperativo della modernità ed il suo culto della velocità, del nulla e dell’oblio.
Precisiamo comunque che tutto quello che si potrà leggere qui ha un solo scopo: quello di riconciliare l’agire ed il riflettere. Ciò con durezza, a volte, e se il tono rischia di spaventare quelli fra i nostri compagni che più danno importanza al consenso, oltre che i solit* piagnucolos* del movimento, speriamo che il fondo verrà compreso per quello che è e non messo da parte con la scusa della “forma” e delle piccole arrabbiature dovute alla mancanza di educazione (non buttare per terra la tua gomma da masticare, compagno!): riflesso automatico classico di autodifesa di chi rifiuta di affrontare le proprie contraddizioni (cosa che comprometterebbe una certa comodità) e di affermare la propria rottura con l’esistente e i suoi meccanismi di consenso e pacificazione dei rapporti (che hanno largamente penetrato, in Francia, il piccolo movimento ed i suoi anarchici). In effetti, oggi la critica viene accettata solo se è educata e civile, oppure quand’essa non è veramente critica. Che le eterne anime sensibili e suscettibili si astengano quindi dal leggere questa rivista, col rischio di trovare nuovi pretesti per sfuggire all’autocritica.
Queste pagine si iscrivono quindi all’interno di una tradizione insurrezionale, critica ed individuale dell’anarchismo, come è stata portata da numerosi anti-organizzatori del passato, ed ogni linea vi sarà redatta da individui in lotta, di oggi o di ieri, illustri, anonimi oppure tutti e due. Nessun filosofo qui, nessuno scrittore professionista, nessun nichilista della piccola borghesia studentesca, nessuna foto sensazionalista di kalashnikov e di auto in fiamme, né pappardelle di parole per giustificare la propria inazione o le proprie azioni merdose.
Alla ferocia, all’intensità, alla coerenza.
Viva l’anarchia.
Per esprimere le vostre inquietudini sui litigi di potere che questa rivista potrebbe provocare nelle piccole caserme ideologiche, per ogni reclamo, convocazione, requisitoria per diffamazione, messa in stato d’accusa, diritti d’autore e piccoli bottegai delle idee:
vaffanculo@pissoff.com
Per mandare traduzioni, critiche (nel tono che vorrete), corrispondere, contribuire, discutere, condividere, distribuire, rispondere o rimettere in questione: desruines@riseup.net
[Des Ruines, Revue anarchiste apériodique, num. 1, dicembre 2014]
—traduzione da non-fides: